mercoledì 30 novembre 2016

Appello dei Giuristi Democratici per il NO al Referendum costituzionale

«In gioco non c'é un maggior efficientismo dello Stato, né la battaglia politica tra centrosinistra renziano e centrodestra, ma l’assetto istituzionale della nostra Repubblica e il rispetto di quella corretta ripartizione dei poteri dello Stato che hanno consentito sino ad ora lo svolgimento di una civile convivenza, pur tra posizioni politiche ed ideologiche divergenti». Rifondazione,online 28 novembre 2016 (c.m.c.)
La Costituzione italiana è legge sovraordinata alla legge ordinaria.
La Costituzione è destinata a regolare i rapporti di civile convivenza tra i cittadini e per tale ragione è destinata a durare nel tempo.
La Costituzione contiene norme di carattere generale, cioè riferentisi ad ogni tipo di cittadini, di carattere astratto, cioè a prescindere dalle singole situazioni.
La Costituzione deve essere comprensibile per tutti i cittadini e pertanto deve essere scritta in maniera chiara e sintetica.
La Costituzione italiana è costituzione rigida quanto ai suoi principi, ma non immutabile; può essere modificata nel tempo, ma sempre al fine di realizzare e rispettare i principi fondamentali stabiliti nella prima parte della Costituzione stessa.
La Costituzione può essere modificata nei modi e nei termini previsti dall’art. 138 e le modifiche devono ricercare la più ampia convergenza di opinioni tra le forze politiche.
La Costituzione non si modifica a colpi di maggioranza. La riforma della Costituzione dovrebbe fiorire da un dibattito collettivo, ad impulso esclusivo del Parlamento, senza intromissione alcuna del Governo.
Queste sono le caratteristiche di una Costituzione e questi sono i criteri per modificarla.
Ed invece:
La nuova formulazione della Costituzione è stata approvata alla Camera dalla sola maggioranza, con 360 voti su 630 deputati: alla Costituente il testo fu approvato da 458 parlamentari con soli 62 voti contrari.
Il linguaggio usato è prolisso, controverso, ai limiti della incomprensibilità.
Non è vero che sia stato soppresso il bicameralismo perfetto; semplicemente, esso è stato trasformato in un bicameralismo confuso, perché la permanenza del Senato e i nuovi percorsi di formazione delle leggi, nonostante le minori competenze dello stesso Senato, renderanno confuso e ugualmente complesso il percorso di approvazione di una legge, con il rischio di una moltiplicazione dei ricorsi alla Corte Costituzionale per conflitti tra le due Camere.
Non è vero che il bicameralismo perfetto abbia prodotto tempi di approvazione delle leggi superiori alla media dei paesi democratici europei, così come non è vero che sia così diffuso il fenomeno della cosiddetta “navetta” delle leggi tra le due Camere, fenomeno che, in realtà, risulta limitato al 3% delle leggi varate.
La scelta di non far eleggere i senatori dai cittadini incrina il concetto di rappresentatività dei cittadini stessi, sostituendolo con una nomina di natura politica, che nasce all’interno dei gruppi dei Consigli regionali.
La nuova norma costituzionale rischia di escludere la rappresentanza delle Regioni a Statuto Speciale che prevedono l’incompatibilità tra il ruolo di consigliere regionale e quello di senatore, obbligando, pertanto, l’eletto in Senato a rassegnare le sue dimissioni dal Consiglio Regionale e restando, così, privo di qualsiasi compenso per la sua attività.
Non è vero che le modifiche alla seconda parte della Costituzione, relativa all’organizzazione della Repubblica, non abbiano incidenza sulla prima parte, che stabilisce i principi fondanti dello Stato e della convivenza civile.
La nuova Costituzione introduce una progressiva sopravalutazione del potere esecutivo nei confronti di quello legislativo, istituendo una sorta di democrazia esecutiva.
La nuova Costituzione istituisce un ridimensionamento del ruolo della Camera anche in tema di ordine dei lavori, consentendo al Governo di imporre alla Camera di esaminare le leggi ritenute essenziali per il programma governativo entro 70 giorni: è un’umiliazione del ruolo del Parlamento mai visto dall’epoca fascista.
Non è vero che non esista uno stretto rapporto tra riforma costituzionale e legge elettorale: l’Italicum garantisce al partito vincitore delle elezioni al ballottaggio, magari anche solo con una percentuale del 25%, l’attribuzione del 55% dei seggi della Camera con la riduzione delle opposizioni ad un ruolo di mera, impotente tribuna: si pensi solo alla dichiarazione dello stato di guerra, deliberato dalla maggioranza, precostituita ed immodificabile, della sola Camera. Stante, dunque, la rilevanza della legge elettorale ai fini della valutazione dell’impatto della riforma costituzionale sugli assetti istituzionali, sarebbe stato assai utile che la Corte Costituzionale si pronunciasse sulla legittimità o meno di quella legge; incomprensibile appare il rinvio a data da destinarsi di quel giudizio.
La volontà della maggioranza di ridurre il ruolo delle opposizioni è emblematicamente rappresentato dall’introduzione all’art. 64 di uno Statuto delle Opposizioni, il cui regolamento sarà deciso dalla maggioranza, in salda mano del partito vincitore delle elezioni, della Camera.
Il quesito referendario appare formulato in maniera manipolatoria e tale, dunque, dall’invitare i cittadini all’approvazione della legge; in particolare, il riferimento alla riduzione dei costi della politica non rientra direttamente tra le modifiche costituzionali, ma ne potrebbe essere esclusivamente una indiretta conseguenza.
Queste sono solo alcune delle criticità della riforma costituzionale; in alcuni casi si tratta di questioni molto tecniche sulle quali, ovviamente, il cittadino medio non è in grado di esprimere un’opinione fondata su un’effettiva conoscenza del problema; fondamentale, comunque, è cercare di fare un’operazione quanto più completa possibile di informazione, ma ciò che soprattutto deve essere chiaro è che i cittadini devono essere ben consci dell’importanza della loro scelta ed ergersi a difensori di quel ruolo di unione del popolo italiano che la Carta Costituzionale ha pienamente rappresentato in questi 70 anni.
OCCORRE, DUNQUE, VOTARE NO NEL REFERENDUM DEL 4 DICEMBRE.
Come giuristi, da sempre impegnati nella difesa dei diritti dei cittadini, in particolare di quelli meno tutelati, sentiamo il dovere di dare il nostro contributo di informazione ai cittadini, nella convinzione profonda che in gioco non ci sia né un maggior efficientismo dello Stato, né la battaglia politica tra centrosinistra renziano e centrodestra, ma l’assetto istituzionale della nostra Repubblica e, dunque, in definitiva, il rispetto di quella corretta ripartizione dei poteri dello Stato che hanno consentito lo svolgimento di una civile convivenza, pur tra posizioni politiche ed ideologiche divergenti

martedì 29 novembre 2016

Referendum, la campagna del no punta su JP Morgan: loro hanno chiesto la riforma, ecco come

Mentre Matteo Renzi punta quasi tutta la sua campagna per il sì al referendum costituzionale sul messaggio dei tagli ai costi della politica e mentre si prepara a indire la consultazione in due giorni (oggi in consiglio dei ministri), anche i vari comitati per il no affilano le armi e scelgono il loro cavallo di battaglia. Un nome: J. P. Morgan, la società finanziaria ritenuta responsabile della crisi dei mutui subprime del 2008, secondo l’inchiesta della procura di New York. Ebbene i costituzionalisti del comitato No Triv, parte attiva anche nella campagna per il no al referendum di ottobre, hanno ripreso un documento di J. P. Morgan del giugno 2013 sull’area Euro (‘The Euro area adjustment: about halfway there’). E concludono: “Sono loro che chiedono le riforme, le stesse istituzioni finanziarie che hanno provocato la crisi del 2008. Non le chiedono gli italiani. E non è vero ciò che dice Renzi e cioè che ‘le facciamo per noi, non perché ce le chiede Berlino o Bruxelles…’”.
Il documento di J. P. Morgan in parte riprende le argomentazioni della lettera della Bce al governo Berlusconi nell’estate del 2011, sostiene la necessità di una unione bancaria e anche l’opportunità di creare ‘Eurobond’ per la zona euro. Pur ammettendo che: “Secondo noi, è improbabile che la Germania accetti gli eurobond senza cambi significativi nelle costituzioni politiche nei paesi periferici”. Una discussione molto attuale se si pensa al ‘migration compact’, la proposta italiana sull’immigrazione che prevede eurobond per l’Africa.
Ma il passaggio sul quale i referendari per il no si soffermano è il seguente:
“I sistemi politici nelle periferie sono nati dopo le dittature e sono stati definiti con l’esperienza delle dittature. Le Costituzioni mostrano una forte influenza socialista, che riflette la forza politica che i partiti di sinistra hanno guadagnato con la sconfitta del fascismo. I sistemi politici nelle periferie mostrano parecchie delle seguenti caratteristiche: esecutivi deboli; stato centrale debole nei rapporti con le regioni; protezione costituzionale dei diritti dei lavoratori; sistemi di consensi basati sul clientelismo; e contemplano il diritto alla protesta contro i cambiamenti allo status quo politico. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I Paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)”.
Quindi la conclusione:
“Quando la crisi è iniziata era diffusa l’idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica (…) Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea”.
Dimostrare che sono le istituzioni finanziarie colpevoli della crisi di sei anni fa, ancora tutt’altro che risolta, sarà il cavallo di battaglia dei vari fronti per il no al referendum di ottobre, tanti e diversi ma con un unico obiettivo in questa battaglia contro Renzi.

lunedì 28 novembre 2016

Caccia alle streghe on-line: delirio neomaccartista, Internet e CIA

La disperazione dei media ufficialisti alle prese con le cinque fasi del dolore, continua a prosperare quanto meno alla base del quarto potere, mentre il Washington Post spaccia la sua storia su “notizie false, colpa dei russi”, quale causa della miserabile fine della candidata prediletta. Citando “due gruppi di ricercatori indipendenti” (sicuramente dal notevole contenzioso per querela per diffamazione) che avrebbero trovato “sempre più sofisticata propaganda della Russia… riecheggiata ed amplificata dai siti di destra su internet, avendo ritratto Clinton come una criminale“, il sito di proprietà di Jeff Bezos indica i siti web Drudge, Zerohedge, The Ron Paul Istitute ed innumerevoli altri siti tra gli “utili idioti” su cui i veri patrioti americani dovrebbero essere cauti. “Il modo in cui tale apparato di propaganda ha supportato Trump ammonta a un’enorme acquisto di media”, secondo un direttore esecutivo della PropOrNot, parlando sotto anonimato con il Post. “E’ stato come se la Russia avviasse un super comitato per la campagna elettorale di Trump“. Dopo le elezioni, notizie false e loro diffusione sui social media sono finite sotto i riflettori, e per i nostri ultimi pensieri su ciò si consulti il nostro “grazie” della notte scorsa. Il presidente Obama ha denunciato l’attenzione raccolta dalle informazioni false, la settimana scorsa, dicendo: “Se non siamo seri sui fatti, su ciò che è vero e ciò che non lo è… se non possiamo discriminare tra argomenti seri e propaganda, avremo problemi”.
E come The Hill riferisce, una sofisticata propaganda russa ha contribuito ad alimentare la diffusione di notizie false durante il ciclo elettorale. Secondo il Washington Post, “Due gruppi di ricercatori indipendenti hanno scoperto che la Russia ha impiegato migliaia di botnet, “troll”, siti web e account sui social media per diffondere falsi contenuti sul discorso politico on-line e amplificare i messaggi dei siti di destra. Vogliono erodere essenzialmente la fiducia nel o gli interessi del governo degli USA”, ha detto Clint Watts, un ricercatore del Foreign Policy Research Institute, co-autore di un rapporto sulla propaganda russa. “Questa era la loro modalità standard durante la guerra fredda. Il problema è che era difficile prima dei social media”. Il Washington Post afferma, senza ironia, che ora ci sono studi scientifici che dimostrano come i russi hanno influenzato l’elezione del 2016… L’alluvione di “notizie false” in questa stagione elettorale ha avuto il supporto della sofisticata propaganda russa che ha creato e diffuso online articoli fuorvianti con l’obiettivo di punire la democratica Hillary Clinton, aiutando il repubblicano Donald Trump e minando la fede nella democrazia statunitense, dicono i ricercatori indipendenti che monitoravano l’operazione. La sempre più sofisticata macchina della propaganda della Russia, tra cui migliaia di botnet, squadre di “troll” e reti di siti web e account sui social-media, riecheggiati ed amplificati dai siti di destra su Internet, ritraeva Clinton come una criminale dai potenzialmente fatali problemi di salute che si preparava a consegnare la nazione a una cricca di oscuri finanzieri globali. Lo sforzo ha anche cercato di aumentare le tensioni internazionali e promuovere la paura di imminenti ostilità con la Russia nucleare. Due gruppi di ricercatori indipendenti hanno scoperto che i russi sfruttavano piattaforme tecnologiche di fabbricazione statunitense per attaccare la democrazia degli Stati Uniti in un momento particolarmente vulnerabile, mentre un neo-candidato sfruttava le ampie lamentele contro la Casa Bianca. La sofisticazione delle tattiche russe complicherebbe gli sforzi di Facebook e Google nel reprimere le “notizie false”, come avevano promesso di fare dopo le ampie lamentele sul problema. La relazione PropOrNot, data al Post, identifica più di 200 siti che abitualmente sostenevano la propaganda russa presso almeno 15 milioni di statunitensi, scoprendo che le storie false diffuse su facebook sono state viste più di 213 milioni di volte. Si può essere sorpresi da alcuni siti nella lista (sembra anche satirici, siti su false notizie, oltre che propagandistici)…”
Quindi, in altre parole, chiunque non sia un drone liberale è solo un’agente russo? McCarthy sarebbe orgoglioso. Come gli “scienziati” spiegano, riferire fatti equivale ad essere un “utile idiota”. “Va notato che i nostri criteri sono comportamentali. Ciò significa che le caratteristiche con cui identifichiamo i siti di propaganda sono le motivazioni agnostiche. Per tale definizione, non importa se i siti elencati siano consapevolmente diretti e pagati da agenti dei servizi segreti russi, o se addirittura sapevano di riecheggiare la propaganda russa: se soddisfano tali criteri, minimo agivano da “utili idioti” dei servizi segreti russi in buona fede, e vanno ulteriormente esaminati”. Ciò ricorda l’impressione data dall’artista @SarcasmRobot sulla disperazione dei dirigenti e dei loro animaletti mediatici.
Chiunque non mi piaccia è un Hacker Russo. L'emozionante guida per bambini su come evitare le proprie responsabilità per i tuoi crimini.
Chiunque non mi piaccia è un Hacker Russo.
L’emozionante guida per bambini su come evitare le proprie responsabilità per i tuoi crimini.
Sulla definizione di “utili idioti”, Jim Quinn ha scoperto il seguente video di un ex-membro del KGB Jurij Bezmenov, che disertò nel Canuckistan nel 1970. In esso si descrive come i marxisti-leninisti programmarono la conquista dell’occidente dall’interno, senza sparare un colpo. Quanto pensate che il piano funzioni? Al minuto 7:20 G. Edward Griffin chiede a Jurij “Cosa facciamo?” (Per contrastare il cambio di amministrazione) rimanendo sorpresi dalla risposta:
Al momento dell’elezione e anche prima, molti sostenevano l’idea che Trump dovesse concentrarsi su come aggressivamente istruire le persone sui mali che ci circondano… sembra sia l’unico modo per raddrizzare la schiena contro la tirannia del quarto potere. Infine (e senza che ciò sia ilare), ecco come gli scienziati hanno descritto ZeroHedge. “ZH è una cinghia di trasmissione importante della diffusione delle storie dei propagandisti/guerrieri dell’informazione russi presso i consumatori di notizie occidentali. Succede spesso. È un esempio particolarmente eclatante ma la cinghia di trasmissione gira tutti i giorni. ZH è parte della guerra delle informazioni di Putin quanto RT. Se si osserva da vicino, è chiaro come il naso sulla vostra faccia”. Abbastanza chiaro, anzi. Questa farsa va letta (esortiamo lettori a leggerla per vedere cosa sia la disinformazione) come “analisi” da parte di un sito web che, si ricordi, è esso stesso anonimo, per poi concludere: “Zerohedge si qualifica come propaganda “grigia”, ingannando sistematicamente il pubblico a vantaggio di politici stranieri. Gli articoli di Zerohedge sono spesso ripubblicati da altri siti, ma appaiono su Zerohedge per primo; gli autori del sito modulano le storie, non solo vi reagiscono. L’analisi dei modelli di traffico web e dei link lo sostiene: Zerohedge ha un posto di rilievo nella rete di siti di notizie e propaganda pro-Russia. Noi di PropOrNot lo valutiamo: Cinque Ombre”.
Intenzionalmente o meno, queste sono sciocchezze da querela, e possiamo dire tranquillamente che non vi è propaganda “architettata” dai russi in questo sito, a meno che criticare il governo degli Stati Uniti vi equivalga, che già attraggono l’attenzione di gente come Glenn Greenwald e molti altri.
Mentre questo ultimo giro sulla cosiddetta “narrativa” sarà certamente controproducente, e accelererà la fine dei tentativi dei media tradizionali di mantenere credibilità e controllo delle menti degli statunitensi, dolorosamente perduto con le bugie nella campagna presidenziale, per non parlare dell'”occhio di bue” e delle entrate pubblicitarie, rimaniamo affascinati dalle accuse implacabili della cosiddetta “sinistra liberale” su Trump che scatenerà l’assalto della censura alla “stampa libera”, quando essa fa di tutto per sopprimere le voci dissidenti. Infine, possiamo concludere che è un bene che tale “potere” declini ogni giorno che passa.2elcsacIl Washington Post, il suo nuovo proprietario e la CIA
The Sleuth Journal, 25 dicembre 2013
jeff-bezos-cia-washington-postNorman Solomon, scrivendo su Counterpunch, l’ha chiarito: la realizzazione di Cloud online che verrà gestito dalla CIA, per la CIA, è stata assegnata, con un contratto da 600 milioni di dollari, all’Amazon Web Services. Jeff Bezos è il fondatore e CEO di Amazon che ora possiede il Washington Post. 600 milioni di dollari creano un grave conflitto di interessi, quando si tratta d’informare sulla CIA. Naturalmente, il Washington Post e altri media importanti sono già compromessi sulle questioni di sicurezza nazionale e comunità d’intelligence. Gli articoli vengono controllati da CIA, NSA e altre agenzie, prima di essere pubblicati. Ma questa è una ciliegina sulla torta. Una ciliegiona da 600 milioni di dollari. I giornalisti del Post saranno extra-cauti sulla CIA. Idem l’editore. Stampa indipendente? Da ridere. Il WaPo è noto da tempo come megafono che riprende ciò che la CIA propone. Così il nuovo proprietario ed i suoi legami con la CIA saranno solo “affari”. Secondo un articolo del 2012 del Seattle Times, chi conosce Bezos lo descrive libertario. La definizione del termine sarà mutata. Prendere 600 milioni di dollari per progettare i servizi on-line della CIA, un’agenzia clandestina il cui bilancio federale è un segreto, ed è nota per rovesciare i governi all’estero… Questo è un esempio di filosofia libertaria? Forse dovremmo tornare a leggere la Repubblica di Platone e Il Capitale di Marx. Potrebbero rivelarsi capolavori libertari.

venerdì 25 novembre 2016

Cinque superstati le regioni speciali

C’è una norma, nascosta fra le disposizioni transitorie della riforma Boschi, che è più potente d’ un cannone. Perché inventa la suprema fonte del diritto, superiore alla Costituzione stessa.
Perché le norme transitorie transitano, mentre questa si proietta sull’ eternità. E perché infine, grazie ai suoi incantesimi, la riforma dello Stato genera cinque superStati: le Regioni speciali.
Per raccontare questa storia, dobbiamo partire per un triplo viaggio nel tempo. Il primo fino al dopoguerra, quando per un complesso di motivazioni politiche, etniche, geografiche, viene concessa una particolare autonomia a Sicilia, Sardegna, Val d’ Aosta, Trentino (il Friuli s’aggiunse nel 1963). Il secondo viaggio approda nel 2001, l’ anno della riforma federalista varata sotto il governo Amato: una sbornia di competenze per le quindici Regioni ordinarie, che a quel punto surclassano le cinque sorelle maggiori, le fanno retrocedere in autorità e poteri. Tanto che, per evitare il paradosso di Regioni speciali che in realtà diventano subnormali, la legge costituzionale n. 3 del 2001 introduce la «clausola di maggior favore», stabilendo che il nuovo Titolo V della Costituzione s’ applichi anche a loro, nelle parti in cui sia più vantaggioso rispetto agli statuti speciali.
Il terzo viaggio a ritroso è altresì il più breve. Un anno fa, ottobre 2015: l’ oscillazione del pendolo, che di volta in volta converte gli italiani da giustizialisti a garantisti, da proporzionalisti a maggioritari, da federalisti a centralisti, stavolta gira contro gli enti regionali. E infatti in Senato si sta perfezionando la riforma che taglierà le unghie alle Regioni. Mica a tutte, però: le autonomie speciali rimangono fuori dalla giostra.
Perché mai? Semplice: perché dispongono d’ un fuoco di sbarramento che può fucilare la riforma. Diciannove fucili, quanti sono attualmente i senatori (per lo più eletti in Val d’ Aosta e Sud Tirolo) del Gruppo per le autonomie.
Siccome però le garanzie non sono mai abbastanza, siccome oggi va bene ma «di doman non v’ è certezza », gli autonomisti pretendono (e ottengono) la fideiussione perpetua. E il 9 ottobre 2015 il Senato approva l’ emendamento 39.700, primo firmatario Karl Zeller, ovvero il presidente del Gruppo per le autonomie.
Da qui il comma 13 dell’ articolo 39, da qui la regola che vieta per tutti i secoli a venire di sforbiciare le competenze delle Regioni speciali, a meno che non siano loro stesse a decretarlo. Cambia infatti il procedimento di formazione degli statuti, dove per l’ appunto s’ elencano tali competenze: nel caso delle cinque Regioni ad autonomia differenziata, servirà una legge costituzionale adottata dallo Stato «sulla base di intese con le medesime Regioni».
Diciamolo: è la novità più innovativa della nuova novella. Non tanto per l’ uso dello strumento pattizio, quanto per il suo grado d’ efficacia, per il condizionamento che poi ne deriva. Difatti la Costituzione in vigore ne contempla già un paio d’ applicazioni: nell’ articolo 8 (intese fra lo Stato e i culti acattolici) e nell’ articolo 116 (intese fra Stato e Regioni). In entrambe le ipotesi, però, le intese precedono una legge ordinaria, non una legge costituzionale. Dunque lo Stato può sempre disattenderle, può insomma decidere da solo, purché intervenga con legge di revisione costituzionale, modificando l’ articolo 8 o l’ articolo 116. Ma in questo caso no, non è possibile. Il comma 13 detta una regola procedurale, né più né meno dell’ articolo 138 della Costituzione, di cui è figlia la riforma Boschi. Se domani si correggesse lo statuto del Trentino senza rispettare il comma 13, sarebbe come approvare una riforma Boschi bis senza rispettare l’ articolo 138.
Vabbè, è dura da capire. Ma è ancora più dura da spiegare, ed è durissima da concepire. Anche perché la concezione del concetto è una e trina, come Dio. Primo: aumenta la forbice tra Regioni ordinarie e speciali, benché in partenza l’ idea fosse quella di parificarle.
Secondo: gli statuti speciali sono più garantiti della Costituzione medesima, giacché nel loro caso occorre un passaggio in più (l’ intesa), con un procedimento ultrarafforzato. Terzo: l’ autonomia delle Regioni speciali non verrà mai più ridimensionata, a meno che esse stesse decidano di fare harakiri. Risultato: ci sbarazziamo del Senato, per liberarci dai suoi poteri di veto.

giovedì 24 novembre 2016

Arrivano i barbari. L’ultima ridotta del Sì

Il ragionamento è sorprendente. E non tanto perché, se davvero il Paese è costretto al bivio tra una riforma dannosa e un populismo pericoloso, occorrerebbe anzitutto chiamare a risponderne chi – Renzi – lo ha irresponsabilmente messo in questa condizione. Davvero sarebbe una consolazione rimanere nelle mani di una persona tanto incapace e spregiudicata?
Ma, soprattutto, la posizione sorprende perché, per evitare un pericolo ipotetico ed evitabile oggi, crea un pericolo reale e inevitabile domani.
Iniziamo dal primo. Nessuno può realmente sapere cosa accadrà il 5 dicembre in caso di vittoria del No, se Renzi si dimetterà o resterà al suo posto. In questi giorni sta cercando in tutti i modi di drammatizzare la situazione, ma quale realmente sarà il quadro politico all’indomani del referendum, quale la posizione delle diverse forze politiche, quali i convincimenti del Presidente della Repubblica è impossibile prevederlo.
Molto dipenderà anche dalla misura della sconfitta del Sì, perché, qualora fosse limitata, Renzi potrebbe pur sempre rivendicare un risultato superiore rispetto all’attuale consistenza del suo partito. Il punto fondamentale, in ogni caso, è che con la prevalenza del No occorrerà riscrivere le leggi elettorali per Camera e Senato, essendo il quadro elettorale attuale calibrato sulla vittoria del Sì.
Sul tavolo c’è già la proposta dei 5 Stelle, molto ben congegnata dal punto di vista tecnico e, soprattutto, largamente connotata in senso proporzionalistico (sia pure con soglie di sbarramento implicite piuttosto elevate). Anche Forza Italia, attraverso Silvio Berlusconi, ha lasciato intendere una propensione per la proporzionale. Se anche il Pd muovesse in questa direzione, svaporerebbe qualsiasi rischio che una eventuale vittoria delle forze populistiche possa tradursi in un loro governo incontrastato, perché la loro consistenza elettorale è ben lontana dalla maggioranza assoluta dei consensi. È questo che ci si aspetta da una forza politica responsabile: che, una volta individuato un pericolo, metta in campo le strategie atte a scongiurarlo. Tanto più, se si tratta di strategie a portata di mano… Detto più nettamente, se vincesse il No nessun panico è giustificato: si faccia una riforma elettorale sul modello proporzionale e si torni al voto. Quale che sarà il risultato, nessuno avrà le leve del potere a sua completa disposizione.
Tutto il contrario se vince il Sì. Il cambiamento di Costituzione creerebbe infatti un’incredibile concentrazione di potere nelle mani del partito di maggioranza e, in particolare, del suo “capo”, che si ritroverebbe alla guida sia del governo sia della maggioranza parlamentare. L’esecutivo, vero nuovo fulcro del sistema, otterrebbe i poteri necessari a condizionare sia l’attività del Parlamento (grazie al voto a data certa) sia l’attività delle regioni (grazie alla clausola di supremazia affidata al governo anziché, com’era nella Costituzione del 1948, al Parlamento). Persino l’autonomia degli organi di garanzia – Presidente della Repubblica, Corte costituzionale, Csm – ne risulterebbe gravemente compromessa, a causa delle modalità di elezione o dei vincoli posti alle loro modalità di funzionamento.
Insomma: dalla vittoria del Sì scaturirebbe un sistema del tutto squilibrato, avulso dalla tradizione del costituzionalismo, più simile a quel che si vede oggi in Russia o in Turchia che all’assai più ponderato presidenzialismo statunitense. Certo, con il Sì Renzi resterebbe al suo posto, ma quale certezza c’è che lo steso accada anche dopo le elezioni politiche del 2018? Lo scenario è apertissimo e nessuna persona di buon senso, dopo l’elezione di Trump, può escludere a priori una vittoria delle forze populiste. Un esito che, a quel punto, con il nuovo sistema costituzionale, metterebbe il vincitore in condizione di governare l’Italia per 5 lunghissimi anni, senza incontrare ostacoli di sorta.
Ecco allora che, a prendere sul serio la preoccupazione che vanno esprimendo i sostenitori del governo, se ne ricava un potente argomento a favore del No. Chi davvero è preoccupato che le elezioni possano essere vinte da una forza politica che reputa pericolosa (quale essa sia), chi davvero teme il ripetersi in Italia di un caso Trump, non può far altro che votare No, perché il No è l’unica garanzia che, anche se dovesse vincere il peggior politico del mondo, chi accede al potere non si troverà in condizione di poter fare quello che vuole.

mercoledì 23 novembre 2016

LA GRECIA STA VIVENDO AL DI SOPRA DEI PROPRI MEZZI DICE LA GERMANIA

La Germania si oppone alla ristrutturazione del debito greco attraverso il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, che alza i toni della retorica contraria a un tale scenario. Parlando a una conferenza bancaria a Francoforte, il ministro tedesco ha ribadito la sua convinzione che la Grecia non avrà difficoltà a soddisfare i propri obblighi per almeno 10 anni e che non è necessaria alcuna ristrutturazione del debito.
Fedele alle sue convinzioni sulla non necessità della riduzione del debito greco, Schauble ha detto che la Grecia non ha fatto abbastanza per attuare le riforme nei settori della pubblica amministrazione, del lavoro e del mercato interno, riforme che aiuterebbero lo sviluppo.
“La Grecia vive al di sopra dei propri mezzi“, ha detto, aggiungendo che la ristrutturazione del debito non aiuterebbe la situazione, e creerebbe soltanto risultati opposti a quelli desiderabili. Ha affermato che il coinvolgimento del Fondo monetario internazionale in un pacchetto di salvataggio della Grecia sarà discusso in futuro.

martedì 22 novembre 2016

LE LEGGI CHE PASSANO SOTTO BANCO

i sono leggi e riforme che vengono pubblicizzate in ogni modo con gli strumenti di informazione di massa: televisione, social network, giornali, giornali online, cartellonistica. Ed altre di cui non sentiamo mai parlare, di fatto, l’Italia è considerato un paese “parzialmente libero” e nell’ultima pubblicazione de “La Stampa” online, l’Italia è crollata (per quanto riguarda la libertà di stampa, appunto) a 77° posto sulla classifica mondiale.
Volete sapere l’ultima novità della Regione Toscana? I SOLDI PUBBLICI VERRANNO USATI PER FINANZIARE ENTI PRIVATI. Esatto. E’ vile, è scorretto, è illegittimo, ma è così con la “Legge della libera Scelta”.
Facciamo un po’ di chiarezza:
quando un anziano doveva essere inserito in una RSA, riceveva dalla Regione una quota sanitaria (una percentuale di denaro pari a 52,30 Euro al giorno, pari a 1560 Euro circa mensili) con cui far fronte alle spese relative di un’assistenza continua e al mantenimento di quelle strutture che offrono questi tipi di servizi. Queste quote sanitarie cambieranno nome, si chiameranno TITOLI DI ACQUISTO (o Voucher), ma sono sempre loro, sono sempre i soliti 52,30 euro al giorno. In questo caso però, il tutore legale o l’assistito stesso, potranno scegliere se andare a risiedere (e quindi a devolvere i propri soldi concessi) in una struttura accreditata pubblica o accreditata privata (strutture che rispettano gli standard qualitativi del SSN ma che sono essenzialmente gestite completamente da privati). Questo porta ad un forte rischio di crisi del settore pubblico assistenziale.
Ma poi, concretamente, questi Titoli d’Acquisto, a chi vengono devoluti? Al personale crediamo di no, visto che ci sono associazioni pro profit che, proponendo prestazioni a prezzi medi o elevati, si arricchiscono sulla salute di tutti sfruttando i lavoratori con stipendi bassi (in cui lo stipendio medio di un lavoratore full time è sui 900/1000 euro al mese). Infatti, questo tipo di riforma, porterà una crisi per quegli Enti Pubblici, che hanno un costo superiore sul personale (salari e contributi), e l’assistenza sanitaria e’ svolta dai dipendenti pubblici.
Quindi,concludendo, i soldi che vengono richiesti in tasse ad ogni cittadino rimangono sempre gli stessi, ma l’investimento di questi soldi va, come al solito, nelle mani delle solite, poche, persone.
Dite che la Regione Toscana è un modello nel Sistema Sanitario Nazionale? Noi diciamo di si..un modello da rigettare

lunedì 21 novembre 2016

Trentamila licenziamenti alla Volkswagen. 23mila in Germania

Il presidente di Volkswagen Herbert Diess, ha presentato a Wolfsburg il piano sul futuro, frutto dell'accordo con il consiglio di fabbrica che prevede il taglio di 30.000 posti di lavoro globali, di cui 23.000 in Germania. Vw investirà invece 3,5 miliardi di euro nell'elettromobilità e nella digitalizzazione, con 9.000 posti di lavoro nuovi nel settore del software. "Ristrutturiamo in modo radicale Vw per renderla pronta al grande cambiamento che affronterà il settore dell'auto", ha aggiunto Diess.
"Un grande passo in avanti, uno dei più grandi della storia dell'azienda". "Non ci saranno licenziamenti legati alla produzione", ha spiegato Diess.
Con le misure contenute nel patto, Vw conta di migliorare di 3,7 miliardi di euro all'anno fino al 2020 il risultato operativo, secondo quanto riferito dall'azienda e riportato dall'Handelsblatt, con 3 miliardi risparmiati negli stabilimenti tedeschi e 700 milioni in quelli all'estero. L'intero gruppo Volkswagen occupa 624.000 addetti, 282.000 dei quali in Germania. Il taglio dei 30.000 posti di lavoro sarà accompagnato da ammortizzatori sociali come il prepensionamento progressivo, ha spiegato il presidente del marchio Vw Herbert Diess nella conferenza a Wolfsburg. Non sono stati forniti dettagli su come la ristrutturazione (che accanto ai 30.000 licenziamenti prevede 9.000 assunzioni nel settore del software) si rifletterà sugli stabilimenti.
3,5 mld per auto elettrica e digitalizzazione – "Elettromobilità e digitalizzazione" sono le chiavi con cui Volkswagen vuole reagire allo scandalo del dieselgate e "attrezzarsi per affrontare la trasformazione che sta investendo il settore automobilistico", secondo le parole dei top manager dell'azienda, Matthias Mueller e Herbert Diess. Accanto al taglio di posti di lavoro, il patto per il futuro siglato con il sindacato prevede investimenti per 3,5 miliardi e 9.000 nuove assunzioni nelle nuove tecnologie per sviluppare auto elettriche e servizi come il car-sharing e il ride-sharing. Non sono stati forniti dettagli su come questa svolta si riverbererà sulla produzione, ma secondo l'agenzia Bloomberg l'azienda ha accettato di produrre due auto completamente elettriche negli stabilimenti tedeschi di Wolfsburg e Zwickau. Di ieri, invece, è la notizia che da aprile 2017 lo stabilimento di Dresda, con i suoi 525 addetti, produrrà un modello di Golf elettrica. (fonte. Ansa)
L'obiettivo dichiarato è la riduzione dei costi di quasi 4 miliardi di euro e la prospettiva temporale di questa prima sforbiciata è abbastanza breve: entro il 2020.
Fin qui la notizia.
Nonostante la portata dei tagli, il tutto avverrà con l'accordo del sindacato di categoria, la Ig Metall, visto che il capo del del consiglio di fabbrica, Bern Osterloh, dichiara di aver ottenuto in cambio la "sopravvivenza di tutti gli stabilimenti" e una serie di "garanzie sociali come i prepensionamenti".
Palle, sostanzialmente, perlomeno per la parte che riguarda gli stabilimenti. L'evoluzione futura della manifattura automobilistica – e no solo – è infatti ormai definita e descritta in migliaia di studi come “industria 4.0”. In pratica, si va sviluppando a passi da gigante l'automazione dei processi produttivi e quindi la sostituzione dei lavoratori in carne e ossa con i robot. Proprio in Volskwagen il programma è impostato ormai da due anni. Nell'ottobre del 2014, infatti, ottobre dal capo del personale della Volkswagen, Horst Neumann, spiegava alla stampa: “Nei prossimi 15 anni andranno in pensione 32mila persone; non verranno rimpiazzate. Nell’industria automobilistica tedesca il costo del lavoro è superiore ai 40 euro all’ora, nell’Europa dell’est sono 11, in Cina 10. Oggi il costo di un sostituto meccanico per lavori di routine in fabbrica si aggira intorno ai cinque euro. E con la nuova generazione di robot diventerà presumibilmente ancora più economico. Dobbiamo essere in grado di sfruttare questo vantaggio economico”.
Ora quel programma viene messo in pratica, potendo anche contare sugli ammortizzatori sociali (a spese dello Stato o dei fondi previdenziali accantonati). In pratica, gli stabilimenti potrebbero anche essere mantenuti tutti aperti. Peccato che all'interno i lavoratori si conteranno sulle dita di ben poche mani…
Ma in ogni caso – esistano o no ammortizzatori – questo processo di distruzione dei posti di lavoro è mondiale e non prevede una quantità di “nuovi lavori” in gado di sostituire quelli che si vanno perdendo.
Proprio oggi, su IlSole24Ore, un articolo illustra la situazione con il poco rassicurante titolo: Allarme Onu: i robot sostituiranno il 66% del lavoro umano. Trattandosi del quotidiano di Confindustria, ovviamente l'allarme viene stemperato con una serie di “buoni consigli” che dovrebbero attutire il terremoto sociale globale prodotto da questa “sostituzione”. Ma anche a volerli prendere sul serio, è inimmaginabile – e non esiste alcun serio studio scientifico di questa possibilità teorica – che un modo di produzione incapace da dieci anni di produrre “crescita” economica, possa improvvisamente (dieci anni sono un respiro, in questo campo) sfornare miliardi di “nuovi posti di lavoro”.
Anche perché – spiegano tutti, ma proprio tutti gli studiosi dell'automazione – questi processi non riguardano solo il lavoro manuale, ma anche e forse soprattutto quello “intellettuale”, a cominciare dalle funzioni più ripetitive e seriali (operazioni di banca, uffici pubblici, call center, persino giornalismo!).
Forse bisogna cominciare a preoccuparsi di questo, prima che tutto il pianeta esploda…

venerdì 18 novembre 2016

Se è un costituzionalista a dire No

Se è un costituzionalista a dire No
Ansia e inquietudine per l’esito referendario del 4 Dicembre. Ma anche desiderio, ormai, che quella data si avvicini in fretta. Sventato il rinvio, siamo pronti a dare il nostro NO, incompreso o osteggiato da chi non ha letto scientemente la riforma costituzionale, da chi non ne è informato o da chi ha interessi privati. Checché ne dica il Pinocchio fiorentino, abilissimo a ribaltare la realtà dei fatti e a svendere la democrazia e i diritti come fossero aspirapolveri.
Inquieta, ma non sorprende, la sua recente arringa alla Leopolda. Un discorso rabbioso, scorretto, diretto anche ai suoi che l’hanno tradito in casa. Colpisce duro il Premier, a destra e a manca, tentando così di portare a casa la palma della vittoria. Il timore di una sconfitta è personalistico. La débacle cadrebbe sull’uomo, che esprime il potere dei signori della finanza mondiale, come un’affilata lama che lo taglierebbe fuori dalle simpatie di un’Europa riformista e liberista. Non manca, nel suo delirante discorso autoreferenziale, di definire chi voterà No “un’accozzaglia di gente”.
É la classica performance del potente che inizia ad avere paura. Paura di perdere consensi, paura che non siano riconosciute le ragioni della riforma, paura di perdere un potere acquisito svendendo ai Trattati europei e ai poteri finanziari il Paese che governa indegnamente, togliendo e tagliando diritti e fondi, prono com’è all’Europa. Se perderà vuole andare subito a elezioni “Non mi faccio rosolare” dice durante la kermesse piddina. E per fortuna che ha a cuore il Paese. Quanto di deforme c’è nella riforma costituzionale lo conferma Paolo Maddalena, giurista, magistrato, vicepresidente emerito della Corte Costituzionale
Professor Maddalena, siamo vicinissimi al voto referendario. In ultima analisi, ci può ribadire anzitutto i motivi dell’incostituzionalità di questa riforma? Non avrebbe dovuto essere stata bocciata sul nascere dalla Corte costituzionale, a causa dell’eccessivo intervento di modifica che tocca ben 47 articoli con tematiche diverse. E perché ciò non è avvenuto?
Questa riforma, come ha affermato di recente la ministra Boschi, costituisce un tassello dell’intera politica del Governo Renzi. In sostanza essa serve per dare una legittimazione costituzionale alle varie leggi varate dal Parlamento a favore delle multinazionali e delle banche e contro gli interessi degli Italiani: lo Sblocca Italia, il Jobs Act, la riforma della Scuola e la riforma della Pubblica Amministrazione.
In realtà questa revisione costituzionale, che cambia un terzo della Costituzione vigente, eccede i limiti propri della revisione e richiederebbe un’approvazione da parte di un’assemblea costituente. La cosa più grave è che questa revisione modifica implicitamente lo stesso articolo 138 cost. posto dai Costituenti a garanzia delle modifiche costituzionali.
Mentre detto articolo prevede che la revisione costituzionale debba essere approvata da due Camere di pari rango per due volte ad una distanza non inferiore ai tre mesi, con la modifica costituzionale approvata dal Parlamento una delle due Camere, il Senato, ha un rango inferiore alla Camera dei Deputati, essendo composto non più da Senatori eletti, ma da consigliere regionali e sindaci nominati dai Consigli Regionali. E, d’altro canto, in virtù del ballottaggio la maggioranza dei deputati può essere eletta anche soltanto dal 20% dei votanti e cioè da circa il 10% degli aventi diritto al voto. Ciò consente al Governo e al Parlamento di modificare anche la parte prima della Costituzione, che riguarda i diritti fondamentali, con la rappresentanza di una parte minima del popolo italiano. É proprio quanto vuole la JP Morgan come si legge nel documento dalla stessa pubblicato il 25 maggio 2013.
In proposito è da rilevare che questa incostituzionalità non poteva essere fatta valere dalla Corte Costituzionale in via preventiva, poiché in questa sede, ai sensi dell’art.75 cost. la Corte è tenuta a verificare che la revisione non riguardi leggi tributarie, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Il dato che la revisione riguardi tematiche diverse doveva esser fatta valere dall’ufficio per il referendum presso la Corte di Cassazione e, visto che ciò non è avvenuto, dal Tar Lazio.
Quali fra gli 11 principi fondamentali irriformabili per legge, sono messi in discussione dalla riforma Renzi-Boschi?
Come sopra detto la revisione potenzialmente vìola l’intera Costituzione, compresi gli undici principi fondamentali.
Andando nello specifico, la riforma su quali articoli incide più pesantemente? Verrebbe da pensare all’abolizione del Senato. In realtà leggendo il nuovo articolo 70 si intuisce che il Senato non verrà totalmente eliminato. Sembra un pasticcio incomprensibile
La riforma incide pesantemente sul principio di rappresentanza trasformando il Senato in un organo di nominati e limitando le autonomie locali. D’altro canto, i Senatori essendo eletti dai Consigli regionali dovrebbero rispondere soltanto a questi, mentre al contrario partecipano alla formazione di leggi per tutto il popolo italiano esercitando tale funzione senza vincoli di mandato e, per giunta, con immunità. Si tratta di uno stravolgimento della democrazia parlamentare.
Come avrebbe dovuto, invece, essere riformato il Senato, per consentire l’integrità della dignità parlamentare. In fondo anche Pietro Ingrao era favorevole al monocameralismo, ma di certo non come quello proposto dalla riforma
Non c’era alcuna necessità di riformare il Senato. Chi ritiene necessario il monocameralismo deve comunque tener presente che esso comporta un sistema elettorale assolutamente proporzionale, cosa che non avviene nella situazione attuale.
La modifica per abbreviare l’iter legis, saltando la navetta, appare più che altro una corsia preferenziale per i ddl governativi, rendendo il Parlamento subalterno. A esser malpensanti o a essere obiettivi è stata confezionata per dare più potere al governo. Qual è il suo pensiero?
É falso pensare che la modifica del Senato possa abbreviare i tempi per l’approvazione delle leggi. Basti pensare che in caso di disaccordo tra Camera e Senato la soluzione deve essere trovata dai loro Presidenti e se essi non si mettono d’accordo occorre ricorrere alla Corte Costituzionale, allungando i tempi di almeno un anno.
Renzi, oltre alla carta della semplificazione, per fare approvare la sua riforma si sta giocando anche la carta del risparmio e delle regalie ai cittadini attraverso i bonus alle fasce deboli. Non le sembra una modalità infida e ingannevole, oltretutto legalizzata e diffusa dagli enormi spazi televisivi concessi alla campagna per il Si?
Certamente si tratta di pubblicità ingannevole e si può anche parlare di voto di scambio.
Lei che ne pensa del cambiamento, prospettato come un miracolo italiano e tanto decantato dal Premier?
Non si tratta di cambiare, ma di mantenere una politica di asservimento ai poteri finanziari che dura da oltre 40 anni e che sta trovando la sua conclusione in questa riforma costituzionale e nell’approvazione del trattato transatlantico TTIP e del CETA.
Cosa ne pensa degli interventi oltralpe e oltreoceano, provenienti dagli Usa e dalla J.P. Morgan che stanno potenziando il contenitore del Sì?
Gli interventi d’oltralpe e oltreoceano mirano a distruggere la sovranità del popolo italiano ed a sottoporlo alla sovranità dei mercati, proprio secondo il pensiero neoliberista.
Se vincerà il Sì ci sarà ancora possibilità di salvare la democrazia e i nostri diritti o sarà la fine dello stato di diritto?
La vittoria del Sì distruggerà la democrazia ed instaurerà un regime oligarchico, se non dittatoriale.
L’Europa è nostra nemica o più precisamente è nemica della Costituzione repubblicana, fondata sulla democrazia e sui diritti. Invece del riformismo voluto da Renzi per adeguarsi ai diktat europei, non sarebbe bene uscirne, per riacquistare con il tempo la sovranità popolare, monetaria e l’autonomia di mercato?
Sarebbe bene uscire dall’Euro, ma restare in Europa. Infatti con gli attuali manovratori europei abbiamo perso tutte le nostre industrie e gran parte dei demani e dei territori, abbiamo ridotto la spesa pubblica, abbiamo creato migliaia e migliaia di disoccupati e non abbiamo nessuna possibilità di svolgere una politica economica agricola e industriale. Una moneta unica, come dice Latouche, è la volpe nel pollaio. L’Unione Europea presuppone una parità tra gli Stati membri e non il predominio della Germania. Si tenga presente che l’art.11 cost. dice che l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni”.
Dall’inquietante ultima arringa di Renzi alla Leopolda cosa se ne può evincere? Renzi cosa teme, oltre a perdere la sua battaglia per promuovere la riforma? Qual è la sua posta in gioco in questo referendum, c’è dell’altro? Si può pensare ad un vincolo con la J.P. Morgan in cui i suoi interessi sono in gioco?
Tutte le leggi del Governo Renzi e la stessa riforma costituzionale seguono le direttive impartite dalla finanza internazionale. Il fatto che Renzi si sia lasciato andare ad insulti affermando che i Comitati del No sono un’accozzaglia di gente, dimostra che non ha altri argomenti e che si sente mancare il terreno sotto i piedi.
Infine lei pensa che la nostra Costituzione oggi debba essere modificata, se sì in quali parti, o finalmente applicata?
A mio avviso la nostra Costituzione, ponendo al centro la tutela della persona umana ha un carattere, come suol dirsi, “atemporale”.

giovedì 17 novembre 2016

Stato vs Regioni: la nuova Costituzione darebbe al primo un potere “supremo”

La revisione del Titolo V della Carta stravolgerebbe il rapporto tra enti, accentrando i poteri e scavalcando ogni forma di concertazione con i territori in tema di ambiente, infrastrutture ed energia. Anche attraverso la cosiddetta “clausola di supremazia”, nella disponibilità del Governo. L’intervento, a meno di quindici anni dall’ultima “riforma”, non vale però per le Regioni a Statuto speciale
Sulla scheda referendaria del 4 dicembre la modifiche del rapporto tra Stato e Regioni saranno indicate all’elettore come una “revisione” -perché così le definisce il titolo della legge approvata dal Parlamento-. In realtà, si tratta di una rivoluzione del “Titolo V” che assegna al raccordo Governo-Parlamento un potere tecnicamente “supremo”.
A meno di quindici anni dalla sua entrata in vigore, la cosiddetta “legislazione concorrente” tra Stato e Regioni viene cancellata. In teoria. Il “come” è sintetizzato da una tabella messa a punto dal Servizio Studi della Camera dei deputati, all’interno delle schede di lettura dedicate al nuovo articolo 117. In una colonna sono indicate le “nuove” “materie di competenza esclusiva dello Stato” (ventuno) e nell’altra quelle di “competenza delle Regioni” (otto). Secondo il Governo, la nuova suddivisione dovrebbe porre un freno a quella che la Corte costituzionale ha definito l’“esplosione della conflittualità tra Stato, Regioni e Province autonome all’indomani della riforma del Titolo V” del 2001. Un fatto che per la Consulta è “innegabile”. Tra le ventuno materie “esclusive” dello Stato ci sono la “produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia”, le “infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto”, i “porti e aeroporti civili”, la “tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici”, l’“ambiente ed eco-sistema” (e non più la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”). “Vi sono indubbiamente degli aspetti positivi nel riordino delle competenze legislative -premette il professor Marco Giampieretti, del Dipartimento di Diritto pubblico dell’Università di Padova-. Materie che erano state attribuite alla competenza concorrente -come l’energia, le infrastrutture e le grandi reti-, o erano state addirittura rimesse alla competenza residuale delle Regioni -come il turismo-, tornano allo Stato. Tuttavia, bisogna tenere presente che ogni volta che si tocca la ripartizione delle competenze legislative tra enti, è inevitabile un periodo, più o meno lungo, di assestamento interpretativo. Quindi sarebbe buona regola fare interventi il più possibile mirati e non rivoluzionari”.
Al “fisiologico periodo di ridefinizione per via interpretativa degli equilibri tra Stato e Regioni” (Giampieretti) si affiancano due problemi: il coinvolgimento dei territori e l’effettivo superamento della legislazione “concorrente”. “È assai dubbio che venga cancellata del tutto la competenza concorrente -ragiona Enzo Di Salvatore, professore di Diritto costituzionale italiano e comparato presso l’Università degli Studi di Teramo e cofondatore del Coordinamento Nazionale No Triv-. La formulazione del nuovo testo è ambigua. In diversi punti si afferma infatti che lo Stato ha competenza esclusiva su ‘disposizioni generali e comuni’ in materia ad esempio di tutela della salute, di istruzione, turismo, governo del territorio. Con quell’espressione s’intende che tutto ciò che resta escluso spetterà comunque alle Regioni, per via della clausola residuale. E questa richiederà continui interventi da parte della Corte costituzionale, volti a definire gli ambiti delle materie”. Sul coinvolgimento dei territori, inoltre, Di Salvatore evidenzia un punto. “L’energia è una di quelle materie per le quali la Corte ha riconosciuto da subito la possibilità che lo Stato disciplinasse per intero la materia; tuttavia, in ragione del fatto che la riforma costituzionale del 2001 l’abbia ricondotta formalmente alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni, essa ha affermato che le Regioni abbiano diritto di partecipare alle decisioni dello Stato. Rendendola ‘esclusiva’, invece, lo Stato farà quello che fa oggi, ma senza l’obbligo di dover garantire la partecipazione degli enti territoriali. Non discuto che l’energia possa tornare nelle mani dello Stato, quanto che in questo modo si butti all’aria il principio di collaborazione tra lo Stato e gli enti territoriali”.
A tutto questo si aggiunge un fatto: la revisione del Titolo V della Costituzione non si applica alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome fino a quando non sarà perfezionata la “revisione” dei rispettivi statuti. Cinque Regioni del Paese, dunque, continueranno a funzionare con regole diverse. E non solo rispetto alle competenze legislative. Non varrà nemmeno il presunto “tetto” agli stipendi dei consiglieri regionali e, come spiega il Servizio Studi di Montecitorio, “la definizione dei principi fondamentali per promuovere l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza”. “Questa è una clamorosa contraddizione della legge costituzionale –ci ha spiegato l’ex presidente della Corte, Valerio Onida– dovuta forse al fatto che, procedendosi a deliberare con maggioranze ristrette -il che già contraddice il principio per cui in materia costituzionale si dovrebbe procedere sempre il più possibile con ampie convergenze-, il voto dei deputati e dei senatori provenienti dalle Regioni speciali era ritenuto essenziale”.
Accanto a questa disparità s’inserisce la cosiddetta “clausola di supremazia”, la novità più rilevante del “nuovo” articolo 117. “Su proposta del Governo -si legge nel Ddl sottoposto a referendum-, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. Per il professor Giampieretti, “messa in questi termini e posta dopo l’elenco delle materie di competenza dello Stato e delle Regioni, di fatto si pone come possibilità per lo Stato di derogare alla ripartizione di competenze appena riformata”. L’esercizio del “potere sostitutivo” da parte del Governo è già previsto dalla Costituzione con riferimento alle competenze amministrative (articolo 120). Ma lo è per due delle tre “ragioni” citate dalla clausola di supremazia: “unità giuridica” e “unità economica”. L’“interesse nazionale”, invece, presente nel vecchio articolo 117 come limite alla potestà legislativa regionale, aveva dato luogo a gravi incertezze interpretative e applicative ed era stato quindi cancellato con la riforma del 2001. In questi anni, come spiega il Servizio Studi della Camera, la Corte costituzionale ha stabilito dei precisi “limiti che circoscrivono l’intervento statale”. La “deroga” deve infatti tener conto del “principio di leale collaborazione” tra gli enti, e allo Stato spetta l’onere di “assicurare un adeguato coinvolgimento delle Regioni”, raggiungendo delle intese. Richiami che il “nuovo” testo, invece, non riprende. Dunque, se la revisione costituzionale venisse approvata, lo “sconfinamento della legge statale in ambiti di pertinenza regionale”, prosegue il Servizio Studi, avrebbe di fatto carta bianca. Basterebbe l’“interesse nazionale”. “Fino a che punto la Corte costituzionale potrebbe spingersi nella valutazione della sussistenza e della consistenza dell’interesse nazionale? È una valutazione squisitamente politica -osserva Giampieretti-. Se il Governo e il Parlamento decidono che in una certa materia c’è l’interesse nazionale, la Corte dovrebbe limitarsi a verificare la ragionevolezza della loro decisione, non potendo sostituire la propria valutazione a quella del legislatore. Il rischio è dunque che con questa clausola lo Stato possa intervenire in qualunque materia con un alto grado di discrezionalità e di pervasività”.
Inoltre, stando all’interpretazione del Servizio Studi della Camera, “per le leggi di attivazione della ‘clausola di supremazia’ sono infine ammessi sia il ricorso alla decretazione di urgenza […] sia l’applicazione della procedura del cosiddetto ‘voto a data certa’”.
Alcuni comitati impegnati in tema di ambiente, energia o tutto quel che potrebbe ricadere sotto la “supremazia” incontrollata dello Stato, sono preoccupati. Le “Mamme no inceneritore” di Firenze (http://www.mammenoinceneritore.org) hanno preparato un appello rivolto anche alle associazioni ambientaliste, chiedendo loro una presa di posizione.
A salvaguardare gli interessi dei territori dovrebbe essere il “nuovo” Senato. La “riforma”, infatti, prevede che le “leggi di attuazione” della “clausola di supremazia” debbano seguire un “procedimento rafforzato”. In realtà, si tratta di una garanzia debole. La Camera dei deputati potrà superare le eventuali proposte di modifica del Senato con la semplice maggioranza assoluta. Una soglia che l’attuale legge elettorale assicura a un solo partito. Quello di governo.

mercoledì 16 novembre 2016

L’immunità diseguale dei senatori

La legge è uguale per tutti. Così almeno dovrebbe essere. Ma in Italia siamo ormai abituati alle disuguaglianze. Non fa eccezione il progetto di legge per la revisione costituzionale, che in autunno verrà giudicato dagli elettori. Infatti, la nuova composizione del Senato creerà una situazione oggettiva di diversità di trattamento tra consiglieri regionali e tra sindaci. Ricordiamo che il nuovo Senato, se la riforma verrà confermata dal referendum, sarà composto da 5 persone scelte dal Presidente della Repubblica, 74 consiglieri regionali e 21 sindaci (scelti dai consigli regionali).
I nuovi senatori avranno l’immunità parlamentare, come quelli attuali. Qui nasce il problema di un diverso trattamento tra gli eletti. Infatti, tra i sindaci e tra i consiglieri regionali ci saranno alcuni “privilegiati” che godranno dell’immunità parlamentare, il che ad esempio significa che i magistrati non potranno effettuare intercettazioni telefoniche nei loro confronti senza il consenso del Senato.
In teoria, l’immunità parlamentare varrebbe soltanto per i compiti svolti in qualità di senatori, ma sarà praticamente impossibile tracciare il confine tra l’attività di consigliere regionale o sindaco e quella di senatore. Il magistrato potrebbe disporre – senza bisogno di chiedere un’autorizzazione – un’intercettazione telefonica dell’utenza del sindaco o del consigliere, ma non di quella del senatore. Ma se il numero di telefono fosse lo stesso, che cosa si dovrebbe fare? Chiedere l’autorizzazione per tutte le conversazioni o ascoltare ogni telefonata e poi cancellare quelle in cui viene pronunciata la parola “Senato”?
Lasciamo da parte i paradossi ridicoli e prendiamo un caso concreto: il 9 ottobre 2012 è stato arrestato Domenico Zambetti, Assessore alla casa della Regione Lombardia, che – secondo le accuse – era stato eletto nelle liste del PdL grazie anche a 4mila voti di preferenza ricevuti dalla ‘ndrangheta, con adeguato compenso (50 euro a voto). L’inchiesta è stata condotta anche attraverso lo strumento delle intercettazioni. Se Domenico Zambetti fosse stato anche senatore, forse oggi non sapremmo nulla di questa vicenda e nel 2013 non ci sarebbero state le elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale lombardo.
Non è tutto. I nuovi senatori non rappresenteranno più la nazione, ma “le istituzioni territoriali”. È il caso di ricordare che l’immunità parlamentare è stata inserita in Costituzione per proteggere personalmente i rappresentanti della sovranità popolare da possibili abusi del potere. Se non si tratta più di rappresentanti del popolo e quindi della nazione, non c’è più alcun motivo che giustifichi il mantenimento dell’immunità parlamentare. A meno di estendere – per coerenza – l’immunità a tutti i rappresentanti delle istituzioni territoriali. Comunque la si veda, nel progetto di revisione costituzionale c’è un’illogica disparità di trattamento tra i senatori e gli altri rappresentanti degli enti locali e regionali.
Infine, è evidente che c’è uno squilibrio nella responsabilità attribuita ad alcuni sindaci. Con la riforma si potrebbe creare un ulteriore paradosso: il sindaco di un piccolo paese di provincia potrebbe diventare senatore e godere dell’immunità parlamentare, mentre il sindaco di Roma o di Milano, che non avrà sicuramente il tempo seguire i lavori parlamentari, non diventerà senatore e si ritroverà senza immunità. D’altra parte, se per avere l’immunità diventassero senatori i sindaci delle città più importanti, di certo non potrebbero essere presenti nell’aula parlamentare in modo significativo, visto l’impegno richiesto dalla carica di sindaco; con il risultato di un Senato con molte sedie vuote tra i già pochi senatori rimasti, se entrasse in vigore la riforma. E questa sicuramente non è una prospettiva edificante.

martedì 15 novembre 2016

Segretario generale NATO avverte gli USA su conseguenze del rifiuto dell’alleanza

Il Segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha affrontato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sulle pagine del quotidiano britannico The Guardian. "Ci troviamo di fronte alla più grande minaccia alla nostra sicurezza da un'intera generazione. Non è il momento di mettere in discussione il valore dell'alleanza tra l'Europa e gli stati Uniti" ha detto Stoltenberg. Durante la campagna elettorale Trump ha definito la NATO un "organizzazione obsoleta" e ha rimarcato ai suoi membri la necessità di assolvere agli obblighi dell'alleanza, in particolare una maggiore partecipazione ai requisiti per la spesa della difesa. Dopo queste dichiarazioni il futuro presidente repubblicano USA ha detto di essere scettico per quanto riguarda il concetto di difesa collettiva dell'alleanza. "La NATO ha seguito alla lettera l'articolo sulla difesa comune (articolo 5 della Carta dell'Organizzazione prevede di fornire aiuto degli alleati in caso di un attacco contro uno dei membri) una sola volta, quando ha sostenuto gli Stati Uniti dopo gli attacchi dell'11 settembre 2001. E non è stato solo un supporto simbolico poiché la NATO ha partecipato all'operazione in Afghanistan, dove hanno servito migliaia di soldati. Più di un migliaio di loro hanno pagato il prezzo più alto nell'operazione, che è stata una risposta diretta all'attacco contro gli Stati Uniti" ha detto il segretario generale.
Spiegel: Nato teme che Trump ritirerà truppe USA dall'Europa Secondo lui, negli ultimi anni la situazione della sicurezza è "drammaticamente peggiorata" a causa di una "Russia più aggressiva" e dell'instabilità in Medio Oriente e nel nord Africa. La risposta a queste sfide è una delle più grandi dai tempi della guerra fredda per rinforzare la difesa collettiva, e gli USA hanno confermato il loro impegno a tutela della sicurezza europea, dispiegando una nuova brigata nella parte orientale del continente, ha detto Stoltenberg. Il segretario generale dell'Alleanza ha riconosciuto che la forza della partnership sta nell'equa distribuzione delle responsabilità tra i membri della NATO. "Fino ad oggi, gli Stati Uniti rappresentano quasi il 70% delle spese per la difesa dell'Alleanza, e la richiesta ad una più equa distribuzione del carico economico è giustificata" ha detto Jens Stoltenberg.

lunedì 14 novembre 2016

LE RAGIONI DEL #NO

Produce semplificazione?
NO, moltiplica fino a dieci i procedimenti legislativi e incrementa la confusione
Amplia la partecipazione diretta da parte dei cittadini?
NO, triplica da 50.000 a 150.000 le firme per i disegni di legge di iniziativa popolare
Supera il bicameralismo?
NO, lo rende più confuso e crea conflitti di competenza tra Stato e regioni, tra Camera e nuovo Senato
È una riforma innovativa?
NO, conserva e rafforza il potere centrale a danno delle autonomie, private di mezzi finanziari.
Diminuisce i costi della politica?
NO, i costi del Senato sono ridotti solo di un quinto e se il problema sono i costi perché non dimezzare i deputati della Camera?
È una riforma chiara e comprensibile?
NO, è scritta in modo da non essere compresa
È il frutto della volontà autonoma del parlamento?
NO, perché è stata scritta sotto dettatura del governo
Garantisce l'equilibrio tra i poteri costituzionali?
NO, perché mette gli organi di garanzia (Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale) in mano alla falsa maggioranza prodotta dal premio
È una riforma legittima?
NO, perché è stata prodotta da un parlamento eletto con una legge elettorale (Porcellum) dichiarata incostituzionale
Garantisce la sovranità popolare?
NO, perché insieme alla nuova legge elettorale (Italicum) già approvata espropria la sovranità al popolo e la consegna a una minoranza parlamentare che solo grazie al premio di maggioranza si impossessa di tutti i poteri
IL 4 DICEMBRE 2016 VOTA NO
AL REFERENDUM COSTITUZIONALE

Salvaguardare la democrazia oggi, è garantire la propria libera voce domani!
Questa è una riforma che non riduce i costi, non migliora la qualità dell'iter legislativo, ma scippa la sovranità dalle mani del popolo!
Diciamo NO allo scempio della Costituzione attuato attraverso una riforma che sottrae poteri ai cittadini e mortifica il Parlamento!
Diciamo NO alla legge oltraggio che, calpestando la volontà del corpo elettorale, instaura un regime politico fondato sul governo del partito unico!

giovedì 10 novembre 2016

I leader occidentali sono sordi alle violazioni di Israele

Israele è appena emerso dalle tre settimane di giorni sacri, un periodo che in anni recenti è stato segnato da estremisti religiosi ebrei che hanno compiuto visite provocatorie nell’area della moschea al-Aqsa nella zona di Gersualemme Est occupata.
Molti vi vanno a pregare, violando gli obblighi internazionali di Israele. La maggior parte di loro appartengono ai gruppi che cercano di arrivare alla distruzione della moschea e la sostituzione di questa con un tempio ebraico e che ora godono dell’appoggio dall’interno del parlamento, compreso il partito del primo ministro Netanyahu.
Lo scorso autunno, un’ondata di tali visite ha indignato i palestinesi e ha scatenato una serie di attacchi di cosiddetti “lupi solitari” contro gli israeliani. Solo di recente tali attacchi si sono ridotti.
Traendo vantaggio di questa rinnovata quiete, Israele ha permesso a un numero da record di ultranazionalisti di visitare la moschea, e le cifre diffuse a settimana scorsa mostrano che anche gruppi di soldati israeliani entrano nel sito religioso.
Anche la polizia, il cui comandante di recente nominato è egli stesso della comunità di coloni estremisti, ha raccomandato che sia messa fine alle restrizioni per le visite da parte dei deputati israeliani che chiedono la sovranità di Israele sulla moschea.
Il modo in cui Israele ha trattato questo sito sacro islamico di suprema importanza, simboleggia per i palestinesi la loro impotenza, oppressione e umiliazione quotidiana. Al contrario, un senso di impunità ha lasciato Israele avida di ancora più controllo sui palestinesi.
Lo squilibrio enorme di potere è stato descritto in dettaglio il mese scorso durante un dibattito del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Hagai El-Ad, capo di B’Tselem *, che controlla l’occupazione, ha definito gli abusi di Israele: “violenza invisibile, burocratica, quotidiana” contro i palestinesi, esercitata dalla “culla alla tomba”.
Ha fatto appello alla comunità internazionale per mettere fine ai suoi 5 anni di inazione. “
“Abbiamo bisogno del vostro aiuto… L’occupazione deve finire. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deve agire. E questo è il momento,” ha detto.
I politici israeliani erano furiosi. El-Ad aveva infranto una delle regole fondamentali di Israele: non si lavano i panni sporchi del paese all’estero. La maggior parte degli Israeliani considera l’occupazione della Palestina e la sua sofferenza una faccenda esclusivamente interna che deve essere decisa soltanto da loro.
Netanyahu ha accusato il direttore di B’Tselem di cospirare con estranei per assoggettare Israele alla “coercizione internazionale”.
Dato che gli Stati Uniti difendevano fiaccamente la libertà di parola di El-Ad, Netanyahu ha trovato un delegato per rilanciare l’attacco. David Bitan, presidente del suo partito, ha chiesto che El-Ad venisse privato della sua cittadinanza e ha proposto alla legislatura di dichiarare fuori legge le richieste di sanzioni contro Israele nei forum internazionali.
Non sorprende che El-Had abbia affrontato una marea di minacce di morte.
Nel frattempo, un altro forum dell’ONU aveva esaminato l’occupazione di Israele. Il suo organismo educativo, scientifico e culturale, cioè l’UNESCO [L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura], il mese scorso ha fatto passare una risoluzione che condanna le sistematiche violazioni da parte di Israele
dei luoghi sacri palestinesi, specialmente di al-Aqsa.
Di nuovo gli israeliani si sono infuriati per questo breve disturbo al loro macchinario ben lubrificato dell’oppressione. Le violazioni, documentata dall’Unesco sono state oscurate dalle proteste israeliane che la sua narrazione, basata sulla paranoia della sicurezza e sul titolo della Bibbia, non era il fulcro del problema.
Mentre Israele esercita sempre più controllo fisico sui palestinesi, il suo credito morale si sta rapidamente esaurendo con le platee straniere che sono riuscite a capire che l’occupazione non è né benevola né temporanea.
L’aumento dei media sociali ha accelerato questo risveglio che ha sua volta ha rafforzato le reazione della gente comune come il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS).
Consapevole dei rischi, Israele ha preso di mira in maniera aggressiva tutte le forme di attivismo popolare. Facebook e Youtube sono sotto pressione implacabile per censurare i siti che criticano Israele.
I governi occidentali che si sono uniti al coro di “Je suis Charlie” dopo l’attacco letale dell’ISIL all’ufficio di Parigi del settimanale Charlie Hebdo, dell’anno scorso, hanno inasprito i controlli sul movimento BDS. Paradossalmente, la Francia ha fatto da guida a mettere fuori legge questo tipo di attivismo, facendo eco alle affermazioni di Israele che sostiene che questo costituisce “istigazione”.
E i movimenti sociali di sinistra che emergono in Europa affrontano forti accuse basate sul fatto che qualsiasi critica di Israele equivale a un attacco a tutti gli ebrei. In particolare, una commissione parlamentare britannica il mese scorso ha descritto come anti-semitiche delle parti del partito laburista guidato dal suo nuovo leader Jeremy Corbyn, un paladino dei diritti dei palestinesi.
In questi modi, i governi europei – timorosi di sconvolgere il protettore di Israele a Washington, hanno cercato di tenere sotto controllo la rabbia popolare verso Israele aggressivo e incorreggibile.
A illustrazione di questa cautela, la settimana scorsa l’UNESCO è stato costretto a votare una seconda volta per la sua risoluzione, eliminando, questa volta, la parola “occupazione” e, di nuovo, contrariamente alla prassi normale, dando pari status ai nomi dell’occupante per i luoghi minacciati dalla sua occupazione.
Anche avendo rimosso la risoluzione, non è stato possibile ottenere il solito consenso
dell’UNESCO. La risoluzione – spinta dai palestinesi e dagli stati arabi – è passata con una maggioranza sottilissima, mentre i governi europei e altri si sono astenuti.
Israele e i suoi “facilitatori” hanno con successo praticato uno “svuotamento” del discorso ufficiale su Israele per mitigare anche la critica più blanda.
Gradualmente, come il voto dell’Unesco e le esperienze di Corbyn nel Regno Unito evidenziano, le potenze occidentali stanno accettando le premesse doppiamente illogiche di Netanyahu, cioè che criticare l’occupazione è anti-israeliano, criticare Israele è anti-semita.
Gradualmente, i leader occidentali, ammettono ora che qualsiasi critica delle politiche di Netanyahu – anche quando tenta di assicurare che l’occupazione diventa permanente – è proibita.

mercoledì 9 novembre 2016

Referendum costituzionale: dieci riflessioni sul grande inganno

L’unico dato certo al momento è che gli elettori conservano ancora la facoltà di votare no. Per il resto, dai manifesti berlusconiani alle strategie del guru americano, l’offensiva governativa non tralascia alcun mezzo per “convincere” gli indecisi.
Mai si erano visti tanti spot televisivi per un appuntamento elettorale. Di certo non si sono visti per il referendum sulle trivelle. Nemmeno la grafica è stata trascurata. Il sì spicca candido nel riquadro bianco, mentre al no è riservato il riquadro nero, nel dubbio che le modalità di formulazione del quesito risultassero troppo obiettive.
Si supplisce con le furbate alla vacuità dei contenuti, puntando più a gabbare l’elettore che a persuaderlo, in quello che va sempre più assumendo i tratti del grande inganno.
Il teorema Boschi
Per portare, legittimamente, acqua al mulino della sua riforma, la ministra Boschi ha sviluppato una specie di teorema che dovrebbe scoraggiare dall’accostarla a Verdini poiché ciò equivarrebbe ad accostare l’ANPI a Casa Pound…
Il referendum costituzionale e la seconda freschezza di Renzi
Mi pare che ci sia un’asimmetria che salta agli occhi – e dovrebbe contribuire ad aprire gli occhi anche a chi poco si intende di questioni tecniche – nei due schieramenti sul referendum…
Si chiama Hunter l’asso nella manica del PD
In sostanza, quelli che sostengono la semplicità, la chiarezza e l’utilità della riforma chiedono a uno che viene dagli Stati Uniti in che modo spiegarlo ai cittadini…
Le preoccupazioni di JP Morgan per il futuro del nostro paese
Senza nulla togliere all’autorevolezza di personaggi del calibro di Moccia e Tamaro, è un dato di fatto che i sostenitori più illustri del sì al referendum costituzionale siano perlopiù stranieri. In prima fila JP Morgan…
Gli italiani, c’est moi
Perché Renzi si è sentito offeso quando Zagrebelsky ha paventato il rischio di una deriva oligarchica e cosa non ha capito bene…
I grandi investitori internazionali pronti a scattare il 5 dicembre
Bisogna riconoscere che Renzi ha una fame smodata di investimenti stranieri. Non ha ancora finito di contabilizzare le decine di miliardi di euro piombati in Italia grazie all’abolizione dell’art. 18, e già pensa di farne arrivare un’altra vagonata con la riforma della Costituzione…
Re Giorgio l’Offeso
Si racconta che Johnny Weissmuller nei suoi ultimi anni, confondendo ormai realtà e finzione, credesse di essere realmente Tarzan, del quale era stato in giovinezza il massimo interprete, e girasse per le corsie dell’ospedale lanciando il tipico urlo…
Il meno peggio secondo Cacciari
Tra le varie tesi a sostegno del sì, quella addotta da Cacciari è certamente la più originale, per quanto il criterio che ne è alla base difficilmente potrà essere applicabile ad altri ambiti…
Il bonus per i morti
“La manovra dei bonus” la definisce Repubblica, e se lo dice Repubblica, che non può certo essere annoverata tra i detrattori del premier, c’è da crederci. In effetti, il bonus è il…
Le anime morte
Non disponendo oggettivamente di supporter di peso per il referendum costituzionale, Renzi e Boschi, forse ispirati dalle vicende di Cicikov, protagonista de Le anime morte di Gogol, hanno arruolato i morti…

martedì 8 novembre 2016

Terremoti, la grande rapina del Governo sui fondi accumulati con le accise

Per far fronte alle opere di ricostruzione delle zone interessate dai terremoti del Belice (1968), del Friuli (1976), dell'Irpinia (1980), delle Marche/Umbria (1997), della Puglia/Molise (2002), dell'Abruzzo e dell'Emilia Romagna (2012) lo Stato in questi anni ha aumentato 5 volte le accise sui carburanti, consentendo all'erario di incassare in quasi 50 anni 145 miliardi di euro in valore nominale.
Se teniamo conto che il Consiglio Nazionale degli Ingegneri stima in 70,4 miliardi di euro nominali (121,6 miliardi se attualizzati) il costo complessivo resosi necessario per ricostruire tutte e 7 le aree fortemente danneggiate dal terremoto (Valle del Belice, Friuli, Irpinia, Marche/Umbria, Molise/Puglia, Abruzzo ed Emilia Romagna), possiamo dire che in quasi 50 anni in entrambi i casi (sia in termini nominali sia con valori attualizzati) abbiamo versato piu' del doppio rispetto alle spese sostenute. Solo i piu' recenti, ovvero i sismi dell'Aquila e dell'Emilia Romagna, presentano dei costi nettamente superiori a quanto fino ad ora e' stato incassato con l'applicazione delle rispettive accise.

L'Ufficio studi della CGIA, infatti, ha calcolato, sulla base dei consumi annui di carburante, quanti soldi ha riscosso lo Stato con l'introduzione delle accise che avevano la finalita' di finanziare la ricostruzione di 5 delle 7 aree devastate dal terremoto.
"Quando facciamo il pieno alla nostra auto- esordisce il coordinatore dell'Ufficio studi della CGIA Paolo Zabeo- 11 centesimi di euro al litro ci vengono prelevati per finanziare la ricostruzione delle zone che sono state devastate negli ultimi decenni da questi eventi sismici. Con questa destinazione d'uso gli italiani continuano a versare all'erario circa 4 miliardi di euro all'anno".

lunedì 7 novembre 2016

Il debito è un freno pericoloso per l’economia mondiale

Anche se sono passati più di otto anni dal crollo di Lehman Brothers, l’economia globale continua a soffrire di gravi problemi strutturali. Non solo il mondo non riesce a superare la bassa crescita, ma ancora peggio, il debito è cresciuto in modo esplosivo negli ultimi anni. Paesi industrializzati come Stati Uniti, Germania e Francia hanno visto l’aumento esponenziale dei debiti; e anche Paesi emergenti come Brasile e Cina. Indubbiamente, se il livello del debito continua a crescere, più prima che poi si assisterà allo scoppio di un’altra crisi finanziaria.
loan-consolidation1 Negli ultimi anni, il debito è aumentato in modo esplosivo. Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale (FMI), il debito del settore non finanziario globale, governi, famiglie e imprese non finanziarie, già supera i 150 miliardi di dollari; un volume pari al 225% del prodotto interno lordo (PIL) (1). Del totale, circa 100 miliardi di dollari corrispondono ai debiti di aziende private e famiglie; il resto è debito pubblico. Le economie industrializzate sono, a mio avviso, nella situazione più critica. Oltre a tassi di crescita troppo bassi, il debito, pubblico e privato, è aumentato a un ritmo senza precedenti. Il problema principale di ciò è che, a fronte di un elevato indebitamento, imprese e famiglie sono costrette a spendere una quota crescente di reddito per onorare i debiti, riducendo drasticamente le risorse destinate a investimenti e consumi. A questo punto si corre il rischio che l’acquisizione di debiti crei maggiori difficoltà nel processo di riduzione della leva finanziaria (deleveraging), minando l’ampliamento dell’economia produttiva e la creazione di occupazione; un circolo vizioso che potrebbe generare nuove bolle finanziarie e, da un momento all’altro, provocarne l’esito violento. D’altra parte, se si tiene conto del fatto che attualmente i tassi d’inflazione sono al di sotto del 2% (annui) in quasi tutti i Paesi industrializzati, non è folle pensare che una spirale combinata di debito e deflazione (caduta dei prezzi) sia una minaccia latente. L’altro grosso problema, come sostenuto in precedenza, è che l’artiglieria della banca centrale nel combattere la recessione o la crisi finanziaria, sia quasi esaurita (2). Allo stato attuale, i tassi d’interesse di riferimento sono molto vicini allo zero nei Paesi più industrializzati; pertanto il margine di manovra per ridurre ulteriormente il costo del credito interbancario è oggi quasi nullo. Secondo i calcoli di Bank of America Merrill Lynch, dopo la crisi del 2008 le banche centrali hanno ridotto di oltre 600 volte i tassi d’interesse di riferimento. Inoltre, hanno compiuto iniezioni di liquidità congiunta (3) per oltre 18 miliardi, secondo Bloomberg (4). A mio avviso, se il collasso dell’economia mondiale si aggrava, le banche centrali dei Paesi industrializzati dovranno intraprendere azioni più rischiose; per esempio usando strumenti già noti. La Federal Reserve (FED) degli Stati Uniti potrebbe rilanciare il programma di acquisti di titoli del Tesoro e iniziare l’acquisizione di altri titoli, non solo basati sui mutui (“titoli sui mutui”); mentre la Banca centrale europea (BCE) e la Banca del Giappone potrebbero di nuovo aumentare il volume degli acquisti di titoli. Va notato, inoltre, che vi sono diversi Paesi che hanno già avviato altre azioni di politica monetaria: riduzione dei tassi sui depositi negativi. L’obiettivo è scoraggiare le banche commerciali dal depositare liquidità in eccesso presso le banche centrali e favorire così il credito alle attività produttive. Tuttavia, finora i risultati di questa misura sono deludenti. L’imposizione di tassi di deposito negativi non ha funzionato come previsto (5). Inoltre, sembra che abbia aggravato la crisi di redditività delle banche. Attualmente, più di 10 miliardi di dollari di debito sono negoziati con rendimenti negativi, secondo i dati della Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI), una situazione che difficilmente porti benefici a banche, casse di risparmio assicurazioni e fondi pensione (6).
Nel frattempo, le economie emergenti non sono esenti da rischi dato che, anche se il debito pubblico è a livelli gestibili a differenza delle economie industrializzate, i volumi di debito privato registrano dimensioni colossali: le imprese che svolgono attività in Paesi come il Brasile hanno compiuto grandi emissioni di debito in dollari. Nel caso della Cina, considerata economia emergente d’importanza sistemica, molte aziende sono state finanziate da centri finanziari offshore (OFC, nell’acronimo in inglese) negli ultimi anni. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), il debito privato in Cina è oltre il 150% del PIL (7). Si aggiunga che non è facile per il governo cinese risolvere i problemi di eccesso di capacità in diversi settori dell’economia; in particolare quelli ancora pesantemente legati alla leva. Indubbiamente, un debito eccessivo è un ostacolo pericoloso per l’economia globale. Tuttavia, oltre al debito elevato, ostacolo all’espansione costante di un’economia, la peggiore minaccia è che, ad un certo punto, il nuovo ciclo d’indebitamento faccia detonare un’altra crisi finanziaria globale.

venerdì 4 novembre 2016

Brexit: abbiamo scherzato. La decisione del popolo non conta più niente e i mercati esultano

I tre giudici dell'Alta Corte britannica hanno pronunciato oggi una sentenza secondo cui il governo inglese non può invocare l'articolo 50 del trattato di Lisbona, cioè la clausola di recessione dall'Unione, senza prima passare da Westminster. Accettando l'argomentazione dei ricorrenti del Remain, l'Alta Corte ha dichiarato come non sia il governo ma il Parlamento (a stragrande maggioranza per restare nell'Unione Europea) che deve decidere.
Seguirà da parte del governo britannico del primo ministro inglese Teresa May un appello alla Corte suprema contro il verdetto dell'alta Corte, ma chiaramente si apre ora un'impasse istituzionale che allontenerà di molto l'inizio dei negoziati per l'uscita dall'Unione Europea del Regno Unito. Se mai inizieranno a questo punto.
Nigel Farage, ex leader dell'Ukip e principale sostenitore della Brexit, scrive su twitter di temere ogni tentativo di bloccare o ritardare l'azionamento dell'Articolo 50. “Non hanno idea del livello di rabbia popolare che provocheranno”, ha proseguito.
L'ex primo ministro Cameron, promotore del referendum, dopo una campagna intensa per il "Remain" si era impegnato a rispettare la decisione sovrana del popolo inglese, qualunque essa fosse. Quindi la popolazione del Regno Unito è andata alle urne consapevole che il suo voto avesse avuto un senso, non fosse solo consultivo ma avrebbe determinato una decisione in un senso o in un altro.
E' davvero incredibile pensare che trattati della portata del TTIP e CETA (che creano regimi veri e proprio in grado di sclafire diritti, libertà e modificare gli assetti politico-giuridici degli stati interessati) possano essere negoziati e firmati nella segretezza più assoluta dalle oligarchie finanziarie che controllano oggi la politica, mentre la decisione sovrana di una popolazione non viene mai rispettata.
Era accaduto con l'Irlanda, con la popolazione costretta a votare più volte finché non si è rassegnata ad accettare la decisione in linea con l'Unione Europea, con la Francia e l'Olanda, i cui referendum sono stati totalmente annullati di senso con la firma del trattato di Lisbona. E' accaduto in Grecia con il referendum contro l'asuterità. Accadrà anche nel Regno Unito?
La lotta per la liberazione dal regime dell'Unione Europea e dell'euro è lunga e oggi ne abbiamo avuto l'ennesima prova. Alcuni, in queste ore, esultano perché la "giustizia" ha compensato un "errore" della popolazione inglese. Si tratta del ragionamento meno democratico che possa esistere, da parte di chi, del resto, difende fino ai limiti del ridicolo l'esperimento meno democratico oggi vigente, l'Unione Europea.
“Se votare facesse qualche differenza non ce lo lascerebbero fare”, diceva Mark Twain. In giornate come queste le sue parole tornano di straordinaria attualità.

giovedì 3 novembre 2016

Crisi e guerra, la grande paura. E l’Fbi azzoppa la Clinton

Non è strano che, a una settimana dal voto, l’Fbi riapra le indagini sullo staff di Hillary Clinton, terremotando inevitabilmente i sondaggi, già in fibrillazione? Non è strano che il direttore della prestigiosa polizia federale osi un gesto simile, alla vigilia dell’election day, come se non ne temesse le conseguenze? Forse non è poi così sorprendente, se si rileggono – oggi, a qualche mese di distanza – alcune ricostruzioni provenienti dall’Italia: Trump non è (solo) la “bomba a mano” incontrollabile descritta dai media mainstream, ma è anche e soprattutto una “scommessa coperta”, un Cavallo di Troia abilmente lanciato nel campo repubblicano alla stessa élite super-massonica “progressista” che, nel campo opposto, aveva appoggiato il socialista Bernie Sanders. Trump doveva servire a fermare Jeb Bush, Sanders a ostacolare l’ascesa della Clinton. Oggi questo ruolo è stato ereditato dallo stesso Trump, ma il copione non cambia. E il “pericolo” non è Hillary, ma i poteri fortissimi che l’hanno scelta come esecutrice del loro volere, così come scelsero personaggi “neocon” come Victoria Nuland, introdotta nel team di Obama con l’obiettivo di destabilizzare la Russia attraverso la sfida alle frontiere, cominciando dal golpe in Ucraina travestito da rivoluzione.
L’escalation a Kiev fu decisa in risposta alla decisione di Putin di schierarsi in difesa della Siria: un cambio di rotta radicale, dopo che il Cremlino aveva assistito passivamente all’ultima puntata della “guerra infinita”, la demolizione della Libia. Dietro James Comey, direttore dell'Fbile quinte, a Washington, a fare la prima mossa sono sempre loro, gli uomini del Pnac, quelli del “nuovo secolo americano”, protagonisti delle guerre di Bush innescate dall’11 Settembre. E’ il famigerato super-vertice globalizzatore, finanziario e militare, “l’Impero”. Non tollera l’idea che gli Stati Uniti possano perdere i propri immensi privilegi, che sorreggono il tenore di vita (e i clamorosi profitti dell’élite), e per questo è pronto a tutto – anche una Terza Guerra Mondiale, nucleare? Ne è convinto l’ex viceministro di Reagan, Paul Craig Roberts, secondo cui i grandi media – sotto Obama – hanno coperto una sostanziale “dittatura” instauratasi alla Casa Bianca, dove il presidente non è il che il terminale, sempre più opaco, di micidiali gruppi di interesse, completamente irresponsabili e ormai anche in preda al panico, ossessionati dalla paura di perdere il loro smisurato potere. Recenti sondaggi, dice Marcello Foa, rivelano che il 70% degli elettori statunitensi non credono più ai grandi media, dai network televisivi al “New York Times”, tutti schierati con la Clinton e ridotti a mero strumento di propaganda dell’establishment, di cui Trump è visto come antagonista.
«Illusionismo, puro gioco delle parti», sostiene Fausto Carotenuto, analista internazionale, ai microfoni di “Border Nights”: «Si scontrano due gruppi di potere, sempre gli stessi: uno è definito conservatore, quello che appoggia la Clinton, e l’altro si definisce progressista ma è ancora più ipocrita del primo, perché in fondo persegue gli stessi scopi». Super-massoneria occulta: quella che Gioele Magaldi, progressista, ha messo in piazza tra le pagine del libro “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere). Un altro esponente della cultura massonica italiana, Gianfranco Carpeoro, autore del recentissimo saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Uno Editori), avverte: «La novità è che il vertice di quel potere è spaccato, come dimostra l’appoggio dato a un candidato come Sanders». Grandi defezioni, nelle alte sfere, avrebbero propiziato la stessa candidatura Trump. Diserzioni così preoccupanti, secondo Carpeoro, da spingere “l’ala destra” del super-potere a ricorrere in modo sistematico anche alla strategia della tensione, come si deduce dal moltiplicarsi di sanguinosi attentati in Europa, organizzati da quella che CarpeoroCarpeoro chiama “sovragestione”, ovvero: elementi di vertice che si avvalgono di settori dei servizi segreti, che all’occorrenza reclutano kamikaze jihadisti, accuratamente “coltivati”.
Il vertice della piramide è diviso? Lo conferma il testa a testa fra Hillary e Trump. E una delle massime eminenze grigie del super-potere massonico, Zbigniew Brezinzki, qualche settimana fa aveva avvertito: ora basta con la guerra fredda, è tempo di sedersi attorno a un tavolo con Putin e coi cinesi, perché questa escalation porta solo al rischio di una catastrofe. Attenzione: Brzezinski è stato uno dei massimi architetti della globalizzazione “imperiale”. Il pericolo di un collasso è concreto, sostiene Giulietto Chiesa: «I padroni universali sanno quello che sta succedendo, e più o meno – tra di loro – se lo dicono». Chiesa cita dichiarazioni recenti, molto inquietanti: da Rockefeller, secondo cui «la Terza Guerra Mondiale è inevitabile: dovremmo metterci d’accordo coi russi, ma temo che non ce la faremo», a Rotschild, che avverte: «Sta per terminare il più grande esperimento finanziario mai realizzato nella storia», la finanza monetarista svincolata dall’economia reale, «e adesso stiamo entrando in acque inesplorate». Larry Summers, ex segretario al Tesoro, aveva profetizzato: la crescita del Pil mondiale si fermerà attorno al 2005. «Ci stanno dicendo che si sta De Benedettiavvicinando una catastrofe, la fine di questo capitalismo finanziario. Non c’è da stupirsi, quindi, dei preparativi di guerra cui stiamo assistendo».
Tra i nuovi “catastrofisti” si iscrive anche il finanziere Carlo De Benedetti, che al “Corriere della Sera” dichiara: «Sta arrivando una crisi gigantesca, che metterà in forse tutta la democrazia nel mondo». Giulietto Chiesa è pessimista: «Tutti quelli che pensano che non succederà niente, perché alla fine ci si metterà d’accordo, si sbagliano. Non sono “i cattivi” che vogliono la guerra, è la situazione che non è sanabile: siamo governati da imbecilli, in un mondo totalmente diviso tra ricchi e poveri come mai nella storia dell’umanità». Lo stesso Carpeoro, nei mesi scorsi, è tornato più volte sul tema: «Il nuovo ordine mondiale è fatalmente incompiuto, provano sempre a realizzarlo ma non ci riescono mai fino in fondo, perché litigano tra loro». Una rissa pericolosa, che può anche esplodere – sotto forma di terrorismo e bombe, domani anche atomiche? Difficile credere che tutto sia appeso, davvero, al solo parrucchino di Trump: non può essere un caso che un super-potente come James Comey, capo dell’Fbi, scenda in campo – a due passi dal voto – per tentare di sbarrare la strada della Casa Bianca ai “padroni” di Hillary Clinton, i “signori della guerra”. Zero fair-play, dicono i commentatori mainstream: la campagna più brutta della storia delle elezioni Usa. Forse anche la più drammatica, cruciale, pericolosa.

mercoledì 2 novembre 2016

Questo è un golpe di fatto, e va fermato con il nostro No

Mentre Obama sbaracca, la pacchiana cena di propaganda alla Casa Bianca conclude la sua disastrosa presidenza su una nota particolarmente squallida. Come Verdini e Alfano anche Obama sostiene la riforma renziana. L’appoggio del Supercazzaro degli Stati Uniti uscente, anzi ormai quasi uscito, potrebbe però essere controproducente per il sì almeno quanto quelli della Merkel, e della finanza internazionale. La riforma renziana, che sapeva chiaramente di sóla fin dall’inizio, adesso ha la stessa credibilità d’un farmaco consigliato da una ditta di pompe funebri. Non ci sono più dubbi su chi siano i mandanti di Renzi: abbiamo le rivendicazioni. Anche il fronte opposto ha purtroppo qualche Captain Boomerang, Monti, D’Alema, Brunetta, la Suicide Squad del no: un gruppo di bastardi costretti dalle circostanze a combattere dalla parte giusta, contro un bastardo ancora peggiore. Per quanto sia difficile immaginarsi Giorgia Meloni nei panni di Harley Quinn, la vittoria del no rimane comunque più che mai necessaria.
L’endorsement di Obama al sì di Renzi è infatti direttamente condizionato all’impegno militare italiano in Libia e in Lettonia. Il no alla truffaldina riforma renziana è quindi anche un indispensabile no alla dissennata deriva neocoloniale. Un no alla Obama e Renziguerra. Non a caso una delle modifiche, della quale il governo non parla, riguarda proprio l’articolo 78, che cambierebbe così: «Art. 78. – La Camera dei deputati delibera a maggioranza assoluta lo stato di guerra e conferisce al Governo i poteri necessari». Con l’Italicum, il partito che vince il ballottaggio ottiene automaticamente la maggioranza assoluta alla Camera, quindi sia il governo, che il potere esclusivo di dichiarare guerra indisturbato come un monarca assoluto. Questo è un golpe di fatto, e deve essere fermato.
Per la prima volta da anni un nostro voto potrà davvero fare la differenza. E non certo per merito dell’attuale classe dirigente, è la Costituzione che vuole rottamare a prevedere questo obbligatorio passaggio referendario, un fail safe che Renzi non è riuscito ad aggirare, benché ci abbia provato col Patto del Nazareno. Per la prima, e probabilmente ultima volta abbiamo l’occasione di scaraventare la Boschituzione – Costituzione Boschi – nel cassonetto dell’indifferenziata al quale appartiene, e liberarci d’un governo di cazzari arroganti, incapaci, guerrafondai, completamente asserviti alla finanza internazionale e all’industria bellica, che è diventato anche fisicamente pericoloso. Perdere questa occasione per noi sarebbe il vero suicidio.