Decenni di tensioni tra i due paesi superati in un lampo. In molti hanno definito l’incontro tra Vladimir Putin e re Salman
come un evento storico che potrebbe portare a nuove dinamiche e nuove
alleanze nello scenario geopolitico mediorientale. Nessun dubbio sulla
portata storica dell’evento, tuttavia, pensare che il sovrano saudita
possa riuscire ad attirare la Russia dalla sua parte manca di realismo
politico. Neanche Netanyahu, in due anni di isterici e pressanti avanti/indietro a Mosca, è riuscito nell’obiettivo di rompere l’asse Mosca-Teheran.
Un passo indietro è dunque necessario. In molti a Ryadh sono convinti di aver contribuito in modo determinante al crollo dell’URSS attraverso il finanziamento al gihad afgano ed abbassando il prezzo del petrolio. Una politica di aggressione che è proseguita anche ai danni della Federazione Russa con l’esportazione del gihad nel Caucaso. Un attacco brutale che solo la risolutezza di Putin e di Ramzan Kadyrov è riuscita a contrastare. Già nel 2013, Bandar bin Sultan (membro della famiglia reale saudita e definito non a caso “principe dei terroristi”), in un contesto internazionale decisamente migliore per la casa dei Sa’ud, propose ai russi vantaggiosi accordi economici in cambio della rottura dell’alleanza con Teheran. E la stessa proposta venne fatta a Bashar al-Assad nel 2011 in cambio dell’interruzione sul nascere della ribellione gihadista.
Ora, di fronte al quasi totale fallimento della propria ottusa politica estera e ad un contesto regionale profondamente mutato, l’Arabia Saudita, spaventata a morte dall’egemonia militare, politica e religiosa dell’Iran (nazione che gode di una legittimazione islamica tradizionale e non comprata a suon di petroldollari), non ha potuto far altro che recarsi a Mosca con una delegazione di mille uomini offrendo la stabilità dei prezzi petroliferi (obiettivo cruciale per Mosca), investimenti congiunti nel settore energetico per un miliardo di dollari, e l’acquisto dell’avanzato sistema di difesa missilistico russo S-400 (altri tre miliardi di dollari).
La capitolazione saudita si è palesata nelle stesse dichiarazioni di re Salman che ha pregato il Presidente russo di porre un freno all’ingerenza iraniana in Medio Oriente ed ha riconosciuto la necessità del mantenimento dell’integrità territoriale di Siria ed Iraq. Inoltre, ha proposto la creazione di un organismo internazionale, sotto l’egida dell’ONU, per il contrasto al terrorismo (sic!). Nonostante la portata storica dell’incontro, è abbastanza evidente che così come l’Arabia Saudita rimarrà ancorata ai suoi alleati Israele e USA, la Russia non abbandonerà l’Iran che insieme alla Cina ha un ruolo centrale nella costruzione del blocco eurasiatico e nell’apertura verso il mondo multipolare.
Dunque, anche se i sauditi non lo faranno mai, a sei anni dall’inizio del caos in Siria, l’incontro è da leggersi in primo luogo come un’ammissione di sconfitta ed il riconoscimento del determinante ruolo russo in Medio Oriente. Timidi tentativi di riforma, esecuzioni di massa, a cui si aggiungono il tragico intervento in Yemen e l’aggravarsi della situazione nella provincia a maggioranza sciita di al-Qatif, sono tutti segnali che indicano la fragilità di una monarchia che compra la sua legittimazione grazie ai proventi del petrolio. La Russia non è interessata a destabilizzare ulteriormente l’area e la diversificazione della cooperazione economica con i sauditi è un vantaggio per entrambi: i russi ottengono il prezzo del petrolio stabile; i sauditi prolungano di qualche anno la vita del loro agonizzante sistema di potere.
Un passo indietro è dunque necessario. In molti a Ryadh sono convinti di aver contribuito in modo determinante al crollo dell’URSS attraverso il finanziamento al gihad afgano ed abbassando il prezzo del petrolio. Una politica di aggressione che è proseguita anche ai danni della Federazione Russa con l’esportazione del gihad nel Caucaso. Un attacco brutale che solo la risolutezza di Putin e di Ramzan Kadyrov è riuscita a contrastare. Già nel 2013, Bandar bin Sultan (membro della famiglia reale saudita e definito non a caso “principe dei terroristi”), in un contesto internazionale decisamente migliore per la casa dei Sa’ud, propose ai russi vantaggiosi accordi economici in cambio della rottura dell’alleanza con Teheran. E la stessa proposta venne fatta a Bashar al-Assad nel 2011 in cambio dell’interruzione sul nascere della ribellione gihadista.
Ora, di fronte al quasi totale fallimento della propria ottusa politica estera e ad un contesto regionale profondamente mutato, l’Arabia Saudita, spaventata a morte dall’egemonia militare, politica e religiosa dell’Iran (nazione che gode di una legittimazione islamica tradizionale e non comprata a suon di petroldollari), non ha potuto far altro che recarsi a Mosca con una delegazione di mille uomini offrendo la stabilità dei prezzi petroliferi (obiettivo cruciale per Mosca), investimenti congiunti nel settore energetico per un miliardo di dollari, e l’acquisto dell’avanzato sistema di difesa missilistico russo S-400 (altri tre miliardi di dollari).
La capitolazione saudita si è palesata nelle stesse dichiarazioni di re Salman che ha pregato il Presidente russo di porre un freno all’ingerenza iraniana in Medio Oriente ed ha riconosciuto la necessità del mantenimento dell’integrità territoriale di Siria ed Iraq. Inoltre, ha proposto la creazione di un organismo internazionale, sotto l’egida dell’ONU, per il contrasto al terrorismo (sic!). Nonostante la portata storica dell’incontro, è abbastanza evidente che così come l’Arabia Saudita rimarrà ancorata ai suoi alleati Israele e USA, la Russia non abbandonerà l’Iran che insieme alla Cina ha un ruolo centrale nella costruzione del blocco eurasiatico e nell’apertura verso il mondo multipolare.
Dunque, anche se i sauditi non lo faranno mai, a sei anni dall’inizio del caos in Siria, l’incontro è da leggersi in primo luogo come un’ammissione di sconfitta ed il riconoscimento del determinante ruolo russo in Medio Oriente. Timidi tentativi di riforma, esecuzioni di massa, a cui si aggiungono il tragico intervento in Yemen e l’aggravarsi della situazione nella provincia a maggioranza sciita di al-Qatif, sono tutti segnali che indicano la fragilità di una monarchia che compra la sua legittimazione grazie ai proventi del petrolio. La Russia non è interessata a destabilizzare ulteriormente l’area e la diversificazione della cooperazione economica con i sauditi è un vantaggio per entrambi: i russi ottengono il prezzo del petrolio stabile; i sauditi prolungano di qualche anno la vita del loro agonizzante sistema di potere.
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