Blog che parla dei fatti, degli avvenimenti e di tutto quello che riguarda il mio paese..Legnago...bisognoso di un forte rinnovamento politico ed amministrativo per potere svilupparsi e risorgere dalle paludi e dal decadimento in cui è caduto.
In
Lombardia, la campagna vaccinale va sempre peggio. Si procede con circa
10.000 dosi al giorno e ora si propone di dirottare i vaccini
disponibili verso le provincie a maggior rischio, come quella di
Brescia, tralasciando le persone che fanno parte della “fase 1 bis”,
inventata di sana pianta da Fontana-Moratti-Bertolaso per giustificare i
ritardi. Insomma, guerra tra poveri.
Peraltro, il gioco dei colori sta diventando davvero esasperante, la provincia di Brescia è in zona “arancione rafforzato”, un escamotage
verbale per non dichiarare la “zona rossa” e lasciare aperta qualche
attività commerciale in più. Insomma, storie di ordinaria vergogna.E
follia…
Ora,
per accelerare i tempi di un piano vaccinale in realtà inesistente, con
una sanità regionale esausta e al crollo, la giunta ha deciso di
ricorrere, come al solito, alla “sussidiarietà” dei privati.
In
pratica, gli ospedali privati saranno coinvolti nella somministrazione
dei vaccini, naturalmente a pagamento. L’onnipresente gruppo San Donato
(presieduto da Angelino Alfano e con Maroni consigliere
d’amministrazione), ma anche Multimedica e l’Istituto Auxologico sono
già pronti all’affare.
Infatti,
si parla di un rimborso da parte della regione, cioè dei cittadini
lombardi, di circa trenta euro a somministrazione, considerando le due
dosi. Tutto ciò grazie all’incapacità delle strutture pubbliche, ormai
distrutte dalle politiche della destra al potere, in Lombardia, da
trent’anni.
Inoltre,
per accelerare la campagna vaccinale, Letizia Moratti ha avuto un’altra
idea geniale: somministrare solo una dose di vaccino senza data certa
di richiamo, per vaccinare più persone possibili in tempi rapidi. Ciò
garantirebbe, secondo Moratti, la possibilità di “continuare le normali
attività”, vale a dire di produrre senza chiudere le fabbriche. In
pratica, verrebbe così diffusa nella popolazione una falsa sensazione di “sicurezza”, che contribuirebbe enormemente alla diffusione del contagio.
Anche
se è vero che alcuni articoli scientifici sostengono che una prima dose
possa procurare una certa immunità, i protocolli approvati dall’Agenzia
europea del farmaco e da quella italiana, anche sulla documentazione
prodotta dalle case produttrici, indicano che almeno per i vaccini
Pfitzer e Moderna è necessario effettuare il richiamo a tre settimane dalla prima somministrazione.
Resta
quindi il ragionevole dubbio che seguendo il protocollo suggerito da
Moratti si possa in realtà solo sprecare dosi di vaccino che non
garantiranno un’effettiva copertura. E’ chiaro che l’obiettivo della
giunta lombarda è quello di garantire il profitto delle imprese, non
quello di tutelare la salute dei cittadini, mandati allo sbaraglio a
lavorare in luoghi non controllati e su mezzi contaminati.
Il
caos della sanità lombarda è totale, tra logica del profitto e della
sussidiarietà, tra privatizzazioni e taglio delle strutture pubbliche.
La doccia fredda è arrivata con una dichiarazione rilanciata all’agenzia Reuters.
Secondo questa fonte l’AstraZeneca prevede di consegnare alla Ue nel
secondo trimestre meno della metà delle dosi già concordate in sede
contrattuale.
A
rivelarlo alla Reuters è stato un funzionario dell’Unione Europea
secondo cui la multinazionale anglo-svedese riuscirà a consegnare “meno
di 90 milioni di dosi nel secondo trimestre”.
Per
la Ue si tratta di un batosta materiale e di immagine che potrebbe
mettere a rischio l’obiettivo di vaccinare il 70% della popolazione
adulta entro l’estate per avvicinarsi cosi all’obiettivo dell’immunità
di gregge.
Secondo
i termini contrattuali con la Ue, AstraZeneca si era impegnata a
consegnare 180 milioni di dosi alla Ue fra aprile e giugno. “Poichè
stiamo lavorando incredibilmente duro per aumentare la produttività
della nostra catena di rifornimenti europea, e stiamo facendo tutto il
possibile per sfruttare la nostra catena globale – ha dichiarato un
portavoce di Astrazeneca – speriamo di riuscire a portare le nostre
consegne in linea con gli accordi del pre-ordine”.
La
Reuters sottolinea come l’Unione Europea abbia anche dovuto affrontare
ritardi nelle consegne dei vaccini sviluppati da Pfizer e BioNTech così
come quello di Moderna che, insieme ad AstraZeneca sono finora sono gli
unici vaccini approvati dall’agenzia del farmaco europea. Il vaccino di
AstraZeneca è stato autorizzato alla fine di gennaio ma ci sono alcuni
stati membri dell’UE come l’Ungheria che ormai stanno utilizzando i
vaccini sviluppati in Cina e Russia.
L’appello
lanciato in Europa – e in Italia da Potere al Popolo – rammenta come i
brevetti siano l’ostacolo che impedisce oggi di sviluppare in tempi
brevi il vaccino per tutti i popoli del mondo, come chiesto a gran voce
da India e Sudafrica; sono il tappo a qualsiasi forma di trasparenza
sugli studi condotti finora e sulla reale efficacia delle molecole
attualmente disponibili, su tutto ciò che riguarda la loro
commercializzazione, i contratti stipulati, i costi di produzione, per
finire a quanti di questi costi siano stati scaricati sugli Stati
acquirenti e quindi, indirettamente, sulle tasche di noi cittadine e
cittadini.
A
tale scopo decine di migliaia di cittadine e cittadini europei stanno
promuovendo la campagna No Profit On Pandemic (Nessun profitto sulla
pandemia!) e daranno vita il prossimo 11 marzo ad una giornata di mobilitazione internazionaleper non lasciare nelle mani di aziende private il potere di decidere chi abbia accesso a cure e vaccini e a quale prezzo.
La crisi del modo di produzione capitalistico è un fatto acclarato. Allo
stesso tempo lo è la sempre più aspra competizione che genera tra i tre
maggiori blocchi politico-economici: USA, UE e Cina.
Questa crisi è stata aggravata dalle conseguenze particolarmente rilevanti della Pandemia a causa dell’incapacità strutturale di affrontarla da parte di due sistemi sociali come quello statunitense e quello “europeo”.
Se
la crisi è un tratto comune a tutti gli attori dell’attuale
economia-mondo, differenti sono le risposte che si stanno attuando per
superarla.
Va
detto subito che la Cina sembra essere la potenza più attrezzata per
superare le storture relative a quegli aspetti della propria economia,
che aveva in parte mutuato dal modello di sviluppo del capitalismo
occidentale.
USA
e UE ricorrono invece a formule che sembrano destinate a generare
maggiori mali di quelli che si vorrebbero curare, con ricette solo
parzialmente di rottura.
Partiamo
dalla semplice considerazione del fallimento empirico delle soluzioni
proposte dopo la crisi innescata dai mutui “sub-prime”, poco meno di
quindici anni fa o, come afferma l’autore dell’articolo che abbiamo qui
tradotto:
“Nel
decennio successivo a quella crisi, l’economia statunitense, insieme a
quasi tutte le altre economie avanzate, non è riuscita a tornare sul
percorso della produzione pre-crisi.”
La pandemia poi ha reso evidente che le oligarchie statunitensi ed europee non sono andate oltre alla logica del cane che si mangia la coda.
“Convivere con il virus” per non contrarre ulteriormente l’economia e stare al passo con gli altri competitor,
oltre ad una strage di vite umane, non ha minimamente fermato la corsa
verso l’abisso di sistemi economici già stressati ma ha senz’altro
avviato un ciclo di ristrutturazione su amplissima scala, dai ritmi piuttosto scadenzati in un ampia gamma di settori.
Noi ci troviamo quindi dentro
questo ciclo di ristrutturazione del capitale monopolistico per il
rilancio dell’economia nella fase post-pandemica, in un passaggio di
fase che comunque vada ri-configurerà la società nel suo complesso,
compresa quella cosa chiamata politica.
Lo
vediamo anche nel nostro ridotto nazionale, dove la crisi politica che
ha portato alla fine del Conte-bis ha aperto la strada al commissariamento
di fatto del nostro Paese da parte della UE con Draghi, che sarà prima
capo dell’esecutivo e poi Presidente della Repubblica, ed tutto il ceto
politico costretto ad un aut-aut secco: o mangi questa minestra, o salti dalla finestra.
La
fine della transizione politica in USA ed il commissariamento del
nostro Paese sono due fenomeni contemporanei ed in parte intrecciati.
Per
focalizzarci sugli USA, che è l’oggetto dell’articolo qui tradotto, è
necessario chiarire subito che le formule adottate da Biden sono in
netta continuità con le politiche fin qui perseguite attraverso indebitamento, immissione di liquidità ed un costo del denaro irrisorio.
Per
essere realizzate, il dollaro dovrà essere in grado di conservare la
sua rendita di posizione internazionale, scaricando i costi dello
sperato rilancio economico USA – che ha importanti aspetti di sviluppo
in settori strategici dell’economia – sul resto del mondo, mantenendo
inalterata l’appetibilità dei propri mercati finanziari e dei propri
differenti titoli pubblici.
Intanto ha proceduto ad una manovra di stimolo economico con dimensioni da New Deal
che, se si sommano i provvedimenti presi dalla precedente
amministrazione Trump e dell’entrante Biden, ammontano addirittura al
14% del PIL. La differenza sta appunto nell’ordine di grandezza.
Il
dibattito economico è acceso, e l’unica paura dei pezzi da Novanta del
pensiero economico sembra essere la possibile crescita dell’inflazione.
Uno spauracchio per chi ha fin qui sostenuto la deflazione salariale
senza se e senza ma e quindi il contenimento del potere d’acquisto delle
classi subalterne, surrogato da un maggiore accesso al credito su cui si costruivano i castelli di carta dell’economia finanziaria.
L’Unione
Europea sembra seguire a rimorchio, costretta a fare salti in avanti
epocali per cercare di reggere la competizione, senza avere però né la
rendita di posizione della valuta statunitense, né la sua potenza
militare, né tanto meno i livelli di centralizzazione del potere
politico. Dispone però comunque di alcuni punti di forza.
Deve
adeguarsi ed in fretta ed impedire che le sue fragilità strutturali
diventino il ventre molle in cui i competitor affondano i propri
artigli.
Riprendiamo il discorso del Financial Times.
“Tra
coloro che guardano con invidia oltre l’Atlantico ci sono gli europei,
che temono che l’eurozona sarà ancora una volta inferiore agli Stati
Uniti in termini di azione politica e risultati. Erik Nielsen, capo
economista di UniCredit, afferma che con il sostegno fiscale dell’UE pari a circa la metà di quello degli Stati Uniti,
l’Europa è ora ‘congelata dalla paura’, il che probabilmente porterà a
‘altri tre o cinque anni di sotto-performance della crescita europea
rispetto agli Stati Uniti'”.
L’UE tutta dovrebbe quindi fare un salto di qualità – whatever it takes,
potremmo dire – pena il fatto che le oligarchie europee vengano
derubricate ad attori regionali in conflitto con altre potenze regionali
(Turchia, Russia e petromonarchie del Golfo) nei suoi tradizionali
territori di penetrazione, dal Medio-Oriente all’Africa trans-sahariana
passando per i Balcani, ma rinunciando ad assumere un qualche ruolo di
leadership globale ed una reale autonomia strategica.
Una
potenza periferica a livello sub-regionale, insomma, che i concorrenti
si mangiano pezzo dopo pezzo; una specie di Impero Ottomano del XXI
Secolo.
“Se
continua lungo le linee esistenti e non segue gli Stati Uniti, dice:
‘L’Europa avrà una ripetizione della lenta ripresa dopo la crisi
finanziaria'”, affermaRobin Brooks.
Senza comprendere questo “grande gioco” a cui l’aspirante polo imperialista europeo è chiamato in un clima da nuova guerra fredda,
è impossibile capire sia 1) le convulsioni di un vecchio ceto politico
da rottamare, che 2) l’urgenza della sfida della rappresentanza politica
per le classi sociali subalterne ed il ceto medio-impoverito.
Passano
i giorni, non è cambiato ancora nulla, anche se i media di regime ci
raccontano splendide favole sul nuovo governo. Esempi? Repubblica di oggi, con la sua prima pagina entusiastica “Vaccini, Draghi accelera”.
Non
dubitiamo che il nuovo premier abbia dato ordine di darsi una mossa per
accelerare una campagna vaccinale segnata da defaillance assurde (a
Varese sono stati convocati tutti – tutti – gli over 80 alle 8 di
mattina, facendoli mettere in fila per ore al freddo e al gelo). Sa bene
che sulla copertura di una fascia considerevole della popolazione si
gioca anche la ripresa delle attività economiche in stand by (non quelle
industriali, che non si sono mai fermate).
Però
sappiamo per certo – sempre dalla stampa mainstream – che i vaccini
mancano perché le multinazionali (Pfizer, Moderna, AstraZeneca) non
stanno rispettando le forniture previste nei contratti (peraltro
secretati, come fossero armi). Dunque, “accelerare” sui vaccini, con
buona pace del nuovo direttore di Repubblica, è piuttosto difficile.
La
situazione è ulteriormente complicata da iniziative propagandistiche di
governatori scombiccherati, come quello del Veneto, che asserisce di
star cercando “milioni di dosi sul mercato”. Ben sapendo che non esiste
un “mercato”,se non quello dei contratti e delle consegne tra
multinazionali e governi (nel caso italiano il contratto è stato firmato
dalla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen).
A meno che, per trovare dosi “eccedenti”, non si stia compulsando il dark web, come i normali cercatori di pasticche miracolose… Di vaccini attendibili, in giro, non ce ne sono.
Si potrebbe firmare un contratto con la Russia per quello chiamato Sputnik, riconosciuto molto valido dalla rivista inglese Lancet,
ma la Ue – per stoppare ogni richiesta su questo fronte – pretende di
far “ispezionare gli impianti di produzione da esperti europei”.
Possiamo facilmente immaginare la risposta di Mosca (“tenetevi pure il virus, se vi piace tanto”).
Altre
notizie, per ora, dal governo non arrivano. E dunque sarà il caso di
riflettere meglio sullle cose importanti che Draghi ha messo sul piatto
fin qui, con il suo discorso. Il passaggio essenziale, secondo noi, è
questo:
“Questo
governo nasce nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio
fondatore, all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza
Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei
loro irrinunciabili principi e valori. Sostenere questo governo
significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro,
significa condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più
integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di
sostenere i Paesi nei periodi di recessione. Gli Stati nazionali
rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite
dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità
condivisa. Anzi, nell’appartenenza convinta al destino dell’Europa
siamo ancora più italiani, ancora più vicini ai nostri territori di
origine o residenza.”
Non
è una “stoccata a Salvini”, come i media hanno provato a stemperare, ma
la definizione del perimetro entro cui – non solo a giudizio del
neo-premier – è ammessa una dialettica politica e sociale. Unione
Europea e Nato. Punto.
Un “orizzonte”, come si dice, verso cui si sta andando per realizzare “un’Unione Europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune”.
Per
ora sappiamo che i bilanci dei singoli Stati membri vengono stilati
sotto l’attenta vigilanza della Commissione Europea, secondo i
criteri e la tempistica definiti da alcuni trattati (Fiscal Compact,
Six Pck e Two Pack). Ma è chiaro che con un “bilancio comune” anche quei
piccoli margini di trattativa sulla destinazione d’uso delle risorse
finanziarie nazionali – reperite tramite la tassazione e il
finanziamento sui mercati – verranno meno.
E’ questa, infondo, la differenza fondamentale tra un’alleanza di vari Stati indipendenti e uno Stato sovranazionale, sa pure in lentissima e non facile costruzione. Il resto ne discende di conseguenza.
E infatti Draghi, che è certamente persona precisa, ha voluto rafforzare il concetto: “Gli
Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle
aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per
acquistare sovranità condivisa”.
Apprendiamo quindi anche da lui (non che sia una vera novità…) che la sovranità non è una parolaccia da appiccicare ai Salvini o alle Meloni (che infatti hanno calato subito la maschera), ma un attributo fondamentale di uno Stato.
Insomma, che qualsiasi cosa si intenda fare, c’è il potere sovrano che consente o no di farla.
Può essere un uomo (il “re”, ossia la monarchia), può essere un gruppo
ristretto (oligarchia), un esercito (dittatura militare), un popolo
(democrazia, parlamentare o socialista), oppure “i mercati” (manca
ancora la definizione). Ma il potere sovrano ha dei titolati.
“Sovrano” non significa infatti un tizio con una corona in testa, ma semplicemente quel potere che non ne ha altri al di sopra di sè.
Nella Costituzione italiana nata dalla Resistenza la sovranità appartiene al popolo. Prevede insomma una sovranità popolare
che si esercita, per forza di cose, su un territorio delimitato da
confini. Non puoi comandare a casa d’altri, se non facendo follie come
le guerre. Nessuno può comandare su di noi, se non in quel modo o di
comune accordo.
E Draghi proprio questo ha voluto ricordarci: quella sovranità popolare è in via di cessione, da parecchi anni, verso altre istituzioni. Sovranazionali.
Non è vero dunque che sia scomparsa “la sovranità”. E’ stata invece cancellata la sua proprietà popolare, per usare un termine “economico”, trasferendola a un organismo sovranazionale non eletto da nessuno.
Ricordiamo che il Parlamento europeo ha questo nome, ma non il potere
legislativo tipico di ogni Parlamento. A Strasburgo, insomma, non si
fanno “leggi europee”, ma si approvano – oppure no, ma è raro – leggi
formulate dalla Commissione (che equivale entro certi limiti al nostro
“governo”).
Perché ci soffermiamo con tanta attenzione su questi concetti?
Perché bisogna sapere chi comanda davvero e dove sta il potere sovrano che determina il modo in cui viviamo.
Ogni
lotta popolare ha un bisogno disperato di “non sbagliare indirizzo” nel
rivolgere le proprie rivendicazioni. Inutile prendersela con il Comune
per un problema creato dal governo nazionale, e viceversa.
Così, quando avremo davanti le “riforme” che Draghi promette fin dalle prime righe, dobbiamo sapere chi e dove
ha deciso che dovremo avere pensioni e salari più bassi, meno diritti
sul lavoro, più precarietà e incertezza, meno copertura sanitaria (non
appena passata la pandemia), una scuola come semplice formazione professionale, ecc.
La “sovranità”, insomma, è il nostro potere popolare di influire su quelle scelte.
Draghi
ha finalmente parlato, in Senato, per chiedere la fiducia al nuovo
governo. E tutti attendevano naturalmente il suo discorso.
Dopo
aver sfrondato la retorica catto-democristiana – si sente a grande
distanza il peso ideologico di Comunione e Liberazione, influente anche
come numero di ministri “formati” nelle sue fila – alcune cose emergono
con chiarezza, mentre molte restano nascoste sotto un velo di genericità
che non dipende solo dall’occasione (i programmi concreti si discutono
quando vengono presentate leggi o decreti).
Rientra
in questo ambito tutta la parte iniziale, dedicata all’”unità”, alla
“responsabilità nazionale”, alla “politica che non ha fallito”, ecc.
Partiamo dalle certezze. Questo è un governo che “nasce
nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore,
all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel
solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro
irrinunciabili principi e valori. Sostenere questo governo significa
condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa
condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata che
approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei
periodi di recessione. Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei
nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono
sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa. Anzi,
nell’appartenenza convinta al destino dell’Europa siamo ancora più
italiani, ancora più vicini ai nostri territori di origine o residenza”.
Una scelta di campo piena e integrale,
insomma, che non ammette “distonie” sui fondamenti di questa
appartenenza. Ossia a tutti i trattati che legano (e subordinano)
l’Italia alla Nato e all’Unione Europea. Una “cessione di sovranità” ammessa esplicitamente alla faccia di quanti – dentro e fuori il Parlamento – ancora esitano a riconoscerla come tale.
I
media mainstream sottolineeranno naturalmente come questo passaggio – e
soprattutto “l’irreversibilità dell’euro” – sia una stoccata a Salvini e
alla Lega. Ma, anche in questo caso, può essere sorpreso solo chi non
ha ancora capito quanto l’”euroscetticismo” fascioleghista fosse
soltanto un atteggiamento elettoralistico, per captare il malcontento
popolare verso quell’”Europa” che “ci chiede sacrifici e riforme”. Il
vero “blocco sociale” leghista, infatti, ovvero le piccole e medie
imprese del Nord, di tutto ha bisogno tranne che di allontanarsi dalle
filiere produttivi di cui è sub-committente (Germania e Francia,
nell’ordine).
Una
seconda certezza è che molte delle “riforme” che verranno messe in
cantiere saranno giocate sulla narrazione tossica della “guerra
generazionale”, opponendo futuro dei giovani e diritti/redditi degli
anziani. L’accenno fatto, subito dopo aver ricordato che le “risorse
sono sempre scarse”, non lascia molti dubbi: “Nella
speranza che i giovani italiani che prenderanno il nostro posto, anche
qui in questa aula, ci ringrazino per il nostro lavoro e non abbiano di
che rimproverarci per il nostro egoismo.”
Su
pandemia e vaccinazioni, dobbiamo dire, non si sono sentite idee
particolarmente brillanti. Ci si muove a tentoni, sapendo che le dosi di
vaccino dipendono dalle concessioni delle multinazionali con cui la UE
ha firmato contratti secretati. E che ogni nuovo lockdown sarà un colpo
per l’economia.
Certo
c’è l’assicurazione verbale a voler “accelerare”, facendo di qualsiasi
luogo adatto un possibile centro di vaccinazione. Ma nulla di più.
Il
discorso sulla sanità, del resto, è stato altamente contraddittorio. Da
un lato la dichiarata volontà di potenziare la medicina territoriale
(massacrata dai tagli di spesa e dalle privatizzazioni/convenzioni),
dall’altra lo sviluppo della telemedicina (quella con cui il leghista
Giorgetti proponeva di sostituire i medici di base, che costituiscono
poi la rete della “medicina territoriale”).
Sui temi economici, e sulle “riforme”, solo pochi accenni, ma tutti dentro il quadro di un “neoliberismo compassionevole”.
Per
esempio: si riconosce che le disuguaglianze sono aumentate a dismisura,
e che bisognerà aiutare chi ha perso il lavoro o lo perderà nei
prossimi mesi (le “imprese zombie”, che andavano male già prima della
pandemia, non verranno salvate e dovranno licenziare o chiudere). Ma la
chiave di volta proposta è una “riforma degli ammortizzatori sociali”
nel solco delle indicazioni europee e delle richieste di Confindustria.
Ossia:
non sussidi tipo la cassa integrazione o la Naspi, ma “politiche
attive”, fatte di formazione e obbligo ad accettare qualsiasi lavoro con
qualsiasi salario, nello stile delle leggi Hartz IV in Germania.
Particolarmente indicativo l’accenno fatto allo “squilibrio” esistente oggi nelle “reti di protezione sociale”, che “non proteggono a sufficienza i cittadini con impieghi a tempo determinato e i lavoratori autonomi”.
SI avverte il ronzio in sottofondo di un altro luogo comune inventato
per incentivare la guerra tra poveri, con l’immagine dei lavoratori
dipendenti a tempo indeterminato “protetti” dagli ammortizzatori e gli
altri senza rete. Una condizione in parte vera, ma anche voluta scientificamente da tutti i governi neoliberisti degli ultimi 30 anni, e a cui in genere si propone di rimediare togliendo protezioni a chi oggi le hasenza peraltro darne alcuna a chi ne è privo.
Lo abbiamo visto già con le leggi sul mercato del lavoro, dove è stato
cancellato di fatto lo Statuto dei lavoratori senza che i precari
abbiano ricevuto la benché minima attenuazione della loro condizione
schiavistica.
Anche
il grande spazio dato ai temi ambientali, e al cambiamento del modello
produttivo, all’innovazione tecnologica, non esce dalla solita divisione
del lavoro: allo Stato il compito di fare investimenti mirati in “digitalizzazione,
agricoltura, salute, energia, aerospazio, cloud computing, scuole ed
educazione, protezione dei territori, biodiversità, riscaldamento
globale ed effetto serra”, mentre le imprese private devono essere invitate “a
partecipare alla realizzazione degli investimenti pubblici apportando
più che finanza, competenza, efficienza e innovazione per accelerare la
realizzazione dei progetti nel rispetto dei costi previsti.”
Tradotto: il vituperato “pubblico” mette i soldi, le imprese li usano; magari in modo meno arbitrario che in passato. Ma lo schema non cambia.
Tra
le “riforme” molti avranno tirato un sospiro di sollievo non sentendo
nominare le pensioni. Ma è stata la pandemia a distruggere l’argomento
principale in mano a tutte le Fornero di questo paese, e Draghi si è
limitato a riconoscerlo: “L’aspettativa
di vita, a causa della pandemia, è diminuita: fino a 4 – 5 anni nelle
zone di maggior contagio; un anno e mezzo – due in meno per tutta la
popolazione italiana. Un calo simile non si registrava in Italia dai
tempi delle due guerre mondiali”.
E se si vive di meno, è difficile pretendere che si debba lavorare più a lungo…
Tra
quelle nominate, invece, ci sono due “riforme” che “vuole l’Europa”,
arrivando a dettare finanche le linee guida che dovranno essere seguite.
“Nel campo della giustizia le azioni da svolgere sono principalmente quelle che si collocano all’interno del contesto e delle aspettative dell’Unione europea.
Nelle Country Specific Recommendations indirizzate al nostro Paese
negli anni 2019 e 2020, la Commissione, pur dando atto dei progressi
compiuti negli ultimi anni, ci esorta: ad aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile, attuando e favorendo l’applicazione dei decreti di riforma in materia di insolvenza,
garantendo un funzionamento più efficiente dei tribunali, favorendo lo
smaltimento dell’arretrato e una migliore gestione dei carichi di
lavoro, adottando norme procedurali più semplici, coprendo i posti
vacanti del personale amministrativo, riducendo le differenze che
sussistono nella gestione dei casi da tribunale a tribunale e infine
favorendo la repressione della corruzione.”
La seconda, certamente più problematica e foriera di grandi tagli occupazionali, riguarda la pubblica amministrazione. “La
riforma dovrà muoversi su due direttive: investimenti in connettività
con anche la realizzazione di piattaforme efficienti e di facile
utilizzo da parte dei cittadini; aggiornamento continuo delle competenze
dei dipendenti pubblici, anche selezionando nelle assunzioni le
migliori competenze e attitudini in modo rapido, efficiente e sicuro, senza costringere a lunghissime attese decine di migliaia di candidati.”
La
digitalizzazione, così come è avvenuto in buona parte del settore
privato, comporterà un’”asciugatura” drastica nelle dimensioni del
personale. Tranne che, ovviamente, per quanto riguarda il lato
militar-poliziesco (considerevole il fatto che le parole spese per il
Sud riguardino quasi soltanto il “contrasto della criminalità
organizzata”, che è certamente un enorme problema, ma non proprio
l’unico del Mezzogiorno).
Infine
il tema bollente della riforma fiscale, su cui è stato particolarmente
abile nello sfuggire a qualsiasi indicazione esplicita.
Viene invocata la necessità di un “intervento
complessivo [che] rende anche più difficile che specifici gruppi di
pressione riescano a spingere il governo ad adottare misure scritte per
avvantaggiarli”. Un compito da cui “i politici” (è sottinteso) farebbero bene a star lontani, perché “le esperienze di altri paesi insegnano che le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, che conoscono bene cosa può accadere se si cambia un’imposta”.
Discorso
criptico, che si chiarisce però con l’esempio della Danimarca, che ha
varato di recente una sorta di “flat tax ammorbidita”, che mette insieme
tagli delle tasse per i redditi alti e aumento della detrazioni per
quelli da lavoro. Rispettando insomma – ma solo nella forma – la
“progressività” dell’imposizione tributaria, senza però alcun effetto
redistributivo verso il basso. Anzi, fortemente a favore dei più ricchi.
Del resto è Draghi stesso ad ammette che “Una
riforma fiscale segna in ogni Paese un passaggio decisivo. Indica
priorità, dà certezze, offre opportunità, è l’architrave della politica
di bilancio”. Nel nostro
linguaggio diremmo che ogni riforma fiscale ha un “segno di classe” e
quella indicata dalla Danimarca è un segno semplicemente odioso…
Non
a caso, è anche lui obbligato a chiudere l’argomento, come tutti i
pinocchio che l’hanno preceduto a Palazzo Chigi, promettendo un più
forte “contrasto all’evasione fiscale”. Un campo dove, con le sue competenze, potrebbe effettivamente fare sfracelli, se solo volesse…
In definitiva, un discorso da cui non esce la sostanza del disegno di ristrutturazione del Paese. Ne viene evocata la necessità e l’urgenza, ma non i passaggi concreti.
Per
quelli, senza dubbio, dovremo attendere quel che matura nei
ministeri-chiave – quelli economici – affidati ai “tecnici” di sua
stretta fiducia.
Nel
1976 nasce il governo “di solidarietà nazionale” guidato da Giulio
Andreotti, monocolore DC grazie all’astensione attiva di PCI, Psi, Psdi,
Pri. Il Governo Andreotti III è il trentatreesimo governo della
Repubblica Italiana ed il primo della VII legislatura e rimane in carica
dal 30 luglio 1976 al 13 marzo 1978, per un totale di 591 giorni,
ovvero 1 anno, 7 mesi e 13 giorni.
Con
l’ingresso del più grande partito comunista di tutto l’occidente
nell’area di governo, il quadro politico è definitivamente bloccato. Da
lì parte la repressione violenta e la criminalizzazione di ogni residua
forma di opposizione politica e sociale resa possibile dall’approvazione
della famigerata “legge Reale”.
È la Legge 152 del 22 maggio 1975 recante “Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico” che
trasforma il conflitto sociale in un problema, per l’appunto, di
“ordine pubblico”. Quella legge porta il nome del suo principale
promotore, Oronzo Reale, ministro della giustizia del IV governo guidato
da Aldo Moro, tra il novembre del 1974 e il febbraio del 1976.
Dopo
le grandi lotte della seconda metà degli anni sessanta e della prima
metà degli anni settanta, che tante conquiste sociali e politiche
avevano prodotto, la borghesia ha sete di vendetta e sta per riprendersi
tutto e con gli interessi.
La
Legge Reale, approvata dal IV governo Moro, aveva sancito il diritto
delle forze dell’ordine a utilizzare armi da fuoco “quando strettamente
necessario”. Concetto talmente elastico al punto che, nel periodo della
vigenza della legge, fino al giugno 1989, si contano ben 625 colpiti da
arma da fuoco delle forze dell’ordine, di cui 254 uccisi e 371
gravemente feriti. Nel 90% dei casi le vittime non possedevano alcun
arma: omicidi preventivi.
Dal
macabro conteggio sono esclusi tutti i manifestanti feriti dai colpi
delle forze dell’ordine che non si sono recati negli ospedali, onde
evitare conseguenze penali. Si, perché l’altro cardine della legge Reale
è il ricorso massiccio ed indiscriminato all’istituto della “custodia
preventiva” (misura cautelare prevista in caso di pericolo di fuga,
possibile reiterazione del reato o turbamento delle indagini) che viene
estesa dalla Legge Reale anche in assenza di flagranza di reato.
La
norma, in totale spregio dei principi fondamentali dello Stato di
Diritto, consente un ricorso all’istituto della custodia cautelare
praticamente senza più alcun limite. Ed è così che, durante i 591 giorni
del terzo governo Andreotti, con l’avallo e la complicità organica del
Partito Comunista Italiano guidato da Enrico Berlinguer, inizia la
repressione feroce del più grande movimento di classe di tutto
l’occidente.
Alla
legge Reale si aggiungerà, nel 1977, un pacchetto di «leggi
eccezionali» che inaspriscono ulteriormente il quadro repressivo. E così
migliaia di militanti politici e semplici attivisti di movimento
passeranno lunghi periodi di carcerazione preventiva (in molti casi per
un numero considerevole di anni) privati del diritto di difesa, senza un
processo e subendo, spesso, durante la detenzione, torture, abusi,
violenze e deprivazioni di ogni genere con il fine ultimo di indurli
alla delazione nei confronti dei propri compagni, alla dissociazione
dalle proprie idee e percorsi politici quando non all’abiura ed al
“pentimento” come in una qualsiasi inquisizione del basso medioevo.
Quando guardiamo alla realtà materiale che
sta alla base del sistema economico finanziario in Occidente, e la sua
sempre maggiore pervasività nella capacità di orientare complessivamente
la politica, ci accorgiamo di come la parola democrazia sia un vecchio arnese inservibile per le élites che governano il mondo occidentale.
Inutile,
quindi, fare un “test di democraticità” come criterio di
interpretazione delle dinamiche politiche del mondo in cui viviamo.
Certo
il suo valore evocativo è utile nella costruzione di “narrazioni” da
vendere al popolino, soprattutto quando la comunicazione politica
costringe a spacciare un ipotetico “nuovo prodotto” da piazzare sul
mercato, rappresentandolo nella veste di “migliore soluzione” per una
crisi di governanceche porta le forme della democrazia ad un impasse.
Questo
blocco è in realtà solo l’espressione fenomenica delle convulsioni di
una più profonda crisi sistemica. cui le classi davvero “dirigenti”
vorrebbero dare un output preciso, diverso dalla loro radicale rimozione da parte dei subalterni ed alla costruzione di un sistema sociale alternativo.
“Hanno fallito, che se ne vadano!”. Od in termini più caustici: “Andiamo a bruciargli la casa!”, come ci ha suggerito la rivolta dei Ciompi a Firenze diversi secoli fa.
Il
marketing politico pro-Draghi, come quello pro-Biden per gli Stati
Uniti – al netto del disgustoso servilismo del giornalismo nostrano e
dell’altrettanto deprecabile opportunismo della classe politica tutta,
da Fratelli d’Italia a Leu – nel nostro ridotto nazionale è l’esempio
più lampante di questa tendenza ad incensare “la democrazia” proprio
quando smette di esistere.
Negli Usa, certo, tutto è in un ordine di grandezza più grande, anche nelle tecniche di storytelling per narrare la pretesa “rottura” con il recente passato.
Parole
appunto come “rappresentanza”, “sovranità”, “democrazia”, “sviluppo”,
in bocca agli esponenti delle élite, hanno la stessa credibilità delle
promesse d’amore di un marinaio, tanto è distante il significato concreto da quello che dovrebbero rappresentare e che hanno storicamente – in parte – incarnato sotto pressione di un movimento operaio organizzato, dotato di una prospettiva strategica concreta.
Chiacchiere
sulla democrazia a parte, chi tiene in mano le redini del sistema è un
numero sempre più ridotto di imprese economico-finanziarie che – in
termini un po’ vetusti nella forma, ma attualissimi nel contenuto –
potremmo chiamare senza orpelli: dittatura del capitale monopolistico.
Gli Stati imperialisti, o i poli imperialisti in formazione, in diverso grado, ne diventano conseguentemente un’espressione piegando il pubblico agli interessi del privato
(e non il contrario. E non importa se le fragilità di tale modello
impediscono strutturalmente di affrontare i nodi inaggirabili che pone
la fase stortica, iperbolizzati dall’acuirsi della crisi pandemica.
Gli uomini e le donne di queste corporations
vengono chiamati come consulenti dagli stessi attori statali – dalla
Federal Reserve negli USA alla Commissione Europea nella UE, per non
citarne che due – per orientare scelte strategiche.
Larry Fink, ceo di BlackRock, con Janet Yellen, ex presidente della Federal Reserve e nuovo ministro dell’economia Usa
I loro dirigenti siedono nei board sia delle imprese di dimensioni mondialmente rilevanti, sia in quello di chi le finanzia. Alcune di queste hanno in mano gli hub della tecnologica che di fatto orientano i mercati stessi e conferiscono un profilo un po’ vintage
a quello che erano le “piazze borsistiche”, che dovrebbero determinare
il valore fluttuante delle azioni quotate secondo “il principio della
domanda e dell’offerta”, come centro pulsante del mercati finanziari.
Una
“scatola nera” in grado di monitorare in tempo reale la finanza che
viaggia sui bit. Un vantaggio strategico per chi la usa, a discapito
degli altri…
I
membri di spicco di questi mostri economico-finanziari sono parte
integrante di quel sistema a porte girevoli delle democrazie occidentali
(sia negli Usa che nell’Unione Europea), in un ciclo “virtuoso” – per
loro e i loro complici – che fa inanellare senza sosta incarichi passando dal management aziendale alla direzione politica, e vice versa, con contemporanee presenze nei think tank e nelle lobby che determinano i quadri concettuali della politica e le scelte di fondo di quest’ultima.
Un novum,
per certi versi, nella storia politico-economica del capitalismo, che
dà la cifra di ciò di cui stiamo parlando è certamente BlackRock, di cui
si occupa l’articolo tradotto e pubblicato qui di seguito, in
particolare per ciò che concerne la sua rilevanza nella politica
nord-americana.
Si
tratta del più grande gestore di fondi di investimento mondiale – anche
per conto di fondi pensionistici privati, a cominciare da quello
giapponese, è il più imponente – che possiede tra l’altro la maggiore o
la seconda quota di proprietà in 13 delle 15 prime banche europee
(Santander, HSBC, Credit Suisse, ecc), in grado dunque di determinare le
scelte di indirizzo degli istituti bancari. BlackRock detiene un
portafoglio di centinaia di miliardi di dollari, investiti dalle tre big
della tecnologia statunitense (Apple, Goggle, Microsoft), che
controllano tra l’altro il tessuto connettivo ed i big data della
“nostra comunicazione” digitale e, come stanno dimostrando fatti
recenti, la possibilità o meno di comunicare (anche se sei il Presidente
Usa!).
Il
più acceso sostenitore di questa scelta, di fronte ai suoi critici, è
stato il Capo della Commissione Finanziaria della UE, Valdis
Dombrovskis, per intenderci…
Il CEO of BlackRock, Larry Fink con Emmanuel Macron
Ripetiamo:
BlackRock orienta il processo di finanziamento della “transizione
ecologica” dell’economia della UE, che ha assunto un ruolo chiave nel
rilancio economico continentale in toto e nell’articolazione dei
Paesi Membri, attraverso quelli che saranno i singoli “recovery plan”
nazionali, vincolati alle decisioni UE su due aspetti in particolare: economia green e sviluppo digitale.
Ricordate: gestisce gli investimenti delle tre big della tecnologia, e per esempio è il terzo azionista di Apple, nel cui board siede Sue Wagner, di BlackRock…
Questo
gigante è uno degli attori economici cresciuto di più nella pandemia:
valeva 7,8 mila miliardi di dollari, nel terzo trimestre dell’anno
scorso, 8,68 nell’ultimo trimestre, e le sue azioni sono aumentate del
più del 20% durante l’ultimo anno. Mentre milioni di persone morivano a
causa delle politiche disastrose prese dall’Occidente per affrontare la
pandemia, aumentava la povertà e la vulnerabilità sociale, BlackRock
cresceva e ha continuato a crescere.
Insieme
ai rivali ETF e Vanguard, controllava già un quinto del totale delle
azioni quotate a Wall Street nel 2017 – erano poco più del 5% nel 1998.
In questi tre anni sono aumentate, e uno studio di Harvard citato dal Financial Timesmostra questa stupefacente progressione prevedendo che potrebbero controllare il 40% tra nel 2040!
Tre corporations divenute un Leviatano finanziario!
In
questo tripudio di miliardi di dollari guadagnati e fatti guadagnare ai
propri clienti, Lawrence Fink, Wally Adeyemo, Michael Pyle, tre uomini
di BlackRock, sono stati scelti per ruoli chiavi nella nuova
amministrazione Biden, che con la la sua famiglia è parte integrante del
più grande “paradiso fiscale mondiale”, cioè il piccolo Stato del Delaware.
“Il
Delaware è un piccolo stato con meno di 1 milione di abitanti, ma il
più grande paradiso fiscale e finanziario delle imprese nell’Occidente
guidato dagli Stati Uniti. Il numero di società di comodo è almeno il
doppio del numero di elettori idonei”, scrive Rügemer, scrittore
prolifico ed autore tra l’altro di un studio fondamentale per
comprendere il capitalismo del XXI secolo e l’ascesa dei nuovi attori
finanziari tra cui BlackRock.
Come sempre è meglio affidarsi al vecchio adagio follow the money, piuttosto che ingurgitare le “auto.narrazioni” edificanti del nemico di classe.
Buona lettura.
*****
Larry Fink con Donald Trump
Non
appena è stato chiaro che Joe Biden avrebbe vinto le elezioni
presidenziali americane, si è portato a bordo Brian Deese, capo del
dipartimento per gli investimenti sostenibili globali della società
d’investimento americana BlackRock, e che ricoprerà il ruolo di capo
economista del presidente neo eletto.
Il CEO di BlackRock – Lawrence Fink
– è sostanzialmente il portavoce del capitale mondiale occidentale per
la “sostenibilità”. E la “sostenibilità” sarà il segno distintivo della
nuova amministrazione.
BlackRock
è la più grande società di investimento nel mondo con sede a New York e
gestisce un patrimonio totale di quasi 8.000 miliardi di dollari, di
cui un terzo in Europa.
Segue la seconda nomina per Wally Adeyemo,
consigliere principale del presidente Obama per le relazioni economiche
internazionali e successivamente passato a BlackRock come capo
dell’ufficio legale di Fink e dal 2014 è stato presidente della
Fondazione Obama. Ora, sotto Biden, diventerà vice segretario del
Tesoro.
Poi è arrivata la terza nomina per Michael Pyle,
responsabile delle relazioni finanziarie internazionali al Dipartimento
del Tesoro sotto Obama, diventato poi capo della strategia di
investimento globale presso la BlackRock e a breve ricoprirà il ruolo di
capo economista della vicepresidentessa Kamala Harris.
Ecco
come funziona la porta girevole della democrazia capitalista
statunitense: da BlackRock al governo, dal governo a BlackRock e così a
ripetere.
Biden: lobbista per il più grande paradiso fiscale sulla terra
Biden
è stato senatore dello stato del Delaware per ben 35 anni, dal 1973 al
2009, dove iniziò una fitta campagna politica quando era ancora un
giovane avvocato d’affari di 29 anni.
Il
Delaware è un piccolo stato con meno di 1 milione di abitanti ma il più
grande paradiso fiscale e finanziario delle imprese nell’Occidente
guidato dagli Stati Uniti. Il numero di società di comodo è almeno il
doppio del numero di elettori idonei. E quasi tutte le maggiori
compagnie e banche degli Stati Uniti – o le loro filiali – hanno qui la
loro sede legale e fiscale.
Decine
di migliaia di società e banche di tutto il mondo, dall’Ucraina al
Messico, passando per la Germania, la Francia e la Gran Bretagna, hanno
il loro domicilio legale nel Delaware [uno stato che fu del resto creato
dalla Dupont Chemical Company!].
La
lista delle partecipazioni della sola Deutsche Bank mostra diverse
decine di società di comodo a Wilmington, la piccola capitale del
piccolo “Lussemburgo degli Stati Uniti”, come viene spesso chiamato il
Delaware.
Nel
mini-stato del Lussemburgo – così centrale per l’Unione europea – regna
Sua Altezza Reale il Granduca Henri, della dinastia Lussemburgo-Nassau.
Nel Delaware il clan Biden governa con a capo il senatore [ora
presidente] Biden.
Il
figlio Beau Biden è diventato procuratore generale dello Stato senza
fare una minima gavetta politica ed il figlio Hunter Biden è un attivo
speculatore finanziario in Ucraina.
Joe
Biden ha recentemente ricevuto donazioni per le sue campagne elettorali
da grandi aziende digitali come Alphabet/Google, Microsoft, Amazon,
Apple, Facebook e Netflix, così come JPMorgan Chase, Blackstone e
Walmart. Ma anche le aziende del Delaware hanno promosso il loro
influente senatore, tra cui la società di carte di credito MBNA e John
Hynansky, un businessman statunitense di origini ucraine che domina
l’esportazione di SUV premium in Ucraina.
Biden,
come senatore a Washington, ha sempre votato con i repubblicani sulle
principali deregolamentazioni del settore finanziario e, con lui, il
DelawarI membri di spicco di questi mostri economico-finanziari sono
parte integrante di quel sistema a porte girevoli delle democrazie
occidentali (sia negli Usa che nell’Unione Europea), in un ciclo
“virtuoso” – per loro e i loro complici – che fa inanellare senza sosta incarichi passando dal management aziendale alla direzione politica, e vice versa, con contemporanee presenze nei think tank e nelle lobby che determinano i quadri concettuali
della politica e le scelte di fondo di quest’ultima.e si è espanso fino
a diventare il più grande paradiso finanziario del mondo. Ciò implica
che abbia anche una propria costituzione aziendale volta al “libero
mercato” ed un sistema giudiziario che va nella stessa direzione
politica.
E naturalmente anche la BlackRock – che co-governa a Washington – ha la sua sede legale a Wilmington, in Delaware.
“(America) BlackRock First”
La
BlackRock è un importante società azionista in circa 18.000 aziende,
banche e società di servizi finanziari negli Stati Uniti, UE, Gran
Bretagna, Asia e America Latina. In tre decenni la BlackRock è cresciuta
fino a diventare il più grande organizzatore di capitali nell’Occidente
guidato dagli Stati Uniti, principalmente raccogliendo e investendo il
capitale dei super-ricchi.
Possono diventarne clienti solo le più grandi famiglie d’affari o i top manager
con un capitale di almeno 50 milioni di dollari. Un investitore come
BlackRock promette profitti più alti di quelli che possono essere
guadagnati nelle normali operazioni finanziarie, diversificando le
proprie pratiche capitalistiche.
BlackRock
non impiega cassieri agli sportelli, né offre un servizio clienti
pubblico. I super-ricchi trasferiscono il loro denaro direttamente. Ecco
perché l’apparato di gestione di BlackRock ha solo 16.000 impiegati per
gli 8.000 miliardi di dollari di capitale che gestisce – mentre
Deutsche Bank deve mantenere 87.000 impiegati per meno di un centesimo
del capitale totale.
BlackRock
è anche il più grande organizzatore di società di comodo. Il capitale
dei super-ricchi viene investito per ognuno di loro in una speciale
società di comodo in un paradiso finanziario tra Delaware, Isole Cayman e
Lussemburgo. Allo stesso tempo, questi investitori sono resi anonimi e
invisibili al pubblico, alle autorità fiscali e ai regolatori
finanziari.
Così,
il 5% circa delle azioni della società di lignite RWE sono distribuite
tra 154 società “letterbox” in una dozzina di paradisi finanziari, sotto
nomi come BlackRock Holdco 4 LLC, BlackRock Holdco 6 LLC, e simili.
Naturalmente, BlackRock non commette essa stessa evasione fiscale, ma
offre l’opportunità di farlo (detto in altre parole: Favoreggiamento).
Inoltre
BlackRock gestisce ALADDIN, la più grande struttura robotica per la
raccolta e lo sfruttamento di dati finanziari ed economici. Nell’arco di
nanosecondi i valori e le performance di tutte le azioni e altri titoli
delle borse del mondo vengono catturati e utilizzati speculativamente
per la compravendita.I membri di spicco di questi mostri
economico-finanziari sono parte integrante di quel sistema a porte
girevoli delle democrazie occidentali (sia negli Usa che nell’Unione
Europea), in un ciclo “virtuoso” – per loro e i loro complici – che fa
inanellare senza sosta incarichi passando dal management aziendale alla direzione politica, e vice versa, con contemporanee presenze nei think tank e nelle lobby che determinano i quadri concettuali della politica e le scelte di fondo di quest’ultima.
BlackRock
è co-proprietario di 18.000 aziende – in Germania ad es. di Wirecard –
comprese tutte le corporazioni digitali come Amazon, Google, Apple,
Microsoft e Facebook, ed è anche co-proprietario delle due maggiori
agenzie di rating, Standard & Poor’s e Moody’s. In quanto più grande insider del globo, BlackRock può accedere ad importanti dati in modo velocissimo e prima di altri co-speculatori.
Inoltre,
è principale gestore finanziario dei super-ricchi occidentali e dunque
ignora completamente i possibili danni alle economie nazionali e
l’impoverimento degli Stati attraverso la continua evasione fiscale
organizzata, tanto che persino l’Unione Europea rimane impotente contro
questo colosso e il suo meccanismo, oppure ne diventa complice.
Inoltre,
le aziende che BlackRock acquista e di cui diventa co-proprietario –
come, per esempio in Germania, tutte le maggiori società tedesche che
negoziano alla Borsa di Francoforte – sono proficuamente
“ristrutturate”, rimpicciolite, parzialmente vendute (come è attualmente
il caso della ThyssenKrupp), fuse (come nel caso di Bayer-Monsanto),
accompagnate da tagli di posti di lavoro, outsourcing, delocalizzazioni e
simili.
Come
principale azionista di Amazon, per esempio, il predicatore della
sostenibilità Fink non ha mai detto nulla contro gli attacchi
antisindacali (compresi di minacce e licenziamenti) all’interno dei
magazzini del colosso della logistica, o dei bassi salari sui quali si
arricchisce Jeff Bezos.
Viene
spesso sostenuto, non solo dai lobbisti di BlackRock come Friedrich
Merz, ma anche dalla sinistra, che con le quote del 5% BlackRock, come
in RWE – sicuramente non può far passare nessuna decisione! E invece sì,
è possibile, perché con BlackRock di solito ci sono sempre, in
composizione variabile, una dozzina di organizzatori di capitale a lei
simili, che allo stesso tempo sono anche azionisti, per esempio
Vanguard, State Street, Amundi, Norges, Wellington, Fidelity, Capital
Group – e si accordano tra loro.
Il
governo degli Stati Uniti sotto Biden sta dimostrando di essere il
governo che persegue gli interessi sia dei vecchi che dei nuovi
super-ricchi. Si tratta di una minoranza capitalista ed egoista che
rappresenta forse l’1,5% della popolazione di tutti gli Stati Uniti.
Tuttavia
BlackRock rappresenta anche gli interessi di minoranze ricchissime in
altri importanti paesi come la Gran Bretagna, la Germania, la Francia,
la Svezia, la Spagna, il Messico: tutti con il loro capitale
discrezionale investito in BlackRock & Co.
Obama, Trump, Biden: tutti con BlackRock
Nel
2008, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama incaricò BlackRock
di gestire la crisi finanziaria e decidere quali banche, quali compagnie
di assicurazioni, quali società sarebbero state salvate.
BlackRock
intascò un compenso di 3 milioni di dollari per questo – ma ancora più
importante fu la benedizione ufficiale dello Stato. Questa includeva la
nomina come consigliere della più grande banca centrale del mondo
occidentale, la Federal Reserve Bank. Quello fu il colpo di partenza per
la salita finale nell’aumento annuale del 10% del capitale raccolto e
distribuito fino agli ormai 8.000 miliardi di dollari.
Oltre
ad aver conferito a BlackRock la nomina come consigliere della Banca
Centrale Europea (BCE) e, più recentemente, nel 2020, come consigliere
della Commissione Europea a Bruxelles per la nuova formula di
rinnovamento capitalista ESG: Environment, Social, Government.
Anche
sotto Trump, BlackRock non è affatto scomparsa dalla scena
economico-politica. Dal marzo 2020, e come consulente della Federal
Reserve, BlackRock ha gestito il programma di salvataggio Covid19, molto
simile al “Corona Recovery Program” dell’UE da 750 miliardi (qui noto
come Recovery Fund, ndt).
Il
CEO di BlackRock – Fink – era in corsa per diventare il segretario al
Tesoro di Hillary Clinton. Ma quando il vincitore delle elezioni Trump
ha tagliato le tasse sulle società, l’agile Fink lo ha lodato, dicendo: “Trump è un bene per l’America“.
BlackRock è parte attiva di “America First“, indipendentemente da quale dei due partiti monopolistici statunitensi sia al potere.