domenica 31 maggio 2015

Già finita la "ripresa" Usa

Per quasi un anno ci hanno tormentato con la propaganda: l'economia americana tita, è in ripresa, si creano postidi lavoro, grazie al (lunghissimo e generosissimo) quantitative easing deciso dalla Federal Reserve. E in effetti qualche semestre di "rimbalzo" c'è stato. Del resto non mancavano i buoni motivi: denaro disponibile in quantità illimitata a costo zero (e anche meno, per qualche mese), salari fermi o in ribasso (vedi alla Chrysler di Sergio Marchionne, dove i ri-assunti dopo il fallimento hanno dovuto accettare decurtazioni del 50%), dollaro di conseguenza debole, ovvero una bella mano alle esportazioni, prezzo del petrolio in calo grazie al "fracking" proprio sul territorio Usa...
Insomma, lo stesso elenco che ci propinano qui nell'Unione Europea. Se voi fate i sacrifici, vi promettiamo che noi cresceremo; fidatevi e vi tireremo fuori dalla crisi. Tutte cazzate. Lo si deve dire alto e forte.
Nel primo trimestre di quest'anno l'economia americana ha bruscamente inchiodato, perdendo lo 0,7% del Pil. I soliti analisti si aspettavano una "frenatina", cioè un rallentamento nella crescita, un è0,2%. Ma non una botta del egenere. Negli ultimi tre mesi del 2014, infatti, il Pil era cresciuto del 2,2%.
Si tratta del dato peggiore dal 2011. Il governo statunitense, nel comunicare i dati, ha provato anche fornire una spiegazione: il deficit commerciale in aumento, visto che il dollaro era tornato più fprte (conseguenza dei quantitative easing europeo e giapponese), e il calo dei consumi (se i salari fanno schifo, come vuoi che la gente compri?).
Ora, laggiù, è immediatamente partito il coro dei minimizzatori: "sono solo fattori teporanei, non vi preoccupate". Si dà la colpa al maltempo, all'euro debole e allo yen debolissimo, prefigurando di fatto una rinuncia - da parte della banca centrale Usa - a rialzare i tassi di interesse inchiodati a zero da quasi cinque anni.
Nessuno che si chieda come mai, se tutte le banche centrali del mondo sviluppato stampano e prestano denaro a più non posso (che finisce alle banche private), l'economia reale non si schioda dai livelli infimi cui è precipitata da sette anni a questa parte.

sabato 30 maggio 2015

Cuba rimossa dalla "lista nera"

Gli USA hanno rimosso Cuba dalla lista degli stati sponsor del terrorismo, ha informato una nota ufficiale.
Il portavoce del Dipartimento di Stato USA, Jeff Rathke, in una nota ufficiale ha segnalato che "il termine di 45 giorni di preavviso al Congresso è scaduto e il Segretario di Stato ha preso la decisione finale di rescindere la designazione di Cuba come Stato Patrocinatore del Terrorismo, che diventa efficace oggi, 29 maggio".
La lista è redatta unilateralmente da Washington e Cuba fu inclusa dal 1982
La nota precisa che gli USA mantengono significative preoccupazioni e divergenze con L'Avana, ma non ci sono criteri rilevanti per mantenere quella politica e l'azione riflette la convinzione USA che Cuba risponde ai criteri per essere esclusa.
Per essere efficace, la decisione richiede la sua pubblicazione nel Registro Federale, il giornale ufficiale USA, anche se l'ufficio diplomatico ha assicurato che la decisione diventa operativa immediatamente.

venerdì 29 maggio 2015

Dagli Usa miliardi di dollari in armamenti per Israele e Arabia Saudita

Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha annunciato due massicce forniture di sistemi d’arma ad Israele e Arabia Saudita, del valore di 1,9 Mld di $ ciascuna.
Gli accordi comprendono la vendita di migliaia di kit per trasformare comuni bombe d’aereo in bombe direzionali a guida laser, ordigni ad alta penetrazione anti-bunker, migliaia di missili Hellfire; insomma, quanto serve ad una prolungata campagna d’attacco aereo.
Non è affatto un caso: come noto, l’Arabia Saudita scarica ordigni sullo Yemen dal 26 marzo scorso, in un attacco terroristico indiscriminato che ha mietuto migliaia di vittime civili ed arrecato immense distruzioni al Paese; dal canto suo Israele, che la scorsa estate ha martoriato la Striscia di Gaza per cinquanta giorni, intende prepararsi a un prossimo massiccio coinvolgimento nella resa dei conti che si sta profilando nell’intero Medio Oriente, fra la Resistenza da un canto e il Golfo con i suoi fantocci e le sue bande di tagliagole prezzolati dall’altro.
Il Pentagono ha giustificato le forniture dichiarando che “contribuiranno alla politica estera e di sicurezza nazionale degli Stati Uniti”; come dire che l’aggressione saudita allo Yemen e il suo strenuo appoggio alle bande terroriste in Siria e Iraq, come pure il massacro di palestinesi da parte israeliana rientrano ufficialmente nella politica di sicurezza a Stelle e Strisce.
Per adesso, a godere sono Boeing, General Dynamics, Lockheed Martin, Raytheon Missile System, le più importanti industrie di armamenti Usa, alla guida della potente lobby degli armamenti che condiziona a piacimento il Congresso americano a maggioranza repubblicana. Saranno loro a fornire il grosso di quei sistemi d’arma destinati ad alimentare altre sanguinose aggressioni.

giovedì 28 maggio 2015

Dalla Spagna alla Polonia un doppio schiaffo all’oligarchia europea

Quello che arriva dalla Polonia e dalla Spagna nello stesso giorno, sotto forma di risultati delle elezioni tenutasi nei due paesi, costituisce un vero e proprio doppio schiaffo all’Europa di Bruxelles, quella dell’oligarchia tecnocratica al servizio del potere finanziario e si accompagna all’altro schiaffo, quello che i tecnocrati di Bruxelles hanno ricevuto da Atene nello stesso giorno, quando il ministro greco, Nikos Voutsis, ha dichiarato loro a brutto muso che la Grecia non pagherà il debito con il FMI (visto che non ha i denari) e non ha intenzione di aderire alle direttive economiche trasmesse da Bruxelles e da Francoforte. Si tratta di un netto rifiuto nel voler seguire ed applicare le politiche di austerità dettate da Bruxelles e che sono la sintesi delle politiche neoliberiste, le stesse che hanno prodotto il disastro economico e sociale in cui si trovano i paesi dell’Europa che le hanno fatte proprie, dalla Grecia alla Spagna, al Portogallo, all’Italia ed alla stessa Francia.
In Spagna i nuovi movimenti politici antieuro hanno avuto un successo clamoroso nella tornata di elezioni amministrative, in particolare le liste di “Podemos” e “Ciudadanos”, che, per quanto diversi come programma, hanno in comune l’avversione alle politiche di austerità europea che hanno prodotto disoccupazione di massa e miseria. Si tratta di movimenti nati come antagonisti dei partiti di governo tradizionali, sia di destra che di sinistra (PPE e PSOE) che hanno gestito il potere e le politiche filoeuropeiste ed atlantiste e che si sono distinti per incapacità e corruzione (situazione simile a quella italiana). Podemos e gli altri movimenti avevano portato in piazza tantissime persone per protestare, nel corso degli ultimi mesi, in forte polemica con l’asservimento del governo di Mariano Rajoy alle direttive della politica di austerità della Troika.
In Polonia si è registrata la vittoria alle elezioni presidenziali di Andrzej Duda, giovane candidato (43 anni) del partito Diritto e giustizia, il movimento nazionalista e ultraconservatore di Jarek Kaczynski, fratello di Lech Kaczynski che morì nella misteriosa sciagura aerea del 2010.
Duda ha ottenuto il 53% dei voti ed ha sconfitto Bronislaw Komorowski, il leader del partito centrista ed europeista che deteneva le redini del Paese dal lontano 2007, e che si era distinto per la sua politica di asservimento totale agli USA tanto da rendere la Polonia la quinta colonna di Washington in Europa.
Il giovane leader Andrzej Duda ha già pronte le sue ricette economiche per il paese: meno Europa, meno Occidente e un conservatorismo più duro. Viene preso modello, come dichiarato dagli stessi leader del movimento, l’Ungheria di Viktor Orban, il Paese che ha sfidato il Fondo Monetario Internazionale, messo al bando le Ong filo occidentali e stretto i rapporti con il fronte eurasiatico di Russia e Cina. Per quanto siano comunque anti russi, i nuovi nazionalisti che prenderanno il potere a Varsavia saranno daranno forti preoccupazioni non soltanto ai tecnocrati di Bruxelles ma anche ai dominatori di Washington che avevano espresso forti critiche, ai limiti della diffamazione, nei confronti della politica del leader ungherese.
Il movimento nazionalista capeggiato da Duda ha sempre manifestato profonda avversione per il modello economico ultra liberista e è stato fortemente polemico anche nei confronti di chi sostiene acriticamente il processo di globalizzazione. Piuttosto questo movimento si ispira alla Storia ed alle tradizioni della Nazione polacca. Da notare che la Polonia non fa parte dell’area euro, mantiene la sua moneta (lo zloty) e si è rifiutata i entrare nell’euro, resistendo alle sollecitazioni di Bruxelles. Sarà per questo che il paese presenta un tasso di crescita economica sconosciuto ai paesi che fanno parte dell’area euro (3,1% previsto nel 2015).
Di sicuro i nazionalisti ed euroscettici polacchi viaggiano a gonfie vele verso una possibile vittoria anche in prospettiva delle prossime elezioni politiche, che saranno essenziali per capire quale indirizzo prenderà lo Polonia che costituisce un perno importante nel contesto europeo.
Inizia a serpeggiare quindi un certo nervosismo negli uffici di Bruxelles, visto che l’ondata anti europea rischia di diffondersi in forma impetuosa mettendo a rischio i prossimi passi che l’oligarchia di Bruxelles si accinge a compiere per rendere sempre più irreversibile la costruzione finanziaria in Europa. Bisogna considerare che i tecnocrati stanno trattando in forma riservata con Washington le clausole del trattato TTIP (Trattato Trans Atlatico) che dovrebbe assegnare alle grandi corporations USA campo libero in Europa e la firma di questo trattato non è difficile capire che apporterebbe, da parte delle società USA e delle lobby che premono per il trattato, un forte debito di “riconoscenza” verso i tecnocrati che si stanno adoperando per farlo sottoscrivere in tempi rapidi. Sarebbe un peccato sprecare l’occasione per chi ne può mietere forti vantaggi economici e di carriera. Per non parlare del Redemption Found (ERF) , un nuovo trattato che consentirebbe di mettere definitivamente sotto controllo i deficit dei paesi a rischio come Italia Spagna e Portogallo, il cui varo è previsto nei prossimi mesi. Vedi: L’European Redemption Fund, è quasi-Realtà .
Fino ad oggi l’area di contestazione alle politiche di Bruxelles era limitata a piccoli paesi come Grecia ed Ungheria e si era fatto di tutto per isolare questi paesi, tuttavia, se quest’area dovesse allargarsi, come sta avvenendo alla Spagna, alla Polonia e magari anche ad altri paesi, allora tutte le decisioni prossime potrebbero essere vanificate e lo stesso eurosistema potrebbe vacillare.
Non si pensi tuttavia che l’elite finanziaria che ha il potere decisionale e che ispira l’oligarchia di Bruxelles e Francoforte (vedi: l’elite globalista e rischi di rivolta) sia rassegnata a veder modificati gli equilibri politici in Europa con il rischio di un cambio di politica economica e crollo del sistema dell’euro. Questo non è pensabile poiché ci sarebbe un contraccolpo sui bilanci delle banche esposte con i titoli emessi dalle nazioni del sud Europa fortemente indebitate, un conseguente crollo dei profitti delle banche e questo avrebbe gravi ripercussioni sull’assetto finanziario dei principali titoli a Londra come a Wall Street. L’elite finanziaria non permetterà che questa situazione si verifichi e si era premunita inducendo i vari governi europei alla firma dei trattati vincolanti come Mastricht e Lisbona, Fiscal Compact e MES/ESM, per evitare ripensamenti da parte di qualche governo. La stessa elite può manovrare attraverso le leve di cui dispone per il controllo della politica che esercita di fatto ed in particolare stanno preparando, attraverso i grandi media controllati dai loro gruppi industriali e finanziari, una grande campagna pubblicitaria (già iniziata) con interventi diretti a manipolare l’informazione, criticare i movimenti euroscettici, per presentare questi movimenti come un “rischio per la democrazia”, per paventare scenari catastrofici conseguenti ad un successo dei partiti euroscettici e, peggio ancora, ad eventuale richiesta di un paese di uscire dal sistema euro per causa di cambiamenti di governo. Sarebbe una catastrofe per le grandi banche.
Facile prevedere che si stia attivando tutto il sistema occulto di cui l’elite finanziaria dispone, dai media ai servizi privati con la finalità di sobillare e condizionare l’opinione pubblica. Non è escluso che si monteranno scandali prefabbricati e si indagherà sulla vita privata di ogni esponente politico non conforme, dagli esponenti di Podemos in Spagna, alla Marine Le Pen in Francia che è la leader di un forte movimento anti europeista, allo stesso Andrzej Duda in Polonia, a Heinz-Christian Strache in Austria (il successore di Haider, morto in un misterioso incidente d’auto) a Salvini della Lega in Italia, in Grecia non ci sarà bisogno perchè il vertice di Alba Dorata è già in carcere da tempo con accuse prefabbricate.
Dove troveranno un qualche pretesto per montare una campagna scandalistica, da una relazione extraconiugale ad una presunta tangente, a strani collegamenti con boss della mafia, a possibili affermazioni dal sapore antisemita o negazionista (stimolate da qualche domanda trappola), allora partirà con un’azione dei media che orchestreranno una campagna di diffamazione a tutto campo a cui seguiranno puntuali inchieste della magistratura. Questi personaggi leader dei movimenti euroscettici dovranno fare molta attenzione perché un punto debole si trova sempre nelle persone e, se anche non sussiste, si crea ad arte. La demonizzazione dei personaggi scomodi o contrari agli interessi del sistema è un’arte a cui l’apparato mediatico occidentale è particolarmente incline ed è capace di partire a comando ed a seguito di una direttiva che parta dalle centrali di potere: che si tratti di Gheddafi, di Vladimir Putin o di Basahar al-Assad, tutto l’apparato di mette in moto all’unisono per screditare, ridicolizzare ed infine per demonizzare il personaggio in modo da renderlo impresentabile. Non per nulla tutti i grandi media (giornali e TV) sono strettamente controllati dai gruppi finanziari ed industriali collegati con gli interessi dell’elite. Non per caso sono state disseminate in molti paesi una quantità di ONLUS pilotate e finanziate dai vari Soros ed altri finanzieri, dietro presunte finalità di “difesa dei diritti umani” (ad es. Human Right Watch, USAID, Open Society, ecc.) si sono mosse da tempo per fare propaganda, per sobillare per realizzare campagne informativa, alcune di queste operano per influenzare e controllare anche il web.
Non sarà facile scavalcare il muro di gomma eretto a protezione delle istituzioni europee e finanziarie, sono pronte le accuse di “antieuropeismo” , di “nazionalismo retrogrado”, di egoismo abietto e perfino di fascismo, da utilizzare contro coloro che insisteranno nel contestare l’assetto europeista creato dall’oligarchia tecnocratica.
L’elite avrà la scelta di quale sistema adottare per scardinare ogni dissenso ed i suoi fiduciari, i tecnocrati di Bruxelles, se messi alle strette, tireranno fuori anche le unghie per difendere le loro posizioni e le loro poltrone, non avranno riguardo per nessuno; prepariamoci al peggio

mercoledì 27 maggio 2015

Buona Scuola e Mala Fede

La scuola retorica renziana, ancor più d quella berlusconiana, rende i suoi adepti dei veri maestri nell'arte di rigirare la frittata. Lo dimostrano le ultime parole di Maria Elena Boschi sulla Buona Scuola, quanto mai acrobatiche. Secondo il ministro delle Riforme, il disegno di legge presentato dal Governo "non è un prendere o lasciare", ma "è inaccettabile lasciare le cose come sono", perché "la scuola in mano solo ai sindacati non funziona".
Iniziamo dalla prima affermazione. In effetti, per una volta stiamo parlando di un Ddl (non di un decreto) su cui l'Esecutivo non intende porre la fiducia. Ciò in teoria significa che - al contrario di quanto è avvenuto con l'Italicum - almeno questo testo potrà essere discusso e modificato dalle Camere senza ricatti e forzature da parte del Governo.
Insomma, al Parlamento viene concessa una sorta di ricreazione durante la quale potrà tornare a esercitare liberamente il potere legislativo. E' questo che il ministro intende quando sottolinea che non si tratta di "un prendere o lasciare". Ma siamo sicuri che sia così? Non proprio, vediamo perché.
La misura più attesa fra quelle contenute nella Buona Scuola è l'assunzione di 100mila precari (inizialmente il premier Matteo Renzi aveva promesso la stabilizzazione di 148mila lavoratori, numero che si è poi misteriosamente ridotto di un terzo). E' bene ricordare che non siamo di fronte a uno slancio di pudore nei confronti di una delle categorie di dipendenti statali più bistrattate: a imporre queste assunzioni è l'Ue.
Lo scorso 26 novembre, infatti, la Corte europea si è espressa contro il ricorso sistematico ai contratti a tempo determinato nella scuola pubblica italiana, stabilendo che dopo tre supplenze annuali un docente abbia diritto all'assunzione. E' quindi ovvio che le stabilizzazioni debbano avvenire quanto prima, per non incorrere nell'ira di Bruxelles.
Questa sarebbe stata certamente una ragione di "necessità e urgenza" che - Costituzione alla mano - avrebbe giustificato il ricorso a un decreto legge, strumento di cui il Governo si è già avvalso ampiamente e senza alcun motivo (si pensi alla riforma delle banche popolari). L'Esecutivo ha però scelto d'inserire le assunzioni nella legge complessiva sulla scuola e in questo modo ha messo indirettamente pressione sul Parlamento.
Se infatti il Ddl non sarà approvato in tempi brevi, risulterà impossibile siglare i nuovi contratti in tempo per l'inizio del prossimo anno scolastico. Chiunque si opporrà in Aula alla riforma, perciò, correrà il rischio di presentarsi agli occhi degli elettori e dell'Europa come il responsabile di 100mila assunzioni mancate. Vale a dire, "non è un prendere o lasciare", ma vi conviene "prendere", perché "lasciare" può rivelarsi un suicidio politico.
Passiamo ora alla seconda affermazione della Boschi ("è inaccettabile lasciare le cose come sono"). In questo caso siamo di fronte a un vero e proprio cavallo di battaglia. Come sempre, il compito numero uno del ministro delle Riforme è difendere il dirigismo del Capo presentandolo come l'unica possibilità di cambiamento.
E siccome nel vocabolario di questo Esecutivo il verbo "cambiare" è sinonimo di "migliorare", chiunque osi manifestare dissenso è un laido conservatore della Prima Repubblica, un reazionario che zavorra il Paese.
Il sillogismo, ingannevole quanto efficace, è lo stesso per ogni riforma: il rinnovamento è sempre benefico; Renzi è l'unica possibilità di rinnovamento; chi si oppone a Renzi va contro l'interesse dell'Italia. E non abbiamo dubbi che - dopo aver giocato la carta delle assunzioni per imporre la volontà del Governo al Parlamento - la Boschi prima o poi ci ripeterà per l'ennesima volta che "si discute con tutti ma alla fine si decide".
Quanto alla storia della "scuola in mano ai sindacati", sono parole che rivelano un'ostilità a priori nei confronti di chi rappresenta i lavoratori e che sarebbe lecito aspettarsi da un ministro di destra. In tema d'istruzione i sindacati hanno molte responsabilità, anche gravi, ma lasciare intendere che oggi la scuola sia in mano a loro vuol dire non avere la minima idea di quali umiliazioni sia costretto a sopportare un insegnante precario. Oppure, più semplicemente, vuol dire parlare di Buona Scuola in mala fede.

martedì 26 maggio 2015

L’assassinio dell’Università Italiana

Il motivetto rituale è pressoché questo: “ce lo chiede l’Europa, dobbiamo adeguarci alle medie europee, mai più fanalino dell’UE”. Eppure quando si tratta di finanziamenti non riusciamo mai a fare “i compiti a casa”. Siamo al di sotto della media UE e con un contributo pubblico alla ricerca inferiore di 3 miliardi di euro alla media OCSE e investimenti privati pari a un terzo. In Italia non si investe nell’università e nella ricerca, però stranamente per la ricerca europea versiamo contribuiti pari al 13,9% del totale ricevendone invece l’8,1% (fonte Anvur), ovvero, otteniamo dall’Ue 65 centesimi per ogni euro che abbiamo versato alla stessa UE: insomma uno squilibrio di finanziamenti. Nel 2013 il numero degli immatricolati italiani era ridotto del 20,4% e questa tendenza continua anche oggi. Un deficit imponente per quanto riguarda l’orientamento formativo: un terzo degli immatricolati cambia corso di studio dopo il primo anno. Su 100 immatricolati solo 55 conseguono la laurea triennale.
I numeri delineano una scena del crimine consumata all’interno del sistema universitario stesso. Quali sono i problemi? Test d’ingresso non completamente attinenti alla facoltà scelta, la mancanza di meritocrazia, le baronie, i finanziamenti basati su graduatorie sballate, il sistema 3+2. Moltissimi studenti, di fronte ai test d’ingresso per le facoltà a numero chiuso, restano sbalorditi per l’assurdità di certe domande, quesiti con il solo scopo di ridurre il numero di matricole conciliando gli iscritti ai test con il numero di posti disponibili. Test ben lontani dal premiare il merito, una selezione d’ingresso discutibile. Il problema della meritocrazia e delle “baronie accademiche” sono interconnesse tra loro e integrate nella combinazione micidiale tra autonomia universitaria (introdotta negli anni 80′) e il Fondo di finanziamento ordinario (FFO introdotto negli anni 90′).
Gli atenei condotti dagli ordini collegiali elettivi e i finanziamenti del FFO, senza riserva obbligatoria di spesa, hanno concesso alle baronie accademiche di incentrare la spesa per l’assunzione di personale o per il miglioramento di quello già impiegato, a discapito della ricerca, dei laboratori, delle biblioteche, della didattica. Gli elettori messi di fronte alla scelta di come usare i fondi non esitavano a preferire un assegno per la ricerca, un passaggio di livello, o un posto di ricercatore a quanto prima elencato. Il sistema 3+2 era stato ideato per garantire un “contatto” con il mondo del lavoro, la laurea triennale sarebbe stata professionalizzante. In realtà il mercato del lavoro si è ritrovato di fronte laureati dalla formazione ridotta, senza una capacità di adattamento e sviluppo. Riforma completamente bocciata, dalla realtà e dal mondo del lavoro, che ha avuto come unico risultato l’alterazione della natura stessa dell’insegnamento universitario.
Sull’ultimo punto occorre una vera riflessione politica ed etica: basta con le bugie, vogliono chiudere gli atenei del mezzogiorno? I finanziamenti FFO basati su graduatorie quasi interamente falsate che ignorano completamente la situazione sociale, economica, culturale in cui versano gli atenei del Sud. I decreti attuativi del MIUR di attribuzione di punti organico e del Fondo di finanziamento ordinario non tengono in alcun conto le cessazioni intervenute nelle singole Università nei periodi precedenti, ma ripartiscono i punti organico spalmandoli sul sistema delle università statali. Un “turn over” fissato al 20% ma che è possibile superare dalle università con i conti più virtuosi, in media la grande maggioranza degli atenei del Nord. I finanziamenti pubblici all’università sono sempre stati basati sulla spesa storica e non sulle necessità attuali dei diversi atenei, quindi le università che fin dall’inizio hanno ricevuto più soldi hanno performance migliori che garantiscono loro maggiori finanziamenti. Gli atenei del Sud non possono permettersi di alzare le tasse universitarie, mediamente basse, principali fonti di attrazione per gli studenti. Non possono contare sul sostegno economico privato di enti e fondazioni che per la stragrande maggioranza (ancora) non risiedono a Sud di Roma.
Un doppio assassinio: gli atenei del Sud sottosviluppati strategicamente, al fine di garantire un’entrata di matricole alle università storiche, e il genocidio generale dell’università italiana, dissanguata ed inerme

lunedì 25 maggio 2015

IN GRECIA STANNO PER CONFISCARE DENARO DAI CONTI BANCARI PRIVATI COME FECERO A CIPRO

Vi ricordate cos’è successo a Cipro quando ha deciso di sfidare l’UE? Alla fine l’intero sistema bancario del paese è crollato e ci sono state confische di denaro dai conti bancari privati. Be’, la Grecia si sta avvicinando ad un finale simile. È da agosto 2014 che il governo greco non riceve più denaro dall’UE o dal FMI. Come potete immaginare, ciò significa che i conti del governo greco sono ormai completamente prosciugati.
Il nuovo governo greco continua a insistere che “non violerà il suo mandato anti-austerità”, ma la vite si sta stringendo. Il tasso di disoccupazione in Grecia è sopra il 25 percento e il sistema bancario è sull’orlo del collasso. Non ci vorrà molto perché si scateni il panico, e si parla già del fatto che, quando ciò avverrà, l’UE abbia in progetto di confiscare il denaro dai conti bancari privati proprio come ha già fatto a Cipro.
Durante tutti gli anni della crisi la situazione non è mai stata disperata come ora per il governo greco. Solo il 12 maggio si è arrivati così vicini al default su un prestito fatto dal Fondo Monetario Internazionale (FMI). E ora, senza più un soldo rimasto, si vorrebbe che il governo greco ripaghi grosse quote di debito nel corso delle prossime settimane…
Atene è riuscita a malapena ad effettuare l’ultimo pagamento (il 12 maggio) al FMI, e lo ha potuto fare solo perché il governo si è accorto che poteva attingere a delle riserve di valuta di cui non era a conoscenza, secondo i media greci.
Kathimerini, un quotidiano greco, ha riportato che il primo ministro Alexis Tsipras aveva scritto a Christine Lagarde, capo del FMI, per avvertirla che la Grecia non sarebbe stata in grado di effettuare il pagamento da 762 milioni di euro.
Alla fine del mese ci saranno da pagare le pensioni e gli stipendi dei dipendenti pubblici, e secondo queste notizie Atene potrebbe essere in grave difficoltà ad effettuare questi pagamenti. Anche se ci dovesse riuscire, il 5 giugno il paese dovrebbe restituire altri 305 milioni di euro al FMI.
Nelle due settimane dopo il 5 giugno sono previsti altri tre pagamenti, che portano il totale della somma dovuta al FMI nel solo mese di giugno a oltre 1,5 miliardi di euro.
La Germania e gli altri falchi finanziari dell’UE fanno affidamento su queste scadenze incombenti per costringere la Grecia a un altro patto di salvataggio.
Nel frattempo anche le banche greche si trovano in cattive acque. Molte di esse hanno completamente esaurito i collateriali, e in mancanza di un intervento esterno alcune di esse potranno fallire nel giro di qualche settimana. Ciò che segue è riportato da Bloomberg…
Le banche greche stanno esaurendo i collaterali di cui hanno bisogno per restare in vita, e questa crisi potrebbe determinare le scelte del primo ministro Alexis Tsipras dopo settimane di braccio di ferro coi creditori.
Mentre i depositi fuggono dal sistema bancario greco, i creditori stanno usando i collaterali lasciati nella Banca Centrale Greca per attingere ad una quota sempre crescente di liquidità di emergenza. Nel peggiore dei casi, quest’ultima àncora di salvezza arriverà ad esaurimento fra tre settimane per il raggiungimento della quota massima, e questo spingerebbe le banche all’insolvenza, secondo alcuni economisti.
“È probabile che il punto di esaurimento dei collaterali sia molto vicino”, hanno scritto Malcolm Barr e David Mackie, analisti per la JPMorgan Chase Bank, in una nota ai clienti del 15 maggio. “Le pressioni sui flussi di cassa del governo centrale, sul sistema bancario, e sul calendario politico stanno tutte convergendo verso la fine di maggio e inizio di giugno.”
Se non si raggiunge un accordo, tra un mese esatto la Grecia potrebbe trovarsi in una crisi stile-Cipro, se non peggio.
E se ciò dovesse accadere, ci sono già voci che parlano dell’imposizione di una “soluzione stile-Cipro”. Leggete cosa ha detto recentemente James Turk al King World News…
La Troika (UE, BCE e FMI) non hanno ancora staccato la spina alle banche greche, ma la seguente citazione del Financial Times, uscita questa settimana, dovrebbe suonare da avvertimento per tutti quelli che hanno ancora del denaro o dei depositi in quel paese: “L’idea di presentare un piano stile-Cipro alle autorità greche ha fatto presa su alcuni ministri delle finanze dell’eurozona, secondo un funzionario coinvolto nelle trattative.”
La BCE è immersa fino al collo nel debito greco inesigibile. La BCE non ha però intenzione di segnarsi una perdita sui propri libri contabili. Dato che la Grecia non ha le possibilità finanziarie di ripagare ciò che è diventata ora un’esposizione della BCE per 112 miliardi di euro, la BCE è rimasta con due alternative.
Può spingere i 112 miliardi di debito greco che detiene sul groppone delle banche centrali nazionali dell’eurozona o sui contribuenti, il che sarebbe politicamente inammissibile. Oppure può confiscare i depositi nelle banche greche, come ha fatto a Cipro e come il Financial Times ha riportato.
Non c’è bisogno di dire che la visione di un film del genere scatenerebbe il panico finanziario in tutta Europa.
Vedremo davvero una cosa del genere?
Be’, ricordiamo che in aprile abbiamo già visto il governo greco impossessarsi del denaro “inattivo” nei conti bancari dei governi regionali e dei fondi pensione. Ciò che segue è come Bloomberg riportò quell’evento…
Senza possibilità di alternativa, il primo ministro greco Alexis Tsipras ordinò alle amministrazioni locali e agli enti del governo centrale di spostare la liquidità che avevano in cassa presso la banca centrale come investimento a breve termine nel debito pubblico.
Il decreto di confisca dei depositi detenuti nelle banche commerciali per trasferirli presso la Banca di Grecia potrebbe permettere di raccogliere 2 miliardi di euro, secondo due persone che conoscono la questione. Il denaro sarebbe necessario per poter pagare pensioni e stipendi alla fine del mese, dicono.
“È una decisione politicamente e istituzionalmente inaccettabile” ha detto Giorgios Patoulis, sindaco della città di Marousi e presidente dell’Unione dei Comuni della Grecia, questo lunedì in una dichiarazione. “Nessun governo fino ad ora aveva osato toccare i soldi dei comuni.”
Impossessarsi del denaro depositato nei conti bancari dei privati cittadini sarebbe solo un passo ulteriore.
E ciò che è avvenuto a Cipro appena un paio di anni fa è ancora ben fresco nel ricordo di molti greci. Questo è il motivo per il quale molti hanno ritirato il proprio denaro dalle banche durante le ultime settimane. Quanto segue è stato scritto da Wolf Richter…
I greci ricordano bene cosa avvenne a Cipro nel 2013, quando le banche locali ebbero l’ok dall’Europa per attingere i conti privati dei depositanti. Cipro e Grecia sono legati molto strettamente, e molti greci considerano l’isola di Cipro come una “nazione sorella”.
La poca fiducia rimasta verso le banche greche morì quel giorno. La gente ha iniziato a guardare nervosamente ai segnali che potesse avvenire qualcosa di simile anche in patria.
E hanno deciso di agire al primo segnale di pericolo: le banche non possono confiscare il denaro tenuto sotto il materasso. Il denaro può essere portato via e nascosto.
Speriamo che ciò che è avvenuto a Cipro non riaccada in Grecia.
Ma adesso ciascuna parte in causa sta aspettando che sia l’altra a piegarsi.
I tedeschi credono che ad un certo punto la sofferenza economica e finanziaria diventi così grande da costringere il nuovo governo greco a rinunciare alle proprie pretese.
I greci ritengono che la minaccia di una crisi finanziaria totale in Europa spingerà la Germania a fare marcia indietro all’ultimo momento.
E se si sbagliassero entrambi?
Cosa succede se entrambi saranno preparati a tenere il terreno fino a tirarci giù dal burrone, verso il disastro?
È da tempo che avverto che una grossa crisi finanziaria potrebbe essere in arrivo dall’Europa.
Questa potrebbe essere la scintilla che innesca la miccia.

domenica 24 maggio 2015

Pensioni, il rimborso di Renzi

Il governo Renzi applica la sentenza della Corte Costituzione, ma dei 16 miliardi dovuti ne restituirà solo 2. Non solo: i soldi saranno presi dagli interventi contro la povertà. Il che conferma che a pagare per la redistribuzione saranno i più poveri». Sbilanciamoci.info, 19 maggio 2015
Il Governo ha deciso di applicare la sentenza della Corte Costituzionale al 12%. Questa infatti è, all’incirca, la percentuale del rimborso (2,180 miliardi di euro) che verrà effettuato ai pensionati rispetto a quello che sarebbe loro dovuto in base alla piena applicazione delle indicazioni della Corte (16,6 miliardi più gli interessi). Tra le righe della sentenza si possono anche individuare elementi per contenere la restituzione del mancato adeguamento all’inflazione, ma è fortemente dubbio che le sue indicazioni possano essere eluse per quasi il 90%. La restituzione parziale avverrà in misura progressiva: 750 euro per le pensioni superiori a tre volte il minimo (circa 1406 euro lordi mensili al dicembre 2011) fino a 1700 euro lordi; 450 euro per le pensioni fino a 2200 euro lordi; 278 euro per quelli fino a 3200 euro lordi. Anche per chi prenderà di più, si tratterà di un assegno una tantum (perché la questione dovrebbe essere rivista nella prossima legge di stabilità dove le pensioni saranno oggetto di altri interventi) e nettamente inferiore a quanto previsto dalla sentenza. Infatti, anche per la prima fascia d’importo, il rimborso avrebbe dovuto essere di circa 1700 euro, mentre per la fascia più alta dovrebbe essere di circa 3800.
Il Presidente Renzi ha specificato che i 2,180 miliardi necessari saranno presi da quanto era previsto per gli interventi contro la povertà il che conferma che sarà una redistribuzione ai margini della povertà. A differenza di altri paesi, dove i redditi da pensione hanno trattamenti fiscali ridotti, in Italia sono tassati con le normali aliquote, e una pensione lorda di 1406 euro diventa di circa 1200 netti. Rimane poi il fatto – da non dimenticare - che il sistema pensionistico pubblico presenta un saldo tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali nette che è attivo dal 1998 e che nell’ultimo anno per il quale si hanno dati, il 2013, è stato pari a circa 21 miliardi di euro (cioè dieci volte quello che gli si vuole restituire per il mancato adeguamento all’inflazione). Si aggiunga che il valore medio delle pensioni è attualmente pari a circa il 45% della retribuzione media degli occupati, che tale quota è in ulteriore discesa e che nell’assetto attuale, in base alle previsioni, raggiungerà il 33% nel 2036. Dunque quando il governo stabilisce di rispettare la sentenza della Corte al 12%, e il Presidente Renzi dice che non è contento di doverlo fare, sta perseverando nella politica redistributiva decisa da tempo che esclude la possibilità di colpire altri redditi e ricchezze più elevate per fronteggiare le esigenze di bilancio.
Ma è proprio la politica di bilancio del governo l’epicentro del problema che andrebbe messo in discussione. A questo riguardo, l’aspetto significativo da considerare è che, nonostante l’emergenza finanziaria determinata dalla sentenza della Corte, il Governo non vuole superare l’obiettivo fissato al 2,6% per il deficit di bilancio, quando avrebbe margini di manovra fino al 3%. Raggiungere quel limite gli consentirebbe altri 3 miliardi di aumento di spesa senza superare il vincolo di Maastricht. Il Governo, pur trovandosi di fronte alla necessità di fronteggiare una scelta del precedente governo Monti-Fornero così iniqua da essere definita “irragionevole” dalla Corte, ci tiene ad apparire ligio ai programmi delle politiche di consolidamento fiscale che oramai lo stesso Fondo Monetario Internazionale ha dovuto ammettere essere controproducenti non solo rispetto agli obiettivi della crescita, ma anche per migliorare i conti pubblici.
Da questo punto di vista, l’Agenda Monti, nonostante i suoi effetti provatamente perversi, continua ad essere il sestante della nostra politica economica e sociale che si conferma essere iniqua e controproducente allo stesso tempo. Oramai non si tratta più nemmeno di essere o meno di sinistra o progressisti, ma semplicemente di uscire da una visione di politica economica e sociale conformista i cui effetti fallimentari sono generalmente riconosciuti. Se le politiche comunitarie stanno insistendo nel portarle avanti, e i nostri governanti le accettano supini, è perché è in corso il braccio di ferro sulla “questione greca”. Si tratta di un confronto dimostrativo che non risponde a nessun criterio di razionalità economica e che – oltre pregiudicare le condizioni sociali ed economiche della Grecia - sta mettendo a rischio la costruzione europea. Quella in atto è una politica pericolosamente miope che risponde ad idiosincrasie nazionali e alla necessità di dare soddisfazione agli interessi rappresentati da tutti i governi di centro-destra europei, in particolare da quelli dei paesi della “periferia” dell’Unione che quelle regole sbagliate le hanno accettate e adesso non tollererebbero – per questioni elettorali - di dover ammettere che è stato un errore.

sabato 23 maggio 2015

LAVORO SEMPRE PIÙ POVERO: LA CRISI HA RIDOTTO I SALARI

Il mondo del lavoro ha subito un pesante colpo dalla crisi economica degli ultimi anni. Un colpo non tanto – e non solo – in termini di posti persi, quanto di perdita della massa salariale, quantificata in circa 1.218 miliardi di dollari in tutto il mondo. La stima è fatta dall’Ilo, l’organizzazione mondiale sul lavoro nel “World Employement and social Outlook 2015″ reso noto a Ginevra. Per farsi un’idea più precisa del danno basti pensare che la somma calcolata è pari all’1,2% della produzione mondiale e a circa il 2% dei consumi.
“Il mondo del lavoro – si legge nel rapporto – sta cambiando profondamente, in un momento in cui l’economia globale non crea un numero sufficiente di posti di lavoro”. Il dato globale della disoccupazione ha così raggiunto i 201 milioni nel 2014, oltre 30 milioni in più rispetto a prima dello scoppio della crisi globale in 2008. Oltre alla riduzione della massa salariale globale dovuta al divario occupazionale, il rallentamento della crescita dei salari ha avuto conseguenze importanti anche sulla massa salariale aggregata. Ad esempio, si stima che nelle economie industrializzate e nell’Unione europea, nel 2013, il rallentamento della crescita dei salari durante e dopo i periodi di crisi abbia provocato una riduzione di 485 miliardi di dollari della massa salariale a livello regionale.
L’aumento dei salari potrebbe avere benefici importanti sull’economia. Salirebbero, infatti i consumi e i livelli di investimento, e si stima che, colmando il divario occupazionale mondiale, il Pil globale aumenterebbe di 3.700 miliardi di dollari – pari ad un aumento della produzione mondiale del 3,6 %. L’Ilo osserva inoltre che nel 2014, quasi il 73 % del divario occupazionale mondiale era dovuto a un deficit dell’occupazione femminile, che rappresenta solo il 40 % circa della manodopera mondiale.
Lavoro stabile e lavoro precario
Lo studio dell’Ilo evidenzia che solo un quarto dei lavoratori nel mondo ha un rapporto di lavoro stabile. I tre quarti dei lavoratori hanno infatti contratti temporanei o a breve termine, lavorano spesso senza nessun contratto, sono lavoratori autonomi o svolgono un lavoro familiare non retribuito, afferma lo studio. Secondo il World Employment and Social Outlook 2015 oltre il 60% dell’insieme dei lavoratori non ha un contratto di lavoro. La maggior parte di questi si trova nei paesi in via di sviluppo, svolge un lavoro autonomo o contribuisce a un’attività familiare, ma anche tra i lavoratori dipendenti solo il 42% ha un contratto a tempo indeterminato. La ricerca dell’Ilo rivela che il lavoro dipendente, in aumento in tutto il mondo, rappresenta solo la metà dell’occupazione globale, con variazioni da regione a regione. È inoltre in aumento il lavoro a tempo parziale, soprattutto fra le donne. Le forme atipiche di lavoro possono aiutare le persone ad accedere al mercato del lavoro, ma “lo spostamento che osserviamo del rapporto di lavoro tradizionale verso forme atipiche è, in molti casi, associato ad un aumento delle disuguaglianze e della povertà in diversi paesi”, ha commentato il direttore generale dell’Ilo, Guy Ryder.
L’Ilo osserva che le disuguaglianze di reddito sono in aumento o comunque rimangono elevate nella maggior parte dei paesi. Una tendenza aggravata dalla diffusione di forme dilavoro temporaneo, dall’aumento della disoccupazione e dell’inattività. Durante l’ultimo decennio si è ampliato il divario di reddito tra i lavoratori a tempo indeterminato e quelli temporanei.
Secondo il rapporto, nonostante siano stati compiuti progressi in termini di copertura pensionistica, la protezione sociale – in particolare i sussidi di disoccupazione – rimane praticamente riservata ai soli lavoratori a tempo indeterminato. Per i lavoratori autonomi, anche le pensioni sono scarse: nel 2013, solo il 16% dei lavoratori autonomi ha versato contributi

venerdì 22 maggio 2015

Italia: l'1% possiede il triplo del 40% più povero

Le ultime statistiche dell'Ocse sembrano uscite direttamente dagli slogan che cantavano i manifestanti del movimento Occupy, il gruppo di protesta che a fine 2011 ha scosso Wall Street, inscenando un sit-in durato per mesi contro il mondo della finanza sfrenata e le crescenti ineguaglianze economiche e sociali.
La crisi finanziaria non ha fatto che accentuare le differenze tra i più agiati e i meno fortunati in Italia, creando una piramide di redditi iniqua. La perdita di reddito disponibile tra il 2007 e il 2011 è stata ben più elevata (-4%) per il 10% più povero della popolazione rispetto al 10% più ricco (-1%).
L'1% più ricco della popolazione detiene al momento il 14,3% della ricchezza nazionale netta, praticamente il triplo rispetto al 40% più povero, che detiene solo il 4,9%. La cifra è stata calcolata sommando gli asset finanziari e non finanziari da cui vengono poi sottratte le passività.
La ricchezza nazionale netta, dice ancora l'organizzazione parigina, è distribuita in modo molto disomogeneo in Italia, con una concentrazione particolarmente marcata verso l'alto. Il 20% più ricco (primo quintile) detiene infatti il 61,6% della ricchezza, e il 20% appena al di sotto (secondo quintile) il 20,9%. Il restante 60% si deve accontentare del 17,4% della ricchezza nazionale, con appena lo 0,4% per il 20% più povero.
Anche nella fascia più ricca, inoltre, la distribuzione è nettamente squilibrata a favore del vertice. Il 5% più ricco della popolazione detiene infatti il 32,1% della ricchezza nazionale netta, ovvero oltre la metà di quanto detenuto del primo quintile, e di questa quasi la metà è in mano all'1% più ricco.
In Italia, "la povertà è aumentata in modo marcato durante la crisi", in particolare per giovani e giovanissimi. L'aumento del cosiddetto tasso di povertà ancorata (che fissa la soglia rispetto all'anno precedente) è stato di 3 punti tra il 2007 e il 2011, il quinto più elevato. La fascia con il maggior tasso di povertà sono gli under 18, con il 17%, 4 punti percentuali in più della media Ocse, seguita dalla fascia 18-25, con il 14,7%, 0,9 punti sopra la media.
L'occupazione è invece aumentata solo grazie ai posti atipici. Più di un italiano su due che ha un part-time vorrebbe un impiego a tempo pieno, secondo le ultime cifre dell'Istat. A sua volta l'Ocse riferisce come dagli anni 90 ad oggi, la crescita dell'occupazione in Italia sia stata in gran parte generata da un aumento dei posti di lavoro atipici. Ma è sempre più difficile uscire da una situazione precaria.
Secondo i dati del rapporto, l'incremento del 26,4% del tasso di occupazione tra il 1995 e il 2007 è costituito per la maggior parte, 23,8, da posti "non standard" (lavoro autonomo, contratti a termine, part time) e solo in minima parte, il restante 2,6, da posti fissi full time. Negli anni della crisi, inoltre, il calo dell'occupazione è stato concentrato in gran parte sui posti fissi, mentre il lavoro atipico è stato stabile o in lieve aumento.
Tra il 2007 e il 2013, il calo del 2,7% del tasso di occupazione è generato da un calo dei posti full time, sia a tempo indeterminato (-4,3) che determinato (-0,8), e del lavoro autonomo (-1,5), controbilanciato da un aumento del part time (+4). Per effetto di questa dinamica, la percentuale di posti di lavoro atipici sul totale è passata dal 23,6% del 1995 al 40,2% del 2013. L'incidenza del lavoro atipico è particolarmente alta per gli under 30, al 56,9% dell'occupazione totale, e scende progressivamente con l'età, al 39,7% nella fascia 30-49 anni e al 33,7% per la fascia 50-64.
Il tasso di povertà tra le famiglie italiane di lavoratori "non-standard" (autonomi, precari, part time) è al 26,6%, contro il 5,4% per quelle di lavoratori stabili, e il 38,6% per quelle di disoccupati. Il rapporto dell'Ocse sulle diseguaglianze rileva come la diffusione del lavoro precario le abbia peraltro amplificate.
In particolare se si fissa a 100 il guadagno medio dei lavoratori con posto fisso, quello degli atipici si ferma a 57, con grosse disparità tra le varie categorie (72 per un lavoratore autonomo, 55 per un lavoratore con contratto a termine full time, 33 per un lavoratore con un contratto a termine part time).

giovedì 21 maggio 2015

Pensioni. Parte l'attacco finale

La certezza è arrivata ieri sera, al termine di una giornata caratterizzata da un fuoco mediatico concentrato sul sistema pensionistico italiano. Da "abbattere", nell'incidenza sul Pil, così come fatto da tutti i paesi Piigs e con problemi di bilancio. E non importa quanto sia stato già tagliato. L'oobiettivo, ormai è chiaro, è limitare l'assegno pensionistico medio a un reddito minimo, a prescindere dalle carriere contributive.
Quando Renzi, seduto davanti a Vespa (la "terza Camera") ha detto la sua - «Nella legge di stabilità stiamo studiando un meccanismo non per cancellare la Fornero ma per dare della libertà in più se accetti di prendere un po’ meno, quei 30 euro: liberiamo dalla Fornero quella parte di popolazione italiana che, accettando una piccola riduzione, può andare in pensione con un pochino in più di flessibilità» - tutti sono andati a guardare "quanto" in meno verrebbe tolto in cambio di due o tre anni di anticipo rispetto alla data-monstre indicata dalla lege Fornero.
E qui i numeri divergono, a seconda delle indiscrezioni, ma si oscilla tra il 2 e il 30% in meno. Altro che "30 euro" al mese, cui ogni ultrasessantenne ambosessi rinuncerebbe volentieri pur di andarsene a casa.
I calcoli sono complessi, naturalmente, ma solo nascondendo i tagli sotto una coltre di termini e numeri incomprensibili che si può prendere seriamente per il sedere gli astanti.
In primo luogo: se un certo numero di lavoratori sceglierà di andarsene prima, si porrà un problema di bilancio per l'Inps. Ci saranno subito più pensioni da pagare, mentre entreranno meno contributi. Anche i giovani che eventualmente saranno assunti al loro posto, infatti, avranno uno stipdendio inferiore - magari con l'azienda che non versa neanche i contributii grazie all'"incentivo" governativo di quasi 8.000 euro annui in caso di assunzione con il contratto indeterminato "a tutele crescenti". Con il rischio che Bruxelles, oltretutto, abbia da eccepire sull'oerazione.
Allo studio, perciò, ci sono due modi di "risparmiare": o si riduce l'assegno pensionistico degli "anticipanti" di almeno il 3% per ogni anno rispetto al limite forneriano (comunque mai prima dei 62 anni di età), con una perdita media del 15%. Oppure si calcola l'assegno totalmente con il metodo contributivo, sostituendolo al "retributivo" per tutti gli anni precedenti alla rifoeìrma Dini del 1996. In questo modo la pensione può diminuire addirittura di un quarto. Di fatto, "converrebbe" soltanto a chi è rimasto senza lavoro e senza ammortizzatori sociali e non ha altri redditi con cui sopravvivere.
Ma questa mannaia, riguardante soltanto coloro che dovessero scegliere un'uscita anticipata rispetto alla Fornero, potrebbe essere considerata non sufficiente. Carlo Cottarelli, funzionario Fmi nominato per un anno circa "commissario alla spending review" e poi tornato a Washington per diventare "controllore" dell'Italia per conto del Fondo, aveva aperto la questione in termini ben più generali: «La spesa per pensioni in Italia è pari al 16,5% Pil, la più alta tra paesi avanzati. Troppo. Rimane il fatto che l'Italia ha un debito pubblico molto elevato e, a parte le regole Ue da rispettare, se i tassi salissero sarebbe un problema. C'era poco spazio per per spendere di più».
Messa così, è l'intero sistema pensionistico a dover essere rivisto per portare la spesa complessiva a livelli minori. IlSole24Ore, organo di Confindustria, spara in prima pagina "46 miliardi, il conto del retributivo". Sarebbe la spesa annua in eccesso, risarmiabile col ricalcolo contributivo per le 14 categorie di pensionati che riceverebbero più di quanto ganno versato. Ma andando a guardare il prospetto riassuntivo, si scopre che il grosso della spea è causato dagli "ex dirigenti d'azienda", capaci di far fallire il proprio istitituto di previdenza (l'Inpdai) grazie ai contributi troppo bassi e agli assegni pensionistici troppo alti. Quando l'Inpdai ha chiuso, la sua gestione passiva è stata scaricata sull'Inps. Con risultato che i lavoratori dipendenti continuano ad arricchire i dirigenti anche da pensionati...
Nel mirino degli industriali ci sono però anche i ferrovieri (tacendo del fatto che, per esempio, l'aspettativa di vita media di un macchinista è di 58 anni, e quindi era normale - ante-Fornero - che venissero obbligati ad andare in pensione a quell'età), gli elettrici e i telefonici. Tutta gente che passa la sua vita lavorativa tra cami elettromagnetici fortissimi e quindi veniva "premiata" - al pari dei minatori e altri lavori usuranti - con un'età di pensionamento più bassa.
L'aspetto più ignobil di questo attacco concentrico è però, come sempre, nella retorica usata. Il prossimo taglio delle pensioni, infatti, viene già ora giustificato come un "riequilibrio verso l'equità integenerazionale". Toglieranno ai padri senza dare un centesimo di più ai figli. Com'è già avvenuto con la precarizzazione dei contratti di lavoro.

mercoledì 20 maggio 2015

La malascuola

Scuola. Con il minimo sforzo e i banchi semivuoti, la camera approva l’art. 9 della riforma e boccia tutte le proposte delle minoranze. No a una vera regolarizzazione dei precari. Forza Italia: vincono le nostre idee. Fassina chiede in aula le dimissioni della ministra Giannini
«L’impianto del dise­gno di legge sulla scuola è libe­rale e di cen­tro­de­stra, tanti punti in que­sta legge sono stati intro­dotti da noi». Non ha dubbi la pre­side Elena Cen­te­mero, depu­tata e respon­sa­bile scuola di Forza Ita­lia. Gli unici emen­da­menti appro­vati all’articolo 8 della riforma — quello sull’organico dell’autonomia — sono stati (a parte quelli impo­sti dalla com­mis­sione bilan­cio) i suoi. Due invece gli emen­da­menti appro­vati all’articolo 9, quello sui nuovi (super)poteri dei diri­genti sco­la­stici. Il primo del Pd pre­vede che il cur­ri­cu­lum dei pro­fes­sori venga pub­bli­cato sul sito della scuola (quando c’è), il secondo del M5S intro­duce il divieto di rap­porti da paren­tela tra il pre­side e i pro­fes­sori dell’istituto. E così il con­te­stato arti­colo sui nuovi pre­sidi è stato appro­vato, con la camera un filo sopra il numero legale e appena 214 voti favo­re­voli (su una mag­gio­ranza di governo teo­rica di 404). Le assenze del lunedì, una certa ras­se­gna­zione delle oppo­si­zioni, una serie di sospen­sioni hanno impe­dito alle mino­ranze — che in teo­ria potreb­bero con­tare su 230 e più depu­tati — di segnare un colpo importante.
La mino­ranza del Pd non ha par­te­ci­pato al voto sui pre­sidi. Il ber­sa­niano Alfredo D’Attore ha detto che «fac­ciamo un torto a Renzi e al mini­stro Gian­nini, che all’epoca si pre­sentò con uno schie­ra­mento alter­na­tivo, se diciamo che que­sta riforma è il pro­gramma con cui ci siamo pre­sen­tati alle ele­zioni». Ste­fano Fas­sina ha chie­sto in aula alla mini­stra dell’istruzione di dimet­tersi, «sarebbe utile per lasciare che si ripri­stini un clima più posi­tivo tra governo e mondo della scuola». Al che più di un depu­tato del Pd ha sen­tito l’esigenza di inter­ve­nire per con­fer­mare la fidu­cia del par­tito nella mini­stra. Fino a che Gian­nini non ha repli­cato diret­ta­mente a Fas­sina: «Mi ha attri­buito parole, opi­nioni e fatti che non esi­stono. Fa la sua bat­ta­glia poli­tica, que­sto è legit­timo e nem­meno troppo inatteso».
Secondo la mini­stra «non va scam­biata l’autonomia per diri­gi­smo, per poten­ziale occa­sione di nepo­ti­smo, per poten­ziale occa­sione addi­rit­tura di cor­ru­zione» e «non ci saranno pre­sidi padroni». L’articolo 9 della riforma, modi­fi­cato rispetto all’impostazione ori­gi­nale dell’esecutivo ma ancora con­te­stato dal mondo della scuola, asse­gna ai diri­genti sco­la­stici il potere di con­fe­rire ai docenti un inca­rico trien­nale, rin­no­va­bile. La sele­zione — anche mediante col­lo­qui — sarà fatta sui docenti di ruolo asse­gnati all’ambito ter­ri­to­riale di rife­ri­mento, men­tre l’ufficio sco­la­stico regio­nale pro­cede ad asse­gnare le cat­te­dre ai docenti che non abbiano rice­vuto, o accet­tato, pro­po­ste. Secondo la nuova legge il diri­gente dovrà coprire le sup­plenze fino a 10 giorni con l’organico dell’autonomia, men­tre potrà farsi affian­care nell’esercizio delle sue man­sioni dal 10% dei docenti della scuola. La dif­fi­coltà della mag­gio­ranza sull’articolo 9 risulta ancora più evi­dente dal con­fronto con il pre­ce­dente voto sull’articolo 8 che ha rac­colto una ses­san­tina di voti in più.
Supe­rato lo sco­glio dei nuovi poteri ai pre­sidi, alla camera è comin­ciata la seduta not­turna. Ed è comin­ciata da un altro arti­colo deci­sivo per la riforma, il cosid­detto piano di assun­zioni straor­di­na­rie che non è altro, secondo i sin­da­cati uniti e secondo tutti i par­titi di oppo­si­zione, che la rego­la­riz­za­zione di una pic­cola parte dei pre­cari della scuola. La pro­po­sta di Fas­sina e altri depu­tati demo­cra­tici di mino­ranza di assu­mere entro l’anno gli ido­nei che hanno vinto il con­corso del 2012 e sono rima­sti senza cat­te­dra è stata boc­ciata con soli 100 voti di scarto (224 no e 124 sì) e ha rice­vuto il voto favo­re­vole di una quin­di­cina di depu­tati Pd.

martedì 19 maggio 2015

"No all'Imu agricola".Gli agricoltori di mezza Italia giovedì saranno sotto Montecitorio

I tartassati dell’Imu sui terreni agricoli si ribellano. E sono pronti a calare a Roma per far sentire le loro ragioni. Il 21 saranno sotto Montecitorio per una iniziativa pubblica di grande risonanza. Sono in tanti, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, ed hanno anche l’appoggio di tanti sindaci, i tartassati dal "patto di stabilità".
Insomma, il movimento c’è. Ed hanno una bandiera che a fianco dell’immancabile spiga di grano riporta l’effige della lettera “R”, che sta per “Rispetto”. Rispetto per il loro lavoro, rispetto di quel minimo di legalità che se da una parte viene richiesto sempre ai cittadini, quando entra in ballo l’amministrazione pubblica diventa carta straccia.
La questione non è muova. La norma sull'Imu sui terreni agricoli con l’ultimo “aggiornamento” è diventata un mostro giuridico vero e proprio. Sia perché, come al solito, produce figli e figliastri, introducendo sperequazioni inimmaginabili tra terreni confinanti che per il catasto appartengono a due comuni diversi, dove in uno c’è l’Imu e nell’altro no. Sia perché per come sono messi gli agricoltori oggi la tassa diventa una insopportabile gabella che in molti casi è il viatico per il fallimento. E poi l’immancabile ciliegina sulla torta, la legge è stata ritagliata su numeri, quelli che riguardano i rendimenti, vecchi di almeno trent’anni. Per farvi un esempio pratico, se chi aveva una coltivazione di mandarini trent’anni fa poteva considerarsi un privilegiato oggi è quasi alla fame. Insomma, per sapere di terra bisogna aver visto da vicino almeno un campo di grano. Per uno come Renzi formato negli studi televisivi di Canale 5 è una impresa anche distinguere una pianta di lattuga da un cespo di indivia. L’ex sindaco di Firenze però sembra averlo capito al volo che il testo dell’Imu sui terreni agricoli era, parole sue, “una cazzata”; solo che finora non ha fatto nulla per porvi rimedio. Risultato, a breve ci saranno le scadenze dei pagamenti, gli agricoltori si rifiutano in massa di pagare e quindi, da qui l’appoggio dei sindaci, i comuni non possono chiudere i bilanci. Questa storia è talmente caotica che non sembra, a dire la verità, il frutto di una semplice distrazione.
Gli agricoltori sono a dir poco “biliosi”. Hanno già fatto diverse iniziative soprattutto al Sud. Ma ora puntano dritti a Roma, visto che sono riusciti a concludere un solido accordo con i colleghi del centro-Italia. Tanto che oggi per fare la conferenza stampa corredata dalla proiezione di un video sono stati ospitati nella sala del Carroccio al Campidoglio.
Per adesso i trattori li tengono fermi nel garage, sottolinea Gianni Fabbris (Altragricoltura), uno dei leader di questo movimento che per il momento ha deciso di chiamarsi “Su la testa”, ma sono pronti ad accenderli, come hanno già fatto altre volte.
Allora si trattava della lotta contro le requisizioni delle aziende agricole da parte degli ufficiali giudiziari e dello stato comatoso in cui si trovava, e si trova, l’agricoltura; oggi, l’Imu rischia di essere la goccia che fa traboccare il vaso. Anche perché la crisi morde ancora e il mercato è letteralmente in mano alla speculazione."Le terre svuotate saranno sempre più preda di sciacalli e avventurieri della trivella facile o del business dei rifiuti", scrivono nel loro volantino. La loro piattaforma ha due semplici punti: il ritiro dell'Imu agricola e misure, questa volta da parte delle Regioni, per le aziende in crisi.
All'interno della manifestazione del 21 maggio si terranno a Montecitorio i Consigli Comunali Congiunti di diversi comuni italiani con la partecipazione di molti sindaci e di delegazioni di agricoltori, cittadini e associazioni che, dopo aver ratificato un documento comune sottoposto al governo, "avvieranno una campagna nazionale con gesti anche clamorosi di disobbedienza istituzionale e civile".

lunedì 18 maggio 2015

Le carte false dell’Expo

Qualche giorno fa è stata presentata con grande clamore la “Carta di Milano” che dovrebbe essere l’eredità che Expo consegna all’umanità. Un appello di personalità del mondo culturale, sociale e scientifico (tra i firmatari Moni Ovadia, Alex Zanotelli, Mario Agostinelli, Emilio Molinari, Gianni Tamino), esprime un punto di vista decisamente critico e annuncia per il 26 e 27 giugno un grande convegno internazionale.
Ora tutto il dibattito su questa Expo rischia di dover ruotare attorno ad un’unica fotografia: da un lato migliaia di persone entusiaste tra gli stand della grande Esposizione, dall’altra le auto bruciate e la città sfregiata. Ma non è così. Restano tutte le ragioni della critica ad Expo. Restano le tante persone che al di là dell’adesione alle manifestazioni continuano a pensare che occorre insistere nella critica e continuare ad avanzare proposte alternative su contenuti precisi.
Occorre ripartire dal grande convegno realizzato il 7 febbraio a Milano, costruendo consensi ampi, parlando a tutte e a tutti, perché il tema: “Nutrire il pianeta… energia per la vita”.. riguarda ognuno di noi e ben poco ha a che fare con quanto realizzato da questa Expo. Noi continueremo questo impegno - anche in previsione del grande convegno internazionale che si svolgerà a Milano venerdì 26 e sabato 27 giugno con la seconda edizione di: “Expo nutrire il pianeta o nutrire le multinazionali” - affinché: diritto all’acqua, diritto al cibo e giustizia sociale non siano solo degli slogan. Ripartiamo da qui e dalla critica alla “Carta di Milano”.
La Carta c’è, è ufficiale. E’ stata presentata coi toni dei grandi eventi istituzionali che cambiano la Storia. Ma non sarà così. La Carta di Milano scivolerà nella storia senza incidere alcunché, legittimando ancora il modello agroalimentare che ha prodotto insostenibilità, disastri ambientali e le terribili iniquità che vive il nostro mondo e che la stessa Carta denuncia ma ignorando lo strapotere politico delle multinazionali, che stanno dentro ad Expo e che sottoscrivono la Carta.
Il presidente Sala ebbe a dire a suo tempo che in Expo dovevano coniugarsi il diavolo e l’acqua santa: pensiamo intendesse Coca Cola, Monsanto e l’agricoltura familiare e di villaggio, i Gas, il biologico ecc… Il risultato è che nella Carta si sentono il linguaggio, le difficoltà, le mediazioni e i contributi di tanti docenti, personalità e realtà associative che hanno cercato di migliorarla, ma purtroppo il loro onesto sforzo si è tradotto unicamente in un saccheggio del linguaggio dei movimenti dei contadini e di coloro che si battono per la difesa dell’acqua come bene comune e in favore delle energie alternative al petrolio.
La “Carta di Milano”, presentata come l’eredità che Expo lascia al mondo, è una grande operazione mediatica, che si limita a dichiarazioni generiche senza andare alle cause e alle responsabilità della situazione attuale. Non una parola sui sussidi che la Commissione Europea regala alle multinazionali europee agroalimentari permettendo loro una concorrenza sleale verso i produttori locali; non una parola sugli accordi commerciali tra l’Europa e l’Africa (gli Epa) che distruggono l’agricoltura africana; né si parla del water e land grabbing; né degli Ogm che espropriano dal controllo sui semi i contadini e che condizionano l’agricoltura e l’economia di grandi paesi come il Brasile e l’Argentina; né si accenna alle volontà di privatizzare tutta l’acqua potabile e di monetizzare l’intero patrimonio idrico mondiale, né si fanno i conti con i combustibili fossili e il fraking.
Nella “Carta” si parla di diritto al cibo equo, sano e sostenibile, si accenna persino alla sovranità alimentare, si ricorda che il cibo oggi disponibile sarebbe sufficiente a sfamare in modo corretto tutta la popolazione mondiale, si sprecano parole nate e vissute nella carne dei movimenti, ma poi?
La responsabilità di tutto questo sarebbe solo dei singoli cittadini: dello spreco familiare (che è invece surplus di produzione) che andrebbe orientato verso i poveri e verso le opere caritatevoli, sta nella loro mancanza di educazione ad una corretta alimentazione, al risparmio di cibo e di acqua, ad una vita sana e sportiva. Le responsabilità pubbliche e private sono ignorate.
Manca la concretizzazione del diritto umano all’acqua potabile come indicato dalla risoluzione dell’Onu del 2010 e mancano gli impegni per impedirne la privatizzazione. Mancano le misure da intraprendere contro l’iniquità di un mercato e delle sue leggi, che strangolano i contadini del sud ma anche del nord del mondo. Mancano riferimenti a bloccare gli OGM su cui oggi si gioca concretamente la sovranità alimentare. Mancano i vincoli altrettanto concreti all’uso dei diserbanti e dei pesticidi che inquinano ormai le acque di tutto il mondo e avvelenano il nostro cibo. Ne prenda atto Sala da buon cattolico: il diavolo scappa se l’acqua è veramente santa. Ma qui di acqua santa non c’è traccia, mentre i diavoli, sotto mentite spoglie, affollano la nostra vita quotidiana e i padiglioni di Expo.

domenica 17 maggio 2015

Il dominio di quelli che sono in alto

Da quando esiste la storia esistono dominio, controllo e guerra. Nella preistoria no ma nella storia sì. Se noi guardiamo alla storia con discernimento vediamo che questa non è altro che una sequela infinita di atti di aggressione contro il pianeta, contro i viventi in generale e di conseguenza anche contro gli umani (che sono a tutti gli effetti dei viventi come tutti gli altri, né più né meno). Ciò che è cambiato dunque non sono gli effetti finali della storia (che è sempre stata dominio, controllo, guerra) quanto le modalità con cui questa viene portata avanti. In questa ottica è fuori di dubbio che all’immenso avanzamento delle tecnologie siano corrisposte forme di dominio, controllo, guerra all’umanità (oltre che a tutto il resto) sempre più avanzate e di fronte alle quali siamo ovviamente sempre più indifesi.
L’avanzata politico-economica che sta prendendo piede sempre più fattivamente in questi anni è di tipo accentrante. In altre parole è una guerra che quei pochi che stanno in alto portano avanti nei confronti di chi sta in basso (cioè sotto). Tutto il resto sono unicamente corollari utili alla realizzazione del piano. Il destino dell’umanità, a meno di un cambio di prospettiva enorme e di cui francamente si vedono ben pochi segnali, almeno per i decenni a venire, è molto chiaramente segnato. E non è un bel destino.
L’avanzata tecnologica, concentrando in un unico punto, quello del dominio e controllo (guerra), tutte le sue armi – biometria, ingegneria genetica, farmaceutica, medicina, alimentazione, energia, ma anche (dis)informazione, istruzione, intrattenimento (imbonimento), e ancora “democrazia”, politica in generale, leggi, burocrazia, istituzioni nazionali e sovranazionali, l’invenzione del terrorismo come nemico globale, l’indebitamento globale (Stati, aziende, famiglie, individui), ecc. -, ha reso le masse sempre più docili, belanti e impaurite, rendendo questi controllo e dominio di facile realizzazione, il tutto in tempi e modi impensabili fino a solo poco anni addietro.
Il punto di rottura
Se vogliamo andare alla sostanza, come umani abbiamo ben pochi margini di manovra per vivere in maniera libera e dignitosa o comunque questi margini sono in costante riduzione. Io credo che i nodi verranno al pettine definitivamente e drammaticamente nel momento in cui il degrado socio/ambientale arriverà ad un punto di rottura, congiuntamente alla definitiva eliminazione del denaro contante (che già oggi si attesta indicativamente ad un ben misero 7 per cento dell’intera massa circolante) e alla totale mercificazione dell’esistente portata avanti sempre più serratamente (vedi l’ormai noto T-Tip). Sarà allora che con qualche scusa di sicurezza globale o forse anche solamente con l’imbonimento, verrà a tutti installato un bel microchip (la cosa del resto non deve sorprenderci. Non chippiamo il cane e anche tutti gli altri che ci fa comodo chippare? Che cambia? Perché il cane sì e noi no? La logica non è sempre la stessa?). Così il controllo dell’umanità sarà globale, totale, definitivo, il tutto alla faccia di quel “mondo libero” in cui ancora molti sono convinti di vivere.
In una situazione simile, cioè una situazione in cui la sopravvivenza sarà estremamente difficile, è evidente che ci sarà un’escalation di violenza generalizzata. Questo è ciò che sta accadendo oggi in sempre più numerose aree del mondo.
Molti sostengono che tutte queste manovre che abbiamo cercato succintamente di indicare nelle righe precedenti, hanno lo scopo di far diventare le multinazionali e chi le governa (cioè il potere economico) ancora più ricche di ciò che già sono ma non è così. Non è affatto così. L’economia non è più, almeno per i controllori, un mezzo di arricchimento ma semplicemente uno strumento di controllo sociale (cioè di tutti noi che siamo costretti a lavorare per andare avanti). Siamo noi che dobbiamo lavorare per campare, non loro per arricchirsi. A che servono un profitto e una ricchezza derivanti dall’economia quando questa ricchezza viene letteralmente creata dal nulla dal potere bancario-finanziario, quello stesso potere bancario-finanziario che controlla in toto l’economia? Che ci fanno con altra ricchezza se quella già esistente (creata dal nulla come abbiamo detto) è sufficiente per comprarsi tutti i pianeti, gli universi, le galassie?
Quale dominio
La logica dunque è un’altra. Molto banalmente è una logica di dominio e di controllo ed è la stessa logica che l’umanità in generale applica da diecimila anni (cioè dall’inizio della storia) all’intero pianeta ed ai suoi abitanti. È la prospettiva antropocentrica poi trasformatasi in egocentrica ad averci ridotto così. Proviamo a pensare a quell’orribile fabbrica di morte che sono i moderni allevamenti industriali di animali e capiremo che la logica che vi sta dietro è la stessa. Come noi ci consideriamo di un’altra categoria rispetto agli animali, i dominatori dell’universo si considerano di un’altra categoria rispetto a noi. E, bisogna dirlo, secondo questa (per me inaccettabile) logica, lo sono.
Ce ne accorgiamo solo adesso per due motivi: il primo è perché sta cominciando a toccare anche a noi occidentali in prima persona (agli africani, tanto per dirne una, è già toccato da un pezzo), e il secondo è perché gli strumenti tecnologici di controllo sono diventati talmente avanzati (ed utilizzati sempre più esplicitamente) che finalmente qualcuno sta cominciando ad aprire gli occhi (ancora un po’ pochini per la verità).
Questo dominio sociale sempre più esasperato e esasperante si è esplicato in maniera molto evidente negli ultimi anni attraverso la progressiva destabilizzazione di sempre più aree del mondo (basta pensare al Medio oriente e ora all’Ucraina), attraverso crisi economiche indotte, migrazioni forzate di milioni e milioni di uomini, donne e bambini (e ci sono dementi, lasciatemeli chiamare per ciò che sono, che ce l’hanno con gli emigranti e che dicono che “devono tornare a casa loro”) e tanto altro ancora.
Tutto ciò genera in ultima analisi paura e insicurezza, oltre ad una progressiva scarsità di beni essenziali alla vita, che rendono l’umanità sempre più docile, piegata ed incline ad accettare qualunque sopruso; come difatti sta accadendo.
Cosa possiamo fare?
Veniamo a noi. Cosa possiamo fare per provare a vivere bene in un mondo sempre più difficile? Premesso che non credo si possa combattere i dominatori dell’universo con le loro armi (hanno tutto, assolutamente tutto, per vincere con la violenza, e difatti è proprio con quella violenza che stanno già “vincendo”), e premesso anche che le dinamiche di questo futuro sono comunque impossibili da dettagliare, io credo che il primo, fondamentale passo sia quello di giocare ad un altro gioco, il nostro gioco, di cui noi facciamo le regole.
Ad esempio non credo sia sensato guardare al futuro con speranza e come ad un qualcosa di positivo come si è fatto fino ancora a pochi anni fa. Mi pare molto più logico concentrarsi sul presente. Ovviamente questo è un cambio di prospettiva di difficile applicazione visto che veniamo da millenni di cultura che spinge sul futuro. Ma questo è solo un esempio.
Concretamente penso sia necessario dedicarsi con molto impegno e piena consapevolezza a ricostruire un senso di comunità e di famiglia (più o meno estesa), dove l’unità, la collaborazione e la condivisione superino, definitivamente e una volta per tutte (almeno tra noi comuni mortali) quella competizione a cui oggi come oggi, volente o nolente, chi più chi meno, siamo tutti costretti. Sostituire una volta per tutte il rispetto reciproco a quell’aggressività reciproca che caratterizza la nostra vita di oggi. Sostituire una volta per tutte l’aiuto reciproco a quel cercare di essere “più furbi” che caratterizza il mondo di oggi. In altre parole smettere di farsi la guerra tra noi (cioè tra “poveri”) quando questa guerra l’hanno mossa coloro che stanno in alto per sistemare una volta per tutte chi sta sotto.
In senso assoluto io non vedo la cosa come una tragedia. Si tratta essenzialmente di rimodellare i nostri pensieri e conseguentemente le nostre azioni su dinamiche diverse a quelle a cui siamo abituati. A ben vedere non è che il mondo e il modo in cui viviamo oggi ci facciano godere troppo. Vorrei far notare che la cosiddetta “crisi” che ha colpito milioni e milioni di persone, è una tragedia per molti (la stragrande maggioranza) ma non per tutti. C’è anche chi grazie alla crisi ha riscoperto stili di vita più semplici, naturali, solidali. C’è chi grazie alla crisi vive meglio. Chiedere la “ripresa” significa essenzialmente chiedere “di più” di quel mondo che ci ha ridotto come siamo.
Io credo che la nostra spiritualità, nelle sue svariate applicazioni concrete, sia ciò che in ultima analisi può fare la differenza tra il dramma e una vita degna di essere vissuta. I cambiamenti spirituali richiedono tempo e di sicuro non si inventano in quattro e quattr’otto, e dunque è bene intraprendere questo cammino sin da ora, senza azzuffarsi fino all’ultima briciola o all’ultimo osso lasciato cadere dall’alto dai padroni dell’Universo.
Gli Stati difendono il Sistema e i controllori
Da ultimo vorrei dire che trovo del tutto insensato manifestare, fare cortei, scioperi, petizioni via internet, addirittura continuare ad andare a votare. Dico, ma almeno smettiamola di farci prendere per il culo. Tutto quanto sopra non serve a nulla se non a dare alle masse l’illusione che qualcosa possa cambiare e con ciò tenerle ancora più docili. Lo sappiamo benissimo che le cose stanno così, perché se così non fosse avrebbero già vietato tutto quanto (e difatti questo è ciò che fanno, e anche con violenza estrema, quando qualcuno oltrepassa un dato limite). È ora di entrare nello stato di idee che qualunque istituzione, nazionale e ancor più sovranazionale, qualunque, nessuna esclusa, non è lì per difenderci ma per difendere il Sistema e con ciò i suoi controllori. Non sono lì per noi ma contro di noi. Sono strumenti, e lo Stato è il primo tra questi, utilizzati dal potere costituito per tenerci sotto. Tutte le istituzioni servono a questo, nessuna esclusa. Bisogna metterselo in testa.
Bisognerà dunque ripartire da zero e difendere semmai quel territorio che abitiamo e che ci dà la Vita, difendere la famiglia intesa in senso esteso, la comunità in cui viviamo. Difendere quel poco di margini di manovra che ancora ci sono rimasti cominciando a tirarsi fuori dal Sistema (e non a chiederne ancora di più), a disubbidire, a non riconoscere, a boicottare (in silenzio), a non pagare tasse, multe, ecc., insomma smetterla di sostenere tutto ciò che ci ruba la Vita. Non tanto, e comunque non solo, per cambiare l’ordine costituito quanto più semplicemente per vivere con dignità.
È ora di capire definitivamente che non si può chiedere il permesso a qualcuno, a nessuno, per vivere. E ricordarsi che si deve morire comunque. La preservazione della vita a tutti i costi ha un senso se questa vita è degna di essere vissuta. Oltrepassato quel limite non è più così. Proviamo tutti a cominciare a vivere davvero bene da adesso e soprattutto a farlo a modo nostro. Con fiducia, buona Vita.

venerdì 15 maggio 2015

LA DEMOCRAZIA VALE SOLO QUANDO PERDI

Ha suscitato molta impressione l'ondata di riprovazione che nei social network ha investito i tafferuglisti che si sono scontrati con la polizia in occasione dell'Expo milanese. Occorre però domandarsi se questa ondata esprima davvero un'opinione diffusa, oppure sia soltanto un effetto della manipolabilità degli stessi social network.
In questo periodo è di moda irridere alla "rivoluzione da tastiera"; d'altra parte la tastiera ha costituito davvero una rivoluzione, anche se nello stretto ambito dell'informazione. Nel 1999 internet era ancora poco diffuso, perciò l'aggressione della NATO contro la Serbia poté avvalersi di un supporto propagandistico assolutamente incontrastato. Molte riviste di opposizione, in nome del libero dibattito, diedero inoltre largo spazio alle tesi anti-Milosevic, in modo che alla fine gli spazi si chiusero per quei pochi che avrebbero voluto esprimere un dissenso. Se si confronta quanto accaduto negli anni della guerra nella ex Jugoslavia con la vicenda della Libia prima e della Siria poi, si può valutare quanto la possibilità di usare internet abbia inciso nel formare un'opinione contraria alla guerra; un'opinione certamente minoritaria, ma comunque documentata, e spesso tale da mettere in crisi la propaganda ufficiale. Lo stesso accadde per l'Iran, con le mistificazioni legate ai nomi di Neda e Sakineh, lanciate sì su internet, ma sulla stessa rete poi demistificate. Gli interessi affaristici legati ad Internet hanno reso sinora poco praticabili i piani di irreggimentazione della rete, perciò, per ora, questa nicchia di informazione sopravvive. L'aspetto molto più manipolabile della rete riguarda invece i commenti, che possono essere lanciati a centinaia e migliaia, senza però che ci sia la reale possibilità di un controllo delle fonti; quindi pochi operatori di professione possono creare l'impressione di un'ondata di opinione.
C'è quindi da dubitare dell'ipotesi che gli scontri di Milano abbiano davvero suscitato tanto sdegno. Si possono anche avanzare tutti i sospetti possibili e immaginabili sull'effettiva natura dei cosiddetti Black Bloc. Ma la questione delle infiltrazioni e delle provocazioni da parte della polizia e dei servizi segreti può costituire un valido motivo per demistificare le emergenze di ordine pubblico e di terrorismo, ed anche per screditare ipotesi di lotta armata; ma certo non potrebbe essere usata a sostegno di una "condanna della violenza". Un sistema di potere che irride alle manifestazioni pacifiche e spesso le aggredisce, che equipara le critiche a sabotaggi, che concepisce ogni "riforma" come un atto di guerra civile contro una categoria, che etichetta inoltre come "populismo" qualsiasi espressione elettorale contraria allo strapotere degli organismi sovranazionali, è di fatto un potere che chiude la strada ad ogni mediazione sociale.
Tra l'altro le democrazie non rinunciano all'assassinio come normale strumento di lotta politica; anzi lo praticano con maggiore disinvoltura sotto la finzione dello Stato di Diritto. L'attuale Presidente della Repubblica aveva un fratello che è stato ucciso in circostanze rimaste ancora misteriose, ed inoltre tutta la storia della fine della cosiddetta Prima Repubblica è costellata di strani suicidi e di provvidenziali incidenti.
Ma nemmeno in questo settore l'Italia è più all'avanguardia. Il primo atto della rinata democrazia cecoslovacca fu l'assassinio nel 1992 dell'eroe nazionale Alexander Dubcek, contrario alla separazione del Paese e leader di un partito socialdemocratico considerato non abbastanza favorevole alle privatizzazioni. Quell'eroe della "Primavera di Praga" del 1968, che per venti anni il KGB non aveva osato toccare, fu eliminato sbrigativamente in "democrazia". Dubcek fu dapprima "incidentato", poi trasportato in un ospedale ceco incredibilmente lontano dal luogo dell'incidente, e successivamente privato delle necessarie cure. La magistratura ceca ignorò le proteste della famiglia di Dubcek ed affossò ogni indagine. Se le stesse circostanze si verificassero nell'attuale Russia, i media occidentali non esiterebbero ad incolpare Putin.
La democrazia elettorale viene sistematicamente irrisa dagli organismi internazionali e considerata un orpello del passato nei documenti della multinazionale JP Morgan. Il sedicente "neoliberismo" (in realtà assistenzialismo per ricchi) ha diffuso e consolidato una concezione astratta e idealizzata della politica, alla quale si nega ogni funzione di gestione dell'economia, in nome dell'unico compito di "dettare le regole". Una politica "povera", perciò incapace di contrastare lo strapotere delle multinazionali.
La democrazia viene però resuscitata come mito ogni volta che possa andare a sostegno delle tesi ufficiali. La vittoria elettorale del conservatore Cameron nel Regno Unito è stata presentata come un sostegno popolare e democratico alle "politiche di austerità", cioè ai progetti di privatizzazione della sanità e della previdenza cari alle banche ed alle compagnie assicurative. Non sono però mancate letture più articolate. Il giornale "Il Fatto Quotidiano" ha lanciato un'interpretazione del voto britannico basata sulle analisi dell'economista Paul Krugman, che ha accusato Cameron di aver truccato i dati economici per legittimare i suoi tagli allo Stato sociale. L'articolista fa il resto, suggerendo che la colpa sia in definitiva degli astensionisti, che, pur non credendo a Cameron, poi non sono andati a votare. Insomma, anche se la percentuale del 66% dei votanti è considerata un record nel Regno Unito, quando si perdono le elezioni la colpa è comunque di chi non crede nella democrazia.
In realtà le interpretazioni potrebbero anche essere diverse. La Gran Bretagna ha vissuto per mesi uno psicodramma mediatico sulla possibile secessione della Scozia, una secessione poi respinta nel solito referendum "democratico". Che il Regno Unito fosse disposto davvero a lasciar andare via la Scozia, fa parte delle ipotesi irrealistiche a puro diletto dei media. Certo è che il clima nazionalista ha danneggiato il Labour Party in una delle sue roccaforti elettorali, cioè proprio la Scozia. Anche il decennio del regime thatcheriano si fondò su espedienti analoghi, come il favorire la secessione socialdemocratica nel Partito Laburista.
La cosiddetta democrazia difficilmente si sostanzia in una politica precisa, ma si esprime attraverso speranze e nostalgie. Le speranze giocano sempre più al ribasso, mentre le nostalgie tendono a diventare sempre più scadenti. Il riciclaggio mediatico del Buffone di Arcore può essere considerato un tipico esempio di operazione-nostalgia. Alla voce dello stesso Buffone è stato affidato un messaggio di buonsenso, come la condanna dell'assenza dei leader occidentali alle manifestazioni russe per la vittoria nella seconda guerra mondiale. Una posizione di buonsenso viene però automaticamente screditata se identificata con il Buffone, ed è proprio questo lo scopo che si voleva raggiungere.
Il rischio è che le opposizioni si abituino a vedere nella sua figura l'ultimo baluardo di un potere elettoralmente legittimato. In nome di un "almenismo" sempre più diffuso, si può argomentare che "almeno" il Buffone era eletto dal popolo. Una memoria annebbiata potrebbe inoltre far smarrire gli aspetti di continuità dei governi degli ultimi venticinque anni ed alimentare nostalgismi.
Ma se oggi non c'è più il Buffone di Arcore, c'è comunque un nuovo Buffone. Non vale nemmeno più la pena di chiamarli per nome. Tanto vale denominarli in blocco come il "Buffone di Turno".

giovedì 14 maggio 2015

La "scusa" del terrorismo e la perdita dei diritti

È dal giugno del 2013, quando Il The Washington Post ed il The Guardian pubblicarono le rivelazioni di Edward Snowden sulle attività di intercettazione e sorveglianza a tappeto messe in atto dalla Nsa, che il termine "sorveglianza di massa" è entrato nella discussione pubblica e nella consapevolezza collettiva.
Se da un lato è proprio di questi ultimi giorni la notizia che una Corte Federale di New York ha dichiarato "illegali" queste attività di sorveglianza, dall'altro, proprio in Europa, dopo gli attentati terroristici di Parigi, i governi di Francia e Spagna, sostenuti dai rispettivi parlamenti, hanno avviato un'attività di legiferazione mirata a censurare la libertà di espressione e ad attivare meccanismi giuridici e tecnologici volti a controllare massivamente i cittadini e le loro comunicazioni.
Con grave pericolo per la democrazia di quei paesi. Ma anche con il timore che quella che sta diventando una vera e propria deriva autoritaria, possa espandersi ad altri paesi del vecchio continente o comunque minarne l'integrità e la fragile unità istituzionale.
Per Stefano Rodotà è un momento di importante verifica della tenuta delle istituzioni ed ordinamenti europei da cui potrebbe nascere, sul piano della democrazia, un'Europa a due velocità.
***
Professor Rodotà, in Francia e Spagna la democrazia e la libertà di espressione sembrano a rischio. Cosa sta accadendo nel cuore dell'Europa?
Sta accadendo, e non è la prima volta, che utilizzando come argomento, o meglio, come pretesto, fatti riguardanti il terrorismo o la criminalità organizzata si dice "l'unico modo per tutelare la sicurezza è quello di diminuire le garanzie e di aumentare le possibilità di controllo che le tecnologie rendono sempre più possibile".
E questo è sempre avvenuto, è avvenuto in particolare dopo l'11 settembre, vicenda che ho vissuto in prima persona perché all'epoca presiedevo i garanti europei e ho avuto una serie di contatti continui con gli Stati Uniti che chiedevano un'infinità di informazioni da parte dell'Europa, cui abbiamo in parte resistito.
Questa volta si tratta di una spinta molto interna. Però mi consenta di fare una notazione perché in questi anni si è parlato infinite volte di "morte della privacy": questa è una vecchia storia, perché già negli anni '90 l'amministratore delegato di Sun Microsistems Scott McNealy diceva, riferendosi alla potenza della tecnologia: "Voi avete zero privacy, rassegnatevi".
La verità è che il rischio non viene dalla tecnologia, viene dalla politica, dalla pretesa di una politica autoritaria di usare tutte le occasioni per poter aumentare il controllo sui cittadini. Controllo di massa, non controllo mirato. Politica in senso lato. Perché sono i governi, le agenzie governative di sicurezza che in questo modo cercano di impadronirsi della maggior quantità di potere possibile.
C'è un "pericolo democrazia"?
Questo momento rappresenta un passaggio istituzionale importante, vi è una prepotenza governativa, rispetto alla quale i parlamenti non se la sentono di resistere: tanto in Spagna quanto in Francia, in sostanza c'è una accettazione sia della maggioranza che dell'opposizione. In Francia addirittura l'iniziativa è di un governo socialista, anche se sappiamo chi è Manuel Valls e perché è stato scelto. Tutto questo sta spostando l'attenzione e le garanzie nella direzione degli organismi di controllo giurisdizionali, cioè gli organismi che vegliano sulla legittimità di queste leggi dal punto di vista del rispetto delle garanzie costituzionali. Che sono le Corti Costituzionali in Europa e negli Stati Uniti le Corti Federali.
Non vorrei che si dicesse "Eh cari miei voi la privacy l'avete già perduta perché la tecnologia in ogni momento vi segue e vi controlla", perché la verità è che l'attentato ai diritti fondamentali legati alle informazioni viene dalla politica e questo è il punto. Non è la tecnologia.
La motivazione che viene proposta dai governi è sempre di voler individuare i criminali, non spiare i cittadini e con la tecnologia è possibile farlo...
Non tutto ciò che è tecnologicamente possibile è politicamente ammissibile e giuridicamente accettabile. C'è un momento in cui la politica si deve assumere le sue responsabilità e non può dire "ma la tecnologia già rende disponibile tutto questo".
La legge spagnola e la legge francese mettono radicalmente in discussione la libertà di manifestazione del pensiero. Finora commettere un reato nell'accesso ad un sito era previsto solo per la pedopornografia. Adesso in Spagna è previsto "l'indottrinamento passivo": il semplice fatto che io vada su un certo sito può essere reato.
D'altro canto, nella norma francese in discussione si è introdotta la possibilità di mettere in rete strumenti che consentono di seguire continuamente l'attività delle persone. Nella legge francese si usa addirittura l'espressione "boîtes noires" per definire dei congegni che riducono le persone ad oggetti, utilizzando un apparato tecnologico per verificarne minuto per minuto, il comportamento. E qui c'è una trasformazione stessa del senso della persona, della sua autonomia, del suo vivere libero. La Germania ha stabilito che non è possibile farlo, esiste una privacy dell'apparato tecnologico che si utilizza, estendendo l'idea di privacy dalla persona alla strumentazione di cui si serve.
Inoltre, relativamente alla possibilità di entrare all'interno dell'apparato tecnologico dell'utente, che è una delle ipotesi al vaglio del legislatore, la Corte costituzionale tedesca recentemente ed ancor più recentemente la Corte Suprema degli Stati Uniti hanno affermato che non è legittimo.
Se la Francia porta avanti questa discussione e la Germania resta ferma sui principi enunciati dalla sua Corte Costituzionale allora avremo nuovamente un'Europa a due velocità, dove i cittadini francesi perdono velocità, perdendo diritti.
Ma ormai forniamo, consapevolmente o meno, i nostri dati ovunque, in rete. Non è già andata perduta la nostra privacy?
Io so che se uso la carta di credito in quel momento sono localizzato, viene individuato che tipo di transazione viene effettuata e quindi si sa qualcosa sui miei gusti, sulle mie disponibilità finanziarie e così via. Però questo argomento non giustifica il fatto che poi, la conseguenziale raccolta delle informazioni implichi che chiunque se ne possa impadronire impunemente. Anzi il problema di uno stato democratico è quello di rendere compatibile la tecnologia con la democrazia. È questo il punto. Uno stato che dice di voler mantenere il suo carattere democratico non dice "visto che ho una tecnologia disponibile la uso in ogni caso".
Il problema ulteriore è che si sta determinando un'alleanza di fatto tra soggetti che trattano i dati per ragioni economiche e agenzie di sicurezza che li trattano per finalità di controllo. Perché, dopo l'11 settembre in particolare, l'accesso ai dati raccolti dalle grandi società da parte dei servizi di intelligence c'era e c'è stato solo l'accenno a qualche timida reazione, ad esempio, da parte di Google. Sappiamo che in quel momento si sedettero allo stesso tavolo gli "Over the Top" (intendendo con questo termine le grandi multinazionali dell'ICT - ndr) ed i responsabili delle agenzie di sicurezza.
Ma oltre la questione giuridica vi è la necessità di una maggiore consapevolezza degli utenti, che si rendano conto anche di cosa accade, di come sono gestiti i propri dati che capiscano l'uso che ne viene fatto...
Assolutamente d'accordo. C'è un grande problema culturale. È un problema che investe il sistema dell'istruzione ed il sistema dei media. Molte delle sentenze che ho citato, infatti, provengono da richieste di semplici cittadini o di associazioni che hanno portato davanti alle corti questi comportamenti. Quindi non c'è dubbio che oggi il problema, in largo senso, della "consapevolezza civile" è un problema fondamentale.
I cittadini non sanno ad esempio, che possono rivolgersi persino al ministero dell'Interno per sapere se vi sono trattamenti in corso sul proprio conto. Addirittura in Italia, tramite il Garante, il cittadino in alcuni casi può accedere ai dati trattati dai servizi di intelligence che lo riguardano

mercoledì 13 maggio 2015

Italicum, il paradosso della democrazia

Si vuole approvare una legge elettorale (l'Italicum) che prevede un numero (circa due terzi) di candidati "sicuri" scelti dalle segreterie dei partiti e un "premio di maggioranza" che amplifica i seggi del partito che vince nell'unica camera che dà o revoca la fiducia; inoltre si introduce di fatto l'elezione diretta del premier da parte dei cittadini (invece che da parte dei parlamentari, come prevede attualmente la Costituzione). Entrambe le innovazioni hanno vantaggi e svantaggi, ma è la loro connessione che risulta esplosiva: con queste nuove regole chi vince prende tutto, chi perde non ha nessuna possibilità di esercitare il ruolo di opposizione. Il vantaggio della "governabilità" sarebbe vanificato dal calo di "democraticità" perché non sarebbe più il parlamento a controllare il governo ma il vincitore delle elezioni a controllare il parlamento.
Quanto detto appartiene ai contenuti, al merito delle riforme. Non meno grave è l'aspetto formale, il metodo con cui Renzi sta provando ad attuarle. Se da anni giochiamo a scacchi con delle regole è lecito modificarle? Senza dubbio. Ma è lecito se i possibili candidati al trofeo si mettono intorno al tavolo e, con calma, ne discutono per arrivare a una decisione condivisa. Se invece le regole le cambia, durante una partita, il contendente che sta vincendo (in modo da vincere in maniera ancora più schiacciante, per di più utilizzando un premio di maggioranza giudicato illegittimo da una sentenza della Corte costituzionale, minacciando la fine anticipata della legislatura e proponendo un sistema elettorale che pare viziato dagli stessi profili di incostituzionalità di quello passato) si crea un precedente gravissimo: da quel momento in poi, ogni maggioranza parlamentare potrà stabilire nuove regole di competizione elettorale a seconda dei suoi calcoli (nel nostro caso, paradosso nel paradosso, le obiezioni alle manovre di Renzi vengono non solo da altri partiti ma perfino da minoranze consistenti e autorevoli del suo stesso Pd).
Per fortuna ogni nuova norma approvata, sia pur a maggioranza risicata, dal Parlamento è soggetta a un triplice filtro: la firma del Presidente della Repubblica; il vaglio della Corte costituzionale; il possibile referendum popolare abrogativo. Ma gli ultimi due filtri potrebbero intervenire magari dopo che gli elettori hanno già votato una o più volte con una legge dagli effetti distorsivi della volontà popolare e che attribuisce al vincitore i numeri per influenzare pesantemente la scelta del Presidente della Repubblica e di buona parte dei membri della Corte Costituzionale. Mentre seguiremo con attenzione la vicenda, possiamo tutti intensificare già da subito il compito più urgente: dare credibilità alla Costituzione che abbiamo traducendola sempre di più in atto perché vana e ipocrita ne sarebbe la difesa se restasse sul piano astrattamente giuridico e i cittadini, specie i più deboli, non ne vedessero gli effetti positivi nella loro travagliata quotidianità.

martedì 12 maggio 2015

Il Grembiulino di Renzi

Aveva fatto rumore, nove mesi fa, l’editoriale del Corriere della Sera a firma del suo allora direttore Ferruccio De Bortoli. Tanto rumore che da due settimane De Bortoli non è più il direttore del Corriere. “Le controfigure renziane abbondano anche nella nuova segreteria del Pd, quasi un partito personale, simile a quello del suo antico rivale, l’ex Cavaliere” scriveva De Bortoli il 24 settembre dello scorso anno, “E qui sorge l’interrogativo più spinoso. Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015. Sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti. Liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria”.
Parole esplicite che devono essere costate care a De Bortoli. Da due settimane infatti non è più il direttore del Corriere della Sera e prima di andarsene ha lasciato scritto un editoriale niente affatto indulgente verso Renzi né verso gli azionisti proprietari del Corriere. Il principale quotidiano italiano non è estraneo - nella sua storia - alle attenzioni e opa ostili delle lobby massoniche, quelle vere, quelle che fanno male. Basta ricordare l'esplosione della vicenda della P2, cui erano iscritti sia l'allora proprietario della maggioranza assoluta del Corriere, Angelo Rizzoli, sia il direttore generale del gruppo, Bruno Tassan Din.
“Il Corriere non è stato il portavoce di nessuno, tantomeno dei suoi troppi e litigiosi azionisti. Non ha fatto sconti al potere, nelle sue varie forme, nemmeno a quello giudiziario. Ha giudicato i governi sui fatti, senza amicizie, pregiudizi o secondi fini. E proprio per questo è stato inviso e criticato”, ha rivendicato l’ormai ex direttore del Corriere della Sera. “Del giovane caudillo Renzi, che dire? Un maleducato di talento – prosegue De Bortoli – il Corriere ha appoggiato le sue riforme economiche, utili al Paese, ma ha diffidato fortemente del suo modo di interpretare il potere. Disprezza le istituzioni e mal sopporta le critiche. Personalmente mi auguro che Mattarella non firmi l’Italicum. Una legge sbagliata”.
Ora De Bortoli, che qualche sasso dalla scarpa se l'è tolto, è stato defenestrato dal Corriere, Mattarella ha firmato l’Italicum, i “patti” sono stati rispettati…. e il paese deve preoccuparsi seriamente del blocco di potere che si è insediato al governo e nei principali mass media, pubblici e privati. Ma sia la rimozione che il suo ultimo editoriale sono stati pesantemente silenziati nel dibattito pubblico, solitamente attentissimo a seguire qualsiasi odore di polemica, foss'anche un semplice tweet. Fosse stato al governo Berlusconi i girotondini sarebbero apparsi tarantolati come i Dervisci danzanti (quelli che girano fino allo sfinimento e all’estasi), il Tg 3 e Rai News 24 avrebbero ospitato commenti e dibattiti indignati, La Repubblica avrebbe scritto pagine di fuoco.
Niente di tutto questo, anzi. Fabio Fazio invece di De Bortoli ha ospitato il nuovo direttore del Corriere della Sera. Senza fare il minimo cenno alla scoppiettante chiusura di carriera del suo predecessore.
Forse dovremo cominciare a parlare di “masso-media”

lunedì 11 maggio 2015

L’USURA OCCULTA DELLE GARANZIE DI STATO

Il Fondo di Garanzia, i Confidi e le commissioni d’oro.
Può un governo legalizzare frodi e usura, può trasferire dalle banche ai risparmiatori e crediti deteriorati verso le imprese in difficoltà, consentendo l’applicazione di tassi e commissioni da strozzini?
Le imprese in difficoltà, anche strutturali, dovute a inefficienza, sovrindebitamento o ad altra causa, non riescono a finanziarsi sul mercato in modo normale. Oggi, notoriamente, vi sono innumerevoli piccole e medie imprese in queste condizioni, non più vitali, avviate al fallimento o comunque alla chiusura. Dall’altra parte, le banche sono gravate da molti crediti deteriorati, incagliati, in sofferenza, verso queste imprese. Buona parte dei crediti deteriorati, che superano i 360 miliardi e sono in costante aumento, non sono ancora dichiarati nei bilanci delle banche, perché farlo avrebbe gravi conseguenze sul rating e sulla capacità operativa delle banche medesime.
La legge 662 del 1996, art. 2, comma 100, lettera a), ha istituito il fondo centrale di garanzia, a carico dello Stato, a beneficio delle piccole e medie imprese, per agevolarle nell’ottenimento di credito bancario mediante il rilascio di garanzie dello Stato in favore delle banche, in modo che queste accettino di prestare i soldi a tali imprese sebbene in difficoltà, sapendo che, se queste non pagheranno, pagherà lo Stato. La garanzia pubblica può essere diretta, cioè a beneficio della banca; oppure indiretta, a beneficio di un consorzio di garanzia privato, come i noti confidi e organismi di garanzia regionale; questi enti a loro volta garantiscono la barca erogatrice del prestito. Nel primo caso, ossia la garanzia diretta, lo Stato garantisce fino al 90% dell’operazione finanziaria, mentre nel secondo caso controgarantisce fino al 90% della garanzia. Ciascun organismo di garanzia può garantire finanziamenti fino a 25-30 volte i propri depositi liquidi in banca (ma chi controlla il valore effettivo di tali depositi e il rispetto della soglia di 30 volte?), quindi il Fondo di Garanzia statale è molto esposto e, in caso di insolvenza diffusa dei soggetti garantiti o controgarantiti, sarebbe necessario rifinanziarlo, eventualmente con una tassa straordinaria.
Orbene, state a sentire che cosa ha fatto il governo Renzi a favore dei banchieri e a spese dei conti pubblici.
Il Ministro dello sviluppo economico di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, ha emanato il decreto numero 176 del 2014, che, fra le altre cose, dispone un alleggerimento, cioè un allargamento dei criteri per la concessione di garanzie e contro garanzie in favore delle suddette imprese. Sostanzialmente, adesso lo Stato presta garanzia anche per quelle che prima erano giudicate troppo malandate per essere garantite – praticamente, si espone (cioè espone i contribuenti) anche verso le aziende già moribonde.
La garanzia viene prestata quasi gratuitamente: ossia lo Stato, è a dire noi, rischia, senza ricevere in cambio alcunché. Quando si tratta di micro finanziamenti fino a € 35.000, il fondo pubblico di garanzia non può eseguire alcuna valutazione di merito di credito, e deve lasciare che a farla siano le banche che esso garantirà, anche se dette banche sono palesemente in conflitto di interesse con il fondo pubblico, come apparirà evidente nel proseguimento. In più, non può chiedere alcun compenso per la garanzia che presta.
In concreto, avendo sotto gli occhi alcuni casi specifici, vedo che il taeg applicato a questi prestiti e circa il 9,30%, le commissioni trattenute dalla banca erogante sono circa l’1,25%, le commissioni prelevate dall’organismo di garanzia controgarantito dallo Stato sono del 13% circa; Sicché, considerato il moltiplicatore suddetto di 30, un consorzio fidi può incassare di commissioni fino al 390% della sua liquidità depositata! E’ un caso che questi organismi possano essere costituiti anche dalle banche stesse?
Con i tassi e le commissioni suddette, un prestito quinquennale di € 500.000 nominali, come quello che ho sotto gli occhi mentre scrivo, si riduce a 443.250 dopo le commissioni della banca, e a 384.541,45 dopo le commissioni del consorzio di garanzia privato. Ma allora è chiaro che, allora, il tasso del 9,30 % annuo è un’illusione, perché non considera anche le commissioni del consorzio di garanzia privato e non è calcolato sulla somma effettivamente prestata; altrimenti, temo che la soglia dell’usura sarebbe facilmente superata. Ma in ogni caso, dal punto di vista monetario, non è usura far pagare alle imprese il 12% di interesse e commissioni (art. 644 CP) quando la BCE presta praticamente a tasso zero alle banche? e quando le imprese tedesche lo pagano il 2%?
È chiaro insomma qual è il risultato di tutto ciò:
Primo: lo Stato offre alle banche una garanzia diretta o indiretta con cui le banche possono chiudere le loro disposizioni attuali con clienti in difficoltà e trasferirle sullo Stato stesso, cioè sui contribuenti. Cioè le banche erogano il prestito garantito dallo Stato ai loro clienti-debitori, in modo che questi estinguano i debiti preesistenti verso la banca, che non sono garantiti dallo Stato. In tal modo, le perdite sui crediti deteriorati è trasferita dalle banche ai contribuenti: una generosa regalia del governo ai banchieri.
Secondo: lo Stato consente, sempre a carico dei contribuenti, a enti di garanzia privati, che in teoria non hanno fine di lucro, di incassare laute provvigioni dalle tasche di imprese in difficoltà che chiedono la loro garanzia. Ma allora perché lo Stato, attraverso le sue banche, non eroga direttamente le garanzie facendosele pagare ad una commissione ragionevole, diciamo il 5%, anziché addossare sui contribuenti tutto il rischio e lasciare agli organismi di garanzia privata e alle banche tutti i profitti? O perché non eroga direttamente i prestiti attraverso le proprie banche, invece di lasciare che siano le banche private a incassare gli interessi trasferendo il rischio allo Stato? Bisognerebbe controllare che uomini politici o partiti politici hanno interessenze nei predetti organismi di garanzia, oltre che nelle banche beneficiarie delle predette regalie. E se questi organismi paghino le tasse sugli utili che realizzano.
Terzo: i titolari delle imprese in difficoltà, spesso già spacciate, che si vedono offrire soldi a tassi usurari o comunque molto elevati, sapendo di non poter sostenere quei tassi, sono indotti a farsi prestare i soldi e a tenerseli, così almeno falliscono con qualcosa in tasca per il futuro. O anche li usano per chiudere le posizioni che hanno garantito personalmente, così salvano la casa ipotecata. Lo possono fare, perché non è previsto alcun vincolo/controllo di impiego delle somme ottenute a prestito con le suddette garanzie. Pensate a quell’imprenditore, già in difficoltà finanziarie, che ha ricevuto € 384.500 effettivi e deve pagarne 500.000 oltre agli interessi del 9,30% su 500.000. Non vi pare tutto assurdo? Che senso ha prestare soldi a tassi superiori a strozzo a un imprenditore che ha già l’acqua alla gola, se non aiutare le banche e lucrare interessi e commissioni ai danni dello Stato?
In questa fase iniziale, per effetto del suddetto decreto del 2014, stiamo avendo un’ondata di concessioni di crediti nel modo suddetto a imprese non sane, non vitali. Licenziamenti e chiusure di attività sono rinviati, e questo contribuisce a nascondere il malandare economico, a beneficio dell’immagine del governo. Ma nel giro di pochi anni gran parte di queste imprese chiuderà o fallirà, e le garanzie e controgaranzie dello Stato saranno escusse dalle banche. E allora si dovrà fare una manovra fiscale per chiudere il buco.
Già ora diversi consorzi di garanzia non rispondono più alle lettere degli avvocati che li interpellano per imprenditori da loro garantiti e divenuti insolventi. E ricordate che il moltiplicatore di queste garanzie è 25-30, e che attualmente nessuno sembra che controlli il rispetto di questo tetto. Quindi, dopo una puntata iniziale di apparente miglioramento per imprese e banche, il cui assorbimento patrimoniale sarà ridotto per grazia delle ricevute garanzie (quindi le banche potranno, anzi già possono, prestare di più). avverrà che le imprese garantite incominceranno a saltare, e la bomba, se non disinnescata per tempo, potrebbe produrre danni di dimensioni notevoli.
Sarebbe pertanto ora che si accendessero le luci su questa realtà semi-nascosta, che si riformasse questo tipo di intervento pubblico, che venisse istituito un centro di monitoraggio dell’andamento delle imprese che hanno ricevuto le garanzie in questione e del rispetto dei tetti di garanzia, e che la Corte dei Conti, Bankitalia, le competenti commissioni parlamentari, Codacons, Adiconsum, Adusbef, Federcontribuenti e altre associazioni si dessero da fare per prevenire un disastro finanziario annunciato.