martedì 30 luglio 2019

Clamoroso: la Germania ha fatto default, ma non è successo niente

Da oltre vent’anni a questa parte, il dibattito politico è costretto a muoversi negli angusti spazi del pareggio di bilancio: qualsiasi opzione politica deve confrontarsi con il paradigma della scarsità delle risorse che, secondo i paladini dell’austerità, caratterizzerebbe il funzionamento di un’economia sana.
Ci viene spiegato ogni giorno che quel paradigma non ce lo impone l’Europa, con i suoi vincoli al deficit e al debito pubblico, ma deriva dalla razionalità dei mercati: se ti indebiti troppo perdi la credibilità dei mercati e nessuno è più disposto a finanziare il tuo debito pubblico.
È lo spettro del default, agitato in ogni discussione politica per tenere a bada le istanze di progresso sociale: non possiamo aumentare le pensioni, non possiamo costruire nuovi ospedali, non possiamo garantire la piena occupazione perché non ci sono i soldi, e se non tieni i conti in ordine ti ritrovi – questa la minaccia ricorrente – in bancarotta.
L’incubo degli statisti di ogni colore politico sarebbe dunque quello di scatenare l’ira dei mercati, e cioè di ritrovarsi senza più nessuno disposto a prestare i soldi allo Stato. L’austerità, in questa narrazione, è la medicina amara ma necessaria: tagliare diritti, salari e stato sociale non piace a nessuno, ma dobbiamo farlo per evitare un baratro di nome default.
Nel disinteresse generale, pochi giorni (esattamente, il 10 luglio 2019) fa si è verificato un piccolo ma significativo fatto, una curiosa circostanza che dimostra plasticamente l’infondatezza di tutto questo terrorismo sul debito pubblico.
Ironia della sorte, lo spettro del default – o, per dirla più semplicemente, del fallimento, della bancarotta – è apparso dove meno te lo aspetti: un’asta di titoli del debito pubblico della virtuosa Germania ha registrato una domanda di bund (così sono chiamati i titoli di Stato tedeschi) inferiore alla quantità offerta dal Governo. A fronte di 4 miliardi di euro di titoli di Stato tedeschi offerti al mercato, sono pervenute domande per 3,9 miliardi.
Il risultato? Come avrete notato, non è successo assolutamente nulla. Capire perché un’asta scoperta non produce alcun default può aiutarci a sfatare alcuni miti sul debito pubblico e, soprattutto, a ricollocare tutti questi fenomeni economici nella dimensione politica che gli è propria, l’unica entro cui possono essere compresi. Ma andiamo con ordine.
Il debito pubblico si accumula ogni volta che lo Stato spende più di quanto raccoglie con le tasse. Il debito pubblico è, dunque, il risultato di una serie di disavanzi di bilancio e rappresenta, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, uno strumento essenziale per stimolare l’economia. Persino la virtuosa Germania, che da anni rispetta alla lettera il pareggio di bilancio, ha negli anni precedenti accumulato oltre 2.000 miliardi di euro di debito pubblico: anche se non contrae più alcun disavanzo di bilancio,
Berlino deve rifinanziare ogni settimana una parte del debito in scadenza emettendo nuovi titoli, per un totale di centinaia di miliardi di euro ogni anno necessari semplicemente a rinnovare il debito pregresso. Lo Stato si indebita emettendo titoli che vengono sottoscritti prevalentemente da banche, fondi pensione, società finanziarie e assicurative e altri cosiddetti ‘investitori istituzionali’.
Di norma la domanda di titoli di Stato eccede, anche sensibilmente, la quantità offerta in asta, principalmente perché quelle obbligazioni rappresentano i titoli più sicuri presenti sui mercati finanziari, una forma per conservare la ricchezza nel tempo senza intaccarne sensibilmente il valore e, nella maggioranza dei casi, guadagnandoci anche un rendimento. Tanto per fare un esempio, l’asta di BTP decennali del giugno scorso ha registrato una domanda di 3,6 miliardi contro i 2,75 offerti dal Governo italiano.
L’asta di bund decennali del 10 luglio scorso ha invece registrato una domanda inferiore all’offerta, una circostanza davvero curiosa per un titolo che è considerato il più sicuro d’Europa, con un rating AAA, il livello massimo possibile.
La locomotiva d’Europa ha dunque dichiarato default? Pare proprio di no. Come spiegheremo nei paragrafi che seguono, la ragione risiede in un vero e proprio privilegio di cui la Germania si ‘avvale’ e che le permette di non scontrarsi con le temutissime ire dei mercati.
La Germania, infatti, si riserva sempre la possibilità di trattenere una parte dei titoli in emissione – congelati presso la Bundesbank – e di riproporli successivamente sui mercati vendendoli direttamente in borsa, fuori dal meccanismo d’asta. Questa pratica operativa permette al debitore pubblico di sottrarsi alla tagliola dell’asta, alla quale possono partecipare solamente poche banche selezionate, e di rivolgersi direttamente ai mercati finanziari.
Tale passaggio, dall’asta (detta ‘mercato primario’) alla borsa (detto ‘mercato secondario’), è carico di conseguenze, perché la Banca Centrale Europea ha il divieto di intervenire in asta mentre acquista ogni giorno titoli pubblici sui mercati secondari, sostenendone il corso. Aggirando la rigidità dell’asta, e riservando regolarmente una parte dell’emissione alla vendita diretta sui mercati, la Germania si sottrae ad eventuali capricci delle banche partecipanti alle aste, rendendo impossibile il ricatto del default.
Nel caso dell’asta del 10 luglio, a fronte di 3,9 miliardi di euro di titoli richiesti dagli investitori, meno dei 4 miliardi inizialmente previsti per l’emissione, la Germania ha effettivamente emesso solamente 3,2 miliardi di euro di titoli, collocando dunque addirittura meno della pur bassa domanda. Quegli 800 milioni di euro di titoli di Stato di differenza tra la quantità inizialmente prevista per l’emissione e la quantità concretamente collocata sono stati congelati presso la banca centrale tedesca, la Bundesbank, e verranno offerti nelle settimane successive in borsa, approfittando anche degli acquisti che la BCE quotidianamente realizza sui mercati finanziari.
In questa maniera, la Germania impedisce alle banche che partecipano alle aste di ‘tirare’ sul prezzo: se gli investitori privati pretendono in asta un tasso di interesse diverso da quello desiderato dal Governo, i titoli vengono ritirati dall’asta e collocati successivamente attraverso le borse, dove operano molti più investitori e dove si rende possibile un sostegno finanziario da parte dell’autorità monetaria, sostegno che i Trattati europei vietano in asta.
Prima di trarre una morale da questi eventi, dobbiamo brevemente soffermarci sulla curiosa circostanza che ha visto i principali investitori privati boicottare un’asta di bund. Come spesso accade quando ci si muove nella giungla dei mercati finanziari, questo comportamento si spiega facilmente in base alla logica del profitto: quei titoli sono stati offerti – caso unico in Europa per un titolo decennale – ad un rendimento negativo dello 0,3% circa.
Rendimento negativo significa che il creditore, colui che compra i titoli, paga un prezzo per prestare i suoi soldi al governo tedesco. Tassi negativi di queste dimensioni sono incompatibili con il grado di profittabilità degli affari richiesti dalle principali banche di investimento del mondo, cioè proprio quelle ammesse alle aste di titoli di Stato.
Ci si potrebbe domandare, allora, come mai dei titoli del debito pubblico per i quali il creditore paga per prestare dei soldi allo Stato possano comunque essere richiesti, ossia domandati. La risposta risiede, fondamentalmente, nel fatto che le banche e gli intermediari finanziari domandano i titoli del debito pubblico in quanto tali titoli rappresentano, in primo luogo, una riserva di liquidità sicura e, in secondo luogo, una fonte alternativa di impiego della liquidità rispetto al deposito di quella stessa liquidità presso la Banca Centrale Europea che, su quel deposito, offre, in generale, tassi di interesse ancora minori a quelli percepibili sui titoli di stato.
Tuttavia, davanti alla richiesta del governo tedesco di sottoscrivere titoli a perdere, i partecipanti all’asta hanno voltato le spalle.
Il debito pubblico, infatti, come abbiamo già annunciato, è sottoscritto regolarmente sui mercati perché considerato un titolo sicuro che, al contempo, offre un rendimento positivo – pur se inferiore al rendimento dei più rischiosi titoli azionari. Se viene meno completamente l’elemento della remunerazione, cosa avvenuta il 10 luglio in Germania, il debito pubblico cessa di essere un affare interessante per le banche private.
Destino simile toccò un anno fa al debito pubblico giapponese, con i tassi di interesse stabilmente in territorio negativo per via del sostegno massiccio della banca centrale giapponese, che ha acquistato oltre il 40% del debito pubblico nazionale: se il debito pubblico viene rifinanziato con il supporto dell’autorità monetaria – cosa che avviene esplicitamente in Giappone e surrettiziamente in Germania – quel debito, unito all’operato dell’autorità monetaria, appare come un mero strumento di politica fiscale e di politica monetaria, utile a governare i tassi di interesse sui mercati finanziari ma inutile a macinare profitti.
Detto in altri termini, nel momento in cui l’autorità monetaria opera in supporto allo Stato nel collocamento dei titoli del debito pubblico, quel debito (o meglio, l’emissione di quel debito supportata dall’autorità monetaria) assume la veste esclusiva di ‘leva’ necessaria sia a far funzionare la macchina-Stato (ossia a finanziare la spesa in disavanzo) sia, al contempo, a controllare i tassi di interesse che lo Stato dovrà pagare su quei titoli, evitando così di lasciarli in balìa delle richieste degli intermediari e delle banche d’affari.
Da qui, dunque, il paradosso: mentre tutti discutono del rischio default dei paesi della periferia europea, quel rischio si manifesta proprio nel cuore dell’Europa – laddove viene esercitato il governo dei mercati finanziari e, dunque, laddove il debito pubblico – leva fondamentale della politica monetaria – perde qualsiasi profittabilità.
Cosa ci insegna questa storia del mancato default tedesco? Dovrebbe insegnarci che il meccanismo di rifinanziamento del debito pubblico è un processo innanzitutto politico: laddove il potere politico lo consente, esistono infiniti metodi per sottrarsi al ricatto dei mercati, metodi che dipendono in ultima istanza dal governo della politica monetaria, e dunque dal comportamento della banca centrale.
Non esiste alcuna disciplina dei mercati che non sia il risultato di un particolare contesto politico: se l’Italia subisce il ricatto del default, lo subisce perché non ha il sostegno della banca centrale e non ha il beneplacito delle istituzioni europee, che dal nostro Paese pretendono una ferrea disciplina mentre consentono alla Germania la pratica operativa del congelamento dei titoli in emissione, una scappatoia dalle strette dei mercati finanziari.
Quello del default non è altro che uno spauracchio, un mito utile a disciplinare i governi europei per imporre le politiche di austerità. Gli Stati dispongono di una Tesoreria, un cuscinetto di liquidità che consente di far fronte alle spese previste e impreviste, e nessun governo dipende dalla buona riuscita di una singola asta del debito pubblico.
Come dimostra il caso tedesco, il mancato collocamento dei titoli di Stato emessi in asta non porta ad alcun default, perché esistono molteplici metodi di rifinanziamento del debito pubblico in scadenza nel medio periodo – fuori dall’urgenza dell’asta.
Modi che dipendono, in ultima istanza, dallo spazio politico che un governo si conquista in base ai rapporti di forza: la Germania ha il sostegno della banca centrale e delle istituzioni europee, e per questa ragione non ha nulla da temere.
Il conflitto politico e sociale deve puntare alla conquista di quello spazio politico, deve contendere alle attuali classi dirigenti la gestione di quel potere che consente di governare ordinatamente un’economia e metterla al servizio della piena occupazione e del progresso sociale.

lunedì 29 luglio 2019

Il bendaggio e la fotografia. E se fosse un salvataggio?

Il carabiniere che ha bendato uno dei ragazzi americani fermati avrebbe dichiarato di averlo fatto “per evitare che si potesse vedere la documentazione che si trovava negli uffici e sui monitor”, una giustificazione che il Comandante Generale dell’’Arma Giovanni Nistri ha definito “risibile, perché poteva essere tenuto in un ufficio dove non ci sono dossier e computer”.
Rimane strettissima la connessione fra i due procedimenti (per omicidio, a carico dei due cittadini americani, e per violenza privata – difficilmente il nuovo reato di “tortura” sarà applicabile – a carico del carabiniere che ha bendato uno dei fermati).
Mediaticamente il motivo è già ben evidenziato dalla giornalista Fiorenza Sarzanini oggi sul Corriere della Sera: “i magistrati sono consapevoli che una simile procedura potrebbe essere utilizzata dalla difesa anche per invalidare gli atti del processo”.
L’attenzione dell’opinione pubblica si sposterà inevitabilmente sulla confessione che uno dei due ragazzi avrebbe fatto la sera stessa del fermo davanti ai carabinieri.Poniamoci subito alcune domande:

Come possono definirsi dichiarazioni “spontanee” quelle rese da una persona appena ammanettata ad una sedia e bendata ? Perchè i carabinieri non hanno atteso l’arrivo dell’avvocato difensore a cui quella persona aveva diritto fin dall’inizio ?
E dunque che valore hanno quelle dichiarazioni ?

E’ sufficiente a “salvarle” la loro conferma in sede di interrogatorio durante l’udienza di convalida del fermo ?
Come dimenticare, infine, la posizione di chi (un altro carabiniere) ha scattato la fotografia del ragazzo bendato? Un tempo non sarebbe mai accaduto. Oggi non solo quella situazione è stata immortalata ma poche ore dopo quell’immagine ha iniziato a circolare sulla rete.
Anche questo aspetto significa che è in atto un cambiamento profondo e preoccupante nei comportamenti, che merita tutta la nostra attenzione.
*****
Contropiano. Tradotto dal linguaggio giuridico: quella benda sugli occhi, la fotografia e la sua diffusione sono probabilmente il modo con cui le “forze dell’ordine” agli ordini di Salvini pensano di poter facilitare la “difesa” dei due studenti americani e quindi riconsegnarli a Trump non appena il caso sarà stato mediaticamente dimenticato.

venerdì 26 luglio 2019

Il governo dentro una “tempesta perfetta

Nel bellissimo film la Tempesta Perfetta, nonostante l’equipaggio del peschereccio avesse fatto al meglio tutto quello che poteva fare per uscirne vivo, l’onda finale era troppo alta, al punto che la nave viene ribaltata, portando a fondo tutti.
L’impressione che si ricava dopo la tumultuosa giornata di ieri nelle aule istituzionali, è che l’onda che si è abbattuta sul governo questa volta sia veramente troppo alta per uscirne malconci, ma indenni. Anche perché “l’equipaggio”, in questo caso, non è mai apparso all’altezza dei problemi e strutturalmente diviso in tre (Lega, Cinque Stelle e “garanti verso la UE”).
Il combinato disposto tra l’impennata decisionista del premier Conte sull’agenda politica (il Si al Tav e l’assunzione in prima persona dell’informativa al Senato sul Russiagate che inguaia la Lega), ha fatto saltare tutti i precari equilibri tenuti in piedi fino ad ora.
La diserzione di Salvini e quella dei parlamentari del M5S in aula, al momento del dibattito aperto da Conte sui finanziamenti russi alla Lega, hanno così creato una distanza pesante tra il premier e la sua maggioranza di governo.
La risposta di Salvini oggi alle parole pronunciate da Conte al Senato è tagliente: “Mi interessano meno di zero. Io finchè posso far le cose sto al governo”. Lo stesso Salvini sull’altro capitolo divisivo – il Tav in Val Susa – ha espresso parole che incombono non solo sul clima politico ma anche su quello dei prossimi giorni in Val Susa, dove già per sabato prossimo è stata annunciata una manifestazione No Tav a Chiomonte: “Speriamo non ci siano episodi di violenza. Se ci fossero verranno perseguiti come la legge prevede. Non ammetteremo violenze nei confronti di poliziotti e carabinieri, ce ne sono già state abbastanza”.
Una minaccia esplicita, tanto più che sempre ieri il governo morente si è invece compattato sbirrescamente approvando in via definitiva il “decreto sicurezza bis”.
Dal canto suo è dovuto scendere in campo Luigi Di Maio in persona a precisare la piena fiducia nel premier e il rispetto, che tutto il Movimento, nutre per il capo del governo.
Mentre nel M5S infuria la bufera, Conte ha dato l’impressione di volersi giocare la partita anche per conto proprio. Al Senato ha infatti annunciato  che tornerebbe in Parlamento in caso di una cessazione anticipata del suo incarico. Una sorte di laccio lanciato a tutte le forze politiche sulla necessità/possibilità di un governo da mandare avanti anche con una maggioranza diversa da quella attuale, in nome della ragion di Stato (la Legge di Stabilità da presentare a Bruxelles e da far ingoiare alla popolazione).
Non è difficile scorgere dietro questa affermazione la “manina” del Quirinale (e dei gruppi d’affari sincronizzati con la Commissione Europea), i quali non smaniano per una crisi di governo quanto per un esecutivo che prosegua il lavoro sporco, a cominciare dall’approvazione del Tav fino ai conti pubblici.
Perché è sicuramente vero che i grillini sono disposti a sopportare di tutto pur di non far cadere il governo e tornare al voto. E’ altrettanto vero che Salvini vorrebbe invece il voto anticipato ma non è per nulla certo di ottenerlo (e un qualsiasi altro governo, anche “tecnico”, gli toglierebbe il potere di decidere l’agenda politica sui media e, quindi, il surplus di esposizione che lo gonfia nei sondaggi), e dunque esita a sancire la fine dell’esecutivo.
Ma non è detto che non sia il “terzo governo” – quello dei garanti europei: Conte, Tria, Moavero Milanesi, Trenta – a sparigliare i giochi.
L’onda che si è sollevata si sta rivelando molto alta per tutti.

martedì 23 luglio 2019

Gli effetti della deflazione salariale tedesca sull’Eurozona. Il caso della Francia

Come i lettori sanno, la posizione finanziaria estera netta italiana, vale a dire differenza tra attivi e passivi finanziari, della bilancia commerciale, di investimenti di portafoglio e investimenti esteri fisici, in Italia è passata dal 2013 ad aggi da -410 mliardi del 2013 a -45 miliardi del primo trimestre del 2019, il 2,6% del pil, grazie ai notevoli surplus commerciali e delle partite correnti di questi anni, a costi sociali altissimi.
Sapete pure che la Spagna ha un passivo della posizione finanziaria estera netta pari all’81% del pil. In pratica quel paese cresce grazie ai fondi esteri ed è totalmente dipendente, avendo perso qualsiasi sovranità, come tutti i Pigs, monetaria ma anche, e qui sta la differenza, economica; tant’è che è una filiazione diretta tedesca.
Veniamo all’altro paese cardine dell’asse franco-tedesco, la Francia. Ebbene, visto che detta legge, come sta messo questo paese? Partiamo dal 2005. Perché? Guarda caso in quell’anno si hanno i primi effetti deflazionistici delle leggi Hartz Iv, la riforma del mercato del lavoro tedesca che inaugurò l’epoca dei minijob, a tal punto che oggi coprono una platea di 8 milioni di persone.
In quell’anno la Francia aveva una posizione finanziaria estera netta pari a -34 miliardi di euro, un niente sul pil. Tra il 2000 e il 2017 il passivo commerciale della Francia rispetto alla Germania, cumulato, ha raggiunto la strabiliante cifra di 521 miliardi di euro, il doppio del passivo italiano dello stesso periodo, 228, con la differenza che negli ultimi anni il passivo italiano nei confronti dei tedeschi sta diminuendo, quella francese aumenta (fonte: Guido Salerno Aletta, L’abbraccio del boa, Teleborsa).
Se il passivo cumulato francese è 521 miliardi, come sta messa la posizione finanziaria estera netta francese in questi anni? Già nel 2008 era pari a -368 miliardi, via via peggiorato fino ai 440 miliardi di euro del 2018, il 32% del pil.
Ricordiamo che la Francia è fortissima negli investimenti esteri, ha fatto dell’Italia una sua colonia, con corollario di Legion d’Onore guarda caso a gente del Pd. Ciò nonostante il passivo è aumentato e ora questo paese dipende dai capitali tedeschi.
Chi comanda, secondo voi, Macron o i tedeschi? A voi la risposta. Se fanno l’esercito europeo avrà l’ombrello atomico francese, ma con i soldi tedeschi. In pratica i tedeschi umiliano i francesi facendosi l’esercito. Una capitolazione.
E l’Italia che fa? Qui entrano in gioco inglesi, russi, cinesi e soprattutto americani, una partita che deciderà il predominio del Mediterraneo, il nuovo centro del mondo.
Chi si prenderà l’Italia, da solo, o con un concerto (che è quello a cui aspira il Vaticano), la rilancerà avendo un equilibrio dei conti con l’estero, raggiunto grazie ad una feroce guerra di classe.
Da qui si capisce l’assoluto pressapochismo di chi vuole la secessione.

lunedì 22 luglio 2019

La sporca alleanza tra Lega e Pd sull’autonomia differenziata

In queste ore sentiamo le urla di Zaia e Fontana, presidenti di Veneto e Lombardia, perché il governo, pur avendo già concesso loro moltissimo sull’autonomia differenziata, non ha ancora dato il via libera agli insegnanti padani.
Come sempre quando c’è una battaglia della Lega per gli affari e il mercato, contro i diritti sociali e l’ambiente, il PD si unisce subito ad essa. Non c’è privatizzazione, grande opera, attacco ai diritti del lavoro e allo stato sociale, che non veda il partito democratico alleato con quello di Salvini.
Così anche Bonaccini, presidente PD dell’Emilia Romagna, si è unito alle proteste dei suoi colleghi lamentando il ritardo con cui si decide l’autonomia. E un esponente leghista ha avuto facile gioco a ricordare che tutte le richieste della Lombardia sono state decise dal consiglio regionale all’UNANIMITA’. E il M5S, come sempre, fa la comparsa cercando di concedere tutto ciò che sia utile a non far cadere il governo.
È bene allora ricordare che in un quadro di spesa pubblica sottoposta ai vincoli dell’austerità UE, accettati dal governo, l’autonomia differenziata distruggerebbe il poco che ancora resta della sicurezza sociale, massacrerebbe tutto il Sud assieme ai poveri del Nord.
Non c’è niente di più liberista e reazionario che affermare l’obbligo per ogni regione di arrangiarsi, mentre si taglia la spesa per la sanità ed i servizi pubblici.
L’autonomia differenziata oggi non è solo la secessione dei ricchi, è una sfacciata ferocia sociale verso i poveri.
È giusto quindi lottare per fermarla e per questo é necessario SMASCHERARE il PD. Che su questo disastro ha persino più responsabilità della Lega, avendo riformato nel 2001 la Costituzione in modo da aprire la via alle richieste secessioniste. E avendo il PD approvato nel 2013 la modifica dell’articolo 81, inserendo il Fiscal Compact nella nostra Carta.
Se vogliamo impedire alla Lega di realizzare il suo programma di devastazione sociale, dobbiamo denunciare e combattere la sporca alleanza del partito di Salvini con il PD. Sull’autonomia differenziata e su quasi tutto il resto.

venerdì 19 luglio 2019

17 miliardi regalati dal Pd alle imprese in cambio di nulla

Un’azienda assume quando ha del lavoro da far fare a chi assume sennò non lo fa . È un principio economico che è ancora più brutale dove domina il mercato ed è paradossale che proprio i politici che del mercato hanno fatto una divinità, poi se ne dimentichino.
Il PD con il Jobsact ha regalato in tre anni 17 miliardi di sgravi contributivi alle imprese, ce lo dice ora l’INPS.
Renzi spiegò che questo serviva ad incentivare le assunzioni a tempo indeterminato. È bene ricordare che lo stesso governo PD aveva abolito la tutela dell’articolo 18 contro i licenziamenti ingiusti per tutti nuovi assunti. Quindi anche le assunzioni stabili in realtà sono precarie, perché si puó essere liberamente licenziati in qualsiasi momento.
Ciò nonostante i dati Inps ci forniscono un quadro clamoroso e scandaloso. Le conferme a tempo indeterminato dopo i tre anni di contributi delle stato sono per il 54% dei lavoratori. Prima quando non c’erano gli incentivi erano del 51%.
Insomma con 17 miliardi dati alle imprese su un totale di 1,5 milioni di assunzioni, solo il 3% in più rispetto al triennio precedente è diventato a tempo indeterminato (lo ripeto, con la libertà di licenziamento).
Insomma le aziende hanno assunto esattamente coloro che comunque avrebbero assunto, qualcuno in più rispetto al passato per la ripresa economica.
Quindi i 17 miliardi non sono diventati più lavoro, ma più PROFITTI per le imprese. Un puro regalo, come lo sarebbero tutti gli sgravi fiscali promessi dall’attuale governo. Maggiori profitti delle imprese finanziati dallo stato, riducendo la contribuzione pensionistica e le tasse, cioè tagliando risorse alle pensioni e allo stato sociale. Cioè chiedendo ai lavoratori ed ai poveri di pagare i guadagni in più dei padroni.
È una sfacciata politica di classe che dura da trent’anni e che non accenna a finire, visto che il governo attuale vorrebbe accompagnare il sacrosanto salario minimo con nuovi sgravi contributivi e fiscali alle imprese.
Cioè se vogliamo aumentare i salari dei lavoratori più sfruttati, dobbiamo tagliarci le pensioni e la sanità. E poi c’è chi si stupisce che ci sia chi fa fortuna in politica con la guerra tra i poveri…

giovedì 18 luglio 2019

Elite, potere e classe politica

Gli accadimenti in atto nel sistema politico italiano stanno dimostrando come si siano profondamente modificate le regole dell’esercizio del potere in via istituzionale in un quadro generale di  profondo cambiamento che si sta verificando nel rapporto tra governo e parlamento e negli stessi comportamenti soggettivi degli esponenti politici nella comunicazione e nell’esercizio del potere.
Ci troviamo nuovamente in una fase di formazione di una sorta di “Costituzione materiale” dai termini contrapposti a quelli della “Costituzione formale”.
Permane una transizione i cui contorni appaiono assai incerti salvo verificare un nuovo accelerarsi di meccanismi di personalizzazione della politica esercitati in forme sempre più evidenti di vero e proprio disprezzo per quello che si riteneva, a partire dalla Costituzione Repubblicana, una sorta di “consolidato” nella forma e nella sostanza istituzionale.
Un “consolidato”, tra l’altro, confermato in almeno due occasioni (2006 e 2016) da un voto popolare che ha ribadito il concetto di centralità del parlamento, indicando proprio nelle Camere il luogo dove le élite dovrebbero formarsi ed esercitare la loro funzione di direzione della politica del Paese.
Sotto quest’aspetto tutto sembra tornare in discussione e sorge di nuovo una domanda di grande attualità: come si determinano i meccanismi di accesso all’effettiva gestione del potere politico in tempi di società complessa, dove appaiono evidenti i limiti dei “corpi intermedi” e delle stesse formazioni di governo?
Come può essere possibile non confondere potere e governo, tanto più che il governo appare ormai esprimersi attraverso la formula a “bassa intensità” dell’obbligo alla governabilità quale fine esaustivo dell’agire politico e l’obbligo alla governabilità è esercitato attraverso il prevalere della funzione del singolo rispetto all’esercizio di un ruolo collettivo, in una evidente voluta confusione di ruoli?
Per rispondere efficacemente è necessario ricostruire subito il quadro generale dentro cui ci troviamo: da una parte è cresciuto grandemente il fenomeno della “personalizzazione” della politica ormai giunto a sfiorare livelli preoccupanti in un rapporto tra il “capo” e le “masse” veicolato soltanto dal mezzo televisivo o dal web, attraverso cui si realizza un inquietante e per certi versi paradossale “dialogo” diretto tra il “politico” e la folla; contestualmente, e ci verrebbe da aggiungere quasi naturalmente, sono cambiati profondamente i partiti politici, ormai svuotati dalla partecipazione di iscritti e militanti ridotti al rango di “fruitori di eventi”.
 Partiti politici trasformatisi in alcuni casi in “partiti personali elettorali” e in altri in una forma particolare del “partito acchiappatutti”: un modello questo che nella realtà del caso italiano appare molto più informe nella sua struttura e molto più caotico nella sua organizzazione di quanto non fosse stato immaginato nel momento della sua teorizzazione, quale punto possibile di superamento del “partito di massa”.
Sarà bene intenderci subito su di un’affermazione essenziale: la democrazia non è possibile senza partiti politici, perché il “pluralismo si esprime anche in organizzazioni stabili, durature, diffuse, che si chiamano – appunto – partiti” (Kelsen 1929, trad.it. 1966). I partiti svolgono funzioni non assolvibili da nessun’altra organizzazione e non soltanto dal punto di vista della promozione elettorale, ma anche nei compiti oggi largamente disattesi se non del tutto ignorati della partecipazione alla vita pubblica, della formulazione di programmi, ai compiti di acculturazione di massa e di vera e propria integrazione sociale.
Il punto da rimettere in discussione fino in fondo, allora, è quello riguardante il “come” si formano i gruppi dirigenti, come avviene la selezione del personale politico, come si costruiscono quelle élite chiamate al compito di dirigere la vita pubblica.
E’ il caso allora di riprendere la discussione per un possibile aggiornamento della “teoria delle élite”.
La prima nozione in materia ci proviene da Vilfredo Pareto , allorquando individua nell’eterogeneità sociale il costruirsi di una dicotomia ”stabile” tra una classe superiore e una classe inferiore e indica l’unica possibilità per ritrovare i migliori nelle posizioni di vertice nel continuo ricambio delle élite e al passaggio di individui da una classe all’altra (Sola, 2000).
Tocca però ad Antonio Gramsci costruire sul piano teorico la nozione di élite, partendo dall’insoddisfazione per la definizione coniata da Gaetano Mosca di “classe politica”.
Al pensatore sardo (“Quaderni del carcere” volume III, edizione Einaudi 1975) la definizione “classe politica” appare “elastica e ondeggiante”, dal momento che “talvolta essa sembra sinonimo di classe media, altre volte è impiegata per indicare l’insieme delle classi possidenti, altre volte ancora fa riferimento alla “parte colta” della società o, più restrittivamente, al “personale politico” inteso come ceto parlamentare dello Stato.
Per ovviare a questi inconvenienti e per ancorare la teoria delle élite alla metodologia marxiana e alla teoria delle classi, Gramsci, che pure utilizza in diverse occasioni il termine élite, propone di distinguere tra classe dirigente e classe dominante.
Il criterio che egli adotta è direttamente riferito al lessico marxista, ma tiene conto anche delle riflessioni di Pareto in tema di “forza” e di “consenso”.
Premesso quindi che la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come “dominio” e come “direzione intellettuale e morale” Gramsci propone di chiamare classe dirigente quel gruppo che s’impone attraverso il consenso, ovvero esercita l’egemonia sugli altri gruppi sociali.
Viceversa è classe dominante quel gruppo che tende a liquidare o a sottomettere i propri avversari.
Una classe può essere dominante e non dirigente oppure dirigente e non dominante.
Oggi emerge la tendenza a confondere questi elementi: il “Capo” si pone alla testa ma non alla guida ed esercita il potere soltanto con l’obiettivo proprio di rimanere “alla testa”., senza esercitare la “guida” se non nelle forme indicate dalla mutevolezza di sensibilità propria della “folla”.
Il tema della costruzione delle élite dovrebbe quindi essere strettamente connesso al tema dell’egemonia come conferma anche lo stesso teorico del “governo” Robert Dahl (1958) allorquando indica che : l’élite deve costituire un gruppo ben definito; le opinioni di questa élite debbono essere in contrasto con quelle di ogni altro possibile gruppo analogo; in tali casi, implicanti questioni politiche fondamentali le scelte dell’élite prevalgono regolarmente.
E’ proprio l’ultima affermazione che ci riporta all’attualità perché è proprio l’assenza di capacità nell’individuare le questioni politiche fondamentali oppure di agire, in questo senso, soltanto attraverso “specchietti per le allodole” oppure nella ricerca di “capri espiatori”, che impedisce la formazione stessa delle élite (mancando il presupposto indispensabile del “gruppo”) e di conseguenza la possibilità di far prevalere una tesi sull’altra proprio per l’assenza di definizione precisa dei termini di alternatività tra le tesi stesse.
Gli assunti di paradigma sui quali può poggiare il rinnovamento di una ricerca attorno alla costruzione di un’élite possono essere così definiti: la politica è lotta per la preminenza e il potere va concepito come “sostanza” e non come “relazione”; è necessario avere ben  presente la distinzione tra potere reale e potere apparente; la lotta per il potere e l’attività politica in generale è fatto “minoritario” nella società; la conquista, il mantenimento, la gestione del potere corrispondono alla capacità di coordinazione dei gruppi politici; la società è una realtà irrimediabilmente eterogenea, gerarchica, e conflittuale; ci si deve soffermare sul ruolo che le idee, i miti e le dottrine assumono nel processo di legittimazione dell’autorità.
In definitiva, il tratto essenziale della struttura di ogni società consiste nell’organizzazione dei rapporti che intercorrono tra governanti e governati, tra minoranza organizzata e maggioranza disorganizzata e nelle relazioni che si stabiliscono tra i diversi gruppi che detengono ed esercitano il potere: con buona pace di chi pensa  come realistiche proposizioni quali quelle della “democrazia diretta” e della “democrazia del pubblico”.
Sono questi gli elementi che debbono essere sottoposti alla riflessione politica nell’attualità del disfacimento del sistema cui stiamo assistendo : una riflessione da portare avanti attraverso un lavoro di studio che punti, proprio per citare nuovamente Gramsci, alla riunificazione tra teoria e prassi con un’ipotesi complessiva di trasformazione sociale collegata a un’élite ricostruita nell’interezza della sua identità di gruppo.
Naturalmente nell’elaborare questo intervento molte questioni sono state sottintese: l’analisi delle diverse specie di élite presenti in una stessa società, il tema delle relazioni tra le élite stesse e le masse, l’approfondimento circa i meccanismi di legittimazione che debbono essere attuati nell’acquisizione, nell’esercizio, nella detenzione e nel rovesciamento del potere.
 Si tratta di punti essenziali da sottoporre, prima di tutto, a un non facile lavoro di vera e propria “ricostruzione intellettuale”, quello al quale pensiamo ci si debba dedicare con grande impegno in questa fase, senza dimenticare però l’attualità drammatica dei fenomeni di vero e proprio arretramento di massa in corso sul terreno delle condizioni di vita, del venire meno nella disponibilità di diritti individuali e collettivi, nel restringimento dei termini stessi di esercizio della democrazia repubblicana.

mercoledì 17 luglio 2019

La baronessa Von der Leyen eletta a capo della Commissione Ue, austerità e Nato

Non fatevi incantare dalla solita propaganda europeista che si inventa come nemico di comodo i sempre più ridicoli sovranisti. La baronessa von der Leyen, per la sua nomina a capo della Commissione UE, non ha raccolto solo i voti contrari di Lega ed affini.
La ex ministro della difesa della Germania è stata eletta per il rotto cuffia a causa della valanga di NO ricevuti soprattutto a sinistra. Da tanti socialisti, da tutti i verdi, da tutta la sinistra radicale. La bocciatura più forte per la candidata della Merkel viene soprattutto dal lato opposto a quello dei sovranisti di destra.
E giustamente. Perché la nuova capo della Commissione è in perfetta sintonia con i predecessori, a parte un poco di chiacchiere elettorali sull’ambiente e qualche gioco di parole sul salario minimo, che in concreto poi corrisponde alla proposta della Confindustria italiana.
La signora von der Leyen è sempre stata una fanatica del rigore e dell’austerità non c’é stata alcuna autocritica su questo nel suo discorso. Juncker, il suo predecessore, era stato ben più esplicito quando si era spinto a dire che con la Grecia si era esagerato. Silenzio invece dalla von der Leyen. Che come ministro della difesa ha sostenuto le crescita della potenza militare della Germania e della UE, che per lei coincidono tra loro e con la NATO.
Il nuovo capo della Commissione UE è per il confronto sempre più duro e rischioso con la Russia e la Cina e per questo sostiene fanaticamente la guerra in Ucraina. Sì proprio la guerra del regime di Kiev contro le popolazioni del Donbass; guerra dalla quale in Italia arrivano fascisti coi missili.
La signora von der Leyen è una liberista ed una guerrafondaia di centrodestra e questa è anche la maggioranza che l’ha eletta. La stessa maggioranza che da sempre comanda nella UE, anzi che ha costruito le regole ed i trattati dell’Unione Europea a propria immagine e somiglianza.
È quindi normale che chi ancora si consideri di sinistra si opponga alla nuova commissaria, a ciò che rappresenta, a chi la sostiene, all’austerità e alla NATO che con lei continueranno a far danni

martedì 16 luglio 2019

Fascisti filo-ucraini, armati persino con un missile

All’ombra del Truce piccoli assassini crescono. Sarà una coincidenza, ma da quando Salvini è ministro dell’interno i fascisti più dichiarati – quelli “nostalgici”, apertamente intenti alla “ricostruzione del partito fascista” – stanno facendo piccoli salti di qualità nella loro attività squadrista.
Tanto che qualche procura è costretta a fermare quelli considerati più pericolosi a breve termine.
E’ il caso dell’operazione svoltasi stanotte con epicentro Torino, in cui sono stati arrestati alcuni fascisti noti per aver combattuto in Ucraina. Varese, Pavia, Novara e Forlì le altre città interessate dall’inchiesta.
Il punto rilevante è che stavolta, insieme alla solita paccottiglia nazistoide (pubblicazioni, gagliardetti, mazze, ecc) sono state rinvenute armi da guerra: fucili mitragliatori di fabbricazione austriaca, tedesca e statunitense e addirittura in missile aria-aria acquistato a suo tempo per le forze armate del Qatar (paese che finanzia e addestra diverse milizie jihadiste, alcune delle quali presenti anche in Ucraina al fianco del regime di Kiev).
I missili aria-aria sono usati dagli aerei da combattimento per distruggere altri aerei. Diversamente da quelli terra-terra, o aria-terra, montano una testata con relativamente poco esplosivo, quanto bsta a provocare danni devastanti in un velivolo. Difficile, insomma, utilizzarli in un ambiente metropolitano, ma con un po’ di addestramento tecnico-militare – evidentemente – possono tornare utili ad assassini in pectore.
L’unico nome che al momento è stato fatto, dagli inquirenti, è quello di Fabio Del Bergiolo, 50 anni, ex ispettore antifrode delle dogane che nel 2001 si era candidato al Senato, per Forza Nuova, nel collegio di Gallarate (Varese). Personaggio che forse spiega – in virtù delle sue “competenze doganali” – come abbiano fatti armi di una certa dimensione ad entrare in questo paese, teoricamente blindatissimo.
Questo “campione dell’ordine” stava comunque cercando di vendere il missile per quasi mezzo milione di dollari, arrivando a mandarne le foto via Whatsup (non proprio geniale, il tipo…). Per la stessa ragione sono stati fermati altri due fascisti: un cittadino svizzero di 42 anni, tale Alessandro Michele Aloise Monti, e un italiano di 51, Fabio Amalio Bernardi, fermati nei pressi dell’aeroporto di Forlì.
Del Bergiolo è un militante di lungo corso con Forza Nuova, formazione neofascista che dice di essere tutta “dio, patria e famiglia”. Nel 2003, era finito nei guai per una vicenda però molto meno eroicaera stato sospeso dal servizio perché voinvolto in una truffa sul rimborso dell’Iva. Era accusato di aver incassato rimborsi su 55 fatture per acquisti fatti da cittadini stranieri in transito dall’aeroporto di Milano Malpensa. Le fatture, che dovevano passare dalla sua vidimazione venivano respinte con motivazioni fittizie e quando i passeggeri le lasciavano sul tavolo o le buttavano credendo che fossero inutili, l’uomo le recuperava e le portava all’incasso agli sportelli della Global Refund, società che opera a Malpensa come intermediaria fra i passeggeri e lo stato. Qui entrava in gioco un’amica e complice, che in veste di dirigente ordinava il rimborso dell’Iva. 
Già nei giorni scorsi a Del Bergiolo erano state sequestrate diverse armi, comprese alcune da guerra, con possibilità di sparare a raffica (caratteristica eliminata nei fucili-copia in vendita per uso caccia). Si tratta di dodici fucili e nove pistole. Tra queste una machine pistol Skorpion, un fucile d’assalto Steyer Aug a raffica, un mitra Colt M16, un Heckler&Koch G3, un “Carcano”.
In seguito aveva formato il cosiddetto ”Movimento d’azione confederata”, che aveva come slogan «Chi non ha spada venda il mantello e ne compri una». Un precursore della salviniana “libertà di armarsi”, che spiegava così lo slogan: «Non siamo il partito delle armi di per sé. Però, tra altre cose, auspichiamo il diritto dei cittadini onesti e sani di mente di possedere e portare armi. Un diritto che in Italia è stato negato o reso censitario e clientelare”.
Non è però la prima inchiesta che in tempi recenti investe fascisti torinesi, in stretto legame con la curva juventina (soprattutto dei “Drughi”, il cui “capo” è morto qualche tempo fa in circostanze a dir poco misteriose, e “Giovinezza”).
Erano infatti state perquisite undici abitazioni di membri di Forza Nuova, Rebel Firm e Legio Subalpina, compagine di area skinhead, a Torino e Ivrea. In quel caso era stato stato arrestato il “leader” di Legio Subalpina, Fabio Carlo D’Allio, per detenzione e munizionamento di armi da guerra. 
Inutile chiedere al Truce se ne sia mai accorto, lui ha altro a cui pensare…

lunedì 15 luglio 2019

Banche centrali, neanche l’indipendenza assicura “stabilità

E’ una cosa che gli economisti neoliberisti, allevati a botte di schemini econometrici e “fine della Storia”, non ammetteranno mai: la politica economica (e monetaria, fiscale, ecc) non ha nulla a che vedere con tutto quello che hanno imparato.
Per due ordini di motivi principali: a) le esperienze delle crisi passate non sono mai state “metabolizzate” al punto di mettere in discussione i fondamenti delle loro teorie (basate sull’”equilibrio”, per cui la crisi è sempre imprevedibile e comunque frutto di banali “errori di qualcuno”); b) da quelle esperienze hanno fatto derivate alcune “ricette” da applicare a prescindere, come se tutti gli eventi critici fossero grossomodo tutti uguali.
E’ la prima impressione che si ricava da questo eccellente editoriale dell’ormai noto – anche ai nostri lettori – Guido Salerno Aletta, pubblicato sabato su Milano Finanza.
Le banche centrali, nella loro forma attuale, sono state imprintate dalla necessità di combattere l’inflazione, ossia l’aumento dei prezzi, soprattutto per la parte derivante da dinamiche endogene come i livelli salariali. Questo è totalmente vero per la Bce, che addirittura nello statuto fondativo ha come unico obbiettivo quello di tenere sotto controllo la dinamica dei prezzi. Lo è invece solo in parte per la statunitense Federal Reserve, che deve invece tener d’occhio anche il tasso di disoccupazione (in teoria, visto che i criteri statistici adottati permettono di ignorare 95 milioni di cittadini yankee che non lavorano, ma vengono classificati come “scoraggiati” perché hanno persino smesso di cercarlo, un lavoro).
Ne deriva che l’orientamento “istintivo” delle banche centrali sia di reagire brutalmente ad oggni aumento dell’inflazione, senza però disporre di strumenti “canonici” per combattere crisi di altro tipo.
E’ quello cui assistiamo – o meglio, soffriamo – dal 2007. Una crisi esplosa sotto forma di svalutazione drastica di patrimoni finanziari (alquanto fantasiosi, nella loro origine), che ha portato con sé svalutazione di molte attività economiche direttamente produttive e dunque deflazione. Ossia il “nemico” opposto a quello che i banchieri centrali erano pronti o abituati a combattere.
Non a caso, tutto quel che è stato messo in campo per salvare il sistema finanziario occidentale (coincidente all’epoca con quello globale) è stato classificato come “strumenti non convenzionali”, ossia cose che è necessario fare ma che non debbono essere considerate solo per questo “teoricamente corrette”.
Emerge certo una differenza di impostazione tra Fed e Bce (più “politica”, ossia elastica la prima, più “robotizzata” la seconda), ma in entrambi i casi è diventata più difficilmente sostenibile la famosa “indipendenza delle banche centrali”. Per il buon motivo che quella indipendenza aveva il suo precario fondamento nel disinteresse delle classi politiche per la lotta all’inflazione e politiche di bilancio basate sui tagli di spesa (guardano ovviamente al consenso elettorale a breve termine).
Ma se l’inflazione non riparte neanche a cannonate, come si fa a difendere questa impostazione?
Tasi di interesse a zero (o addirittura negativi, come quelli sui depositi) e “iniezioni di liquidità” immense, durate anni, non hanno modificato la situazione. Hanno tenuto in piedi le borse e la speculazione finanziaria, certamente, garantendo “i liquidi”; ma l’economia reale occidentale, e soprattutto statutinitense ed europea, non ne hanno beneficiato neanche un po’.
Ad esempio. Nel secondo trimestre di quest’anno le aziende statunitensi quotate nello S&P 500 – le prime 500 del paese – avranno un calo medio di profitti del 3%, che fa seguito al calo medio dello 0.3% del primo trimestre. Nella tradizione, questa caduta dei profitti dovrebbe far scendere anche i corsi azionari (basati sul rapporto price/earnings, ovvero tra prezzi delle azioni e profitti attesi in futuro). E invece lo S&P vola, segnando nuovi record storici.
Perché? Perché la liquidità in circolazione è enorme, ma non trova un luogo in cui – marxianamente – “valorizzarsi”. Quindi vaga da un titolo azionario a titoli di Stato “sicuri”, gonfiando quotazioni che non corrispondo a qualcosa di solido.
Carta, sotto cui c’è ben poco. Nel frattempo un certo Trump aveva tagliato drasticamente le imposte sui profitti, facendo balzare gli utili negli ultimi tre anni. Ma come ogni droga, l’effetto si spegne con il passare del tempo. Ora questo “stimolo” è venuto meno. Come nel decennio passato (quando negli Usa trionfava il Quantitative easing della Fed), poi il calo delle imposte sui profitti aziendali (con conseguente aumento del debito pubblico) hanno sostenuto il volo di Wall Street. Carta per carta, fare il denaro con il denaro (inesauribile grazie alle banche centrali e ai “prodotti finanziari derivati”).
Ma ogni gioco ha un termine…

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Banche centrali: per garantire la stabilità, l’indipendenza dai Governi non basta

Guido Salerno Aletta
Qualcosa di profondo è già cambiato nei rapporti tra il potere politico e le banche centrali: la crisi americana del 2008 e quella europea che si trascina dal 2010 hanno minato la generale accettazione del principio secondo cui la loro indipendenza rispetto ai governi rappresenta un baluardo sufficiente a garanzia della stabilità, che si identifica nel valore attuale del risparmio accumulato.
Ciò è avvenuto perché è ambiato il parametro di riscontro: mentre a partire dagli anni Settanta il problema era rappresentato dal rischio della perdita di valore della moneta nel momento dello scambio economico, ora risiede da quello della perdita di valore degli investimenti finanziari.
Prima il pericolo era rappresentato dalla distruzione del risparmio per via dell’inflazione dei prezzi al consumo, ora risiede in quello di vederlo polverizzato per via della deflazione dei prezzi degli asset in cui è stato investito.
L’inflazione, si diceva, aveva due cause: le spese pubbliche in disavanzo e la monetizzazione del debito: servivano dunque banche centrali realmente capaci di resistere alle pressioni dei governi, senza alcun obbligo legale o morale di finanziarne le spese stampando moneta. Anche il tasso ufficiale di sconto doveva dipendere esclusivamente da una loro decisione, non più condivisa con i responsabili del Tesoro. Questi ultimi, infatti, pur di non rallentare il ciclo ancorché inflazionistico, erano sovente restii a serrare le briglie del credito.
La crisi finanziaria iniziata nel 2008 è invece nata dalla esistenza di squilibri macroeconomici e dunque finanziari internazionali: aree sempre più indebitate come le famiglie americane sub-prime, l’intera economia greca ed i sistemi bancari di Irlanda e Spagna hanno fatto default. Ne è seguito il collasso dei mercati finanziari, sacrificando dunque i creditori, nel primo caso; avviando un interminabile processo di aggiustamento interno, nel secondo.
Non essendo stato disposta alcuna forma di dirigismo nei confronti dei mercati, né di vincolo ai movimenti dei capitali o di limite agli squilibri internazionali, le banche centrali hanno usato fino alla esasperazione le due leve in loro possesso, tassi e liquidità. Portando i primi a mai conosciuti livelli negativi e la seconda a quantità senza precedenti.
I risultati strutturali non sono soddisfacenti, perché la crescita dell’economia reale non è mai robusta, ed il rientro dalle politica monetarie accomodanti ha immediate conseguenze negative.
Di qui nasce la pesante inframmettenza della politica: il Presidente americano Donald Trump marca sempre più strettamente l’operato della Fed chiedendo un allentamento delle briglie monetarie, perché non può permettersi una crisi economica in piena campagna per le primarie. In Europa, il Consiglio ha candidato Christine Lagarde, ora Direttore generale del Fmi, alla successione di Mario Draghi al vertice della Bce: anche qui serve una gestione politica, perché l’Eurozona è un progetto alchemico: i mercati hanno accolto la proposta con favore.
Il solo annuncio, invece, della candidatura di un monetarista, o peggio di un ordoliberista, li avrebbero fatti collassare.
E’ in corso una sorta di deriva di continenti: la placca politica si sta sovrapponendo all’area dominata dalle banche centrali: a volte scivolando silenziosamente, a volte scontrandosi in modo violento.
In passato, ad esempio, gli Accordi di Basilea erano considerati pressoché assorbenti rispetto ad ogni altra normazione statale, e soprattutto venivano considerati intangibili. Dopo la crisi, in Europa c’è stato un proliferare di decisioni, di normazioni e di Autorità indipendenti che hanno reso frastagliato e complessissimo il quadro di riferimento che disciplina la supervisione finanziaria. Operano sui diversi aspetti, cooperando tra di loro, l’EBA (European Banking Authotity), l’ESRB (European Systemic Risk Board), l’ESMA (European System of Market Authority) e l’Eiopa (European Insurance and Occupational Pensions Authority).
Anche all’interno della Bce, la funzione relativa alla vigilanza prudenziale sulle istituzione bancarie sistemiche ha avuto una fisionomia ed una autonomia peculiare.
Commissione e Parlamento europeo hanno detto la loro sul sistema unificato delle risoluzioni bancarie (BRRD), sulla garanzia dei depositi, sui meccanismi di sostegno alle banche in difficoltà. Sono tutte questioni profondamente politiche, perché i fondi per i salvataggi bancari sono sempre rivenienti dagli Stati, anche se gestiti sulla base di Accordi internazionali, come l’ESM. A contribuire ai salvataggi ed a garantire il rimborso dei prestiti internazionali sono sempre i cittadini. E sono loro a rischiare i risparmi: come azionisti delle banche, come sottoscrittori di obbligazioni bancarie, o come semplici depositanti. Per non parlare dei debitori, che sono i primi ad essere messi alle strette dalle banche quando le acque si increspano appena.
Le scelte politiche europee in materia di supervisione finanziaria sono state completamente diverse rispetto a quelle americane: è stata seguita la consueta strategia della robotizzazione, fatta di divieti automatici e di procedure blindate.
La seconda Comunicazione della Commissione sugli aiuti di Stato alle banche e la direttiva sulle risoluzioni bancarie (BRRD) hanno azzerato i margini di gestione delle crisi bancarie da parte delle banche centrali e degli Stati. C’è una sorta di pilota automatico che ha portato a conseguenze aberranti: in Italia, i casi delle quattro piccole banche locali, del Monte dei Paschi di Siena e delle due banche venete, sono degni di essere inseriti nelle museo degli orrori.
Si rimpiange il passato: anche di fronte a situazioni di crisi gravissime, dal Banco Ambrosiano al Banco di Napoli, la Banca d’Italia ed il Tesoro cooperarono in modo assai efficiente, con soluzioni articolate e di volta in volta diverse, e con ricadute mai negative per le finanze pubbliche ed i depositanti.
Negli Usa, con la Dodd-Frank, si è puntato al coordinamento di tutte le istituzioni federali sotto la guida del Segretario al tesoro. Questi presiede il Financial Stability Oversight Council, di cui fanno parte tutti i vertici delle istituzioni di regolamentazione e sostegno finanziario, compresi i Presidenti del Fed, della Sec e della Cftc. In tutto, dieci membri. La presidenza affidata al Segretario al tesoro non è simbolica: per due categorie di decisioni, eccezionali e fortemente discrezionali (condurre nell’alveo della vigilanza tradizionale taluni operatori finanziari non bancari e di sottoporre ad una normativa prudenziale avanzata determinati soggetti bancari e non bancari), non solo è necessaria la maggioranza dei due terzi del Consiglio, ma è indispensabile il voto suo voto favorevole.
Sono decisioni di alta amministrazione, cui è possibile opporsi giudiziariamente solo per eccepire, come unico possibile vizio, il fatto che la decisione sia arbitraria ed assunta per mero capriccio. In pratica, i giudici non possono intervenire sulla ragionevolezza della decisione, che sarebbe comunque opinabile, ma solo sull’abuso del potere. Discrezionalità assoluta in America, quindi, condizionata per giunta dalla posizione favorevole del Segretario al Tesoro. La legge di riforma ha superato l’impostazione tradizionale, secondo cui il raccordo e la dialettica tra Tesoro e Fed sarebbero sufficienti ad assicurare la stabilità dei mercati finanziari: il ruolo della politica è divenuto chiaro e condizionante.
Si è confermato invece il principio democratico della responsabilità diretta dell’Amministrazione nei confronti del Congresso: i dieci i componenti del Consiglio, dal Segretario al Tesoro ai vertici degli apparati tendenzialmente indipendenti dall’Esecutivo, compresa la Fed, devono riferire annualmente al Congresso, singolarmente. Non c’è infatti una relazione complessiva del Consiglio, né tanto meno sono ammesse opinioni dissenzienti: ognuno deve firmare una propria dichiarazione, in cui afferma che si sono compiuti tutti i passi necessari per riportare la stabilità sui mercati oppure denuncia chiaramente le carenze riscontrate e le azioni che dovrebbero essere intraprese.
I tweet con cui Donald Trump contesta da mesi la linea di politica monetaria restrittiva del Governatore della Fed Jerome Powell non hanno fatto altro che anticipare ciò che costui ha dovuto appena riconoscere parlando al Congresso: “I venti contrari aumentano. La Fed agirà in modo appropriato per sostenere l’espansione”.
I politici agiscono d’istinto, sentono l’umore del popolo. I banchieri centrali, per parlare e per decidere, ormai hanno bisogno di numeri probanti, di statistiche, di previsioni convalidate: si sono legati, anche loro, ad un sistema robotizzato da cui non possono uscire se non di fronte a situazioni eccezionali.
Lo fece Mario Draghi il 26 luglio 2012 a Londra, promettendo ai mercati che avrebbe fatto “whatever it takes” per evitare il collasso dell’euro. Prese una decisione politica, e salvò innanzitutto la autonomia della Bce da una fine assai ingloriosa.

venerdì 12 luglio 2019

La mina dei “soldi russi” sotto i piedi di Salvini

Per esaminare la vicenda dei “soldi russi per Salvini” è necessario indossare maschera e guanti. Perché la materia puzza in modo feroce e appare immersa in quella fogna di liquami in cui faccendieri, servizi segreti, mediatori, affaristi e politici di mezza tacca sguazzano finché non vengono travolti.
Non si può dunque “parteggiare” senza automaticamente mettersi al servizio di uno o l’altro dei protagonisti. Siano essi il gruppo di “tecnici delle transazioni” riuniti nella hall dell’Hotel Metropole di Mosca, i giornalisti de L’Espresso che hanno ricevuto un mare di informazioni sull’incontro, i “fornitori” di quelle informazioni (intercettare una conversazione del genere, in territorio russo, senza farsi scoprire, non è proprio un giochetto che può fare chiunque…), i gruppi interessati a che quell’accordo andasse in porto e quelli ovviamente al lavoro per farlo fallire, nonché quelli interessati a stroncare “i sovranisti della Lega” e dunque anche la carriera politica del fascioleghista “di successo”.
Ma essere “obbiettivi” in una vicenda così puzzolente è anche abbastanza difficile, perché tutte le informazioni rilevanti sono messe a disposizione da chi è interessato a farlo. Oppure non raggiungibili. Dunque sono sempre parziali, manchevoli, depistanti proprio quando sembrano indirizzarti verso una conclusione “certa”.
Partiamo perciò dall’unica cosa che appare certa. In uno storico albergo moscovita, il 18 ottobre 2018, Gianluca Savoini, leghista della prima ora, ex portavoce di Salvini, ora presidente dell’associazione Lombardia-Russia, si siede a un tavolo con altri due italiani al momento non identificati e tre russi, uno solo dei quali dall’identità certa.
Tutta la loro discussione è registrata in un file audio pubblicato dal sito statunitense BuzzFeed, dunque non è smentibile. Al massimo si può accendere qualche discussione sull’interpretazione dei passaggi più “criptici”, visto che le transazioni finanziarie per aggirare leggi italiane e internazionali non sono nella comune conoscenza di tutti.
Qualche discussione in più si potrebbe fare anche sul fatto che il fila presenta “buchi” qua e là, evidentemente di “non troppo interesse” per chi ha deciso di farlo uscire con un po’ di editing…

L’oggetto del confronto è altrettanto certo: come mettere in piedi una transazione commerciale tra “società petrolifere note” – italiane e russe – con uno o due intermediari bancari per occultare un finanziamento alla Lega calcolato, in base al contenuto della registrazione, in circa 65 milioni di euro.
I commensali citano spesso il vice primo ministro russo Kozok e Vladimir Pligin, importante dirigente del partito Russia Unita, ricordando di non avere l’autorità per concludere l’accordo, ma solo il ruolo di stendere un “piano tecnico” che poi il vicepremier russo dovrà approvare (oppure no, ovviamente).
Altre cose certe. a) In quegli stessi giorni Salvini era in visita a Mosca, b) Pochi giorni dopo, mentre si discute nel governo italiano l’impianto del “decreto spazzacorrotti”, la Lega presenta un emendamento per cancellare il “divieto di finanziamento ai partiti da parte di uno Stato straniero” (Emendamento 7.23).
Queste poche certezze sono sufficienti a ipotizzare parecchi reati, ragion per cui la Procura di Milano – competente per territorio vista la residenza del protagonista della vicenda, Savoini – ha aperto formalmente un fascicolo per “ corruzione internazionale” sui presunti fondi russi alla Lega.
Il che distrugge in poche ore la sventurata “difesa preventiva” inscenata dalla presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, per respingere le fin troppo scopertamente strumentali richieste del Pd di convocare al più presto in aula Matteo Salvini perché riferisse sulla vicenda. La presidente aveva definito il tutto “pettegolezzi giornalistici” (del resto è stata una delle fan più sfegatate di Berlusconi, partecipando alla sceneggiata dei “vestiti a lutto” quando venne votata la decadenza del Cavaliere da senatore, nel 2013). Ora il “pettegolezzo” è diventato un’inchiesta giudiziaria; se questa produrrà una “informazione di garanzia”, la richiesta di convocazione del Secondo Matteo non sarà rifiutabile.
Tra parentesi, queste poche certezze rendono patetica l’autodifesa dello stesso Salvini, come al solito in soliloquio video, che la butta in barzelletta dal terrazzo di casa. Stavolta non si parla di migranti e di navi Ong, ma di politica internazionale. Puoi sempre coglionare qualche povero telespettatore con la tua aria da comico di periferia, ma i poteri che ti stanno dando la caccia se ne fregano. Sanno che il consenso elettorale, come la borsa azionaria, “sale e scende”…

Tutto il resto poggia sulle sabbie mobili, avvolto da nebbie e sospetti.
Chi ha registrato l’incontro moscovita? Certamente non un giornalista, perché – come già detto – una cosa del genere richiede competenze tecnologiche da spioni altamente addestrati, in grado di sfuggire alle difese dei servizi russi (almeno uno degli uomini al tavolo era vicino al viceprimo ministro di quel paese, dunque in qualche modo “protetto”).
Ma un’operazione da servizi segreti è cosa diversa da una “inchiesta giornalistica”, anche se certamente utilizza alcuni giornalisti per far esplodere il caso politico.
E questo ci porta nell’irrisolvibile spirale di ipotesi su “a chi giova?”. In politica, e a maggior ragione nella geopolitica in tempi di fortissima competizione internazionale, gli attori non sono mai soltanto due, ma tanti. E un fenomeno anomalo come quello della Lega salvinianacosì come quello del Cinque Stelle, fino alla “banalizzazione” poi operata da Di Maio – trova lungo la strada molti “amici” (in genere impresentabili, come la Le Pen, Orbàn, i criptonazisti austriaci e tedeschi, il luciferino Steve Bannon, ecc) e altrettanti nemici altrettanto ignobili.
Senza metterci a fare gli astrologi privi di palla di vetro, appare chiaro che il “governo” di un paese, a maggior ragione se di peso economico rilevante come l’Italia, non è esattamente a disposizione del primo pirla che vince le elezioni.
I condizionamenti “istituzionali”, per esempio dell’Unione Europea, sono noti e palesi, in gran parte. Ma altrettanti – e non trasparenti – sono i meccanismi di condizionamento utilizzabili e utilizzati per far sì che un paese di queste dimensioni non diventi una variabile impazzita nel Risiko globale. Vale per i paesi che scelgono la via della Rivoluzione (o anche meno, come si è visto con il referendum in Grecia nel 2015), ma anche per quelli che – più banalmente – rischiano di fare scelte retrograde, mettendo a rischio equilibri internazionali consolidati e, per altre ragioni, da tempo in difficoltà (vale per la UE come per gli Usa).
Cosa vogliamo dire? Che a forza di stare con gli occhi e le orecchie posseduti dai media “nazionali”, si rischia di credere davvero che uno come Salvini – un attore, lo abbiamo definito spesso – possa sul serio “governare per 40 anni”. Come se davvero, per via elettorale, un paese potesse prendere la direzione che preferisce (anche quelle ridicole, in questo caso).
La scena dei “congiurati” dell’Hotel Metropole, circondati da finti “clienti” che registrano ogni loro parola, ci riporta nel mondo reale.
Il potere è una cosa troppo seria per lasciare che a decidere sia una lotteria di promesse ogni 4-5 anni.