venerdì 30 ottobre 2015

La disoccupazione cresce a livello globale. Italia tra gli ultimi paesi per quanto riguarda il lavoro ai giovani

A livello globale, la disoccupazione cresce, mentre fra gli occupati diminuisce la percentuale di quelli che hanno un’occupazione stabile. Inoltre, si allarga la forbice fra salari e produttività, perché la seconda cresce più rapidamente dei primi. Sono queste le principali tendenze che emergono dal rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro che è stato presentato a Roma. L'Italia è tra gli ultimi paesi al mondo per quanto riguarda la disoccupazione giovanile.
La International Labour Organization (Ilo), ovvero l’agenzia delle Nazioni Unite basata a Ginevra, e dedicata alle problematiche
del lavoro, svolge infatti una ricerca annuale, il World Employment and Social Outlook (Prospettive occupazionali e sociali nel mondo). I contenuti dell’edizione 2015, intitolata The changing nature of jobs, ovvero La natura del lavoro: cambiamenti in corso, sono stati illustrati da Raymond Torres, direttore del Dipartimento ricerche della stessa Ilo, nel corso di un’iniziativa organizzata dalla Cgil e dalla Fondazione “Di Vittorio”.
“Il mondo del lavoro sta cambiando profondamente”, esordisce la sintesi della ricerca. E ciò accade in una fase in cui l’economia, a livello globale, non riesce a creare “un sufficiente numero di posti di lavoro”. Passando dalle parole ai numeri, l’Ilo “stima che il dato sulla disoccupazione”, a livello mondiale, “abbia raggiunto i 201 milioni nel 2014”, ovvero “oltre 30 milioni in più rispetto a prima dell’inizio della crisi globale, nel 2008 ”.
Nel corso del dibattito successivo alla presentazione, svoltasi presso il centro confederale Cgil in corso d’Italia, è poi intervenuto, fra gli altri, Gianni Rosas, direttore della sede romana dell’Ilo. Rosas ha offerto alcuni risultati di un’altra ricerca della stessa Ilo,
intitolata Global Employment Trends for Youth 2015 (Tendenze globali dell’occupazione giovanile 2015), secondo cui il tasso di
disoccupazione giovanile “si è stabilizzato al 13%”. Tale tasso “rimane quindi superiore al livello pre-crisi”, che era pari all’11,7%. Da questo punto di vista, è particolarmente allarmante il dato relativo all’Italia che, con un tasso di disoccupazione giovanile pari al 42,7%, si colloca al quarto posto fra i paesi dell’Unione Europea. Purtroppo, in questo caso, si tratta di una classifica in cui è meglio arrivare fra gli ultimi piuttosto che fra i primi.
Da notare che, come ha sottolineato Fulvio Fammoni, presidente della fondazione "Di Vittorio", l'Ilo è "un'organizzazione tripartita, formata da governi, sindacati e associazioni d'imprenditori". Ciò nonostante, ha osservato ancora Fammoni, è evidente che i contenuti del rapporto stanno "in evidente controtendenza" rispetto alle "politiche di austerità e di deregolazione" seguite da vari governi negli anni più recenti

giovedì 29 ottobre 2015

La Strategia occulta di Washington in Siria

Il sostegno incondizionato ad una fazione che combatta lo Stato Islamico è divenuta la prerogativa principale da mostrare all’opinione pubblica per giustificare il cambiamento strategico in atto. L’impressione che solo la Russia stia combattendo efficacemente il pericolo terrorista, con il rischio che l’Iraq chieda un intervento di Mosca sul proprio territorio, sta lentamente ma inesorabilmente consumando la credibilità degli USA e dell’amministrazione Obama in medio oriente.
L’idea è quindi favorire apertamente i Curdi per ridisegnare alcuni scenari in Medio Oriente:
Dividere l’Iraq in tre stati separati: uno controllato dai Curdi, uno dalle tribù sunnite e uno in mano dalle milizie Sciite.
Strappare alla sovranità della Repubblica Araba Siriana territori attualmente occupati dai Curdi.
Favorire la disarticolazione della RAS a favore di altre nazioni come Israele nel Golan per proteggere i loro interessi energetici (vedasi genie energy)
Il Kurdistan
La creazione del Kurdistan ha lo scopo immediato di favorire il raggiungimento di molteplici obiettivi strategici che darebbero benefici innegabili agli Stati Uniti:
– Impedire la creazione di un arco sciita tra Iraq-Iran-Siria. Antico desiderio di una potenza regionale come Arabia Saudita.
– Creare una No-Fly-zona sopra al Kurdistan, una volta ripulito dai terroristi di Al Qaeda/IS, rinforzandola con gli aerei Nato-GCC per sfidare apertamente la sovranità della Siria e la copertura aerea di Mosca. In questa maniera impedire all’esercito Siriano di riconquistare i territori Kurdi.
– La creazione di uno Stato Kurdo avrebbe ripercussioni sulla Repubblica Islamica Iraniana che ospita circa 5.5 milioni di curdi sul suo territorio.
La somma di questi fattori spinge l’evolversi della situazione in Medio Oriente in una direzione ben precisa. Si tratta di una strategia, occulta, totalmente a vantaggio di Washington e si basa sul protrarre uno stato di perenne caos nella regione.
– Per gli Stati Uniti appoggiare i Curdi significa automaticamente mettere enorme pressione sui confini della Turchia di Erdogan per la questione Kurda-PKK.
– La naturale reazione di Ankara, Riad e Doha, i paesi maggiormente coinvolti con lo Stato Islamico e Al CIAeda, sarà facilmente intuibile: incrementare le forniture di armi e uomini ai terroristi con la speranza di controbilanciare il peso Kurdo nella regione e quindi raggiungere l’obiettivo ultimo di abbattere Assad
Con questa strategia gli Stati Uniti otterrebbero numerosi vantaggi nei confronti di quasi tutti gli attori medio orientali.
Gli alleati avrebbero mano libera nel perseguire i loro obiettivi regionali, causando un aumento dello scontro, base infiammatoria necessaria per mantenere una situazione di perenne caos. I nemici vivrebbero una situazione negativa con l’impossibilità di ridurre le tensioni e il livello dello scontro per raggiungere una pax politica.
Non è da escludere che l’attuazione delle strategie viste fin qui non ottengano l’effetto opposto a quelle desiderate da Washington. Le recenti strategie importate in Medio Oriente dai policy makers statunitensi sono state un susseguirsi di fallimenti negli ultimi anni. Un inasprirsi del conflitto, grazie alle logiche distruttive di Washington, potrebbe forgiare ed attivare la partecipazione militare della Repubblica Popolare Cinese in Medio Oriente.
Questo scenario marcherebbe il sigillo finale al modello mondiale Unipolare e l’inizio di una nuova realtà multipolare in una delle zone più importanti del mondo.

mercoledì 28 ottobre 2015

Blair, il mentitore seriale, "si scusa" per l'Iraq

Non c'è limite alla delinquenza politica. E Tony Blair è un campione del genere. La lista delle sue “imprese” è lunghissima – dalla trasformazione del Labour in un partito di destra (come piaceva tanto a Uòlter Veltroni) fino alle guerre volute dagli Stati Uniti – ma viene per tutti il momento del bilancio.
Se però prova a farlo in prima persona il rischio di cadere nel ridicolo è immediato. È accaduto ieri, quando ha “chiesto scusa” per la guerra in Iraq. Non potendo darsi dell'imbecille da solo, ha continuato a mentire come faceva abitualmente da Downing Street (il mestiere di spin doctor è diventato centrale per qualsiasi regime politico proprio a partire da quegli anni).
Per esempio: «Posso dire che mi scuso per il fatto che l’intelligence che abbiamo ricevuto era sbagliata, perché nonostante Saddam avesse usato le armi chimiche in maniera estensiva contro la sua stessa popolazione, il programma di riarmo non esisteva nella forma che noi avevamo pensato». Come sottolineano tutti i commentatori che non hanno perso l'uso del cervello, quel programma era stato già dichiarato inesistente dai commissari dell'Onu – guidati da Hans Blix – che per mesi avevano cercato traccia delle “armi di distruzione di massa” di cui avrebbe dovuto disporre Saddam. E ciò nonostante lui e Bush mandarono l'ex generale Powell a recitare una penosa scena (una boccetta con polvere bianca) che doveva costituire “la prova” sufficiente a scatenare la guerra.
Quindi Blair mentiva allora e continua a farlo oggi, scaricando sull'intelligence una responsabilità totalmente sua e di Bush (più dell'amerikano, è ovvio).
Ma non c'è limite, dicevamo. «Mi scuso per gli errori commessi nella pianificazione, e certamente per il nostro errore nel capire cosa sarebbe accaduto una volta che avessimo rimosso il regime». Un'ammissione del genere, se fosse sincera, equivale dichiararsi un incompetente totale nella materia che pretende di padroneggiare: la politica. Qualsiasi studente di scienze politiche, di qualsiasi facoltà in giro per il mondo, sa benissimo che in paesi “disegnati sulla carta” (Sykes-Picot, 1915), caratterizzati da una struttura sociale tribale, con forti divisioni religiose e nazionali (sciiti, sunniti, curdi, ecc), la caduta di un regime dittatoriale o avviene per processi interni (in cui si seleziona anche il ricambio politico) oppure, se imposta dall'esterno, si traduce in una “semplice” distruzione dello Stato. Ovvero apre il portone a una guerra civile permanente, di tutti contro tutti. In cui emergeranno tutte le possibili figure, tranne che quella della “democrazia occidentale”.
E infatti le “scuse” di Blair non toccano il cuore della questione: «Trovo difficile scusarmi per aver rimosso Saddam. Io penso, anche oggi nel 2015, che sia meglio che lui non sia più là». Non ci sarebbe stato comunque, probabilmente, per questioni di età o di manovre di palazzo. Il problema non è infatti il singolo, ma la struttura di un potere: che non aveva nulla in comune con i regimi delle nostre latitudini, ma era almeno laico e “tollerante” in materia di religione (Tareq Aziz, vicepresidente e ministro degli esteri, era un cristiano).
Peggio ancora per quanto riguarda la responsabilità di avere almeno indirettamente favorito la nascita e la diffusione dell'Isis. «Ovviamente non posso dire che noi che rimuovemmo Saddam nel 2003 non abbiamo responsabilità per la situazione nel 2015». Quindi «ci sono elementi di verità» nel sostenere che l’invasione dell’Iraq è stata la causa principale della nascita dell’Isis. Ma il tentativo di cambiare le carte in tavola è più forte di lui. E quindi si suicida sul piano della logica: «l’Isis è emerso dalla sua base in Siria».
Ovvero nell'ambito delle milizie armate e finanziate da Usa, Gran Bretagna, Arabia Saudita e emirati del Golfo per rovesciare il regime di Assad senza impegnarsi direttamente in un'altra guerra. Un puzzle ormai definitivamente sfuggito dalle mani degli apprendisti stregoni che l'avevano assemblato.
Un delinquente abituale, reo confesso ma che pretende di occupare ancora un ruolo (ottimamente retribuito, ci mancherebbe). Un essere così spregevole che nessuno, stavolta, azzarda una sua pur minima difesa. Anzi.
Il commento dedicatogli da Alberto Negri, su IlSole24Ore, dà probabilmente la misura del disprezzo che attualmente circonda l'ex “mister Terza via”-

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La pistola fumante
Fino al 27 maggio 2015 Tony Blair ha ricoperto l'incarico di inviato per la pace nel Medio Oriente del Quartetto per il Medio Oriente, su mandato di Onu, Unione europea, Usa e Russia. Non ha lasciato nulla di notevole se non le note spese. Si fregia ancora della Medaglia d'oro concessa nel 2003, anno della guerra in Iraq, dal Congresso degli Stati Uniti con la seguente motivazione: “L'America ha molti alleati ma come abbiamo visto in questi ultimi mesi, si può contare sulla Gran Bretagna nell'adempimento delle funzioni di un vero amico in tempi difficili. Plaudo la straordinaria alla leadership di Tony Blair e al suo continuo appoggio agli Stati Uniti”.
Tony Blair chiede scusa per la guerra in Iraq, dice che lui e Bush si sono sbagliati: non è vero, hanno contraffatto le prove sulle armi di distruzione di massa e mandato all’Onu il 5 febbraio il segretario di Stato americano Colin Powell agitando la famosa fiala contenente una polvere bianca per convincere l’America e il mondo intero dell’esistenza della cosiddetta “smoking gun”, la pistola fumante, la prova mai provata dell’esistenza dell’antrace e delle micidiali armi batteriologiche nelle mani di Saddam Hussein.
L’ultimo incontro che ebbi con Tarek Aziz, l'ex ministro degli Esteri iracheno e vicepresidente, fu proprio quel giorno di febbraio del 2003. Indossava un impeccabile abito blu e aveva appena ricevuto il leader comunista Armando Cossutta che tentava un'impossibile mediazione. Eravamo a poche settimane dall'attacco americano che avrebbe segnato il destino del regime e quello del Medio Oriente, almeno fino a oggi e chissà per quanti anni ancora.
Tarek Aziz diede un'occhiata distratta al televisore, sintonizzato sulla Cnn dove stava parlando Powell, e continuò a firmare le carte accumulate sulla scrivania. Poi sollevò lo sguardo e disse: “Gli americani ci farebbero la guerra comunque, anche se consegnassimo fino all'ultimo dei nostri fucili”. Fuori noi giornalisti inseguivamo le squadre dell’Onu a caccia delle prove sulle armi di distruzione di massa che non si trovavano mai.
Ora Blair rilascia interviste a destra e manca: è un infingardo che tenta di riciclarsi? L’unica pistola fumante che abbiamo trovato in Iraq sono lui e Bush, semplicemente due imbroglioni che hanno scoperchiato il Vaso di Pandora.

martedì 27 ottobre 2015

Eurostat: Italia ha la più alta percentuale di disoccupati che sono diventati inattivi

Secondo il report appena uscito sui flussi del lavoro in Europa di Eurostat, l’Italia con il 35,7% è il Paese in cui è maggiore la percentuale di disoccupati che dal primo trimestre del 2015 al secondo sono passati ad essere inattivi. La media UE è del 16,8%.
Per inattivi si intende quella parte della popolazione attiva (15/74 anni) che, per qualsiasi motivo, non sono o non sono più alla ricerca di un lavoro: ad esempio perché sono studenti, pensionati, hanno rinunciato a cercare un lavoro, o non lo vogliono, o sono diventati casalinghi/e.
Normalmente gli inattivi, tranne gli studenti ed i pensionati che sono più o meno in numero costante nel breve, sono persone che hanno rinunciato ad entrare nel mercato del lavoro in quanto sfiduciati di poterne trovare uno. Un forte aumento tra un trimestre e l’altro significa pertanto che sono aumentati di molto quelli che hanno abbandonato, almeno temporaneamente, la prospettiva di un impiego.
Secondo il report i disoccupati che hanno trovato un impiego (tecnicamente per impiego si intende almeno un ora lavorata nella settimana di riferimento statistico) tra il primo ed il secondo trimestre del 2015 sono il 16,1%, sotto la media UE che è il 18,6%. Peggio di noi solo Grecia (8,6%), Bulgaria (10,7%), Slovacchia (13,4%) e Polonia (15,8%). Il maggior incremento di occupazione si è avuto nel periodo in Islanda (49%), Danimarca (38,4%), Svizzera (34,8%) e Svezia (29,6%).
In Italia quindi le riforme del mercato del lavoro non sembrano per adesso aver portato ad un incremento significativo degli occupati (ricordiamo che per l’ISTAT il saldo netto era di 92.000 unità circa), ed il clima di sfiducia a breve/medio termine sulla possibilità di ripresa economica, nonostante i fin troppo sbandierati segnali di lieve inversione di tendenza, stanno portando ad una radicalizzazione della disoccupazione con la rinuncia a cercare un lavoro, cosa che migliora le statistiche della disoccupazione “attiva”, che considera disoccupato chi comunque è alla ricerca fattiva di un lavoro, iscrivendosi nei centri di collocamento, statistiche spesso utilizzate dal Governo per i suoi proclami di ripresa economica, ma, in realtà, peggiora fortemente le prospettive future del Paese.

lunedì 26 ottobre 2015

Come gli Stati Uniti usano gli estremisti

Sono sorti molti dubbi, domande, dilemmi, riguardo alla condotta contraddittoria dell’Occidente quando si occupa di movimenti estremisti. L’Occidente ha sfruttato questi movimenti in Afghanistan alla fine degli anni ’70, li ha contrastati nella Penisola Araba negli anni ’90, e poi ha dato il via a una guerra contro di loro in Afghanistan nel 2001, e in Iraq dopo l’invasione del 2003. Nel 2011, però, l’Occidente è tornato a trarre vantaggio da questi gruppi estremisti e attualmente ci troviamo di fronte ad una connessione occidentale piuttosto vaga con l’ISIS.
Il motivo che sta dietro ai dubbi e ai punti di vista diversi, è che le analisi sono basate su paradigmi mentali relativamente rigidi che non riescono a procedere in conformità
con la flessibilità e la segmentazione pragmatica della mentalità da cowboy. D’altra parte, in molti casi l’ allineamento dei gruppi estremisti con l’Occidente, ha indotto le potenze che sono contrarie a questi gruppi ad accusarli di condotta sleale.
Questo è corretto, ma si ottiene tramite lo schema occidentale di controllo indiretto di questi gruppi. Tale controllo è dovuto al disordine ideologico e strategico di cui essi soffrono, e all’atteggiamento di disapprovazione che mantengono coloro che fanno parte della loro infrastruttura, di un ambiente di supporto e delle loro forze che si mobilitano, verso qualsiasi collegamento con gli Stati Uniti – non parliamo poi di una completa alleanza con l’America. Questo è ciò che indicano le variabilità delle relazioni dal 1979 fino a questi giorni.
Un altro fattore che ha fatto disdegnare questi dubbi è la veemente autodifesa che i “takfiri” dimostrano quando vengono accusati di avere rapporti con gli Stati Uniti o con qualsiasi nazione che si conformi all’America o che ruoti attorno ad essa.
L’esame del percorso di questo movimento porta a un modello specifico che fa vedere come il rapporto con l’Isis sia controllato dalle potenze occidentali con a capo gli Stati Uniti. Questo modello comprende tre aspetti:
1) Commissione 2) Indirizzare 3) Limitare
Ognuno di questi aspetti forma un insieme di strumenti che gli Stati Uniti scelgono a seconda del periodo e della condizione che ritengono appropriata. Non necessariamente traggono vantaggio da tutti questi aspetti in modo simultaneo.
1) Commissione
Questa politica dipende dalla valutazione di quale area geografica sia la più adatta al movimento di gruppi estremisti, ma a condizione che questi movimenti non pongano una minaccia per gli interessi americani e che forniscano anche un vantaggio strategico. Questa politica è realizzata secondo le circostanze e tramite certi mezzi che vengono scelti in base al tempo e luogo. Ecco cinque mezzi essenziali.
1) Controllare i domini geografici: indebolire il controllo di un paese nella regione di riferimento con trambusti, tumulto politico, accordo politico, e insurrezioni nazionali, come è successo in Siria nel 2011, e a Mosul (Iraq) nel 2014.
2) Assicurarsi le strade per la logistica: assicurarsi le strade affinché gli estremisti raggiungano le regioni-obiettivo sia per terra, per mare, per aria. Forniscono anche visti e anche mezzi di trasporto per raggiungere l’area di conflitto. Hanno usato l’Egitto, il Pakistan e lo Yemen come transiti durante la guerra in Afghanistan nel 1979, e la Turchia e la Giordania durante la Guerra alla Siria nel 2011.
3) Permettere aiuto finanziario e per gli armamenti; dare l’approvazione alle potenze loro alleate che desiderano appoggiare i gruppi estremisti con denaro e armi sia direttamente che indirettamente (tramite alcune istituzioni e commercianti di armi).
La distribuzione e l’organizzazione dell’aiuto finanziario è fatto in modo che venga svolto in base al tempo che assicuri l’imposizione di una linea strategica per i gruppi estremisti.
Gli Stati Uniti potrebbero anche ricorrere al rifornimento diretto di armi in casi di eccezioni tattiche, come il lancio dagli aerei di armi ed equipaggiamento per i combattenti dell’Isis a Kobane, fatto più di cinque volte, e presentare questa azione come “un errore”.
4) Trasporto: espellere gli estremisti dai paesi che sono danneggiati dalla loro esperienza o dai paesi che desiderano trarre vantaggio da loro.
5) Facilitare l’opera dei predicatori: permettere ai predicatori estremisti di adempiere alla loro attività di diffondere l’ideologia estremista e di mobilitare i “takfiri” nelle zone di trasferimento, alla partenza e all’arrivo. Ai predicatori estremisti viene anche permesso di diffondere le loro opinioni sulle stazioni della televisione satellitare e media differenti.
2) Indirizzare
Questa politica si basa sui tentativi da fare con i media, per la mobilitazione, e nel campo di azione per dirigere la priorità strategica dei gruppi estremisti verso il movimento in una sfera soltanto, per mirare a un nemico specifico o anche per cambiare il corso strategico e tattico in una certa fase. Tutto questo è fatto secondo le circostanze, le necessità e la capacità.
Gli Stati Uniti sono molto attivi in questo dominio con l’aiuto dei loro alleati regionali e internazionali. Raggiunge il suo scopo per mezzo di nove mezzi principali.
1)Specificare il “nemico preferibile”: gli Stati Uniti hanno creato delle “stelle” nell’ambiente dei “takfiri” per i loro propri scopi e interessi. Mettono in luce i comandanti o opportune fazioni estremiste, inserendole nella lista dei terroristi. Li mettono al centro dell’attenzione sui media e li scelgono in modo tale che la loro importanza sulla scena politica porta a successi politici regionali e internazionali. Per esempio, all’inizio della guerra al’Iraq, Colin Powell, proclamò che il nemico degli Stati Uniti era al-Zarqawi (terrorista internazionale giordano). La macchina dei media statunitensi lo mise sotto i riflettori in modo che divenne un personaggio preminente sulla scena e che il conflitto si spostò considerevolmente verso una lotta irachena interna.
Questo è ciò che ha fatto Israele pochi mesi fa quando ha imposto a Jabhat Nusra di assegnare a certi comandanti incarica il controllo delle posizioni lungo le Alture del Golan che erano sotto minaccia di intervento militare.
2) Assassinare i comandanti: prendere di mira i leader estremisti che costituiscono una minaccia per la sicurezza nazionale americana o occidentale, o leader la cui influenza nella regione influisca negativamente sullo schema di indirizzare e sfruttare. Per esempio, l’uccisione di Osama bin Laden, di Ayman Al-‘Awlaqi, e della maggior parte dei comandanti di al-Qaida in Yemen.
3) Media arabi e internazionali: comunicare concetti ideologici e provocatori che esacerbano i gruppi estremisti e li esortano a dirigersi verso una certa regione presa come obiettivo per combattere la parte che l’America sceglie.
4) Gli ecclesiastici dell’Arabia Saudita: l’istituzione religiosa arabo saudita riveste un ruolo fondamentale distribuendo ordini che dichiarano la jihad in una regione presa come obiettivo.
5) Violazioni della sicurezza: reclutare, mandare uomini occidentali ”islamizzati” a combattere, il ruolo dei servizi segreti arabi, detenzione, attrarre un ambiente solidale che è scontento della condotta degli estremisti. Le prigioni hanno un ruolo fondamentale nel reclutare i comandanti e figure preminenti in modo esplicito o indiretto.
6) Assumere il comando dei conflitti; gestire la crisi nella regione obiettivo in un modo che ottenga gli scopi degli Stati Uniti, e conservi il potere estremista controllabile e sfruttabile per mezzo di operazioni sospette e di modi diversi usatti per indirizzare.
7) Provocare un adeguato ambiente di lotta; creare uno scenario di conflitto in cui le forze riunite dei gruppi estremisti sono presentate come gli obiettivi, gli oppressi, e coloro che sono stati invasi – come nel caso dell’Afghanistan e della Siria.
8) Dividere le fazioni dei “takfiri”. Creare conflitti, scontri tattici nel campo di combattimento, e produrre una serie molteplice di obiettivi e di priorità con mezzi diversi per impedire la formazione di un potere unificato – come nel caso dello scontro tra Isis e Jabhat al-Nusra in Siria.
9) Teorizzazione strategica: presentare piani strategici onnicomprensivi che rappresentano l’interesse dello schema estremista nello spazio geografico preso come obiettivo. I servizi di sicurezza si infiltrano nel mondo virtuale della jihad Salafita e creano i loro propri siti salafiti, e in alcuni casi hanno il vantaggio di poter reclutare alcuni ideologi con la coercizione o con strumenti persuasivi in prigioni segrete; quegli ideologi sono in grado di far spostare il paradigma quando è necessario.
3) Limitare
Le fazioni dei takfiri lottano per mantenere i loro piano di azione – malgrado la grande influenza degli Stati Uniti e dei loro agenti – per mantenere il loro rango tra le forze che si arruolano e le autorità politiche. E’ necessario che le potenze occidentali frenino i gruppi takfiri per impedire loro che superino i limiti strategici o militari e lo realizzano questo con la forza o il controllo delle loro entrate.
La regolamentazione è basata su sei mezzi essenziali:
1) Confronto Diretto: condurre operazioni militari dirette per attaccare le forze importanti dei takfiri o quelle che costituiscono una minaccia, come, per esempio, nel caso dell’Afghanistan nel 2001.
2) Limitare l’aiuto finanziario e gli armamenti; monitorare il flusso di denaro e di armi, la loro quantità, il tipo e la tempistica. Decretano anche i limiti che impediscono ai takfiri di diventare una minaccia e allo stesso tempo permettono loro di agire in un modo che sia di beneficio agli Stati Uniti, come nel caso della Siria fin dal 2011.
3) Controllo geografico. Quando è necessario, le forze armate degli Stati Uniti o i loro alleati sparano alle posizioni dove i takfiri costituiscono una minaccia presente o futura, come hanno fatto le forze della coalizione quando i combattenti dell’Isis sono entrati a Irbil.
4) Fornire un sostituto geografico. Se i gruppi takfiri aumentano di numero o se diventa difficile controllarli o controllare le loro azioni, vene fornito un nuovo campo di battaglia che costituisce uno sfogo per il loro fervore emotivo e militare. L’esempio più notevole è stato quello di aver permesso alle forze dell’Isis di impegnarsi nei combattimenti a Mosul.
5) Muoversi tra i media. Le provocazioni ai media contribuiscono a mantenere il fervore militare e politico per ottenere lo scopo proposto e specificato in precedenza. Diventa quindi difficile per i capi delle fazioni dei takfiri rigirarsi in queste manovre di raggio intermedio.
6) Assassinare i comandanti. Questo è stato già spiegato tra i succitati mezzi per indirizzare. L’esempio migliore di ricorso a questa linea di azione durante le operazioni di controllo, è l’assassinio di Al-Zarqawi (terrorista internazionale giordano) quando gli Stati Uniti divennero sospettosi che avesse promesso lealtà a bin Laden e che avesse ripristinato la lotta contro l’America come sua principale priorità.
Esemplificazione
L’uso di questi mezzi è stato realizzato in circostanze diverse e nel corso degli avvenimenti. Nel 1979 in Afghanistan, gli Stati Uniti avevano precedentemente progettato il corso degli eventi. Il Consigliere del presidente Carter per la Sicurezza Nazionale, Zbigniew Brzezinski, aveva formulato in piano per portare gli islamisti in Afghanistan per attirare i Sovietici e innescare una lotta completa e a lungo termine tra di loro.
Il secondo esempio si è avuto dopo l’11 settembre, quando gli Stati Uniti ricorsero a mezzi di controllo nei confronti dei gruppi takfiri che avevano lasciato l’Afghanistan in cerca di uno spazio di movimento. Ne seguì uno scontro di interessi che portò alla guerra in Afghanistan nel 2001 e all’operazione di completo controllo della sicurezza in Arabia Saudita. Successivamente, il fervore di questi gruppi takfiri fu diretto verso l’Iraq nel 2003 in nome della lotta all’America, per essere poi guidato verso la lotta interna.
Dopo di ciò, iniziò la grande operazione di coinvolgimento in Siria che sta ancora continuando. Le fazioni dei takfiri avevano immaginato con la loro consapevolezza e comprensione della politica, un’ impresa in quel paese. Uno dei risultati di questa operazione fu la nascita dell’Isis il cui tentativo militare era stato diretto ancora una volta verso l’Iraq – con limitati interessi reciproci in cui gli Stati Uniti non avevano permesso di attraversare la loro sfera specifica. Ora l’Isis si dirige a prendere di mira l’Arabia Saudita che ha indotto la coalizione ad attaccarlo.
L’arte del possibile
Gli Stati Uniti, i loro alleati, e i loro sostenitori nella regione hanno adottato questa politica a tre dimensioni. Questo è dovuto alla profonda ostilità che le nazioni araba e islamica hanno verso l’America, all’incapacità dell’esercito statunitense di impegnarsi sul campo di battaglia, per ragioni militari ed economiche, e alla costante crescita di potenze che si oppongono all’America e a Israele. E’ sorta quindi la necessità di eserciti sostitutivi per adempiere a missioni strategiche e tattiche.
La seconda ragione è la difficoltà di impegnarsi in un combattimento diretto con i gruppi takfiri che Bin Laden era riuscito temporaneamente a spingere a combattere il nemico lontano, alla fine degli anni ’90 e nel nuovo millennio, e la necessità sorta dopo l’11 settembre di ridare a questi gruppi la loro ideologia preferita: avere come obiettivo il nemico vicino e i nemici regionali.
Terza ragione: le potenze occidentali per la maggior parte del tempo avevano necessità di una scusa per l’intervento militare. Avevano anche bisogno di firmare accordi a lungo termine (per la sicurezza, l’economia..) con i terroristi takfiri. Questo è il motivo per cui le potenze hanno messo in grado i takfiri di esserci – allo scopo di giustificare il loro intervento, come nel caso dell’Iraq nel 2003.
Quarta, la necessità dell’America e dei paesi occidentali di importare i singoli takfiri che sono attivi sul loro suolo e liberarsi di loro.
Gli alleati regionali hanno altre preoccupazioni, la più importane delle quali è far sfogare la pressione interna che presentano questi movimenti takfiri di tipo rivoluzionario, e di risolvere i problemi di legge quando ci si occupa dei gruppi takfiri che diminuiscono i loro discorsi di scomunica contro certi regimi quando trovano un appropriato campo d’azione all’estero.
A un altro livello, i paesi arabi e islamici, hanno necessità di liberarsi delle strutture organizzative dei takfiri oppure di indebolirle in più possibile spingendoli verso zone di conflitto e di agguati strategici, come aveva fatto l’Arabia Saudita nel 2003 quando importò il suo dilemma con al-Qaida in Iraq e si liberò di quella grande dilemma. Il motivo finale per cui i paesi che sono coinvolti nella strategia del controllo indiretto ha a che fare con l’aspetto regionale; usano i gruppi takfiri per raggiungere obiettivi politici nella regione, come nel caso della Siria nel 2011.
La natura dei gruppi tkfiri è il motivo per cui questi hanno la tendenza a subire questa strategia. Sono ostili e scomunicano tutti, lo fanno anche tra di loro. Tendono quindi a farsi indirizzare in qualsiasi direzione possibile. A causa delle differenze intellettuali e legali esistenti tra i gruppi takfiri, e a causa della mancanza di un comando e di una strategia unificate, hanno la tendenza a essere infiltrati e a venire guidati in direzioni diverse. Sono anche molto vulnerabili riguardo alla sicurezza e questo ha facilitato gli sforzi di reclutare agenti segreti e di infiltrare dai servizi segreti.
Devono anche affrontare un importante problema, gli aiuti finanziari: manca loro un paese islamico indipendente che li fornisca del denaro di cui hanno bisogno. Questo è il motivo per cui dipendono da paesi che obbediscono esclusivamente agli Stati Uniti, come: Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Pakistan. D’altra parte, a causa della pressione politica e per la sicurezza esercitata sui gruppi takfiri, di solito sono in cerca di qualsiasi sbocco disponibile, specialmente perché i loro discorsi contengono obiettivi molto ambiziosi a paragone della loro abilità e del limitato raggio di azione.
Linee di azione e risultati
I principali casi in questa strategia sono: l’Afghanistan nel 1979, l’Iraq nel 2003 e la Siria nel 2011. Questi casi ingenerale sono riusciti a raggiungere il loro principale obiettivo che è la trasformazione maggiore possibile della minaccia che i movimenti takfiri pongono, in un’occasione, e di avvantaggiarsi della loro natura assetata di sangue e distruttiva a beneficio delle imprese strategiche degli Stati Uniti. Hanno avuto successo in Afghanistan, da dove sono andati via i Russi, e hanno avuto successo nel suscitare i disordini settari ed etnici in Iraq nel 2003. Attualmente gli Stati Uniti hanno tratto vantaggio da questi gruppi tafkiri in Siria tramite la distruzione di una grande quantità di infrastrutture di quel paese che è fondamentale nella lealtà della resistenza. Israele ha tratto vantaggi dalla creazione di una linea di blocco sul confine delle alture del Golan, formata dalle forze di Jabhat Nusra. Oggi, in Iraq l’Isis rappresenta un caso di cui aspettiamo di scoprire gli esiti e le linee strategiche.
Nel lungo termine, questa strategia è riuscita a spostare lo sforzo militare dei gruppi takfiri lontano dal prendere di mira direttamente l’Occidente. In Afghanistan, il nemico era l’Unione Sovietica e nel periodo successivo, il mirare agli interessi americani è cominciato l’11 settembre. La guida e il controllo indiretto hanno avuto successo in Iraq nel rendere gli interessi americani una priorità secondaria per i gruppi takfiri, in opposizione alla priorità di prendere di mira altre potenze regionali. In quanto alla Siria, gli interessi americani si allontanarono completamente dagli attacchi takfiri, e l’Isis ha quasi completamente eliminato i tentativi di prendere di mira gli interessi americani. La principale preoccupazione è diventata la regione geografica – per installare lo stato dell’Isis, espanderlo e conservare le sue terre.
I risultati profondi e strutturali dimostrano che l’America è stata in grado di impedire ai takfiri di essere attivi in regioni dove pongono una minaccia agli interessi americani. Come conseguenza di un’ampia dominazione americana, i gruppi takfiri non sono stati in grado di muoversi in maniera efficace, cosa che non ha più risultati politici importanti. Sono solo in grado di farlo quando non c’è opposizione agli interessi degli Stati Uniti, cioè dove gli Stato Uniti sono in vantaggio grazie alla loro presenza. E così, questi gruppi takfiri – in maniera obiettiva – sono diventati parte dello schema americano. Nel tempo hanno evitato tutte le regioni di interesse vitale per gli Stati Uniti e sono attivi in aree meno determinanti.

domenica 25 ottobre 2015

L’INTERA CRISI DELL’EUROZONA È INIZIATA CON UN GIGANTESCO SALVATAGGIO DELLA GERMANIA

traduciamo questo articolo di 3 anni fa di Business Insider. Il noto economista Koo rintraccia la causa del problema di competitività che affligge il Sud Europa: non la pigrizia dei suoi abitanti – teoria molto in voga e in odore di razzismo – ma la scelta della BCE di salvare la Germania dai suoi problemi negli anni 2000 senza utilizzare gli stimoli fiscali. I paesi “cavalletta” hanno in realtà trainato i tedeschi fuori dalle secche rilanciandone il settore delle esportazioni, solo per poi ritrovarsi in grossi guai.

Di Joe Weisenthal, 19 giugno 2012

Ottimo pezzo di Richard Koo di Nomura, che analizza il cosiddetto “problema di competitività” dei Paesi europei meridionali.
Anziché cercare qualche problema in questi Paesi, secondo Koo quello che è successo è che dopo che la bolla tecnologica del 2000 è esplosa (una bolla alla quale la Germania era ampiamente esposta) la BCE ha utilizzato una politica monetaria eccezionalmente espansiva per stimolare l’economia, cosicché la Germania non avrebbe dovuto rilanciare la sua economia tramite la politica fiscale.
Questo provvedimento non ha avuto grandi effetti interni in Germania (che soffriva di una “balance sheet recession” (*)) ma ha fatto decisamente surriscaldare le bolle nella periferia, causando il boom delle importazioni dalla Germania, mettendo così la periferia in debito e rafforzando il settore delle esportazioni della Germania, salvandola dalle conseguenze dell’esplosione della bolla hi-tech.
Dice Koo:
I paesi dell’Europa meridionale, che non avevano partecipato alla bolla IT (Information Technology NdVdE), hanno goduto di economie forti e di una robusta richiesta di fondi da parte del settore privato, in quel momento. Il tasso del 2% fissato dalla BCE ha portato quindi alla forte crescita dell’offerta di moneta, che a sua volta ha alimentato espansioni economiche e bolle immobiliari.
I salari e i prezzi sono aumentati… facendo diventare quei paesi meno competitivi rispetto alla Germania. In breve, il tasso ultra-basso impostato dalla BCE ebbe scarse conseguenze in Germania, che stava soffrendo da una “balance sheet recession” (*), ma era troppo bassa per gli altri paesi dell’eurozona, questo causò tassi di inflazione ampiamente divergenti.
La Germania diventava quindi sempre più competitiva rispetto alle economie in crescita dell’Europa meridionale, le esportazioni crebbero notevolmente e tirarono la nazione fuori dalla recessione. Il surplus commerciale della Germania superò rapidamente quelli del Giappone e della Cina fino a diventare il più grande del mondo, con gran parte della crescita alimentata dalle esportazioni verso gli altri mercati europei.
E’ la BCE, non l’Europa meridionale, la responsabile del gap di competitività.
Nel 2005, ho detto a un alto funzionario della BCE che fu ingiusto costringere gli altri paesi a salvare la Germania, stimolando le loro economie tramite allentamento della politica monetaria senza richiedere alla Germania di operare uno stimolo fiscale, quando era la Germania ad essere stata così profondamente sovraesposta alla bolla (High-Tech NdVdE). Il funzionario ha risposto che questo è quel che significa una moneta unica: poiché alla Germania non poteva essere concessa un’eccezione riguardo allo stimolo fiscale, l’unica opzione era di sollevare l’intera regione con la politica monetaria. In altre parole, non ci sarebbe stato bisogno di questo drammatico allentamento della BCE — e quindi nessun motivo perché il gap di competitività con il resto dell’eurozona si allargasse ai livelli attuali — se la Germania avesse usato lo stimolo fiscale per affrontare la sua “balance sheet recession” (*).
I creatori del trattato di Maastricht non hanno adottato alcuna misura in risposta alle “balance sheet recession” (*) quando hanno redatto questo documento, e l’attuale “problema di competitività” è esclusivamente imputabile al limite del 3% al deficit fiscale del trattato, che costringe la BCE a misure irragionevoli riguardo la politica monetaria durante questo tipo di recessioni. I paesi dell’Europa meridionale non sono da biasimare.
Ben detto!

venerdì 23 ottobre 2015

Educazione alla ferocia

Mentre osservavo sulla rete i filmati sul terribile sgombero del palazzo ex Telecom di Bologna, ho pensato alla campagna mediatica di mesi fa contro gli occupanti di case. Su tutti i principali mass media dilagavano interviste a miti vecchiette che manifestavano il terrore di vedersi buttar fuori dal proprio appartamento. Non a causa dello sfratto esecutivo da parte della proprietà, ma per colpa dell'occupazione da parte di centri sociali e migranti, separati o assieme. Si dipanavano le inchieste, si fa per dire, giornalistiche per spiegare che nella grandi città c'era il racket delle occupazioni di case, che la malavita gestiva le lotte sociali.
Così come era esplosa, quella campagna si inabissò improvvisamente nei bassifondi da cui era emersa sulla spinta della grande rendita edilizia. Essa serviva semplicemente a preparare il terreno a quello che effettivamente poi è avvenuto e sta avvenendo. Migliaia di persone che non davano fastidio a nessuno se non alla speculazione edilizia hanno perso la casa, e non perché altri gliel'avevano occupata, ma perché un tribunale e la polizia li avevano sbattuti in mezzo ad una strada. Gli sfratti dei poveri e dei disoccupati sono diventati la prima misura pratica dell'austerità, è così in tutta Europa. In Spagna sono anche più avanti, centinaia di migliaia di persone han perso la casa perché han perso il lavoro e non possono più pagare affitti o mutui. Ora tocca a noi.
Torna il diritto di proprietà nella sua forma più infame e brutale, quello raccontato da Dickens nell'Inghilterra dell'800, quel diritto che cancella tutti gli altri e che pone le persone al di sotto delle merci. Il diritto di proprietà oggi reclama per sé potere assoluto come i sovrani prima della rivoluzione francese.
Il palazzo ex Telecom era stato risanato dalle famiglie occupanti, che ci vivevano nel decoro con i loro bambini, che frequentavano regolarmente la scuola. Ma un fondo privato proprietario dell'immobile ne reclamava da tempo la piena disponibilità per i suoi spregevoli affari. Un tribunale ligio al potere dei ricchi ha incaricato così la polizia di procedere. Così abbiamo visto scatenarsi, contro famiglie e bambini, una ferocia che una volta avremmo detto da terzo mondo, ma che ora è parte della nostra società. Perché non si può sbattere in strada i poveri senza essere feroci. Se ci si commuove, se si sente il richiamo della umana solidarietà o anche solo della pietà, certe cose non si possono fare e magari le persone rimangono lì dove non dovrebbero stare.
Così ho capito che la campagna mediatica contro gli occupanti di case non aveva solo lo scopo di creare consenso verso gli interessi fondiari. Essa faceva parte di un messaggio più profondo e diffuso, l'educazione alla ferocia.
Da trenta anni le nostre società occidentali stanno distruggendo diritti sociali nel nome della produttività e della competitività. Ogni giorno la società viene presentata come una giungla ove vincono i più forti e i più deboli perdono per colpa loro. L'idea stessa dell'eguaglianza sociale viene messa all'indice delle utopie dannose. E con la crisi economica questa ideologia si è radicalizzata. Compito dei più forti non è tanto vincere, ma semplicemente sopravvivere. Non c'è lavoro per tutti, scuola per tutti, stato sociale per tutti, casa per tutti. Non c'è posto per tutti non lo urlano solo razzisti e fascisti, lo proclamano con le loro politiche economiche tutti i governi dell'austerità.
Così l'ideologia della competitività diventa giustificazione dello scarto. Lo scarto degli esseri umani comincia nelle guerre promosse e alimentate in paesi lontani e poi continua con i fili spinati e i campi di concentramento per i rifugiati di quelle guerre. E poi prosegue nelle città, togliendo il diritto ad abitare a lavorare a vivere.
Non è semplice scartare le persone se queste sono come noi, soprattutto se le sentiamo come noi. Bisogna sentire altro da noi chi vogliamo abbandonare al suo destino. Per questo bisogna educare alla ferocia alimentandola con il razzismo verso i poveri. Poveri, migranti, disoccupati, criminali devono essere accostati e collegati nell'immaginario collettivo, in modo che sia possibile non giudicare atto indegno dell'umanità lo strappare con la forza un bambino dal luogo dove vive e riceve gli affetti. I bambini ci guardano ma guai a noi se li guardiamo a nostra volta. Potremmo non essere più feroci come ci viene richiesto. Così nessun telegiornale ha trasmesso le immagini che ho visto in rete dei bambini trascinati via in lacrime da casa loro.
A Bologna non c'è stato semplicemente un sgombero, c'è stato un pogrom di stato che ha ancora alzato l'asticella della ferocia sociale. Proprio in quella città dove in un passato sempre più lontano il movimento operaio aveva costruito eguaglianza e libertà, proprio lì si è voluto dare dimostrazione del mondo nuovo dello scarto. E lo si è fatto nel nome del rispetto della legalità, paravento dietro il quale si sono spesso nascoste e tutelate le maggiori infamie. Ribellarsi contro questa legalità che impone l'ingiustizia e educa alla ferocia non solo è necessario, ma è il solo modo di restare umani.

giovedì 22 ottobre 2015

AMERICHE: La resistenza indigena alla colonizzazione occidentale

Stavolta persino in 12 città degli USA non hanno commemorato il 12 ottobre 1492. Perchè lo sbarco di Cristoforo Colombo è l'inizio di uno sterminio, un etnocidio che ha "estinto" vari popoli originari. Con la benedizione della Croce in connubio con la Spada. Proponiamo una sintesi del discorso dell'ambasciatore del Venezuela a Roma, Julián Isaías Rodríguez Diaz, in occasione del Giorno delle Resistenza indigena.
«Per gli usurpatori della memoria, coloro che furono conquistati ignorano come si fa la storia. Per questo, devono consegnarcela già fatta. Per loro la dignità non è più di una catena di fatti privi di senso. Colombo credette di essere sbarcato in Oriente dalla porta di dietro, credette di trovarsi in India, credette
che Haiti era il Giappone e che Cuba era la Cina e, nonostante questo, si continua a dire, irresponsabilmente, che l’America fu scoperta da lui.
Sapevate che per gli europei di quel tempo eravamo persone con code cosi lunghe da poterci sedere solo su sedie che avessero dei buchi? Che per quegli europei avevamo gli occhi sulle spalle e la bocca sul petto? Che avevamo delle orecchie grandi, ma così grandi da portarcele dietro strisciandole per terra? E, peggio ancora, avevamo i piedi a rovescio, con i talloni davanti e le dita dietro?
Eduardo ‪#‎Galeano‬, che racconta questi aneddoti, ha contrastato questo incosciente manifesto della storia ufficiale, sostenendo che quella che gli europei chiamavano "scoperta " in realtà non è mai avvenuta. Ciò che accadde fu un’altra storia, un'altra scoperta: l’ America Latina, la Nostra America, come la chiamò José Martí, scoprì prima una barbarie mescolata alla religione con la brutalità di una repressione senza precedenti e poi un liberalismo che trasferì il suo egoismo prima nel capitalismo e poi nella globalizzazione.
Molto tempo prima di Cristoforo Colombo, in America c’erano stati i vichinghi e prima dei vichinghi i nonni dei nonni dei nostri trisavoli. Vivevano nella Nostra America e misero un nome al mais e alla patata. Misero un nome al cioccolato, lo stesso che l’Europa mostra in diversi itinerari turistici. Nel 1492 Cristoforo Colombo scrisse sul suo diario che voleva trasferire i nostri antenati in Spagna, affinchè apprendessero a “fablar español”.
Sembra che avesse voluto far intendere che solo parlando il castellano i nostri anziani potevano diventare esseri umani. O forse per avere “il titolo di persone” dovevano iniziare con il rinunciare alla loro identità? Citiamo di nuovo Galeano per riaffermare che il proposito degli europei era “cancellarci l’anima” e praticare, come fanno ancora, “EL OTROCIDIO”. Galeano scrive che chiamarono “selvaggi” i nostri antenati e non si sbagliarono perchè nessuno di loro fu capace di chiedere un visto, né una lettera di invito, né una somma diaria di euro, né un certificato di buona condotta, né un permesso di lavoro all’Europa, così come stabilito dall’Accordo di Schengen.
E continuano ad essere così selvaggi che, come scrive il poeta venezuelano Gustavo Pereira, la popolazione dei Pemones chiama la rugiada Chiriké Yetakú, che significa saliva delle stelle; le lacrime le chiama Enú Parupué, che vuol dire succo degli occhi e il cuore Yewám Enapué, che significa seme che si trova in cima al ventre. Sul delta dell’ Orinoco la popolazione dei Waraos chiama Mejokoji l’anima, che significa sole del petto. Ma Jokaraisa significa il mio altro cuore ed indica un amico. Dimenticanza si dice Emonikitane e significa perdonare. Per loro la terra è madre e la madre è dolcezza. Che selvaggi!
L’attuale premio Nobel della letteratura, Mario Vargas Llosa, in un momento infausto, ha scritto che “non c’è altro rimedio se non quello di modernizzare gli indigeni anche le loro culture dovranno essere sacrificate”. Per questo distinto scrittore: “…è l’unico modo per salvarli dalla miseria”. Non voglio credere che, aldilà di quanto affermato, l’autore de La città e i cani abbia voluto dire, come qualcuno pensa, che “per salvare gli indigeni bisogna mettergli un uniforme perchè si uccidano gli uni con gli altri o muoiano difendendo lo stesso sistema che li nega”. Abbiamo letto con diletto La festa del caprone, la sua magistrale denuncia contro il trujillismo nella Repubblica Dominicana e non potremmo mai immaginare che: “…la modernizzazione a cui si riferisce Vargas Llosa sia svuotare gli indigeni dall’ indigeno che portano dentro e ridurlo ad un non-indigeno…”
Nei nostri indigeni c’è troppa poesía per negargli la loro lingua. Cantano alla sabbia e ai boschi. Prendono il volo nel martin pescatore e volando dicono: “Sali sulle mie ali per bere insieme il vento”. Cavalcano ottimisti sulle libellule e quando sellano i loro cavalli nel cielo lo fanno per cercare la pioggia. Quella magia e quei sogni da molto tempo non sapevano dove andare, perchè nel 1614 l’arcovescovo di Lima aveva bruciato i loro flauti, le loro danze, i loro canti e i loro strumenti musicali.
Forse è per questo che un Arcivescovo africano, contestando un altro Arcivescovo europeo, alludendo al saccheggio dell’identità degli africani, in una bellissima frase affermò: “I sacerdoti avevano la Bibbia ed i nativi avevano la terra; qualcuno gli chiese di chiudere gli occhi e pregare. Lo fecero, ma quando li aprirono di nuovo gli altri avevano preso le loro terre e a loro restava soltanto la Bibbia”. I conquistatori, in realtà, non usano più vestiti di ferro, ma usano uniformi diverse, con cui assaltano il Vietnam, l’ Afghanistan, l’ Honduras, l’Iraq ed anche il Venezuela, circondata da altri marines che vogliono privarla della sua libertà e della sua sovranità, cercando di togliergli anche la sua identità.
Perdonate, forse avrei dovuto iniziare questo discorso sulla resistenza indigena parlando di Abya Yala. L’emozione, la passione o la follia mi hanno portato da un’altra parte. Permettetemi di iniziare dai nomi che sono stati attribuiti al continente. Ibero-America ricorda il saccheggio coloniale. Non percepite in questo nome un feroce razzismo? Passiamo ad un altro nome: America Latina. Non vi sembra che con questo nome si voglia nominare in modo eurocentrico il nostro continente? Con questo nome non si lascia fuori di noi una parte importante della nostra popolazione originaria e afroamericana? Non si estirpa da noi l’identità dei Chiluba, i Nkrumah, i Kenyatta,i Nyerere e i Mandela? Non vi sembra che vogliano tooglierci e sopprimerci un pezzo, un frammento della nostra orgogliosa identità africana?
Abya Yala è il nome dato al continente americano dal popolo Kuna a Panamá e in Colombia prima dell’arrivo degli europei. Significa terra in piena maturità o terra di sangue vitale. Oggi, diverse comunità e istituzioni indigene preferiscono l’uso del termine Abya Yala per riferirsi al territorio continentale, al posto della parola America. L’uso di questo nome rimanda a precise posizioni ideologiche, dicono. America o Nuovo Mondo sono espressioni del colonialismo. Il popolo Aymara difende il termine Abya Yala per respingere il nome straniero che disonora la nostra identità e si sottomette alla volontà degli invasori e dei loro eredi.

Le nostre prime manifestazioni di indipendenza non sono quelle che festeggiamo. Le nostre prime manifestazioni di liberazione furono quelle belle, coerenti, immutabili, invariabili e tenaci manifestazioni di "resistenza indigena", la resistenza all'idea di "progresso " portata dall’ Europa durante e dopo la conquista. Quella stessa idea di " progresso" ha distrutto non solo gli esseri umani, ma la terra e l’ acqua, il clima e gli alberi, le montagne, i fiumi e i venti. La barbarie contro i nostri primi abitanti produsse, nel nostro continente, il più grande olocausto della dell'era moderna.
Alcuni vedono il contatto dell’ Europa con noi come un "incontro tra due culture. Ma quale incontro tra due culture! Si può chiamare incontro un’ invasione coloniale? Quelle di ieri! O quelle di oggi! E quelle di sempre! Quell'incontro non fu altro che il più grande genocidio commesso dall’Europa. La distruzione di civiltà millenarie che avevano scoperto lo zero mille anni prima dei matematici europei. Che avevano conosciuto le età dell'universo 1500 anni prima di Copernico, Brahe, Kepler e Galileo, per citare i più grandi di quell’epoca. Civiltà che conoscevano il buon senso come senso di comunità senza scopo di lucro, senza nemmeno pensare alla proprietà privata. Queste civiltà annullate, demolite, devastate avevano scoperto che l'uomo è tempo e che per possedere una sacralità non era possibile venderlo ne comprarlo.
Nella storia ufficiale, quella nobile resistenza indigena fu estirpata quasi completamente. La conquista e la colonizzazione furono, per l’ Europa, atti presuntamente pacifici in cui presuntamente vennero rispettati tutti i diritti umani e in cui ci viene accusato il fatto di aver accettato pacificamente il saccheggio. Oggi occorre sottolineare che la “resistenza indigena” risulta di innegabile e incontestabile utilità per poter comprendere con coscienza e sapienza gli attuali processi sociali che si sviluppano in Bolivia, Ecuador, Nicaragua, Brasile, Argentina, Cuba e Venezuela.
I nostri attuali processi politici, sociali ed economici non sono altro che il seguito di quella straordinaria resistenza indigena, con altri mezzi e in un tempo inventato dall’angoscia e destinato, come diceva il Che, a lottare per l’impossibile . Un profeta maya che parlava per gli dei a suo modo disse: “…saranno liberate le mani, i piedi e i volti del mondo...ma quando sarà liberata la bocca non ci sarà nessuno che non l’ascolterà”
Le rivoluzioni americane oggi hanno il proposito di riscattare questa parte della storia taciuta. In questo senso, l’idea è di andare oltre “l’indipendenza politica conquistata contro la Spagna e il Portogallo durante il XVII secolo”. Raccontiamo, per favore, la storia reale: l’Europa competeva per trovare strade più veloci per arrivare in Asia … così giunse prima in Africa e poi ad Abya Yala. Per l’Europa Abya Yala non era un continente sconosciuto ma un pianeta sconosciuto che si trovava più in là di dove finiva il mondo. Luis de Camoens lo scrisse all’estremità occidentale dell’Europa, dove c’è un monumento che riporta questa frase: “Qui finisce la terra e comincia il mare”.
Ad Abya Yala, tre grandi civilizzazioni costruirono un’altra idea di “progresso” e “civilizzazione”. Alcune delle loro città divennero più grandi di quelle europee. Aztechi, Maya e Incas fecero, senza dubbio, progressi più significativi nella giustizia sociale ed economica che l’Europa.
Il comune denominatore di queste tre civiltà è stata una società equa, in cui la cosmovisione ancestrale del “buon vivere” (meditare, pensare e riflettere in armonía con la natura) viene differenziata dall’american way of life. La prima visione costituì ciò che oggi sarebbe un cambiamento di paradigma alla concezione capitalista del vivere. La seconda invece, è un comportamento in cui un individuo apparentemente migliora la qualità della sua vita attraverso il lavoro, mettendo in pratica abilità competitive ed individualiste in una società fondata sul libero mercato.
La purezza del “buon vivere” e delle sue tradizioni comunitarie ci porta a non competere ed a non concepire la vita secondo una prospettiva individuale. “Buon vivere” è agire in comunità e in armonía con la natura e l’universo e, allo stesso tempo, avere un rapporto di reciprocità con essi. La cosiddetta american way of life è un fattore che conduce alla distruzione del pianeta ed alla disuguaglianza sociale. E’ un modo per avere di più, per competere con gli altri, cercando di essere migliori di loro e mette dal presupposto che c’ò che è materiale ha più valore dell’essere umano.
I primi europei che giunsero in America smantellarono le civiltà che c’erano ed imposero i loro rapporti di produzione con la terra affinchè, come in una religione, professassimo la fede allo sfruttamento dell’essere umano. I nuovi padroni di quelle terre vietarono la vera storia e decisero di consegnarci la versione, già fatta, che loro stessi diedero alla storia (…)
L’argomento fu semplice. Il nuovo continente era stato “scoperto e non apparteneva a nessuno”. Avrebbero quasi potuto dire di averlo trovato come un oggetto smarrito. Le civiltà di Abya Yala non erano mai esistite e le nostre idee di “progresso”, secondo le loro leggi, dovevano sottomettersi ad una civilizzazione che, naturalmente, era europea. Molto tempo prima di Fukuyama, l’ Europa decretò la fine della storia millenaria di Abya Yala e della sua storia ancestrale. Il continente “scoperto” venne considerato “terra di nessuno”. Le popolazioni indigene non possedevano diritto alla terra, alla sovranità ed all’autodeterminazione. I fondamenti di questa attitudine risiedevano nei sistema di valori elaborati nell’Età Media attraverso la religione.
L’ Europa cristiana rappresentava non solo un’area religiosa ma anche un ambito culturale. Le popolazioni indigene americane, comparate ai turchi, avrebbero potuto, secondo la chiesa cattolica, compromettere la cultura di segno cristiano e quel rischio deveva essere scongiurato a tutti i costi. La conquista fu, di conseguenza, una guerra di culture in cui la vittoria significava l’annichilimento completo dell’altro e la sua incondizionata sottomissione. Ciò, secondo i teologi di tale infelice ideologia, obbligava il continente conquistato a trasformarsi, si o no, in una brutta copia dell’Europa, imponendoci il disprezzo come abitudine.
(…) E’ così che comparvero il sincretismo e la cultura mariana, destinati entrambi ad occultare artificiosamente nelle chiese “il loro diritto alla resistenza ed alla ribellione”. Questa cultura della “resistenza” fece si che in molte opportunità i criollos americani, bianchi o meticci non si sentissero totalmente europei e si ribellassero contro i re e contro Dio. Fu questa maschera a permettere alla resistenza indigena di sopravvivere. Sostituirono San Miguel con Shangó; i tuoni e i fulmini si trasformarono in Santa Barbara ed Oschún nella vergine della CARITA’ DEL COBRE o Nostra Signora della Candelaria.
(....) Non posso, però, concludere senza dire, in nome della Bolivia, Ecuador, Cuba, Nicaragua, Brasile, Argentina e Venezuela, che siamo disposti, per ora, con o senza il consenso dell’imperialismo, a costruire un progetto sociale solidale, complementare, giusto, equo, inclusivo, di pace, nel rispetto della libertà e della sovranità. Non chiederemo mai più il permesso. Lo stiamo già costruendo…e lo porteremo a termine.
Per continuare su questi passi, faremo dei nostri stati la patria di tutte le nostre culture. Saremo la sede della multiculturalità o creeremo una nuova cultura “La storia ufficiale”, ovvero quella storia tradizionale dell’America, che ha ignorato la storia dei "non bianchi", delle nostre rivoluzioni e del loro profondo e trascendente significato culturale.
Adesso basta!
L’indipendenza, vista dai nostri aborigeni, non consisteva nella mera espulsione del conquistatore. Volevano e, ancora oggi vogliono, dare voce “alla resistenza che nascosero nel sincretismo. Vogliono chiarire, non solo i conflitti odierni, ma bensì quelli che, quando arrivarono gli europei, furono aggravati dalla tiritera sulle teorie tramite le quali il colonialismo si ricostruisce, si mimetizza e si riproduce impunemente”.
Adesso basta!
Come dice il peota brasiliano: Mi hanno rubato la mia Africa e, dopo, mi rubarono ciò che rimaneva dell’Africa nel mio cuore e nella mia anima di latinoamericano!
Adesso basta!
L’oppressore non è capace discoprire. L’oppresso scopre. Così ci dimostra un sacerdote spagnolo assassinato a El Salvador, Ignacio Ellacuría. L’oppressore non è neppure capace di scoprire se stesso. Lo disse, in una chiesa cattolica, e per condividere i rischi di questa resistenza che oggi ci consacra in questo luogo, lo trivellarono di colpi a causa di un sistema che non è capace di tollerare né gli sguardi, né le voci che si oppongono.
(....) Care amiche e cari amici, voglio terminare citando una frase di Saramago. Ho letto nel suo blog: “gli esseri umani, non siamo nient’altro che la memoria che abbiamo e la nostra unica libertà è quella dello spirito”. Forse intendeva dire che è necessario vedere il grano verde, il frutto maturo e la pietra che è stata spostata. O che è necessario riprenderei passi dei nonni, dei nostri nonni. Come nelle traduzioni abbiamo il difficile compito di rispettare il luogo da cui tutto ebbe origine e il luogo a cui tutto si dirige, così per tradurre, dice Saramago, l’istante del silenzio anteriore è la soglia di un movimento alchemico che ha bisogno di trasformarsi in qualcos’altro, questo rappresenta l’unico modo di continuare a essere, ciò che sempre è stato.
Sembra quasi che non ci rendiamo conto che, abbandonando la nostra memoria, corriamo il rischio che questo vuoto sia colmato da memorie aliene che crediamo nostre e, così, diventiamo complici di una colonizzazione senza fine.
Grazie cari amiche e amici, grazie a tutti voi, e grazie a José Saramago, per avermi prestato le sue farsi per chiudere questo discorso attraverso una lettura che sento sempre più intima e pura».

mercoledì 21 ottobre 2015

L’1%, ovvero la metà di tutto

Un nuovo rapporto pubblicato recentemente dalla banca Credit Suisse ha delineato l’aggravarsi delle disparità di reddito e di ricchezza nel pianeta, registrando un tristissimo primato. L’1% della popolazione mondiale è cioè giunta nel 2015 a possedere oltre la metà delle ricchezze, mentre il resto dell’umanità - ovvero circa 4,8 miliardi di adulti - si spartisce il resto della torta, peraltro in maniera altrettanto ineguale.
Lo studio riassume i dati raccolti in una piramide che mostra immediatamente le disparità che caratterizzano la suddivisione dei beni disponibili a livello globale, stimati attorno ai 250 mila miliardi di dollari. 3,4 miliardi di adulti posseggono beni non superiori ai 10 mila dollari, un altro miliardo tra i 10 mila e i 100 mila dollari, 349 milioni tra i 100 mila e un milione.
Allo strettissimo vertice della piramide si trova la vera ricchezza, con 34 milioni di persone che detengono più di un milione di dollari. Tra di essi, 29,8 milioni vantano beni tra 1 e 5 milioni di dollari, 2,5 milioni tra 5 e 10 milioni, 1,34 milioni tra 10 e 50 milioni, per poi arrivare alla vera aristocrazia planetaria, quella che decide le sorti di praticamente tutte le popolazioni, vale a dire 123.800 individui con più di 50 milioni di dollari ciascuno.
Poco meno della metà di questi super-ricchi vive negli Stati Uniti, circa un quarto in Europa e il resto quasi tutti in Giappone e in Cina. Lo sbilanciamento nella distribuzione delle ricchezze è dovuto principalmente al capitalismo USA, come conferma il fatto che questo paese ha un numero così elevato di multi-milionari a fronte del 5% della popolazione del pianeta.
Esaminando i numeri proposti dall’istituto bancario svizzero, emerge come il 71% degli adulti che popola il pianeta è costretto a vivere con appena il 3% delle ricchezze complessive, laddove un minuscolo 0,7% controlla beni pari al 45,2% del totale. Ancora, il 10% della popolazione può contare sull’87,7% delle ricchezze, lasciando al 90% degli adulti appena il 12,3% dei beni totali. Come già ricordato, l’1% detiene infine il 50,4% dei beni, una soglia altamente simbolica che secondo alcuni studi precedenti sarebbe stata superata solo nei prossimi anni.
A dare l’idea della scarsità di beni che possiedono coloro che si trovano alla base della piramide basta citare un dato, cioè che sono sufficienti poco più di 3 mila dollari per essere inclusi nella metà più “ricca” della popolazione mondiale.
Per rientrare nel 10% più benestante di dollari ne bastano invece quasi 69 mila. La definizione di ricchezza considerata da Credit Suisse comprende, oltre al denaro, proprietà immobiliari e titoli azionari, mentre dal conteggio sono esclusi i debiti.
Come conferma il rapporto, le disuguaglianze sono rapidamente aumentate in tutto il mondo dopo la crisi finanziaria scaturita da Wall Street nel 2008. A generare un ulteriore spostamento verso l’alto della ricchezza sono stati e continuano a essere soprattutto i programmi pubblici di salvataggio delle grandi banche e l’espansione del credito di fatto a costo zero che, invece di stimolare l’economia reale, ha ingigantito le rendite parassitarie.
Significative sono anche le differenze tra i vari continenti o paesi del mondo. Se la ricchezza complessiva degli Stati Uniti è cresciuta finora nel 2015 di 4 mila 600 miliardi di dollari, nonostante un calo a livello globale di 12 mila 700 miliardi, principalmente a causa del rafforzamento del dollaro, i paesi dell’Unione Europea, la Russia e il Giappone hanno fatto segnare flessioni importanti. Quella della Cina è poi salita di 1.500 miliardi di dollari, anche se lo studio prende in considerazione i dati fino al 30 giugno scorso, tralasciando quindi il recente crollo del mercato azionario in questo paese.
Simili differenze hanno ovviamente riflessi rilevanti all’interno del sistema capitalistico globale. Infatti, la crescita e la perdita di ricchezza soprattutto delle potenze mondiali contribuisce a inasprire i conflitti o, quanto meno, a peggiorare le relazioni tra i paesi, come conferma l’aggravamento delle tensioni in molte aree del globo, a cominciare dal Medio Oriente e dall’Asia sud-orientale.
La sempre maggiore concentrazione di ricchezze nelle mani di pochi è il sintomo anche dello stato di avanzato deterioramento in cui versa lo stesso capitalismo planetario, con tutte le conseguenze distruttive che ne derivano per le popolazioni del pianeta.
La disponibilità virtualmente illimitata di beni per un numero ristrettissimo di ultra-ricchi determina infatti automaticamente un degrado delle condizioni di vita di tutti gli altri, principalmente a causa di effetti devastanti in vari ambiti, dall’assistenza sanitaria allo stato delle infrastrutture e all’educazione.
Uno scenario, quello che si sta delineando, che non può che alimentare tensioni sociali sempre più esplosive, dirette alla riappropriazione di risorse enormi, dirottate deliberatamente verso l’alto e che sarebbero invece abbondantemente sufficienti a garantire i bisogni fondamentali dell’intera popolazione del pianeta.

martedì 20 ottobre 2015

Stefano Cucchi, i medici: «Un vero e proprio caso di tortura»

Un'indagine medica indipendente per chiarire gli aspetti ancora oscuri del caso di Stefano Cucchi, il 32enne romano che morì nel reparto carcerario dell'ospedale Sandro Pertini di Roma il 22 ottobre del 2009.
La presentazione del documento stilato dal Medu (Medici per i diritti umani), con il sostegno di Open Society Foundation (la fondazione "sponsorizzata" da George Soros) è stata realizzata al Senato la scorsa settimana, grazie al lavoro di Luigi Manconi, da anni attivo nella denuncia dei casi di malapolizia ed attualmente senatore del Pd.
Si tratta di un'indagine che «in modo attendibile e documentato, per la prima volta, ricostruisce l'agonia vissuta da Cucchi sotto un aspetto da sempre trascurato: quello psicologico».
Sulla vicenda è attualmente in corso una nuova indagine, con ben cinque carabinieri inseriti recentemente nel registro degli indagati: tre per lesioni aggravate e due per falsa testimonianza. Il primo processo, invece, andrà in Cassazione il prossimo 15 dicembre, ma difficilmente si registreranno novità rilevanti: in quel frangente, infatti, le indagini si sono concentrate più sui medici che sugli uomini in divisa, con tanto di assoluzione in Appello di tutti gli imputati, mentre in primo grado quattro medici vennero condannati a un anno e quattro mesi per omicidio colposo, mentre al primario del reparto carcerario del Pertini vennero inflitti due anni di condanna per lo stesso reato.
«Dalla ricostruzione dei fatti – si legge nel nuovo rapporto – è altamento probabile che l'aggressione abbia avuto luogo nel periodo intercorso tra la fine della perquisizione domiciliare e la chiamata del 118 da parte dei carabinieri di guardia nella caserma di Tor Sapienza». Un lasso di tempo che va dalle 2 alle 4:30 del mattino del 16 ottobre del 2009. «Gli esami chimico-tossicologici – prosegue il rapporto medico – eseguiti sul materiale biologico prelevato dal corpo di Stefano Cucchi hanno evidenziato come le tracce di sostanze stupefacenti siano risultati ininfluenti nel determinismo del decesso. Si può invece considerare senza esitazioni che in conseguenza dell'aggressione violenta di cui è stato vittima» il ragazzo «ha sviluppato una grave reazione psicopatologica post-traumatica». C'è, in sostanza, «una evidente catena causale che collega l'aggressione, il trauma psichico e la sindrome di inanizione, che ha provato, insieme ad altri fattori concausali, la morte di Cucchi». In conclusione si può dire che «le violenze subite da Stefano sono state il premium movens che ha portato a una sequenza di eventi patogenti terminata solo con il decesso del paziente». Questo si configura come «un vero e proprio caso di tortura».
Nel nuovo fascicolo, oltre alle perizie mediche che confermano questa versione della storia, ci sono anche le testimonianze di due carabinieri che hanno deciso di collaborare all'indagine indipendente messa in atto dall'avvocato Fabio Anselmo della famiglia Cucchi.
Di elementi nuovi, dunque, ce ne sono molti, ma è ancora presto per parlare di svolta della nuova inchiesta: la prima indagine, in fondo, ha dimostrato più che altro che indagare sulle forze dell'ordine è molto complicato, quasi impossibile.

lunedì 19 ottobre 2015

La società piccolo borghese e la neo-sinistra liberista

Nella logica della neo-sinistra liberista al governo in Italia e altrove in Europa, il motore dell'economia è l'impresa.
E' questa che crea ricchezza, innovazione, cambiamento, progresso economico. E lavoro. Cioè occasioni e opportunità e quindi occupazione.
Nella logica della neo-sinistra liberista, pertanto, il rendere la vita più facile agli "animal spirits" è essenziale per garantire il modello economico e sociale nel quale viviamo. Se lo spirito d'impresa viene umiliato (dalle imposte, dalla burocrazia, dai sindacati rivendicazionisti, dalla politica delle “chiacchiere”, ecc.) le imprese chiudono, i salariati vengono licenziati, si produce disoccupazione e muoriamo tutti.
Non importa quanto questo sillogismo sia reale o falso, quello che importa è che sia considerato vero. Il che è quello che accade.
Ora, a prima vista può sembrare la logica dei liberisti questa. Invece non lo è. Non lo è perché la neo-sinistra liberista ha una qualche attenzione ancora per la redistribuzione della ricchezza. E quindi si inventa le social card, i fondi contro la povertà, le misure di sostegno ai redditi bassi e cerca di garantire un minimo di servizi pubblici (scuole, ospedali) se non gratuiti e universali almeno generalmente accessibili. Tutte cose che una destra liberista pura e dura - fatta di finanzieri d'assalto, banchieri senza scrupoli, accademici teorizzatori del “laissez faire” e politici tycoon - non farebbe mai o farebbe solo a particolari condizioni presa com'è dal furore delle privatizzazioni, della deregulation, dal desiderio di annientare lo Stato sociale.
Il nostro amato presidente del consiglio, pertanto, ha ragione nel dire che lui fa cose di "sinistra". Perché è vero. Fa cose di sinistra nel senso di neo-sinistra liberista.
La finanziaria, di cui tutti abbiamo visto le colorate diapositive ieri in televisione, ne è un chiaro esempio. L'abolizione delle tasse sulla prima casa, gli sgravi fiscali per chi assume o quelli per chi investe in macchinari, sono misure che fanno parte di una complessa manovra, inaugurata con gli 80 euro a pioggia per il lavoro dipendente, continuata con il jobs act e relativo svuotamento dell'articolo 18 e che la riforma della P.A. e del fisco dovrebbero completare, almeno nelle linee essenziali. Come si vede, la neo-sinistra liberista, si muove lungo il solco del liberismo economico con qualche “aggiustamento” che tende a ridurre l'impatto di misure che creano, in qualche modo, disagio sociale.
Questa visione dell'economia e della società non è solo del Pd e del suo lider. E' uguale a quella berlusconiana come a quella merkeliana, blairiana, hollandiana o zapateriana. Uguale uguale. Volendo usare uno slogan semplificatore si potrebbe tradurre in questo modo: più impresa c'è, più lavoro c'è, più ricchezza per tutti si crea e meglio si sostengono i meno favoriti. E' questa la neo-sinistra liberista: liberismo piu' qualche necessaria accortezza di memoria vagamente socialdemocratica per ridurre al minimo il conflitto sociale.
Nei vari paesi europei cambiano le gradazioni, le modalità e i tempi di attuazione delle misure politiche che si rifanno a questa prospettiva ma, insomma, la logica è sempre quella. Che è gradita ai più, visto che le elezioni in quasi tutti i paesi europei premiano forze politiche i cui principi ispiratori e le pratiche di governo sono quelle riferibili allo slogan prima citato.
Uno dei motivi per cui questa ideologia (perché di ideologia si tratta) è largamente maggioritaria e senza opposizioni di peso (a parte il crescente consenso che registrano partiti fascistoidi e nazionalisti) in Europa, è che manca una visione del mondo diversa da questa.
La sinistra, quella storica, quella che doveva cambiare il mondo - cioè quella che pensava che il centro e il motore della società fosse non l'impresa ma la classe operaia, i salariati, il proletariato - s'è ritrovata ad un certo punto senza quel centro. Perché se la classe operaia non è scomparsa "in sé" è scomparsa "per sé". L'espansione del benessere economico che si è registrato dagli anni sessanta in poi ha completamente trasformato le società europee occidentali. Se non nel rapporto di lavoro, di certo culturalmente e cioè nei modi di vivere, di consumare, di identificarsi e di vedere il mondo.
Il risultato è stato un allargamento della classe media, divenuta maggioritaria, la cui caratteristica principale è una spiccata inclinazione culturale, sociale, economica e politica di tipo piccolo borghese. Cioè centrista in politica, compulsivo-consumista nell'agire economico, individualista nell'agire sociale, superficiale nell'agire culturale.
Ovvio che ad una trasformazione sociale tanto profonda doveva corrispondere una trasformazione politica, anzi partitica per la precisione.
Se al posto di operai e braccianti una società ha in prevalenza impiegati, liberi professionisti e commercianti e se perfino i residui operai e braccianti fanno di tutto per non essere piu' considerati tali è automatico che i partiti che rappresentano quella società non potranno essere partiti di operai e braccianti ma partiti piccolo borghesi. Indipendentemente dal nome che portano o dalle radici politiche che hanno.
Il fatto è che i piccolo borghesi, a differenza degli operai di una volta e nella stragrande maggioranza dei casi, non sognano un mondo diverso. Non hanno utopie da inseguire. Non vogliono rivoluzioni palingenetiche. Piu' prosaicamente chiedono un mondo comodo, tranquillo, fatto di vetrine colorate e scintillanti piene di cose da comprare e un poco di contante in tasca per un “apericena”. Il minimo, insomma.
Il dovere dei partiti piccolo borghesi è, pertanto, quello di garantire queste esigenze. E, tra questi, i partiti della neo-sinistra liberista adempiono a questo compito abbastanza bene quasi sempre ed egregiamente in alcuni casi.
Ed è per questo che la neo-sinistra liberista, renziana o meno, vincerà e governerà ancora a lungo in Italia. Perché rappresenta al meglio la maggioranza di una società piccolo borghese moderata e desiderosa di quieto vivere. Senza sogni che non siano quelli di comparire in tv. Senza utopie che non siano quelle di divenire miliardari. E senza rivoluzioni che non siano quelle dei cellulari che scattano foto a 20 megapixel.
Al limite, se proprio necessario, accanto all'abolizione delle tasse per la casa, agli incentivi fiscali per le imprese, alla riduzione dei diritti sul posto di lavoro, basta una social card e un fondo per il contrasto alla povertà riequilibrare tutto e tirare avanti.
Proprio come fanno e hanno fatto i vari berlusconi, renzi, zapatero o blair in giro per l'Europa.

domenica 18 ottobre 2015

La Germania potrebbe fare “concessioni” se la Grecia trattiene più migranti

Il governo tedesco sta valutando di ‘aiutare’ finanziariamente la Grecia – ma solo se Atene verrà maggiormente coinvolta nella crisi dei rifugiati. Questo è quanto il quotidiano tedesco Wirtschaftswoche (WiWo) ‘ha saputo’ da fonti del governo tedesco.
“Il governo tedesco non esclude di venire incontro alla Grecia finanziariamente, se Atene aumenta il suo impegno nella crisi dei rifugiati,” ha fatto notare venerdì il WiWo e ha citato fonti del governo Merkel:
“La nostra massima priorità attualmente è che ulteriori rifugiati rimangano in Grecia.”
Per ottenerlo “altre considerazioni come la rigorosa insistenza sugli accordi del programma (di salvataggio NdVdE) potrebbero essere messe da parte,” sottolinea il tedesco quotidiano.
All’interno di questo spettacolare ricatto, non è chiaro esattamente cosa intenda la Germania per “altre considerazioni”. Ma nella lingua comune potrebbe tradursi in qualcosa di simile:
La Germania promette di essere più comprensiva ed eventualmente chiudere un occhio o entrambi, riguardo l’attuazione rigorosa del 3° programma di salvataggio e delle infinite azioni preventive e riforme strutturali, se la Grecia accetta di mantenere più rifugiati nel paese.
Secondo WiWo, “circa 400.000 rifugiati sono arrivati in Grecia dall’inizio dell’anno. Fra loro sono molti sono anche arrivati in barca attraverso il mare Mediterraneo dalla Turchia e vogliono continuare a viaggiare all’interno dell’Unione europea, soprattutto per arrivare in Germania.”
Già ieri, avevo richiamato l’attenzione dei miei lettori su un possibile ricatto – da parte dei partner UE della Grecia in generale e della Commissione Europea in particolare – riguardo la crisi dei rifugiati. Tuttavia, mi ero concentrato sulla pressione della CE e della Germania sulla Grecia perché questa effettui “pattugliamenti congiunti con la Turchia”.
Ma oggi Berlino ha partorito questa nuova idea. Pure, il denominatore rimane lo stesso: i rifugiati e la crisi dei rifugiati in cambio di denaro e vaghe concessioni ad un paese pieno di debiti.
Molti anni fa, quando ho iniziato a scoprire quanto è grande il mondo, ero un devoto sostenitore dell’Unione Europea, della libertà di movimento di persone e merci e di altri bei sogni di un mondo libero, unito e felice.
Non riesco a esprimere quanto io sia stato deluso negli ultimi anni nel vedere che la nobile Unione europea è diventata una banda di teppisti e comuni ricattatori.
PS Tutti sappiamo che la Cancelliera Merkel è sotto immensa pressione soprattutto dal suo partner di coalizione, l’arci-conservatore CSU, riguardo le sue politiche sui rifugiati e che lei cerca di sopravvivere politicamente alla propria crisi.
Ma nel nostro mondo fatto di vita reale, i ricattatori vengono normalmente gettati in prigione.

sabato 17 ottobre 2015

Il 2017 sarà l'anno della tempesta politica perfetta

Elezioni in Francia e Germania, referendum nel Regno Unito e l'insediamento del prossimo presidente USA: il mondo non sarà più lo stesso?
Nicolas Sarkozy è riconosciuto dai partiti francesi, sia di destra che di sinistra, come un politico molto abile, scrive Martin Armstrong. Sarkozy è stato il presidente della Francia, da maggio 2007 fino al maggio 2012, quando è stato sconfitto dal socialista Hollande. Beh, Sarkozy è tornato. Le elezioni si terranno nel mese di aprile / maggio 2017.
In Gran Bretagna, i sondaggi stanno iniziando a mostrare che la maggioranza della popolazione voterà per uscire dalla UE. Anche in questo caso, il referendum dovrebbe tenersi entro la fine del 2017.
In Germania, la legge prevede che le prossime elezioni si terranno una domenica 46-48 mesi dopo la prima seduta dell'assemblea. Poiché la prima seduta dell'attuale Bundestag si è tenuta il 22 ottobre 2013, il termine ultimo per le prossime elezioni è domenica 22 Ottobre 2017. La prima data è 27 agosto 2017, che è la prima domenica dopo il 22 agosto.

Poi abbiamo le elezioni presidenziali degli Stati Uniti nel novembre 2016 con il nuovo presidente che si insedierà nel gennaio 2017.

venerdì 16 ottobre 2015

"L'uso impulsivo della forza da parte di Washington è un pericolo per il mondo"

Washington deve capire che anche la Russia ha una politica estera e una strategia di sicurezza nazionale. Ex direttore della Defense Intelligence Agency,
Paul Craig Roberts sostiene che i piani statunitensi di subordinare le azioni russe in Siria fanno parte dell'arroganza della politica estera del suo paese. E questo potrebbe portare alla sua distruzione.
L'analisi dell'assistente segretario del Tesoro Usa nel governo Reagan è in contrasto con le affermazioni di alcuni ambienti della politica americana che chiedono un attacco contro gli aerei russi operanti in Siria. Così, vorrebbero porre Mosca sotto il loro controllo nella lotta contro lo Stato islamico, perché, altrimenti, potrebbero vedere compromessi i loro interessi colpiti; vale a dire "le forze jihadiste sostenute dagli Usa", pubblica Counter Punch.
Per Roberts, la premessa che la Russia sta lavorando con gli Stati Uniti è falsa, dal momento che l'equazione dovrebbe essere il contrario, perché le forze inviate da Mosca si muovono "secondo il diritto internazionale, e fanno le cose nel modo giusto."
Secondo Roberts, che era anche editore associato del “Wall Street Journal” ,gli Stati Uniti non hanno ascoltato il discorso del Presidente Vladimir Putin all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo scorso 28 settembre, quando ha detto che "non si può tollerare" lo stato delle cose nel mondo.
Ma gli Stati Uniti non sono soddisfatti. Oltre a causare il "caos in Medio Oriente" che "minaccia di estendersi a tutti i paesi musulmani" e la conseguente ondata di profughi verso l'Europa, ora minacciano anche a Mosca e Pechino. Washington potrebbe, infatti, inviare navi da guerra nel raggio delle 12 miglia nautiche dalle isole artificiali create dal governo cinese poichè i settori più guerrafondai dicono che questo progetto è "un atto di aggressione regionale". Pertanto, Washington si sente di dover agire per proteggere lo stesso diritto internazionale che ha violato nel corso degli ultimi 14 anni e la "libertà di navigazione".
Tuttavia, non tutti i funzionari la pensano allo stesso modo e degli Stati Uniti hanno ancora qualche speranza. Michael Flynn, ex direttore della Defense Intelligence Agency, ha detto che il suo paese deve capire che anche "la Russia ha una politica estera e una strategia di sicurezza nazionale."

giovedì 15 ottobre 2015

LA LEGGE DI STABILITA': PER CHI SUONA LA CAMPANA ?

Al Governo questa volta i dati Inps vanno bene. Quelli sul breve termine, naturalmente, mentre per quanto riguarda il medio e il lungo, al solito, molto semplicemente si evita accuratamente di prenderli in considerazione. Figuriamoci di abbozzare anche la minima riflessione.
Ad ogni modo, dopo alcuni trimestri dall'entrata in vigore del Jobs Act, si conoscono infine i numeri reali (parziali) dell'operazione: i veri nuovi occupati sono 90 mila. Che non è proprio una cifra risibile in sé, bisogna ammetterlo, ma che è in grado, soprattutto, di scoprire le carte in merito a tutta questa operazione sul mercato del lavoro.
Perché questi 90 mila in più, se correlati ai 790 mila posti di lavoro a tempo indeterminato (cioè, con scadenza tra tre anni...) resi possibili dal Jobs Act, dimostrano non già l'efficacia dell'operazione per creare nuovi posti, quanto quella di consentire alle aziende di modificare i vecchi posti di lavoro già esistenti creando i nuovi poveri di domani (e in larga parte già di oggi).
In altre ere, in altri paradigmi culturali (e cultuali, se vogliamo) non si compiva alcuna azione che avrebbe potuto poi portare a uno svantaggio nel futuro. Se si tagliava un albero per fare legna ne si piantava immediatamente uno nuovo. Se si coltivava una zona di campo si lasciava l'altra a riposo, e così via. Perché il domani lo si sentiva in ogni caso proprio, o delle generazioni che dall'uomo comunque sarebbero discese. In luogo del solo qui e ora si pensava insomma anche al domani, per non doverlo pensare con timore, per non dover far diventare nero, con le preoccupazioni del futuro, anche il momento che si stava vivendo.
Per noi, oggi, accade esattamente il contrario: il futuro è nero e privo di prospettive, è gravido di minacce e, semplicemente facendo due conti in croce, con l'alta probabilità di panorami funesti. Ma pur di vivere il qui e ora, pur di mettere puntelli alla situazione disastrosa nella quale ci siamo ficcati, l'unica tattica che riusciamo a mettere in campo è quella di tamponare ora una falla ora un'altra, mai in modo definitivo. Con soluzioni sempre posticce, raffazzonate. E soprattutto a certo innesco di ulteriori problemi venturi.
Ora, tutta la strategia che ruota attorno alla trovata dell'esonero contributivo non è altro che questo. All'impossibilità di trovare un impiego, e a quella di versare il benché minimo contributo per la classe più giovane che si affaccia al lavoro, si pensa di esonerare dal versamento dei contributi anche le aziende, così che possano offrire qualche contratto in grado di far spendere qualche euro allo schiavo salariato di turno (sperando che con questo si muova un po' la domanda interna).
La retribuzione media lorda di circa il 60% dei nuovi posti di lavoro creati dal Jobs Act è di 1750 euro. Lorda, ribadiamo. Ciò significa, conti domestici alla mano, che il nuovo soggetto lavoratore a tempo pieno è in grado sì e no di arrivare alla fine del mese, andando a infoltire le schiere della nuova classe sociale del "lavoratore povero". Di colui, cioè, che pur avendo un posto di lavoro, riesce a mettere insieme uno stipendio che gli permette a malapena, e solo nella migliore ipotesi, di arrivare al tetto inferiore sotto al quale scatta la soglia della povertà.
Con la non trascurabile conseguenza, inoltre, che la sua posizione contributiva continua a essere fatiscente, se non del tutto aleatoria. E che tutta l'operazione, ai fini Inps, cioè ai fini dello Stato, viene creata e portata avanti in regime di non sostenibilità. Non solo nel lungo termine, figuriamoci, ma anche nel medio.
La decisione della Commissione europea di ieri, che ha rispedito al mittente, cioè alla Spagna, la legge di stabilità presentata dal governo iberico, intimandole di modificarla in modo da non sforare i parametri europei, è un grande campanello d'allarme proprio per l'Italia.
Il nostro governo si appresta a presentare la propria, di legge di stabilità, e mentre continua a portare avanti gli annunci in merito al possibile taglio delle tasse nel prossimo anno (tasse sulla prima casa e Ires per le aziende) in realtà i conti che dovrà far tornare, e approvare dalla Commissione europea, sono altri. E già tanto complessi dal non poter neanche immaginare sul serio di essere in grado di andare persino oltre fino al taglio delle tasse che viene ribadito in continuazione dai megafoni a reti unificate.
L'operazione farlocca degli 80 euro in busta paga (che servì a Renzi per portare a casa il buon risultato alle elezioni europee) deve essere tutta rifinanziata, così come l'esonero contributivo per le aziende. Il tutto con il misero +1% di Pil previsto (e originato dal quantitative easing della Bce e dal calo del prezzo dei carburanti, peraltro, non già da buone operazioni del governo italiano).
Ebbene, attorno a questo +1% si sta giocando tutta la tenuta del Governo Renzi, che altrimenti sarebbe già caduto da un pezzo. Invece questo Governo, votato da nessuno, forte del nulla che ha attorno (se si fa eccezione alla crescita, per ora pur non incisiva ai fini pratici, dell'M5S) sta cambiando la Costituzione e mettendo in campo una serie numerosa di riforme - peggiorative della situazione in atto - tenendosi in piedi grazie al regalo indiretto della Bce e all'appiattimento dei media che gli puntellano ogni operazione.
Lo scrivemmo a suo tempo e vale la pena ribadirlo adesso, a ridosso della presentazione alla Commissione della legge di stabilità che dovrà tra le altre cose rifinanziare le cosucce che abbiamo rammentato: o Renzi continua a tenersi agganciato a questo effetto placebo di ripresa oppure non potrà continuare a lungo a raccontare frottole e a compiere operazioni di portata limitatissima innescando le bolle sociali di domani.
Al momento, peraltro, non si prevedono favori e regali dall'Europa. Che chi ha intenzioni serie e possibili di governo post-Renzi, se c'è, si tenga dunque pronto.

mercoledì 14 ottobre 2015

Bombardare per esistere. L'Italia si butta avanti

La notizia, esplosa per una indiscrezione pubblicata con rilievo dal Corsera, è entrata di prepotenza nell'agenda politica italiana ed internazionale. Mettere a fuoco lo scenario che si va aprendo diventa a questo punto più urgente che mai. E allora prima i fatti, come si dice, e poi le opinioni.
Alla vigilia dell'arrivo in Italia del segretario alla Difesa Usa Ash Carter, per incontri con il suo omologo la ministra Pinotti e con il Presidente della Repubblica Mattarella, il Corriere della Sera lascia trapelare che a margine dell'assemblea plenaria delle Nazioni Unite, Renzi non era rimasto insensibile alla richiesta del presidente Usa di partecipare attivamente ai bombardamenti contro l'Isis. Il premer Matteo Renzi aveva assicurato a Obama un "sostegno risoluto sul fronte dell'azione antiterrorismo". L'iniziativa russa, che sta bombardando sul serio i tagliagole dello Stato islamico e i loro fratelli/coltelli di altri gruppi jihadisti, ha messo decisamente il "pepe al culo" alle potenze della Nato, alla Turchia e all'Arabia Saudita.
Pare che il Pentagono non abbia gradito la fuga di notizie perchè teme che l'enfasi complichi la decisione operativa dell'Italia di far partecipare anche i suoi Tornado al consorzio dei bombardieri. Ma il governo italiano, pur mettendo le mani avanti affermando che la cosa va valutata "assieme agli alleati" e che un'eventuale decisione "dovrà passare dal Parlamento", non disdegna affatto l'ipotesi di bombardare, anzi. Con una precisazione che pare formale – bombardiamo l'Isis solo in Iraq perchè lo ha chiesto il governo iracheno alla coalizione internazionale. Quindi i 4 Tornado italiani dislocati in Kuwait potrebbero alzarsi in volo e sganciare bombe solo sul territorio iracheno. Al momento gli aerei italiani hanno solo compiti di ricognizione ma il cambio delle regole di ingaggio e di funzione operativa sarebbe questione di minuti, poco più di un ora.
In realtà l'Italia è già abbastanza impegnata sul campo. L'Ansa ci ricorda che in Iraq l'Italia impiega 530 militari, 2 aerei senza pilota Predator e un velivolo da rifornimento in volo KC 767, oltre ai 4 Tornado. Ad Erbil (nel Kurdistan iracheno) e a Baghdad, inoltre, i militari italiani stanno addestrando le forze di sicurezza curde (peshmerga). Ora potrebbe esserci la richiesta di un salto di qualità: raid dei caccia italiani contro obiettivi mirati in modo da supportare in maniera più decisa la resistenza dei peshmerga.
Infine, è importante sottolineare, come il segretario alla Difesa Usa in visita in Italia, nel suo incontro con la Pinotti avvenuto significativamente nella base militare di Sigonella, abbia chiesto non solo la partecipazione attiva dell'Italia ai bombardamenti in Iraq e Siria ma anche di schiantare ogni ostacolo all'attivazione del Muos di Niscemi, l'impianto militare di comunicazioni satellitari statunitensi che vede la dura, diffusa e popolare opposizione della gente, dei comitati e di alcune amministrazioni locali siciliane.
Fin qui i fatti. Volendo e dovendo passare alle opinioni, è evidente come Renzi cominci a sentirsi nei panni di Camillo Benso conte di Cavour che inviò i bersaglieri nella guerra di Crimea contro la Russia per “potersi sedere al tavolo delle potenze”. Oggi come ieri, in questo caso gli Stati Uniti al posto della Francia, hanno bisogno di tutti i partner possibili per dimostrare che la loro coalizione esiste e che è composta da tanti paesi volenterosi di bombardare.
Uno statista del XXI Secolo, per esistere e manifestarsi come tale, deve infatti bombardare qualcuno o qualcosa. Il problema è sempre quello, maledetto, del rapporto tra costo e benefici. L'esperienza franco-italiana-britannica dell'aggressione alla Libia nel 2011 sta lì come uno spettro a ricordarlo. Ma anche l'esperienza statunitense in Afghanistan e Iraq si manifesta come un incubo ricorrente. C'è però una differenza. Come affermato dal maestro del cinismo Edward Luttwak, per gli Usa la guerra e l'instabilità permanente in Medio Oriente sono un buon affare, anche perchè non devono fare i conti con i milioni di profughi e rifugiati che cercano scampo e speranza in Europa. Oppure come sostiene Rosa Brooks, consigliera del Pentagono e della Casa Bianca, non è detto che oggi si debba combattere l'Isis, perchè magari tra qualche anno potrebbe essere una nuova realtà statale dell'area mediorientale con cui tenere buone e normali relazioni. Di fronte al cinico pragmatismo dei consiglieri Usa, gente con una peluria sul cuore da far spavento, “l'ammuina” di Renzi – disponibile a bombardare in Iraq ma non in Siria - appare quasi ridicola. Il problema è che il suo progetto politico e le sue ambizioni come esponente della classe dirigente prevede la tesi che per esistere e contare... devi andare a bombardare.

martedì 13 ottobre 2015

Yemen: per un goccio d’oro nero

Aerei che sganciano bombe sui civili; popolazione allo stremo, assediata e affamata; bambini fatti a pezzi; strade, ponti, scuole, ospedali, quartieri residenziali, cimiteri, aeroporti distrutti, patrimonio archeologico devastato. No, questa volta non stiamo parlando della Siria, ma di un paese dimenticato, lo Yemen
Dal 25 marzo scorso, lo Yemen è aggredito e invaso dall’Arabia Saudita, questo paese amico che ci rifornisce di petrolio e che acquista le nostre armi.
Secondo stime dell’ONU, in meno di 200 giorni di guerra, il regime wahhabita ha ucciso quasi 5000 volte in Yemen, colpendo quasi 500 bambini.
Il numero delle vittime civili della guerra in Yemen è proporzionalmente superiore al numero dei civili uccisi nella guerra di Siria. Infatti in ‪#‎Yemen‬ la metà dei morti sono civili, mentre in Siria sono “solo” un terzo. E tuttavia, nessuno degli umanisti professionali impegnati ad insultare ‪#‎Assad‬ leva la propria voce contro il re Salman.
La Siria si è vista imporre una guerra per interposti terroristi, una politica di isolamento e di sanzioni economiche. Per contro, all’Arabia Saudita vanno solo i nostri salamelecchi e le nostre lodi. “Il nostro amico, il re “Salman non fa che distruggere con le sue bombe. Impone un blocco terrestre, marittimo ed aereo che, secondo Medecin sans frontières (MSF), uccide altrettanti civili della guerra. 20 milioni di Yemeniti rischiano infatti di morire di fame e di sete a causa della guerra e dell’embargo saudita.
Si è vista raramente una politica dei due pesi e delle due misure così netta, tra una Siria che scatena passioni ed uno Yemen che lascia indifferenti.
Questa politica dei due pesi e delle due misure assomiglia ad un match di box tra un peso massimo e un peso piuma dove il primo può colpire il secondo sotto la cintura, ma non il contrario.
Il vaso di ferro contro il vaso di terracotta
L’aggressione saudita contro lo Yemen ha una dimensione mitica.
E’ la storia del paese arabo più ricco del mondo in guerra contro il paese arabo più povero del mondo. Ancora una volta prevale la legge del più forte.
Noi abbiamo consentito al nostro amico, il re Salam, di costruire una guerra sunnita/sciita in Yemen, mentre la gran parte dei mussulmani yemeniti prega insieme in moschee prive di qualsiasi etichetta confessionale.
Noi abbiamo demonizzato e bandito il movimento ribelle Ansarullah, definendolo “sciita” e “houthi”, per compiacere il nostro amico il Re Salman, mentre Ansarullah non è altro che una coalizione patriottica cui appartengono numerose personalità sunnite come il mufti Saad Ibn Aqeel, o anche formazioni non religiose come il partito Baath arabo socialista dello Yemen.
Noi abbiamo escluso Ansarullah dai pourparler di pace, nel momento in cui il movimento ribelle negoziava coi suoi avversari politici, ivi compreso Abderrabo Mansour al Hadi, un agente saudita all’epoca agli arresti domiciliari.
Noi abbiamo consentito che lo Yemen tornasse ad essere il cortile sul retro del Re Salman, mentre questa nazione aspirava all’indipendenza.
Noi abbiamo voltato lo sguardo, mentre i sicari del Re Salman (Al Qaeda e Dach) davano alle fiamme la chiesa di San Giuseppe a Aden e bombardavano la moschea sciita di Al Moayyad a Jarraf. Noi non abbiamo versato una sola lacrima per i bambini yemeniti bruciati vivi dai bombardieri del nostro amico, il Re Salman.
Lo Yemen è un paese così lontano che i suoi rifugiati non ci invaderanno.
Lo Yemen è un paese tanto trascurato che i suoi lamenti non ci raggiungeranno.
Se Jean de la Fontaine fosse stato testimone della guerra del Re d’Arabia saudita contro il suo miserabile vicino, avrebbe forse ripreso la favole del vaso di ferro contro quello di terracotta:
“Che venne fatto in mille pezzi dal suo compagno
Senza avere avuto neppure il tempo di lamentarsi”.
E sono 200 giorni che il movimento internazionale per la pace lascia fare il vaso di ferro contro un paese fragile come un vaso di terracotta.
E’ come se ci fosse caduto sulla testa un vaso di ferro.
Lo Yemen di oggi, è lo Yemen di ieri
Negli anni 1960 e 1970, in Vietnam è successo qualcosa di simile a quanto accade oggi in Yemen. Ngo Dinh Diem era l’uomo di paglia degli USA, così come Abderrabo Mansour al Haidi lo è dell’Arabia Saudita.
Il Vietcong (FNL) di allora è l’Ansarullah di oggi.
Che il primo fosse comunista e il secondo di ispirazione sciita conta poco. I movimenti nazionalisti vietnamiti e yemeniti hanno entrambi come obiettivo l’unificazione del loro paese e l’emancipazione dal giogo straniero.
All’epoca il movimento internazionale per la pace ha sostenuto la resistenza del popolo vietnamita, senza peraltro essere comunista e nonostante il fatto che i vietcong fossero aiutati dall’URSS e dalla Cina.
Oggi il movimento internazionale per la pace, non solo non difende il diritto del popolo yemenita alla resistenza col pretesto – tra l’altro – che è aiutato dall’Iran e dalla Siria ma, in più, non difende nemmeno quello che è la sua ragion d’essere, la pace.
Niente sangue per il petrolio
Non molto tempo fa, nel 1991 e nel 2003, gli USA hanno usato il suolo saudita per fare la loro guerra contro l’Iraq.
All’epoca eravamo milioni a gridare “Niente sangue per il petrolio” (No Blood for oil). Oggi né l’Impero USA, né l’Arabia Saudita, né i motivi della guerra sono cambiati.
Soprattutto continua a essere versato sangue per il petrolio.
Solo il movimento per la pace è cambiato. Non è nemmeno più un movimento, solo una massa inerte e silenziosa cullata da illusioni come la “rivoluzione araba”, il “diritto di ingerenza” e la “responsabilità di proteggere”…, a colpi di bombe della NATO.
Nel frattempo il popolo dello Yemen è vittima di una guerra, una guerra che non ci è estranea, una guerra assai sanguinosa alla quale i nostri governanti hanno dato il segnale verde per un goccio d’oro nero.