martedì 31 maggio 2016

Strategia del golpe globale

Quale colIegamento c'è tra società geograficamente, storicamente e culturalmente distanti, dal Kosovo alla Libia e alla Siria, dall'Iraq all'Afghanistan, dall'Ucraina al Brasile e al Venezuela? Quello di essere coinvolte nella strategia globale degli Stati uniti, esemplificata dalla «geografia» del Pentagono.
Il mondo intero viene diviso in «aree di responsabilità», ciascuna affidata a uno dei sei «comandi combattenti unificati» degli Stati uniti: il Comando Nord copre il Nordamerica, il Comando Sud il Sudamerica, il Comando Europeo la regione comprendente Europa e Russia, il Comando Africa il continente africano, il Comando Centrale Medioriente e Asia Centrale, il Comando Pacifico la regione Asia/Pacifico.
Ai 6 comandi geografici se ne aggiungono 3 operativi su scala globale: il Comando strategico (responsabile delle forze nucleari), il Comando per le operazioni speciali, il Comando per il trasporto. A capo del Comando Europeo c'è un generale o ammiraglio nominato dal presidente degli Stati uniti, che assume automaticamente la carica di Comandante supremo alleato in Europa.
La Nato è quindi inserita nella catena di comando del Pentagono, opera cioè fondamentalmente in funzione della strategia statunitense. Essa consiste nell'eliminare qualsiasi Stato o movimento politico/sociale minacci gli interessi politici, economici e militari degli Stati uniti che, pur essendo ancora la maggiore potenza mondiale, stanno perdendo terreno di fronte all'emergere di nuovi soggetti statuali e sociali.
Gli strumenti di tale strategia sono molteplici: dalla guerra aperta – vedi gli attacchi aeronavali e terrestri in Iugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia – alle operazioni coperte condotte sia in questi che in altri paesi, ultimamente in Siria e Ucraina. Per tali operazioni il Pentagono dispone delle forze speciali, circa 70000 specialisti che «ogni giorno operano in oltre 80 paesi su scala mondiale». Dispone inoltre di un esercito ombra di contractors (mercenari): in Afghanistan, documenta Foreign Policy, i mercenari del Pentagono sono circa 29.000, ossia tre per ogni soldato Usa; in Iraq circa 8.000, due per ogni soldato Usa.
Ai mercenari del Pentagono si aggiungono quelli della tentacolare Comunità di intelligence comprendente, oltre la Cia, altre 15 agenzie federali.
I mercenari sono doppiamente utili: possono assassinare e torturare, senza che ciò sia attribuito agli Usa, e quando sono uccisi i loro nomi non compaiono nella lista dei caduti. Inoltre il Pentagono e i servizi segreti dispongono dei gruppi che essi armano e addestrano, tipo quelli islamici usati per attaccare dall'interno la Libia e la Siria, e quelli neonazisti usati per il colpo di stato in Ucraina.
Altro strumento della stessa strategia sono quelle «organizzazioni non-governative» che, dotate di ingenti mezzi, vengono usate dalla Cia e dal Dipartimento di stato per azioni di destabilizzazione interna in nome della «difesa dei diritti dei cittadini».
Nello stesso quadro rientra l'azione del gruppo Bilderberg – che il magistrato Ferdinando Imposimato denuncia come «uno dei responsabili della strategia della tensione e delle stragi» in Italia – e quella della Open Society dell'«investitore e filantropo George Soros», artefice delle «rivoluzioni colorate».
Nel mirino della strategia golpista di Washington vi sono oggi il Brasile, per minare dall'interno i Brics, e il Venezuela per minare l'Alleanza Bolivariana per le Americhe. Per destabiizzare il Venezuela – indica il Comando Sud in un documento venuto alla luce – si deve provocare «uno scenario di tensione che permetta di combinare azioni di strada con l'impiego dosato della violenza armata».

lunedì 30 maggio 2016

La cancellazione sbagliata dei tribunali per i minorenni

I tribunali per i minorenni italiani sono a rischio. Un emendamento del gennaio scorso alla cosiddetta "riforma Orlando" della Giustizia, presentato alla commissione competente della Camera dei Deputati, comporterebbe infatti una sostanziale "abolizione tout court a favore di non meglio specificate sezioni specializzate”. Secondo Paolo Tartaglione, referente "Infanzia Adolescenza e Famiglia" del CNCA Lombardia e responsabile della cooperativa milanese Arimo, promotore di una petizione online ad hoc che ha raccolto quasi 15mila sottoscrizioni, il Parlamento sta per far compiere al Paese un passo indietro di decenni, sacrificando un prezioso patrimonio di competenze.
Luca Villa, uno dei sedici magistrati del tribunale per i minorenni di Milano, spiega perché.
Dottor Villa, di che cosa si parla quando si tratta di tribunali per minorenni?
I tribunali per i minorenni sono individuati presso tutte le Corti d'Appello, grosso modo ogni Regione ha una Corte d'Appello e quindi ha un suo tribunale per i minorenni. La Lombardia ne ha due, la Sicilia ne ha quattro, Lazio, Emilia-Romagna e Veneto ne hanno uno solo. In tutta Italia, i giudici minorili sono poco meno di 200, a Milano siamo 16. La storia del tribunale per i minorenni inizia nel 1934, con il processo penale minorile, con le attività di osservazione e trattamento nel solco di una giustizia pedagogica con finalità rieducativa. Già nel 1934 si ritenne che all'interno del collegio dovessero esserci componenti professionali diverse dai magistrati. Piano piano si è trasformato nell'assetto attuale, che risale al 1975, quando furono via via aggiunte varie competenze civili.
Se nel campo penale prevedere competenze professionali esterne è un'idea condivisa anche in qualche altra nazione, nel campo civile questo è un unicum italiano.
E in termini di procedimenti?
Nel penale il numero dei procedimenti ammonta a 38mila annui a carico di imputati noti e conosciuti. Di questi, il pubblico ministero chiede un vero e proprio processo, cioè promuove l'azione penale, per circa 22mila minori. Il grosso del processo penale minorile si ferma nell'udienza preliminare con l'accesso a vari riti alternativi e solo una quota residua prosegue alla fase dibattimentale. A differenza del processo per gli adulti, il processo penale minorile è un processo nel quale i riti alternativi hanno funzionato molto e bene. E nessun giudice minorile pensa di mettere in discussione l'udienza preliminare, mentre invece in tanti nel processo penale la percepiscono come un passaggio burocratico.
Il processo penale minorile ha funzionato?
Senz'altro. Soprattutto perché, nonostante gli strumenti deflattivi che consentono la rapida fuoriuscita dal processo penale da parte del ragazzo -l'irrilevanza, l'immaturità, il perdono, la messa alla prova- da un lato, e dall'altro nonostante nel processo penale minorile il carcere sia visto come l'extrema ratio -in tutto sono detenuti 500 imputati minorenni in tutta Italia, per metà composto da imputati in attesa di giudizio e per metà in esecuzione della pena-, il processo non ha portato ad un aumento della criminalità minorile, anzi. Negli anni è stata registrata una lenta erosione dei reati commessi dai minori. È un processo poco costoso -vista l'irrilevanza del dibattimento-, che produce poco carcere, un altro costo sociale molto alto e, come detto, non si è rivelato criminogeno, anzi.
E nel campo civile?
Le competenze civili -ricordo che i procedimenti di questa natura iscritti presso i tribunali per minorenni in Italia sono poco meno di 60mila- coprono il settore dell'adozione, del controllo della responsabilità (ex potestà) genitoriale - quantitativamente il grosso dell'intervento civile-, della dichiarazione di idoneità all'adozione internazionale. Cui si aggiungeva, sino al 2013, una competenza gravosa riguardante le controversie in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio (fenomeno che lentamente ha iniziato ad avvertirsi dal 2000 in poi, sino a diventare ingestibili dopo il conferimento, nel 2007 a seguito dell'approvazione della legge sull'affidamento condiviso, anche della competenza sulle questioni economiche, che in precedenza spettavano al Tribunale Ordinario). Nel 2013, sia questa materia sia alcune altre relative allo status sono passate al tribunale ordinario. Secondo alcuni questo spostamento avrebbe dovuto comportare un tale svuotamento delle competenze dei tribunali per minorenni da non giustificare più la loro esistenza. In realtà, numeri alla mano, faccio l'esempio del tribunale per i minorenni di Milano, di fatto siamo ritornati allo stesso numero di procedimenti che avevamo nel 2000, prima che fossimo investiti dal fenomeno dei conflitti tra i genitori di figli non sposati. Milano è ritornata a più di 3mila procedimenti nell'ambito civile (1.800 circa sono nella materia del controllo della responsabilità genitoriale, di questi 1.700 sono aperti su ricorso dal Pm, che annualmente ne riceve 5mila, che gestisce e filtra in autonomia). È vero che ci sono tribunali per minorenni molto piccoli -che ricordo avere una dotazione minima di tre giudici per poter comporre il collegio-, che hanno un numero di procedimenti molto bassi, ma il punto è che la soluzione non è abolire il tribunale dei minorenni secondo il falso mito del "non ha molto da fare", quanto rivedere la competenza delle Corti d'Appello, perché forse il fatto che alcune Regioni ne abbiano quattro non ha più molto senso.
Qual è il timore legato alla riforma?
Un primo disegno prevedeva la soppressione del tribunale per i minorenni nelle sue competenze civili, eliminazione dei giudici onorari nella competenza civile e trasformazione in una misteriosa figura di "ausiliari", e mantenimento solamente della competenza penale. Quando si è fatto notare che avrebbe significato ritornare al 1934 il legislatore si è un po' spaventato, se mi è consentita la battuta, e ci ha ripensato. Nel nuovo assetto invece rimarrebbe la stessa struttura per i procedimenti civili e per quelli penali, ma non sarebbe più un tribunale autonomo quanto invece una sezione del tribunale del capoluogo di distretto. Dunque, nelle cause di separazione sia dei figli sposati sia non sposati del Comune non capoluogo di distretto -in Lombardia, ad esempio, di Sondrio-, ci sarà un tribunale che sulla separazione si comporta in un modo e invece, sullo stesso minore, ci sarà, presso il capoluogo di distretto, una sezione specializzata e autonoma che potrebbe pensarla diversamente. In realtà esiste un modello che è stato proposto al Parlamento dall'associazione dei magistrati che si occupano di minori in famiglia che è il modello del tribunale di sorveglianza. E cioè, una competenza a livello distrettuale e poi una serie di affari che possono essere svolti da un magistrato monocratico nei singoli tribunali, anche senza competenze professionali altre.
Cosa comporterebbe la perdita dell'autonomia?
La preoccupazione è che perdendo l'autonomia si perda anche qualcosa in termini di funzionalità e centralità, diventando una sezione tra le tante, con presidenti che investono fino a un certo punto, giudici che lo fanno finché non debbano occuparsi d'altro, senza quella vocazione che contraddistingue i giudici minorili.
Sul lato penale la preoccupazione poi è sul versante della Procura. Presso il tribunale dei minorenni, infatti, c'è una specifica Procura che è separata da quella ordinaria. Nel nuovo assetto la Procura finirebbe all'interno della Procura ordinaria, sotto forma di dipartimento. E anche se è prevista una tendenziale esclusività delle funzioni, in realtà non la può garantire, chiedendo quindi una sorta di schizofrenia al pubblico ministero. Il pm dell'adulto, infatti, deve accertare il fatto e ha un compito di sicurezza sociale prevalente, il pubblico ministero minorile invece ha un'attitudine educativa, e quindi nelle sue richieste e indagini deve avere un'attenzione particolare al minore.
Personalmente sono molto preoccupato dall'idea di un Pm che da un lato indaga il genitore maltrattante e dall'altro promuove l'intervento a tutela del minore maltrattato. Perché io temo che si possa porre una sorta di conflitto di interessi, con il pericolo di piegare l'intervento a tutela del minore per ottenere qualcosa nel procedimento penale a carico del maggiorenne.
La principale giustificazione addotta è quella del risparmio di risorse.
È anche questo un falso mito. Mi chiedo in ogni caso se sia sui minori che si voglia e si debba risparmiare. Cito Winston Churchill: quando gli dicevano che per costruire le munizioni bisognava tagliare sulla cultura, lui disse "allora che cosa combattiamo a fare". Non rendersi conto della funzione importante dei tribunali per i minorenni, anche per la profonda trasformazione impressa alla giustizia, sia nel penale sia nel civile. La messa alla prova, l'irrilevanza, la mediazione, son tutte cose che sono state sperimentate nel tribunale per i minori. È un'impostazione culturale che talvolta ferisce. Leggere della soppressione del tribunale per i minorenni e contestualmente dell'istituzione del tribunale per l'impresa mi sembra un segno abbastanza chiaro della visione complessiva

venerdì 27 maggio 2016

FMI: LA DISOCCUPAZIONE IN GRECIA SCENDERÀ AL 12%… NEL 2040!

In questo bell’articolo su Forbes, Frances Coppola spiega gli incalcolabili danni inflitti dalle autorità europee alla popolazione greca. L’infinita “crisi greca”, provocata al fine di salvare il sistema bancario dell’Europa centrale, ha spazzato via un’intera economia, condannando un popolo alla disoccupazione perenne, alla crisi demografica e a un futuro senza speranza. Questa è l’agghiacciante realtà che sta dietro l’ingannevole immagine di questa “Europa dei popoli”.

Di Frances Coppola, 23 maggio 2016

Il FMI ha appena pubblicato l’ultima Analisi di Sostenibilità del Debito (DSA) per la Grecia. E’ una lettura sconfortante. La Grecia non riuscirà mai a uscire dal suo debito attraverso la crescita. Il surplus primario del 3,5% al quale il governo di Syriza sembra al momento deciso a impegnarsi, è francamente insostenibile: il FMI pensa che perfino sostenere l’1,5% sarebbe un’impresa. Le banche avranno bisogno di altri 10 miliardi di euro (oltre ai 43 miliardi che il governo greco ha già preso in prestito per poterle salvare). La vendita di asset è una causa persa, principalmente perché le banche – che rappresentavano una parte preponderante degli asset in vendita – non varranno nulla nel prossimo futuro.
Che piaccia o meno, un taglio del debito è indispensabile. Senza taglio del debito, il suo costo lieviterà nel 2060 a un impossibile 60% del budget governativo. Naturalmente, la Grecia andrebbe in bancarotta molto prima – ma ciò renderebbe la situazione perfino peggiore.
Ma questa non è una novità. Il FMI va dicendo da circa un anno ormai che la Grecia avrà bisogno di un taglio del debito. Quest’ultimo DSA è fatto apposta per impressionare gli Europei e fare in modo che considerino seriamente la questione. Non sorprende quindi che le proiezioni sulla sostenibilità del debito siano decisamente peggiorate rispetto ai precedenti DSA. Indubbiamente i creditori europei le contesteranno, il governo di Syriza si schiererà dalla parte degli europei perché l’unica alternativa è il Grexit, e la Commissione Europea sosterrà che ci sono “miglioramenti” anche se l’unica cosa che sta succedendo è che si stanno rimandando tutti i problemi per l’ennesima volta .
Ma nascosti all’interno della pubblicazione del FMI ci sono dei numeri davvero preoccupanti – le previsioni dell’FMI riguardo la popolazione e la disoccupazione da qui al 2060. E penso che il mondo intero dovrebbe conoscerle.
Ecco quello che prevede il FMI riguardo le prospettive per la disoccupazione in Grecia (il grassetto è mio):
“Le proiezioni demografiche suggeriscono che la popolazione in età da lavoro diminuirà del 10% circa entro il 2060. Allo stesso tempo, la Grecia continuerà a dover fronteggiare un’alta disoccupazione per decenni a venire. Attualmente la disoccupazione è intorno al 25%, la più alta tra i paesi OCSE, e dopo 7 anni di recessione, la componente strutturale è stimata intorno al 20%. Di conseguenza, ci vorrà molto tempo perché la disoccupazione diminuisca. Lo staff prevede che essa raggiunga il 18% nel 2022, in 12% nel 2040 e il 6% solo nel 2060”.
Quindi, anche se l’economia greca dovesse tornare a crescere e i suoi creditori dovessero concedere un taglio del debito, ci vorranno 44 anni per ridurre la disoccupazione greca a un dato vagamente normale. Per i giovani greci, attualmente fuori dal mercato del lavoro, questo significa un’intera vita lavorativa. Un’intera generazione verrebbe buttata nel cestino.
E se l’economia greca non dovesse tornare a un ritmo di crescita sostenibile, allora la disoccupazione rimarrebbe in doppia cifra fino a – be’, chi può dire quanto a lungo?
La verità è che 7 anni di recessione hanno distrutto l’economia greca. Essa non può più generare sufficienti posti di lavoro per poter occupare la sua popolazione. Il FMI stima che, perfino in periodi buoni, il 20% degli adulti rimarrebbero disoccupati. Per generare i posti di lavoro che sarebbero necessari ci vorrebbero moltissime nuove imprese, forse persino intere nuove industrie. Sviluppare una simile capacità produttiva richiede tempo e molti investimenti – e la Grecia non è certo il posto più attraente in quanto a prospettive di investimento. In assenza di qualcosa di simile a un piano Marshall, ci vorrebbero molti, molti anni per riparare il danno deliberatamente inflitto alla Grecia dalle autorità europee e dal FMI, al fine di salvare il sistema bancario europeo.
Naturalmente, i giovani greci non si rassegneranno alla prospettiva di sprecare tutta la loro vita fuori dal mercato del lavoro. Quelli che potranno, se ne andranno. E questo renderà la ripresa greca ancor meno probabile.
La Grecia ha uno dei più alti tassi del mondo di invecchiamento della popolazione. Il FMI prevede che, per rendere sostenibili le finanze pubbliche greche, la partecipazione alla forza lavoro dovrebbe aumentare dall’attuale 52% a circa il 73%. Questo significherebbe che i vecchi dovrebbero lavorare ancora molti anni, le donne dovrebbero entrare nel mondo del lavoro retribuito, e i malati e disabili dovrebbero mettersi a lavorare anch’essi. In sostanza, la Grecia non può permettersi l’attuale rete di protezione sociale. Una migrazione significativa dei giovani – o livelli sostenuti di disoccupazione – renderebbero le cose ancora più complicate: lascerebbero la Grecia con un numero crescente di pensionati da mantenere ma con molti meno lavoratori a sopportarne il peso.
Quindi, anche se per i giovani si prospetta un futuro incerto, sono i vecchi, i malati e i disabili, e coloro che se ne prendono cura, che pagheranno il prezzo più salato per il fallimento della Grecia. Per loro, il futuro sembra decisamente nero.

giovedì 26 maggio 2016

Francia. Dopo le raffinerie, i manifestanti annunciano blocco delle centrali nucleari

I muscoli sono sempre più tesi in Francia nel contesto del braccio di ferro tra il movimento contro la Loi travail e il governo. Da diversi mesi studenti, giovani precari, sindacati e lavoratori immigrati chiedono il ritiro del jobs act francese con impotenti manifestazioni rifiutandosi di accettare ogni mediazione col governo di Manuel Valls. Numerosi in queste ultime settimane sono anche stati gli scontri con le forze dell’ordine viste da più parti come le truppe al soldo di uno dei governi più impopolari della storia della repubblica.
Se in Italia in Italia i sindacati sembrano ormai convinti che scioperi e assemblee sindacali siano possibili soltanto quando non creano “disagi” (ossia quando sono inefficaci), la strategia dei sindacati in Francia è ormai sempre più chiaramente quella di colpire gli interessi economici francesi per costringere il governo a indietreggiare. Già da diversi giorni numerosi porti, raffinerie e depositi di carburante sono bloccati grazie agli scioperi e ai picchetti provocando la reazione scomposta da parte del primo ministro Manuel Valls che ha dichiarato che ci sarà tolleranza zero verso i manifestanti. Martedì a Fos-sur-mer la polizia è intervenuta con una violenza inaudita usando lacrimogeni e un bulldozer mentre stamattina gli agenti sono arrivati a Douchy-les-Mines dove i manifestanti hanno dato alle fiamme barricate di copertoni prima di essere costretti a lasciare i presidi. Tutte le otto raffinerie che si trovano sul territorio francese sono parzialmente o completamente bloccate, suscitando la collera del padrone di Total che ha minacciato ieri di rivedere gli investimenti del gruppo nel paese nel tentativo di spaventare i lavoratori. Ai tentativi d’intimidazione si daac1ef1 9708 48da 8e39 58b62339873arisponde con l’occupazione di nuovi snodi logistici con l’obiettivo di bloccare tutto: diventiamo ingovernabili è lo slogan che risuona da più parti in risposta alle proposte di dialogo offerte dal governo. Il ricatto degli appelli alla democrazia e alla moderazione sembrano infatti cadere nel vuoto davanti a un movimento sicuro delle proprie ragioni: “Conosciamo le nostre responsabilità, che il primo ministro prenda le sue ritirando la legge sul lavoro. Da qui non uscirà più una goccia di petrolio” ha dichiarato a Le Monde il segretario CGT della Compagnie industrielle maritime. Gli effetti si fanno ormai sempre più evidenti anche sulle pompe di benzina, centinaia di distributori sono a secco e lo spettro di una mancanza generalizzata di combustile si fa sempre più concreta con il segretario di Stato ai trasporti che ha ammesso che il governo ha iniziato ad utilizzare le riserve strategiche di prodotti petroliferi.
Ieri il sindacato ha deciso di giocare una nuova importante carta, minacciando il blocco delle centrali nucleari per domani, giorno dello sciopero generale. “Le sorti del progetto di legge si giocano ora, quindi è ora che bisogna agire” ha dichiarato il portavoce della CGT-energia “facciamo appello a tutto il personale per fare salire la pressione sul governo attraverso l’abbassamento della tensione elettrica o tagliando direttamente l’energia sulla rete”. Alla centrale Nogent-sur-Seine i lavoratori hanno già comunicato l’adesione allo sciopero e i tagli di corrente dovrebbero provocare l’arresto di almeno due dei reattori del complesso. Dei “sabotaggi” sulla rete elettrica hanno già avuto luogo ieri a Plan de Campagne, nei dintorni di Marsiglia, dove i dipendenti del più grande centro commerciale d’Europa hanno rivendicato di aver fatto saltare la corrente in opposizione alla Loi travail

mercoledì 25 maggio 2016

Referendum, la storia della repubblica non è una zavorra

Era chiaro fin dall’inizio che la richiesta di tregua all’interno del Pd avanzata da Renzi mirava a tutt’altro che a una moratoria della politica. Occupando l’intero orizzonte con l’enfasi sull’epocale obiettivo della riforma costituzionale, si volevano creare le condizioni propizie per costruire nel fuoco di una lotta senza quartiere un’altra politica e un altro partito. Man mano che passano le giornate, e l’attivismo del Presidente del Consiglio si fa sempre più frenetico e compulsivo, tutto questo diviene più evidente, un rullo compressore viene lanciato su società e politica per spianare qualsiasi ostacolo, e di questo contesto bisogna tenere conto perché la discussione sul referendum costituzionale corrisponda alla sostanza delle cose.
Innovato il linguaggio con la parola “rottamazione”, Renzi ne ha via via esteso l’uso dalle persone ai corpi sociali, poi alle istituzioni e, infine, alla stessa storia. La storia, perché ormai è evidente che si è costruito un oggetto polemico totale, un ancien régime che coincide con tutta la passata vicenda repubblicana della quale, a dire del Presidente del Consiglio, o ci si libera con un colpo solo o si sprofonda nell’impotenza, nell’inciucio.
Chi conosce un po’ di storia, sa quale ruolo possa giocare il richiamo a un regime precedente. Oggi, tuttavia, non si tratta di affrontare una questione teorica, ma di rispondere a una domanda precisa: quanto è attendibile la presentazione renziana della storia della Repubblica?
Di fronte a questa domanda vi è una responsabilità di storici e scienziati politici. L’informazione corretta, non falsificata, è premessa indispensabile per il voto consapevole dei cittadini, e chi ha le conoscenze necessarie deve metterle a disposizione di tutti. Rischia altrimenti di consolidarsi un modo di discutere che colloca il voto referendario tra un passato inguardabile e un futuro infrequentabile, se diverso da quello affidato al testo della riforma. Un anno zero, l’evocazione del caos, l’associazione del “no” con l’irresponsabilità.
Poiché si sollecita la discussione sul merito, bisogna segnalare l’insistente falsificazione della posizione di coloro i quali nel passato avevano proposto l’uscita dal bicameralismo perfetto. Proposte che smentiscono la tesi di un radicato conservatorismo, ma che andavano nella direzione opposta da quella seguita dalla riforma, perché mantenevano al centro una legge elettorale proporzionale come garanzia essenziale per gli equilibri costituzionali. Vi sono poi episodi minori, anche se rivelatori dell’approssimazione di chi parla, per cui i governi della storia repubblicana da 63 ogni tanto diventano 69 e si giunge addirittura ad adottare logiche da seduta spiritica annunciando che Enrico Berlinguer avrebbe votato “sì”, con una falsificazione clamorosa dei suoi atti e delle sue posizioni.
La storia della Repubblica non è una zavorra da buttare via senza un fremito. Nelle tambureggianti rievocazioni di Marco Pannella e della sua azione per i diritti civili bisogna dare a ciascuno il suo e ricordare anche che gli anni Settanta furono un tempo di vera rivoluzione dei diritti civili, politici e sociali. Di pari passo con divorzio e aborto andarono i diritti dei lavoratori, la scuola, la salute, la carcerazione preventiva, la maggiore età a 18 anni, l’obiezione di coscienza al servizio militare, gli interventi su carceri e manicomi e una riforma del diritto di famiglia scritta con uno spirito ben più aperto di quello che ha accompagnato la legge sui diritti civili.
Fu un tempo di sintonia tra politica e società, tra politica e cultura, ma non fu il solo, e bisogna ricordarlo non con spirito nostalgico, ma per ristabilire una qualche verità storica e istituzionale, perché quel rinnovamento avvenne basandosi proprio sulla Costituzione.
Certo, sarebbe antistorico fermarsi qui e sottovalutare le dinamiche che hanno poi percorso il sistema politico- istituzionale, ponendo anche seri problemi di efficienza. Vi è, tuttavia, una questione di grande rilievo che investe proprio il tema dei diritti, la cui garanzia è affidata alla legge. Ma, quando venne scritta la Costituzione, la legge era il prodotto di un Parlamento eletto con il sistema proporzionale, sì che la garanzia nasceva dal pluralismo delle forze politiche, nessuna delle quali poteva impadronirsi dei diritti dei cittadini. In un Parlamento ipermaggioritario, come quello ora previsto, questa garanzia può svanire e il partito vincitore diventa partito pigliatutto non solo di seggi, ma di diritti.
Quando s’invoca la discussione sul merito, questi sono punti ineludibili, che ci consentono di cogliere nel loro insieme gli effetti di un cambiamento in cui riforma costituzionale e sistema elettorale sono assolutamente connessi. Il maggiore tra questi è proprio la riduzione della cittadinanza, per il combinarsi dell’affievolimento della garanzia dei diritti e della sottorappresentazione dei cittadini. Non dimentichiamo che il Porcellum venne dichiarato incostituzionale proprio perché determinava una «illimitata compressione della rappresentatività» del Parlamento, «alterando il circuito democratico fondato sul principio di eguaglianza». Vizi, questi, che ricompaiono nell’Italicum e di cui si occuperà la Corte costituzionale.
Poiché, tuttavia, l’abbassamento della soglia di garanzia è evidente, risolvendosi in una vera espropriazione per i cittadini, questi hanno la possibilità di reagire nel momento in cui si esprimeranno con il voto referendario.
Stando sempre attenti al merito, si incontrano due questioni paradossali. Persino accesissimi sostenitori della riforma riconoscono che poi saranno necessari aggiustamenti, altri condizionano il loro voto a cambiamenti della legge elettorale. Ma come? Si dice che stiamo combattendo la madre di tutte le battaglie, stiamo traghettando la Repubblica dal buio alla luce e invece sembra che si possano ancora cambiare le carte in tavola in una affannosa ricerca di consenso, ribadendo quella logica di inciucio preventivo all’origine dei tanti vizi della riforma.
Più sorprendente ancora è l’argomentazione di chi descrive il diluvio, il caos che inevitabilmente si determinerebbero se la riforma fosse bocciata, perché si dovrebbe tornare al voto intrecciando diverse leggi elettorali per Camera e Senato con problemi di governabilità. Singolare argomentazione, perché proprio i critici della riforma avevano messo in evidenza questo rischio ed è davvero da apprendisti stregoni, o da irresponsabili, prima creare le condizioni di un possibile fallimento, quindi agitarlo come uno spauracchio.
E poi chi dice che alle annunciate dimissioni di Renzi di fronte ad un “no” debba seguire lo scioglimento delle Camere? La democrazia ha le sue risorse, produce i suoi anticorpi, si potrebbe anzi avviare una seria stagione riformatrice, visto che proprio sui punti caldi del bicameralismo o monocameralismo, del governo, dei sistemi elettorali più adeguati erano venute proposte precise e diverse dal semplice accentramento dei poteri e della democrazia d’investitura.
Futile, a questo punto, diviene il balletto intorno alla personalizzazione del referendum, alla richiesta che Renzi non lo trasformi in un plebiscito su di sé. Le cose stanno così fin dall’inizio. Il Presidente del Consiglio continuerà ad esibire la sua pedagogia sociale su Facebook, invaderà ogni spazio pubblico. Ma questo non fa scomparire i cittadini, che sono lì, sempre meglio informati e sempre più determinati.
Referendum, la storia della repubblica non è una zavorra
di STEFANO RODOTÀ 24 Maggio 2016 29
«In un Parlamento ipermaggioritario, come quello ora previsto, la garanzia del pluralismo politico può svanire». La Repubblica, 24 maggio 2016 (c.m.c.)
Era chiaro fin dall’inizio che la richiesta di tregua all’interno del Pd avanzata da Renzi mirava a tutt’altro che a una moratoria della politica. Occupando l’intero orizzonte con l’enfasi sull’epocale obiettivo della riforma costituzionale, si volevano creare le condizioni propizie per costruire nel fuoco di una lotta senza quartiere un’altra politica e un altro partito. Man mano che passano le giornate, e l’attivismo del Presidente del Consiglio si fa sempre più frenetico e compulsivo, tutto questo diviene più evidente, un rullo compressore viene lanciato su società e politica per spianare qualsiasi ostacolo, e di questo contesto bisogna tenere conto perché la discussione sul referendum costituzionale corrisponda alla sostanza delle cose.
Innovato il linguaggio con la parola “rottamazione”, Renzi ne ha via via esteso l’uso dalle persone ai corpi sociali, poi alle istituzioni e, infine, alla stessa storia. La storia, perché ormai è evidente che si è costruito un oggetto polemico totale, un ancien régime che coincide con tutta la passata vicenda repubblicana della quale, a dire del Presidente del Consiglio, o ci si libera con un colpo solo o si sprofonda nell’impotenza, nell’inciucio.
Chi conosce un po’ di storia, sa quale ruolo possa giocare il richiamo a un regime precedente. Oggi, tuttavia, non si tratta di affrontare una questione teorica, ma di rispondere a una domanda precisa: quanto è attendibile la presentazione renziana della storia della Repubblica?
Di fronte a questa domanda vi è una responsabilità di storici e scienziati politici. L’informazione corretta, non falsificata, è premessa indispensabile per il voto consapevole dei cittadini, e chi ha le conoscenze necessarie deve metterle a disposizione di tutti. Rischia altrimenti di consolidarsi un modo di discutere che colloca il voto referendario tra un passato inguardabile e un futuro infrequentabile, se diverso da quello affidato al testo della riforma. Un anno zero, l’evocazione del caos, l’associazione del “no” con l’irresponsabilità.
Poiché si sollecita la discussione sul merito, bisogna segnalare l’insistente falsificazione della posizione di coloro i quali nel passato avevano proposto l’uscita dal bicameralismo perfetto. Proposte che smentiscono la tesi di un radicato conservatorismo, ma che andavano nella direzione opposta da quella seguita dalla riforma, perché mantenevano al centro una legge elettorale proporzionale come garanzia essenziale per gli equilibri costituzionali. Vi sono poi episodi minori, anche se rivelatori dell’approssimazione di chi parla, per cui i governi della storia repubblicana da 63 ogni tanto diventano 69 e si giunge addirittura ad adottare logiche da seduta spiritica annunciando che Enrico Berlinguer avrebbe votato “sì”, con una falsificazione clamorosa dei suoi atti e delle sue posizioni.
La storia della Repubblica non è una zavorra da buttare via senza un fremito. Nelle tambureggianti rievocazioni di Marco Pannella e della sua azione per i diritti civili bisogna dare a ciascuno il suo e ricordare anche che gli anni Settanta furono un tempo di vera rivoluzione dei diritti civili, politici e sociali. Di pari passo con divorzio e aborto andarono i diritti dei lavoratori, la scuola, la salute, la carcerazione preventiva, la maggiore età a 18 anni, l’obiezione di coscienza al servizio militare, gli interventi su carceri e manicomi e una riforma del diritto di famiglia scritta con uno spirito ben più aperto di quello che ha accompagnato la legge sui diritti civili.
Fu un tempo di sintonia tra politica e società, tra politica e cultura, ma non fu il solo, e bisogna ricordarlo non con spirito nostalgico, ma per ristabilire una qualche verità storica e istituzionale, perché quel rinnovamento avvenne basandosi proprio sulla Costituzione.
Certo, sarebbe antistorico fermarsi qui e sottovalutare le dinamiche che hanno poi percorso il sistema politico- istituzionale, ponendo anche seri problemi di efficienza. Vi è, tuttavia, una questione di grande rilievo che investe proprio il tema dei diritti, la cui garanzia è affidata alla legge. Ma, quando venne scritta la Costituzione, la legge era il prodotto di un Parlamento eletto con il sistema proporzionale, sì che la garanzia nasceva dal pluralismo delle forze politiche, nessuna delle quali poteva impadronirsi dei diritti dei cittadini. In un Parlamento ipermaggioritario, come quello ora previsto, questa garanzia può svanire e il partito vincitore diventa partito pigliatutto non solo di seggi, ma di diritti.
Quando s’invoca la discussione sul merito, questi sono punti ineludibili, che ci consentono di cogliere nel loro insieme gli effetti di un cambiamento in cui riforma costituzionale e sistema elettorale sono assolutamente connessi. Il maggiore tra questi è proprio la riduzione della cittadinanza, per il combinarsi dell’affievolimento della garanzia dei diritti e della sottorappresentazione dei cittadini. Non dimentichiamo che il Porcellum venne dichiarato incostituzionale proprio perché determinava una «illimitata compressione della rappresentatività» del Parlamento, «alterando il circuito democratico fondato sul principio di eguaglianza». Vizi, questi, che ricompaiono nell’Italicum e di cui si occuperà la Corte costituzionale.
Poiché, tuttavia, l’abbassamento della soglia di garanzia è evidente, risolvendosi in una vera espropriazione per i cittadini, questi hanno la possibilità di reagire nel momento in cui si esprimeranno con il voto referendario.
Stando sempre attenti al merito, si incontrano due questioni paradossali. Persino accesissimi sostenitori della riforma riconoscono che poi saranno necessari aggiustamenti, altri condizionano il loro voto a cambiamenti della legge elettorale. Ma come? Si dice che stiamo combattendo la madre di tutte le battaglie, stiamo traghettando la Repubblica dal buio alla luce e invece sembra che si possano ancora cambiare le carte in tavola in una affannosa ricerca di consenso, ribadendo quella logica di inciucio preventivo all’origine dei tanti vizi della riforma.
Più sorprendente ancora è l’argomentazione di chi descrive il diluvio, il caos che inevitabilmente si determinerebbero se la riforma fosse bocciata, perché si dovrebbe tornare al voto intrecciando diverse leggi elettorali per Camera e Senato con problemi di governabilità. Singolare argomentazione, perché proprio i critici della riforma avevano messo in evidenza questo rischio ed è davvero da apprendisti stregoni, o da irresponsabili, prima creare le condizioni di un possibile fallimento, quindi agitarlo come uno spauracchio.
E poi chi dice che alle annunciate dimissioni di Renzi di fronte ad un “no” debba seguire lo scioglimento delle Camere? La democrazia ha le sue risorse, produce i suoi anticorpi, si potrebbe anzi avviare una seria stagione riformatrice, visto che proprio sui punti caldi del bicameralismo o monocameralismo, del governo, dei sistemi elettorali più adeguati erano venute proposte precise e diverse dal semplice accentramento dei poteri e della democrazia d’investitura.
Futile, a questo punto, diviene il balletto intorno alla personalizzazione del referendum, alla richiesta che Renzi non lo trasformi in un plebiscito su di sé. Le cose stanno così fin dall’inizio. Il Presidente del Consiglio continuerà ad esibire la sua pedagogia sociale su Facebook, invaderà ogni spazio pubblico. Ma questo non fa scomparire i cittadini, che sono lì, sempre meglio informati e sempre più determinati.

martedì 24 maggio 2016

Proteste contro il governo, in Francia comincia a mancare la benzina

Dopo oltre due mesi di proteste il movimento contro jobs act francese non si ferma e continua con le azioni contro il governo di Manuel Valls. Nessuno Oltralpe sembra essere cascato nella falsa promessa che si possano barattare diritti per avere posti di lavoro e il governo francese è sempre più in difficoltà. Da diversi giorni, su iniziativa dei sindacati CGT e Force ouvrière, sono cominciati i blocchi alle raffinerie e ai depositi di carburante per colpire l’economia fino al ritiro della contestatissima Loi Travail, sola possibilità che resta al movimento dopo decine di manifestazioni ignorate dai politici al governo. Se fin dall’inizio della protesta l’intenzione è stata quella di colpire politici e grandi imprenditori “dove gli fa male”, fino ad oggi il vero motore della protesta erano stati gli studenti delle scuole superiori e i partecipanti a Nuit Debout, l’acampada per il ritiro della legge. Negli ultimi giorni invece i sindacati sembrano essere usciti dal loro torpore e hanno organizzato decine di blocchi di raffinerie, porti e depositi di carburante. Sei delle otto raffinerie francesi sono bloccate in questo momento da scioperi o picchetti con effetti che iniziano a farsi sentire direttamente sulle pompe di benzina, per ammissione del governo almeno pochi giorni di blocco hanno già messo in difficoltà 1’500 stazioni di servizio e alcune prefetture del nord della Francia hanno cominciato a razionare l’accesso al carburante.
“Non c’è bisogno di dar fastidio ai nostri compatrioti con questi blocchi” ha dichiarato il primo ministro Valls facendo appello al senso di responsabilità dei manifestanti. Che la situazione inizi a preoccupare seriamente Valls e Hollande lo dimostra il pungo duro usato dalla polizia contro i blocchi. Anche se il governo ostenta tranquillità diverse centinaia di agenti in assetto antisommossa sono stati inviati a sgomberare i manifestanti. A Lorient, dove centinaia di portuali bloccavano un importante deposito di carburante, ladirect lorient les manifestants se dispersent 1 polizia è intervenuta in forze nella giornata di venerdì per smantellare le barricate montate dai lavoratori facendo uso di lacrimogeni e manganelli. I manifestanti hanno risposto lanciando pietre e oggetti contro i poliziotti, un agente ha avuto un dente rotto da un sasso. A Dunkerque domenica la polizia è intervenuta per sgomberare altri due depositi petroliferi. Polizia in azione anche a Rouen ma nella notte tra domenica e lunedì uno nuovo importante deposito è stato bloccato a Fos sur Mer da circa 500 manifestanti che hanno costruito barricate per prevenire l’arrivo delle forze di polizia.
La determinazione dei manifestanti sta già portando i primi frutti, il governo ha fatto marcia indietro sulle misure della Loi travail che toccavano la categoria degli auto-trasportatori dopo che questi avevano bloccato numerosi caselli autostradali la settimana scorsa: “Questo primo importante risultato deve incoraggiare tutti i lavoratori a raggiungere il movimento, arriveremo fino in fondo” ha dichiarato Catherine Perret, segretario confederale della CGT.
Martedì ci sarà un nuovo sciopero dei ferrovieri, mentre giovedì è stato dichiarato l’ottavo sciopero generale per tutte le categorie e nei prossimi giorni sono previste nuovi picchetti per bloccare completamente gli snodi marittimi francesi.

lunedì 23 maggio 2016

ISTAT, RAPPORTO GIOVANI 2016: FUGA DALL’ITALIA E DAL PRECARIATO

Oltre il 42,5% dei giovani italiani sogna di fuggire all’estero per trovare un futuro lavorativo. Questo è il dato più allarmante del rapporto ISTAT 2016 sui giovani nel nostro Paese da poco pubblicato. Ed in Italia l’ascensore sociale è bloccato: il tasso di disuguaglianza (GINI) è salito in 20 anni, dal 1990 al 2010, dallo 0,40 allo 0,51 e la differenza di reddito la fa il provenire da una famiglia già agiata che permette studi che sono diventati più lunghi e costosi.
Le famiglie giovani senza lavoro sono quasi raddoppiate in poco più di 10 anni, passando dal 6,7% del 2004 al 13% del 2015. Nonostante la lieve crescita del tasso di occupazione, aumentato dello 0,6% rispetto al 2014 (ma sempre sotto al livello del 2008 del 2,3%), disoccupati ed inattivi sono ancora al 25,5%, molto di più della media europea situata al 12,7%. Sommando i due dati si ha che nel 2015 ben 6,5 milioni di persone che vorrebbero lavorare sono disoccupate. Essere laureati non è più un beneficio: circa il 37% dei giovani sono sovraistruiti rispetto al lavoro che svolgono e che secondo l’istituto di statistica è prevalentemente nel commercio e nel settore alberghiero e della ristorazione: commesso, cameriere, barista, addetto personale, cuoco, parrucchiere ed estetista. Ed il lavoro che trovano è al 53,6% atipico, ovvero a tempo determinato o parziale.
Questo comporta che le nuove generazioni si sposano più tardi e fanno figli (quando ne fanno) ancora più tardi: l’età media delle spose nel 2015 è stato di 30,7 anni, mentre la nascita del primo bimbo, spesso unico visto che la media è scesa a 1,35 figli a coppia (insufficiente a mantenere il livello di sostituzione della popolazione), è aumentata a 31,6 anni.
Insomma un quadro fosco, con gli effetti della crisi che, pur leggermente in miglioramento, indicano una difficoltà enorme a programmare un futuro e mettere su famiglia. Solo il 33% dei giovani riesce ad avere una famiglia tradizionale, marito, moglie e almeno due figli, gli altri devono accontentarsi di rapporti precari affettivi e convivenze instabili.
Sarà felice la Ministra dell’istruzione Giannini, che auspicava un futuro senza famiglia tradizionale e composto da individui che viaggiano e si spostano alla costante ricerca di un lavoro, non più stabile. Tanto se poi non si fanno più figli ci sono sempre gli immigrati da importare…

venerdì 20 maggio 2016

Tutti i no alla riforma

L’autore, costituzionalista e docente di diritto costituzionale di cui ora è professore emerito, è presidente del Comitato per il No per il referendum sulla riforma costituzionale. La Repubblica, 18 maggio 2016 (c.m.c.)
Caro direttore, la riforma costituzionale Boschi non merita di essere confermata dal voto popolare. Non lo merita perché risente del vizio di origine, di essere stata il frutto di un’iniziativa governativa, e non parlamentare, come sarebbe stato corretto; di essere stata oggetto di un dibattito parlamentare fortemente condizionato dal governo come se si fosse trattato di una legge d’indirizzo politico di maggioranza; di essere stata approvata da un Parlamento delegittimato dalla Corte costituzionale a seguito della dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum, in base al quale era stato eletto. Il risultato della seconda deliberazione della Camera, indecoroso per una legge di revisione costituzionale, è stato il seguente: 361 voti favorevoli alla maggioranza, 7 contrari e 2 astenuti (su 630 deputati).
La riforma Boschi non merita di essere confermata dal popolo anche con riferimento ai suoi contenuti. Ne evidenzio alcuni.
1. Il Senato, oltre a cinque senatori nominati dal presidente della Repubblica, verrebbe eletto dai consigli regionali, nella persona di 74 consiglieri regionali e di 21 sindaci di comuni capoluogo, non quindi direttamente dai cittadini, come invece previsto dalla Costituzione, secondo la quale «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione » (articolo 1). Con il che si è dimenticato dai riformatori che il voto dei cittadini costituisce «il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare » (così la Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014): voto “diretto” quindi, e non “indiretto” per il tramite dei consigli regionali, perché la riforma Boschi né li qualifica né li disciplina come “grandi elettori”, come avviene in Francia con i 150mila cittadini eletti dal popolo perché a loro volta eleggano i 348 senatori.
2. Pur non essendo eletto dai cittadini, il Senato parteciperebbe alla funzione legislativa e di revisione costituzionale. Il che se da un lato sarebbe incostituzionale perché è essenziale che un organo legislativo sia direttamente legittimato dal popolo; dall’altro è inopportuno che siano i consigli regionali a eleggere i senatori, essendo noti i continui scandali della politica locale italiana.
3. Irrazionale è anche la differenza numerica dei deputati (630) rispetto ai senatori (100), che rende irrilevante la presenza del Senato — nelle riunioni del Parlamento in seduta comune per l’elezione del presidente della Repubblica e dei componenti laici del Csm — a fronte della soverchiante rappresentanza della Camera. Parimenti irrazionale è il potere attribuito al Senato di eleggere due giudici costituzionali, mentre la Camera dei deputati ne eleggerebbe solo tre.
4. Ancorché le attribuzioni del Senato siano diminuite, esse sono ancora molte e gravose. Basterebbe ricordare, oltre alle competenze legislative ordinarie e costituzionali, la valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni nonché la verifica dell’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Ne segue che i 100 senatori non avrebbero tempo sufficiente per adempiere alle loro funzioni, dovendo svolgere le funzioni di consigliere regionale o di sindaco. Se poi tali funzioni venissero esercitate dai senatori eletti negli stessi giorni, i soli a essere presenti sarebbe i cinque senatori “presidenziali”, mentre se si assentassero a giorni alterni, la media dei senatori presenti si aggirerebbe intorno a 50! Infine, ancorché non eletti dal popolo, godrebbero dell’insindacabilità e dell’immunità parlamentare, col rischio che il Senato divenga il refugium peccatorum.
5. Il costituzionalismo moderno ha sempre ritenuto essenziale la presenza di contropoteri. Mentre il Senato non costituirebbe più un contropotere “esterno” nei confronti della Camera, non sono stati previsti dei contropoteri “interni” alla Camera, quale, ad esempio, il potere d’inchiesta da parte della minoranza, come in Germania. Per la stessa ragione è criticabile che la disciplina dello “statuto delle opposizioni” venga demandata a un regolamento della Camera. Il quale, essendo approvato dalla maggioranza assoluta dei componenti, si risolverebbe in un ulteriore privilegio per la maggioranza.
6. Il governo godrebbe dell’esclusiva fiducia della Camera dei deputati; eserciterebbe la funzione legislativa col Senato in un limitato, ma non scarso, numero di materie, mentre nelle restanti l’intervento del Senato sarebbe o eventuale o paritario rafforzato o non paritario o non paritario con esame obbligatorio, con potenziali conflitti tra le Camere. Dai due procedimenti legislativi esistenti si passerebbe agli otto o più procedimenti. Il che non costituisce una semplificazione.
7. Grazie all’Italicum che garantirebbe alla maggioranza 340 seggi alla Camera, e grazie al fatto che il presidente del Consiglio cumula la carica di segretario nazionale del Pd, il nostro ordinamento si orienterebbe verso un “premierato assoluto”, che condizionerebbe in negativo i poteri del presidente della Repubblica. Il governo avrebbe a disposizione i tradizionali poteri di decretazione d’urgenza e delegata, nonché la possibilità del voto a data certa. Al governo è stato garantito che i disegni di legge «ritenuti essenziali per l’attuazione del programma di governo», vengano approvati dalla Camera entro settanta giorni. Il che è condivisibile, ma suscita il timore che il governo finisca per restringere ulteriormente lo spazio per le iniziative parlamentari, già limitate a meno del 20 per cento del tempo. Il che significherebbe la fine del Parlamento.

giovedì 19 maggio 2016

JOBS ACT: UN FALLIMENTO DI SUCCESSO

Il cosiddetto Jobs Act viene continuamente dipinto quale un grandissimo successo ottenuto dal nostro governo che ha consentito di promuovere non solo l’occupazione, ma soprattutto la “buona” occupazione. Vediamo brevemente quanto prevede il Jobs Act utilizzando l’ottimo post di Fabio Lugano:
Economicamente: sgravi triennali dei contributi pensionistici sino a 8.060 euro annui dei nuovi contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato, sia derivanti da nuove assunzioni, sia da trasformazioni di altri contratti a tempo indeterminato, dal 7 marzo 2015 al 31/12 2015. La norma è stata parzialmente confermata per il 2016 – 2017 con uno sgravio ridotto pari al 40% dei contributi (con un tetto massimo pari a 3.250 euro e la nuova decontribuzione durerà 24 mesi, anziché 36 come per gli assunti nel 2015 – ndr).
Dal punto di vista normativo, con modifiche permanenti che prevedono:
ASSUNZIONI E LICENZIAMENTI A TUTELE CRESCENTI con possibilità di licenziamento sia economico sia disciplinare nei primi 3 anni con risarcimento crescente.
CESSAZIONE OBBLIGO DI REINTEGRO PER I NUOVI ASSUNTI. Subentra l’obbligo di risarcimento, tranne che per limitati casi di discriminazione. L’obbligo di reintegro resta per le aziende sopra i 15 dipendenti per gli assunti ante 7/3/2015.
POSSIBILITA’ DI PATTEGGIAMENTO CON DIPENDENTE: 1 mese di retribuzione per anno lavorativo che rimane come risarcimento non sottoposto a tassazione.
RIORDINO DEI CONTRATTI CON ABOLIZIONE CO.CO.PRO.
PART TIME ORIZZONTALE O VERTICALE. Libero, ma limiti al lavoro extra part time (15% e 25%) con premio del 15%.
DEMANSIONAMENTO (a parità di paga).
CONCILIAZIONE VITA LAVORO e MATERNITA e PATERNITA’
NASPI – ASDI e DISC-COLL
ASSEGNO DI RICOLLOCAZIONE – formazione attiva
CONTROLLO A DISTANZA.
In pratica: in cambio della possibilità da parte del datore di lavoro di controllare a distanza i propri dipendenti e di poterli licenziare “ad nutum” (quando gli pare), si ha diritto ad un contratto nominalmente “a tempo indeterminato”. Tale facoltà è stata estesa anche alle agenzie interinali (oggi dette agenzie di somministrazione lavoro) le quali hanno la facoltà di stipulare contratti “a tempo indeterminato” facendo lavorare i propri dipendenti in luoghi e posti diversi: un mese fai il metalmeccanico a Roma, il mese dopo il barista Latina, il mese dopo il commesso a Viterbo ecc. cioè sei precario, ma a tempo indeterminato (leggasi precario a vita). Questo nel caso fortunato in cui riescano a ricollocarti, altrimenti percepisci un’indennità di disponibilità pari a 750 € LORDI al mese per un periodo variabile tra 6 e 7 mesi (e poi… ciao).
Quali effetti ha avuto?
saldo attivazioni
Elaborazioni su dati INPS
Dal grafico si vede che nei primi mesi del 2016 (linea rossa), cioè con il Jobs Act vigente, il saldo occupazionale (attivazioni meno cessazioni) è inferiore rispetto ai primi mesi del 2015 (linea blu), quando il Jobs Act non era ancora in vigore e anche rispetto al 2014 (linea verde). Tuttavia si evidenzia che nel 2015 gli occupati (vedremo di quale tipo) sono aumentati, ma nel 2016 (con gli incentivi ridotti al 40%) stanno diminuendo. E’ presto per dare un giudizio definitivo, ma questo calo induce a pensare che le assunzioni non fossero così “stabili” come ci viene detto.
Abbiamo visto che il Jobs Act ha contribuito ad aumentare le assunzioni nel 2015; sarebbe un parziale successo, ma è del tutto vero? Il presidente dell’INPS, Tito Boeri, ha dichiarato che: “nel 2014-2015 abbiamo identificato 700 aziende fasulle e 30mila finti lavoratori”. Quindi il tanto decantato effetto positivo del 2015 era in parte drogato dalla contabilizzazione di “lavoratori fantasma” cioè contratti fasulli al solo scopo di usufruire degli sgravi, ma non basta! I voucher, altra forma di precariato, sono passati da 7.905.192 del gennaio-febbraio 2014 a 13.511.749 del gennaio-febbraio 2015, con un incremento del 71% e nel primo bimestre 2016 si è avuto un ulteriore incremento del 45% (per un totale di 19.618.220 voucher venduti). Insomma, la vera differenza in termini occupazionali è data dall’utilizzo dei voucher, cioè dall’aumento dei precari!
Vediamo come si è modificata, in termini percentuali, la distribuzione delle tipologie contrattuali in quest’ultimo anno:
tipologia
Elaborazioni su dati ISTAT
Si vede che la dinamica della quota di occupati a tempo indeterminato e a termine tra il 2015 e 2016 è sostanzialmente complementare, quando una sale, l’altra scende e viceversa. Il Jobs Act ha sostanzialmente contribuito a variare le forme di contratto già in essere, ma non a creare nuova occupazione “stabile”. Detto in altre parole: si è trasformato una forma contrattuale in un’altra, più vantaggiosa per il datore di lavoro, e si è incentivato una nuova forma di precariato: il voucher.
Questa trasformazione ha avuto un costo che Marta Fana e Michele Raitano quantificano nel seguente modo: “il costo “di competenza” per il 2015 per le casse dello stato relativo alla decontribuzione, al lordo delle maggiori entrate Ires, ammonta a 3,422 miliardi. Ipotizzando che tutti i contratti durino per l’intera durata degli sgravi, quindi 36 mesi, il costo complessivo della misura, per l’intero periodo in cui resterà in vigore, ammonterebbe a circa 22,6 miliardi di euro”. Non necessariamente tutti i contratti dureranno 36 mesi, per cui una stima più cautelativa, sempre ad opera di Fana e Raitano, prevede una spesa complessiva intorno ai 14 miliardi di euro.
Vi pare un successo spendere indicativamente 14 miliardi di euro per trasformare dei contratti a tempo determinato in contratti “a tempo indeterminato” che possono essere rescissi a piacimento e per introdurre nuove forme di precariato?!? Eppure il Jobs Act ha avuto anche un altro effetto.
Elaborazioni su dati INPS
Dal grafico si vede che, nel 2016 (linea rossa), le retribuzioni medie dei nuovi contratti sono diminuite rispetto all’anno precedente (linea blu) ed anche rispetto al 2014 (linea verde). In base alla teoria economica, con la disoccupazione tendenzialmente in calo, i salari e gli stipendi dovrebbero aumentare, invece sono diminuiti. Perché? Il Jobs Act, riducendo le garanzie dei lavoratori, ha contribuito a ridurre la conflittualità e conseguentemente i salari e gli stipendi sono diminuiti in base al principio: “o ti accontenti di prendere meno, o ti caccio”.
In sintesi: grazie il Jobs Act stiamo spendendo indicativamente 14 miliardi per trasformare dei contratti a tempo determinato in contratti “a tempo indeterminato” (solo nominalmente), aumentare a dismisura il precariato costituito dai voucher (che creerà grossi problemi al sistema pensionistico) e, soprattutto, per ridurre i salari e gli stipendi.

mercoledì 18 maggio 2016

LA MAGGIORANZA DEI GIOVANI AMERICANI OGGI RIFIUTA IL CAPITALISMO

In ciò che appare come un rifiuto dei principi fondamentali dell’economia americana, un recente sondaggio mostra che la maggior parte dei giovani rifiuta il capitalismo.
Il sondaggio, condotto dall’Università di Harvard, è stato condotto sui giovani dai 18 ai 29 anni di età, e ha trovato che il 51 percento degli intervistati è contrario al capitalismo. Solo il 42 percento è a favore.
Non è tuttavia chiaro in che misura i giovani intervistati preferiscano un certo sistema alternativo. Solo il 33 percento dice di essere a favore del socialismo. Il sondaggio ha un margine di errore del 2,4 percento.
I risultati del sondaggio sono difficili da interpretare, hanno notato gli esperti. Il capitalismo può significare cose diverse per persone diverse, e la generazione dei più giovani, in generale, è certamente delusa dalla situazione attuale.
In altri termini, dire che la maggioranza dei giovani intervistati nel sondaggio dell’Università di Harvard non è favore del capitalismo significa dire che i giovani elettori di oggi sono più attenti ai difetti del libero mercato.
“La parola ‘capitalismo’ non significa più la stessa cosa di un tempo“, ha detto Zach Lustbader, dell’Università di Harvard e tra i ricercatori coinvolti nel sondaggio pubblicato questo lunedì. Per coloro che sono nati durante la Guerra Fredda, il capitalismo significava libertà dall’Unione Sovietica e da altri regimi totalitari. Per coloro che sono nati più recentemente, il capitalismo ha significato la crisi finanziaria, dalla quale l’economia globale non si è ancora completamente ripresa.
Un successivo sondaggio condotto su persone di tutte le età, ha trovato che anche gli americani più anziani sono in una certa misura scettici rispetto al capitalismo. Solamente tra gli intervistati con 50 anni o più si trova che la maggioranza è a favore del capitalismo.
Sebbene i risultati siano sorprendenti, i risultati del sondaggio dell’Università di Harvard sono in linea con altre ricerche recenti che mostrano ciò che gli americani pensano del capitalismo e del socialismo. Nel 2011, per esempio, il Pew Research Center già riportava che, in generale, i giovani tra i 18 e i 29 erano delusi e frustrati dal sistema del libero mercato.
In quel sondaggio, il 46 percento degli intervistati aveva un’idea positiva del capitalismo, ma il 47 percento aveva un’idea negativa — la domanda era posta in termini più ampi rispetto a quelli del sondaggio dell’Università di Harvard, nel quale si chiedeva invece esplicitamente se gli intervistati fossero a favore o meno del sistema. Riguardo il socialismo, il 49 percento dei giovani del sondaggio condotto dal Pew Research Center aveva un’idea positiva, e solo il 43 percento aveva un’idea negativa.
Lustbader, giovane di 22 anni, dice che l’incupirsi dell’idea del capitalismo si vede dal modo in cui i politici parlano dell’economia. Quando i Repubblicani — un tempo i paladini della libera impresa — usano la parola “capitalismo” oggi, di solito è per lamentarsi del capitalismo clientelare, dice Lustbader.
“Oggi non si sentono più le persone di destra difendere le loro politiche economiche usando quella parola“, ha aggiunto.
Resta da capire se gli atteggiamenti dei giovani verso il socialismo e il capitalismo implichino che essi stanno rifiutando il libero mercato per principio o se esprimano più semplicemente un’ampio senso di delusione verso un sistema economico nel quale i redditi delle famiglie sono in calo da 15 anni.
Sulla domanda specifica su quale sia il miglior modo di organizzare l’economia, per esempio, le idee dei giovani sembrano contrastanti. Solo il 27 percento crede che il governo debba svolgere un ruolo maggiore nella regolazione dell’economia, secondo quanto riportato dal sondaggio di Harvard, e solo il 30 percento ritiene che il governo debba intervenire maggiormente per ridurre le disuguaglianze di reddito. Inoltre, solo il 26 percento ritiene che la spesa pubblica sia un metodo efficace per aumentare la crescita economica.
Ad ogni modo, il 48 percento degli intervistati ritiene che “la copertura sanitaria di base deve essere un diritto garantito ad ogni cittadino“. Il 47 percento è d’accordo con l’affermazione che “le necessità fondamentali, come l’alimentazione e l’alloggio, sono un diritto che il governo dovrebbe garantire a chi non è in grado di pagarseli da solo“.
“I giovani stanno dicendo che ci sono problemi e contraddizioni nel capitalismo“, ha detto Frank Newport, caporedattore di Gallup, quando gli abbiamo chiesto di commentare i dati. “Di certo non ho idea di cosa gli passi per la testa“.
John Della Volpe, capo sondaggista ad Harvard, è andato personalmente a intervistare un piccolo gruppo di giovani per capire più a fondo la loro opinione verso il capitalismo. Gli hanno risposto che il capitalismo è ingiusto ed esclude le persone anche quando queste si impegnano e lavorano duramente.
“Non stanno rifiutando il concetto,” ha detto Della Volpe. “Ciò che rifiutano è il modo in cui il capitalismo viene oggi praticato, è questo che non vogliono“.

martedì 17 maggio 2016

Medio Oriente. Cent'anni di Sykes-Picot

Cento anni fa, oggi, la Gran Bretagna e la Francia tracciavano una linea attraverso il Medio Oriente che sarebbe diventata il confine tra Siria e Iraq, con un nodo alla fine di essa che sarebbe diventato Israele. Si può quasi respirare il senso di fiducia ventilata dietro al cosiddetto accordo Sykes-Picot dal verbale della riunione in cui è stata discussa l’idea:
“Che tipo di accordo ti piacerebbe avere con il francese?” Arthur Balfour, il ministro degli Esteri, chiese a Sir Mark Sykes, un colonnello brillante ma incostante, appena tornato da un tour della regione. “Vorrei tracciare una linea dalla ‘a’ di Acri fino all’ultima ‘k’ di Kirkuk”, rispose Sykes. Così il destino di milioni di persone è stato modellato dal modo in cui una stampante aveva organizzato alcuni nomi di località su una mappa.
Non è stato il primo incontro sfortunato che Sykes ha avuto con una mappa. Nel gennaio del 1915 scrisse una lettera fatidica a Winston Churchill invitandolo a prendere Costantinopoli (oggi Istanbul). Sykes sottolineava che se la Gran Bretagna e la Francia avessero preso la principale città dell’Impero Ottomano, questo sarebbe crollato, e l’influenza tedesca in Oriente sarebbe cessata. Non solo: sarebbe stato possibile invadere la Germania attraverso i Balcani.
“Entro giugno potreste combattere verso Vienna,” Sykes consigliò, “e potreste mettere il vostro coltello vicino agli organi vitali del mostro e, forse, potreste raggiungere la linea Mulhausen – Monaco – Vienna – Cracovia prima dell’inverno”. Vale la pena scorrere questa linea – Sykes era molto appassionato di linee – con il dito. Per arrivarci, la Gran Bretagna avrebbe dovuto sottomettere l’intera regione balcanica. Per cominciare, si sarebbero dovute sconfiggere le truppe ottomane in Turchia, in un luogo chiamato Gallipoli. “Non è così chimerica come può sembrare,” Sykes scrisse a Churchill. Quaranta mila soldati morirono cercando di dargli ragione, ma non ci riuscirono.
Quando lo Stato islamico ha fatto esplodere i posti di frontiera tra l’Iraq e la Siria nel 2014 ha dichiarato la “fine all’era Sykes-Picot”. Ma non c’è bisogno di essere un terrorista per opporsi alla mentalità imperiale che ha spinto all’accordo. Il disegno arbitrario dei confini a dispetto della geografia, dell’etnia e del senso comune è diventato il segno distintivo dell’imperialismo nel XIX e all’inizio del XX secolo.
Se, oggi, i curdi stanno cacciando l’Isis dal nord della Siria, con le donne comuniste a capo scoperto in prima linea, è – in parte – a seguito dell’eredità di Sykes. Nel 1915, Sykes assicurò al governo britannico che “a est del Tigri i curdi sono pro-arabi”. Il Kurdistan venne inglobato all’interno di una zona di controllo francese e, nel momento in cui l’ordine del dopoguerra veniva suggellato a Versailles nel 1919, i curdi erano diventati non-persone.
La famosa corsa in matita di Sykes attraverso il mondo arabo, in combinazione con il suo entusiastico sostegno della dichiarazione di Balfour del 1917 in favore di uno stato ebraico in Palestina, lo rendono uno dei pochi personaggi britannici ad aver esercitato un’influenza strategica nel ventesimo secolo. Influenza strategica nata dalla conoscenza di prima mano e dall’esperienza. Sykes era cresciuto nel mondo arabo. La sua garanzia al primo ministro Herbert Asquith che il “fuoco spirituale” del panarabismo si trovasse in Arabia Saudita, mentre il suo “potere organizzativo intellettuale” si trovasse in Siria, Palestina e Beirut era ben intuita.
Ma la sua “competenza” fa sorgere una domanda: come può una persona tanto ben informata sbagliare così? A leggere i documenti di Sykes oggi, si osserva la tragedia di un intelletto incatenato da manie di superiorità. Sykes ha lavorato sul presupposto, al centro di tutti gli imperialismi, che i popoli assoggettati si comportano solo in base alle loro “caratteristiche” etniche o nazionali, mentre le potenti nazioni bianche agiscono in base al libero arbitrio.
Paradossalmente, per qualcuno il cui nome è stato odiato da generazioni di arabi, Sykes idolatrava la cultura araba. In primo luogo perché credeva che non fosse rivoluzionaria, in contrasto con il nazionalismo di Turchia e India, dove il problema erano “un sacco di poveri che hanno ottenuto un po’ di educazione e maggiori ambizioni”. In secondo luogo, perché credeva che potesse comprendere entrambe le ali dell’Islam, oltre al cristianesimo, e tollerare gli ebrei.
L’unica caratteristica nazionale di cui Sykes e la sua generazione sembravano non accorgersi era la propria. L’imperialismo li aveva trasformati in stupidi ottusi che pensavano che, disegnando linee, avrebbero potuto controllare la storia. Quello che non sono riusciti a immaginare è che, in primo luogo, la Turchia avrebbe sviluppato una coscienza nazionale laica e moderna. Ciò significa che la loro scommessa a senso unico contro l’Impero Ottomano durante la Prima Guerra Mondiale si è rivelata inutile. Il nazionalismo turco laico avrebbe modellato la regione così come il panarabismo nei 100 anni a venire.
In secondo luogo, anche se hanno capito bene l’Islam, Sykes e la sua generazione lo hanno considerato come del tutto secondario a etnia, lingua e tradizione politica.
In terzo luogo, non sono riusciti ad anticipare l’emergere dell’anti-imperialismo: nel momento in cui gli “uomini molto poveri” avessero avuto un’istruzione, e fossero stati inseriti nelle città e nelle fabbriche, sarebbero stati loro a costruire la storia e la classe degli ufficiali bianchi sarebbe stata a guardare.
In quarto luogo, non sono riusciti a immaginare che, un anno dopo Sykes-Picot, una rivoluzione operaia in Russia, diffondendosi al Caucaso, avrebbe liberato gran parte del mondo esotico e remoto di cui erano ossessionati: non solo dall’imperialismo, ma anche dal capitalismo.
Oggi, la lezione più facile da imparare da Sykes-Picot è: non disegnare linee arbitrarie su una mappa. Popoli e nazioni devono avere il diritto all’autodeterminazione. Questo è stato il principio che il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson aveva illustrato quando l’America era entrata in guerra, e che ha obbligato i governi britannico e francese a nascondere l’esistenza della mappa di Sykes a Washington.
La lezione più difficile da imparare è: mai fare affidamento su stereotipi nazionali; mai ridurre i conflitti del mondo solo all’etnia. Ci sono anche classe, sesso, religione, politica e storia: attributi che Sykes ha dato per scontati mentre cercava di prevedere come i sottogruppi del Medio Oriente avrebbe reagito alla politica britannica.
La lezione finale è: accettare la responsabilità. L’accordo Sykes-Picot è stato concepito nella stessa stanza in cui David Cameron si trova ora. Il passare del tempo non deve assolverci dall’impegnarci con le situazioni che abbiamo incasinato.

lunedì 16 maggio 2016

Lobby senza regole

Quarant’anni, oltre 50 proposte di legge (18 di questi nell’ultimo anno), nessun risultato. Questo il triste bilancio della normativa italiana per regolamentare i rapporti tra gruppi d’interesse e decisori politici. L’effetto è un immenso vuoto legislativo, complice anche l’assenza di una legge sul conflitto interessi, che, sostanzialmente, confina il lavoro del lobbista in un territorio semiclandestino. Non ci sono regole d’ingaggio, non ci sono “carte d’identità” dei portatori d’interesse. Così chi – legittimamente – vuole porre all’attenzione dei palazzi della politica alcuni argomenti, deve necessariamente fare leva su amicizie, rapporti personali e, in qualche caso, sotterfugi poco puliti.
L’ultimo tentativo di colmare questo vuoto è una proposta di legge che ha come primo firmatario l’ex parlamentare del Movimento 5 stelle, oggi gruppo Misto, Luis Orellana. Da due anni attende di arrivare in aula. “Ora è ferma alla Commissione affari istituzionali al Senato, sono stati depositate almeno 350 proposte di emendamento. Siamo in attesa che si passi alla fase di discussione, sempre in Commissione”, spiega a Radio Popolare Federico Anghelè, coordinatore di Riparte il futuro, la campagna anticorruzione promossa da Libera. Tra i dati significativi che avrebbe questa proposta di legge, nel caso di approvazione, è l’introduzione di un Registro dei lobbisti. “I riferimenti principali sono gli stessi di altre leggi sulle lobby approvate in altri Paesi – aggiunge Anghelè -. Sarebbe uno strumento fondamentale”.
I tempi per uscire dal pantano, però, sono ancora molto lunghi. Non c’è un orizzonte preciso. E le contrarietà che rallentano sono soprattutto da parte della politica, più che da quella dei lobbisti. Per loro infatti legge potrebbe essere il viatico per uscire dalla “clandestinità” e per sfidarsi tra loro ad armi pari. Altrimenti per le lobby più grandi sarà sempre più facile.
Al momento la proposta di legge è sproporzionata contro i lobbisti, secondo gli osservatori di Riparte il futuro. Infatti le pene più significative sono contro di loro: dai 20 mila fino ai 200 mila euro, più la cancellazione dal Registro. Per i politici? Nulla. Sarebbero sanzionati tutti gli incontri “fuori programma” in cui si finisce a parlare di affari. Ma a stabilire la liceità o meno di un incontro sarebbe un Comitato di Garanzia, formato da politici, che risponde solo al segretario generale della Presidenza del Consiglio. Il rischio, quindi, è che controllato e controllore coincidano.
Rispetto ad altre legislature, comunque si è fatto un enorme passo avanti. Il 26 aprile alla Camera la Giunta per il Regolamento della Camera dei Deputati ha introdotto un Regolamento sperimentale. Positivo certamente, ma non abbastanza. Le criticità sollevate da Riparte il futuro sono le stesse della proposta di legge. Servirebbe prima di tutto un organismo garante terzo (come potrebbe essere l‘ANAC di Raffaele Cantone); servirebbe una proporzionalità delle sanzioni anche sui politici; non prevede che i lobbisti presentino le voci di spesa per le loro attività.
La strada per la trasparenza è ancora complicata.

venerdì 13 maggio 2016

Fenomenologia di Maria Elena Boschi

A cinquantacinque anni dalla celebre Fenomenologia di Mike Bongiorno di Umberto Eco, maturano i tempi per una Fenomenologia di Maria Elena Boschi. Magari in modo che non venga accolta come l’originale: come una sorta di pietra miliare dell’accusa di arroganza intellettuale contro il sapere comune. Del resto l’accusa di arroganza, oggetto contundente usato alla meglio nei confronti della critica, è l’ultima arma di chi vuol sottrarsi all’analisi dei propri comportamenti. Questa accusa è stata infatti rispolverata da Matteo Renzi, il mentore politico del ministro Boschi, nei confronti di tutto il sapere giuridico che ha messo a critica la sua riforma costituzionale low cost–low concept. Infatti, si sa, Renzi ama sfuggire ai giudizi articolati. L’epiteto di “parrucconi”, verso i giuscostituzionalisti, che tra l’altro credevamo scomparso dalla fine degli anni ’60, se può essere quindi usato da Renzi figuriamoci dalla ministro Boschi. Il punto è che la ministro Maria Elena, oltre a promuovere le “riforme”, si adatta già benissimo ad una delle considerazioni che Eco faceva sulla tv dei primi quiz e che torna comoda anche nella politica: siamo in una situzione in cui è l’annunciatrice la vera star piuttosto che la persona annunciata o lo spettacolo stesso. Ci si faccia, infatti, caso: grazie ad una comunicazione a reti unificate, che insiste sul primato della comunicazione di governo, lo spettacolo è Boschi che annuncia una polemica, un personaggio, un passaggio parlamentare. Non vi è mai un rapporto rovesciato.
Certo si dirà: il processo dove oggetto e contenuto scompaiono in tv, a favore del primato dell’annunciatrice è patriarcale, prepolitico e prefemminista prima, con Mike Bongiorno, e patriarcale, postpolitco e postfemminista poi con Berlusconi (un tempo socio di Mike Bongiorno, tra l’altro). Renzi e il suo casting semmai vengono dopo. Non è propriamente così. Nella Boschi, come in tutto il renzismo, scompaiono i tratti sovraordinari dei personaggi televisivi. Vince, come nella Fenomenologia di Mike Bongiorno, l’ordinario ed è quello che fa spettacolo. L’ordinario di una Italia graziosa, ordinata, sveglia e compita che la Boschi interpreta come annunciatrice, quindi personaggio tra i principali, del renzismo (malattia senile, e provinciale, del liberalismo ma qui si andrebbe lontani). Il confronto tra la Boschi e la Carfagna, sul ruolo di annuciatrice protagonista dello spettacolo del politico, è infatti pienamente della prima, mentre alla seconda tocca solo quello del modello tutto da sgrezzare. Alla sua nomina da ministro Mara Carfagna aveva tutto un passato da arrivista della politica il cui percorso, dalla lap-dance ai vertici di Forza Italia, ne impediva l’identificazione come beata angelica dei percorsi istituzionali. Identificazione invece pienamente riuscita con la Boschi la quale non è però beata angelica perché santa ma perché graziosa, ordinata, sveglia e compita. Un modello, prefemminista e da epoca Mike, che ha ancora efficacia comunicativa, presa popolare –presso l’elettorato anziano e chi giovane si rispecchia, oggi, in questa tipologia- che rende possibile il pieno funzionamento di Maria Elena Boschi nel personaggio (sovrano) dell’annunciatrice.
Maria Elena Boschi, come il Mike Bongiorno di Eco, accetta tutti i miti della società e tutte le convenzioni sociali. Rispetta tutti per poter parlare con una semplicità che non deve apparire banalità. Ma come un qualcosa che sta al di sopra delle parti, con serenità olimpica e sovrana. Ed è a quel punto che tutta la banalità del linguaggio della Boschi –sempre educato, rispettoso e civile- rivela la sua forza velenosa. Quella che le permette di emettere sentenze, cortesi quanto condensate al curaro, contro gli avversari politici. Cuperlo? Ha il diritto di fare quello che vuole (cortesia) ma sta votando come Casa Pound (curaro). Le riforme? Le abbiamo discusse tutti assieme (cortesia) e adesso chi è contrario blocca il paese (curaro). Il sindaco di Livorno? Ha il diritto di comportarsi come vuole (cortesia) ma se fosse stato un sindaco Pd i 5 stelle per lui avrebbero chiesto le dimissioni (curaro). Le nuove leggi sulle intercettazioni? Nessuno vuole bloccare la magistratura (cortesia) ma servono leggi migliori (curaro, del genere sottile). Si potrebbe proseguire fino all’infinito, o partire dal giorno della nomina della Boschi, o mettere in campo le categorie della retorica per analizzare meglio le modalità di argomentazione del ministro delle riforme. E’ forse però meglio ricordare che, in questo modo di argomentare, la Boschi è degna figlia di un bancario: svolge una serie di partite doppie (mettendo sempre in ogni precisa voce quanto dovuto) per saldare sempre positivamente il bilancio a proprio favore. Il saldo consiste nelle quote di veleno da distribuire agli avversari, spettacolarizzate dai media, che la esaltano nel ruolo di annunciatrice. Certo, per i risparmiatori di Banca Etruria non c’è stata nè cortesia nè curaro, solo indifferenza, solo la difesa del padre ma, si sa, anche le annunciatrici hanno una famiglia. E’ un tratto che completa la loro umanità tricolore e popolare.
Corradino Mineo, senatore fuoriuscito dal Pd, al momento di staccarsi dal partito disse, alludendo ai rapporti tra Boschi e Renzi nel consiglio dei ministri: “so quanto Renzi è subalterno a una donna bella e decisa”. Se questa fonte venisse confermata l’anima politica del renzismo reale si rivelerebbe per come é: una forma dello spettacolo la cui centralità è tutta schiacciata sull’annunciatrice. Per mettere in secondo piano le banalità che dice (e gli orrori di una società italiana alla paralisi). Del resto come per Mike il vero successo dei quiz è stato l’uso disinvolto e cortese delle banalità, per la Boschi questo genere di successo traghetta in politica. Con l’aggiunta di quelle dosi di veleno usate da chi sa che la politica spettacolo è solo un gioco di trame di corte compiuto con altri mezzi. Quelli della diretta.

giovedì 12 maggio 2016

Il referendum di ottobre è un passaggio cruciale

Ci serve ancora una Costituzione? Stando alla strategia del governo Renzi, alle affermazioni degli opinionisti di giornali come il Corriere della sera e la Repubblica, alla distrazione e al disinteresse di molti cittadini, parrebbe di no. Il messaggio non è tanto quello di “semplificare” l’architettura delle istituzioni, quanto quello di tagliarne buona parte, lasciando al governo tutto il potere. La mentalità dominante è plasmata dalla madre di tutte le semplificazioni, la più volgare: la società è mercato, la modernità è mercato, l’efficienza è mercato, il progresso è mercato. Il resto non serve. Perciò Costituzione, Parlamento, Corte Costituzionale, magistratura, Statuto dei lavoratori, sindacati, scuola e università (intese come istituzioni in senso educativo e non come batterie di polli per il mercato) sono residui del passato. Matteo Renzi si è dato l’incarico di “riformare” l’assetto della Repubblica secondo i criteri di tale mentalità veteroliberista all’italiana.
Il partito di cui è capo si presenta come alfiere delle “riforme”. Come ha fatto il Partito Democratico a scendere così in basso? Rinnegando le radici morali e culturali dei due partiti da cui è nato, valorizzando l’incompetenza, erigendo a verità le banalità di un’economia per sentito dire, lasciando spazio ai rampanti. Da questo punto di vista, se si considera la nazione italiana solo dal versante dei suoi difetti peggiori (opportunismo, qualunquismo, conformismo, poca confidenza con lo studio e la cultura, scarso senso delle regole, esangue coscienza etica) il Partito Democratico è già a pieno titolo il Partito della Nazione.
La strategia “riformatrice” del governo sta demolendo i fondamenti della democrazia. Così si prepara un futuro rispetto al quale persino la situazione della vita pubblica nell’Italia liberale precedente al fascismo ci sembrerà una condizione preferibile. La “riforma” del senato, nell’incrocio con quella elettorale, sancisce un processo di concentrazione del potere nelle mani di un solo partito, toglie la possibilità che le classi popolari e le idee più avanzate abbiano rappresentanza, riduce gli spazi democratici a partire dalle prerogative del Parlamento.
Se si contestualizza tale tendenza ricordando la crescente distanza da qualsiasi forma di partecipazione politica di gran parte della popolazione, emerge l’immagine di una piramide nel deserto. Il deserto è quello della democrazia polverizzata, la piramide è quella della concentrazione dei poteri. Al suo vertice, però, non c’è veramente il presidente del Consiglio, perché l’“editore di riferimento” -direbbe uno come Bruno Vespa- resta il potere finanziario internazionale, quello che decide cosa fare dell’Italia a seconda dei suoi interessi. Per salvarsi da questa rovina possiamo fare molto. Bisogna anzitutto riaffermare che sono indispensabili una Costituzione integra, un Parlamento vero, una Corte Costituzionale e una magistratura indipendente, lo Statuto dei lavoratori e un sindacato di tutela dei diritti, una scuola e una università al servizio delle nuove generazioni. In tale prospettiva il referendum di ottobre sulla “riforma” costituzionale è un passaggio cruciale. Non per dire che si ama o si odia Renzi, come egli stesso ha detto dando prova del consueto senso di centralità della propria persona, ma per scegliere di riprendere la via della democrazia. Quelli che desiderano un’economia umana, una società più giusta, un’Italia in cui i giovani possano restare e tutti possano vivere decentemente devono impegnarsi sin da subito per questo appuntamento. Bisogna uscire di casa e incontrarsi, internet serve ma non basta. Nelle piazze, nelle fabbriche, nelle università, nei consigli comunali e regionali si tratta di confrontarsi, di informare, di motivare, di prepararsi al referendum. E di prendere la parola per chiarire che la via intrapresa dal Partito della Nazione, detto “Democratico”, non ha niente a che vedere con la rinascita etica e civile ed economica del Paese.

mercoledì 11 maggio 2016

L'Italia "ripudia" la guerra ma guadagna su quelle degli altri

Di coerenza la politica italiana non ne vuole proprio sentir parlare, se poi la cosa riguarda la vendita di armi negli altri paesi, allora avanti tutta! I guadagni in questo settore sono talmente alti che si fa di tutto per evitare qualsiasi limite, anche quello imposto dalla legge 185 del 1990, che vieta la vendita l’esportazione e il transito di armamenti verso i Paesi in stato di conflitto e responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. L’Italia ripudia la guerra in casa, per il resto vale tutto, tanto che la vendita di armamenti a visto un aumento del 200% nel 2015, a fronte dei 2,6 miliardi di euro del 2014 si è arrivati ai 7,9 miliardi dello scorso anno.
La maggior parte delle aziende italiane coinvolte in questo tipo di mercato (Alenia Aermacchi, GE AVIO, Oto Melara, Piaggio Aero Industries e Industrie Bitossi oltre a ricavare profitto basandosi su vendite prodotte dalle guerre, sono di proprietà o partecipate dal Gruppo Finmeccanica. Il principale azionista è il Ministero dell’Economia e delle finanze, che grazie a più del 30% contro i residui 1/2 punti percentuali degli altri azionisti, di fatto determina l’andamento delle scelte economiche e politiche del Gruppo.
Il ricavato maggiore di queste aziende proviene dalla vendita di: l’aeronautica, l’elicotteristica, l’elettronica per la difesa (avionica, radar, comunicazioni, apparati di guerra elettronica), la cantieristica navale ed i sistemi d’arma (missili, artiglierie).

Gli otto miliardi di euro provenienti dall’indotto guerrafondaio, coinvolge diversi stati: gli Emirati sono al comando della classifica con 304 milioni.
Invece verso l’Arabia Saudita il “made in Italy” autorizzato nel 2015 è salito a 257 milioni dai 163 milioni del 2014. Un aumento del 58% figlio in gran parte delle tonnellate di bombe aeree prodotte nello stabilimento sardo di Domusnovas della Rwm Italia S.p.a. e spedite via aerea e navale da Cagliari tra molte le proteste e denunce – anche alla magistratura – di pacifisti e parlamentari. L’elenco parla 600 bombe Paveway da 500 libbre (per 8,1 milioni di euro), 564 bombe Mk82 da 500 e 2000 libre (3,6 milioni), 50 bombe Blu109 da 2000 libre (3,6 milioni) e cento chili di esplosivo da carica Pbxn-109 (50mila euro).
A questo si aggiunge il forte incremento del valore delle esportazioni italiane verso l’Arabia Saudita che rientrano tra i programmi intergovernativi di cooperazione militare, saliti nel 2015 a 212 milioni dai 172 milioni del 2014. Il principale programma riguarda i cacciabombardieri Eurofighter ( iniziata alcuni anni fa) usati ogni giorno dalla Royal Saudi Air Force nei suoi raid in Yemen.
Segue il Bahrein con una curva crescente da 24 a 54 milioni e subito dopo il Qatar che è passato da 1,6 a 35 milioni, mentre il Kuwait si è aggiudicato 28 cacciabombardieri prodotti direttamente da Finmeccanica.
Lunga è la lista dei clienti internazionali. Uno dei clienti più importanti entrato a far parte degli acquirenti è l’Iraq, che avanza ben 14 milioni di euro per l’acquisto di armi leggere e munizioni firmate Beretta. La Russia accredita armi per un valore di 25 milioni di euro solo nel 2015, che nonostante il continuo embargo post-Ucraina riceve blindati lince dalla Fiat-Iveco. Il Pakistan che solo nel 2014 investiva 16 milioni è arrivato a bruciare 120 milioni all’anno. Anche gli egiziani ringraziano l’Italia e a quest’economia di morte per avergli fornito armi per il valore di 37 milioni di euro.
Ultima ma non meno importante è l’India che solo nel 2015 ha dichiarato un acquisto per 85 milioni di euro utilizzati soprattutto per reprimere la ribellione contadina naxalita.
La Turchia merita un’attenzione maggiore poiché l’investimento di 129 milioni di euro nel 2015, sta di fatto determinando la continua persecuzione del popolo curdo poiché esso viene costantemente bombardato dagli stessi elicotteri T129 costruiti su licenza Finmeccanica.
Si evince infatti un forte conflitto di interessi politici ed economici intrinsechi a questa terribile vicenda. Da un lato l’Europa “sostiene” di intervenire a solo scopo di mediazione del conflitto portando però solo ulteriore guerra e morte, dall’altro l’Italia contribuisce allo sviluppo del conflitto armando la Turchia.
Gli intermediari finanziari che intervengono per tali acquisizioni sono le banche e per quanto le più influenti rimangano per il momento quelle straniere quali Crédit Agricole e Deutsche Bank, l’affermazione di quelle italiane è importante. Intesa Sanpaolo (dal 2 al 7,4%), Unicredit (dal 9 al 12%). A seguire con percentuali inferiori Bnl, Ubi ed un ampio numero di popolari tra cui l’Etruria, addirittura le Poste Italiane. Degna di menzione la Banca Ubae, controllata dalla Libyan Foreign Bank (specializzata in esportazioni di petrolio dalla Libia) dove tra gli azionisti figurano Unicredit, Intesa Sanpaolo, Montepaschi ed Eni. Un esempio questo di una trasversalità di interessi, dalle armi al petrolio.
Le decisioni prese dal Governo Renzi sono tutt’altro che di pace e di risoluzione dei conflitti, nonostante vengano spesso sbandierati sia da lui che dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Quest’ultimo nel ruolo di Ministro della Difesa aveva duramente denunciato lo svuotamento della legge 185/1990, durante il mandato del ’99 dell’allora governo Dalema-Amato, proprio in merito a questo tipo di accordi intergovernativi stipulati nel campo della difesa e dell’import-export dei sistemi d’arma che permettono di raggirare la legge. Consentendo così il continuo bombardamento da parte del regime saudita ai danni dello Yemen: ospedali, scuole e città (tremila vittime di cui un quarto di bambini).

In conclusione la solita immagine del Bel Paese democratico che ripudia la guerra, ma sempre e solo all’interno dei propri territori, perché all’estero invece tutto pare essere lecito: questo è Renzi, questa la parte che gioca insieme al suo entourage.

martedì 10 maggio 2016

Il giorno dimenticato della vittoria

Proprio in questa giornata, 71 anni fa, la Germania nazista firmava ufficialmente la resa con l’Unione sovietica ed è in ricordo della vittoria nella grande guerra patriottica che si svolge la tradizionale nella piazza rossa. Sono passati molti anni, non abbastanza da erodere il ricordo e l’entusiasmo in Russia, quanto basta per aver deformato la memoria degli eventi in Occidente con la sostanziale espulsione dell’Urss da novero dei vincitori del nazismo, sufficienti per non limitarsi alle celebrazioni e cominciare a vedere le cose col senno e l’esperienza di poi.
In realtà la data del 9 maggio è piuttosto stravagante se si pensa che il 30 aprile era morto Hitler, il 2 Berlino era completamente caduta e non esistevano più truppe sufficienti per ritardare in modo significativo l’avanzata dei russi, il 5 il governo provvisorio dell’ammiraglio Doenitz aveva decretato la fine della guerra sottomarina. Ed è in questi giorni che si assiste a un progressivo balletto di rese proprio sul fronte occidentale dove gli alleati angloamericani avanzavano a fatica, in mezzo a rovesci incredibili come quello dell’operazione market garden e dopo che appena tre mesi prima una controffensiva tedesca li aveva quasi circondati: il 2 a Berlino liberata dai russi, i generali Kurt von Tippelskirch e Hasso von Manteuffel, comandanti delle truppe a nord della capitale si arrendono agli americani che non erano ancora giunti sul teatro delle operazioni, anzi erano lontanissimi. Il 4 avviene la resa agli alleati delle truppe di stanza in Olanda Danimarca e Germania nord occidentale, il 5 si ha persino la resa agli americani delle truppe di stanza in Boemia, dove i soldati a stelle e strisce non arriveranno mai . Ma la data chiave è il 6 quando alle 18 si arrende ai russi la fortezza di Breslavia, oggi in Polonia chiave di uno schieramento difensivo che si sperava potesse ancora contenere in qualche modo il grosso delle truppe sovietiche. Un’ora e mezzo dopo la caduta del baluardo il generale Jodl, su indicazione di Doenitz, arriva a Reims, circa duemila chilometri più a ovest per trattare la resa di tutte le truppe tedesche del fronte occidentale con gli emissari di Eisenhower. Dapprincipio il comandante tenta di porre delle condizioni facendo intendere che le stesse truppe dopo la resa agli americani avrebbero potuto essere spostate per continuare ad opporsi ai sovietici.
L’offerta è interessante, è sulla linea di Churchill, ma è ormai inconsistente, poco più di un bluff e così Eisenhower pretende e ottiene una capitolazione totale che gli permette di avanzare a tutto spiano semplicemente minacciando di chiudere le linee occidentali e costringere le truppe tedesche rimanenti ad arrendersi ai russi. Anche questo era un bluff, per nulla al mondo gli americani ancora appena al di là del Reno, salvo che in Bassa Sassonia e in Renania Palatinato, avrebbero permesso che gran parte della Germania fosse presa dai russi. Ma era ormai troppo tardi per trattative che avrebbero avuto un senso ancora pochi mesi prima, così Jodl in tarda notte firmò concordando la cessazione delle ostilità per le 23 dell’8 maggio. Solo il giorno successivo ovvero il 9 il generale Keitel, fedelissimo di Hitler al punto da essere chiamato Lakeitel, cioè lacchè, firmò la resa nelle mani di Zukov.
Tutto questo non per evocare sia pure a volo di uccello gli avvenimenti che hanno portato a una differenza di data nel giorno della vittoria in Europa tra anglosassoni e Russia, ma per mostrare che già nel corso della guerra lo scontro era plurimo, da una parte contro la Germania, dall’altro per contenere la Russia e il possibile contagio comunista. La speranza di una rottura fra gli alleati a cui si aggrappavano, di fronte alla palese sconfitta i gerarchi nazisti nell’ultimo anno, non era poi del tutto insensata visto che in effetti era già in atto una guerra fredda durante la guerra guerreggiata. E oggi il tentativo di escludere completamente il decisivo apporto sovietico alla sconfitta del nazismo, testimonia chiaramente di queste dinamiche.

lunedì 9 maggio 2016

UCRAINA, ECCO CHI FINANZIA LA TV ANTI-PUTIN

La guerra moderna non si combatte più solamente con le armi, ma anche a suon di informazioni, soprattutto false, confezionate per screditare un avversario oppure per avvalorare una tesi che, in realtà, non corrisponde minimamente ai fatti. Prendiamo per esempio il recente caso dei Panama Papers, confezionati – con ogni probabilità – per screditare il Cremlino. Doveva essere il caso mediatico dell’anno. Prime pagine sui giornali per qualche giorno, poi basta. Tutto finito nel dimenticatoio. Ma come è possibile tutto questo? In gergo, si chiama “character assassination“, ovvero il tentativo di diffamare una persona al fine di distruggere la fiducia del pubblico nei suoi confronti.
La rivoluzione in Ucraina è un altro esempio di “character assassination”. Pensiamo alle prime pagine dei giornali di febbraio 2014. Chi manifestava a Maidan lo faceva in nome della libertà e contro un regime corrotto. Viktor Yanukovich era oggettivamente finito, questo va detto, ma non possiamo credere alla storia delle rivolte spontanee.

domenica 8 maggio 2016

L'olio di palma contiene sostanze cancerogene: allerta per i bambini

L'Efsa mette in guardia sui possibili rischi per la salute derivanti da alcune sostanze contenute nell'olio di palma
L'olio di palma contiene 3 sostanze contaminanti tossiche (di cui una classificata come genotossica e cancerogena), che si formano nel processo di raffinazione ad alte temperature (200°C). Per questo il consumo di prodotti alimentari con discrete quantità di olio di palma viene sconsigliato in particolare a bambini e adolescenti. Il verdetto arriva dall'Efsa, Autorità per la sicurezza alimentare europea.
Le sostanze in questione sono l’estere glicidico degli acidi grassi (GE), 3-monocloropropandiolo (3-MCPD) e 2-monocloropropandiolo (2-MCPD). Il problema riguarda anche altri oli vegetali e margarine, ma l’olio di palma ne contiene da 6 a 10 volte di più. Gli alimenti sotto accusa sono: merendine, biscotti, grissini, cracker, fette biscottate, prodotti da forno e cibi per l’infanzia preparati con il grasso tropicale.
“La situazione è seria – denuncia Il Fatto Alimentare - Basta dire che per l’estere glicidico degli acidi grassi (GE), non è stata stabilita una soglia perché trattandosi di una sostanza cancerogena e genotossica non deve essere presente negli alimenti (proprio come succede per il colorante Sudan, la cui presenza anche in dosi minime è motivo di ritiro del prodotto). I GE sono un potenziale problema di salute soprattutto per i bambini e i giovani, e per tutte quelle persone che assumono cibi ricchi di acidi grassi di palma”.
“L’Efsa riferisce che la quantità di GE negli oli e grassi di palma è stata dimezzata negli ultimi 5 anni grazie a modifiche del processo produttivo. In Italia però il consumo di olio di palma negli ultimi 5 anni è quadruplicato per cui il miglioramento è stato vanificato (le importazioni sono passate da 274 mila tonnellate del 2011, a 821 mila tonnellate del 2015 – Istat)”.
L’Efsa ha invece fissato una dose giornaliera tollerabile (DGT) di 0,8 microgrammi per chilogrammo di peso corporeo al giorno per il 3-MCPD, mentre non si hanno abbastanza dati tossicologici per stabilire un livello di sicurezza per il 2-MCPD. Anche in questo caso l’apporto più significativo deriva dall’olio di palma e il parere dell’Efsa è altrettanto severo “le quantità per i bambini e gli adolescenti (fino a 18 anni) superano la dose giornaliera tollerabile e costituiscono un potenziale rischio per la salute”.
In Italia il consumo di olio di palma in Italia ha raggiunto livelli record: in Europa siamo i principali utilizzatori e i consumi sono da record 12 grammi al giorno pro capite.

venerdì 6 maggio 2016

TTIP ovvero il via libera alla dittatura del mercato

Erano anni che il “TotoTTIP” formulava ipotesi e considerazioni sui potenziali contenuti delle contrattazioni in corso tra Unione Europea e Stati Uniti sulla partnership transatlantica su investimenti e barriere tariffarie al commercio bilaterale, ponendo le basi per la realizzazione dell’area di libero scambio più grande del mondo, che coinvolgerebbe quasi la metà del PIL mondiale. Oggi pochi dubbi restano circa la direzione intrapresa tra i contraenti su una vasta gamma di tematiche che andranno direttamente ad intaccare la vita dei cittadini di ambo le parti. Ciò perché fino ad ora i media convenzionali non si sono mai interessati a discutere dell’argomento, lasciando tale onere a tutti quegli organi indipendenti che per mesi si sono battuti per portare il grande pubblico a fare chiarezza a riguardo. Ora che però il colosso ambientalista Greenpeace ha pubblicato sul canale olandese del suo sito una serie di trascrizioni (quindi non si tratta dei documenti in originale) che fanno riferimento alle innumerevoli clausole su cui i mandatari delle due parti in causa stanno discutendo da diversi anni. Si tratta di 248 pagine di articoli, clausole e appendici nei quali si riportano i termini sui quali già si è raggiunto un accordo, così come tutti quelli sui quali Bruxelles e Washington sono ancora lontani dal convergere.
Il linguaggio utilizzato è estremamente tecnico, lontano da un registro accessibile ai più, e richiede una disamina molto attenta per riuscire a comprenderne il senso di radicale mutamento che esso contiene. Tra i punti di principale interesse, infatti, ritroviamo la questione delle misure sanitarie e fitosanitarie che le merci scambiate tra le due zone devono soddisfare e – si legge – in quale modo si debba procedere affinché la loro difformità non costituisca ostacolo o danno per il Paese esportatore nei confronti del mercato di destinazione delle stesse. Si tratta sostanzialmente di una uniformazione dei regolamenti in seno alle norme di carattere commerciale, che va ad intaccare il settore agricolo e dell’allevamento. Si sa che nel Vecchio Continente si sia sempre lavorato affinché si garantisse una maggiore tutela della salute pubblica applicando degli standard qualitativi sensibilmente più elevati rispetto al bacino d’utenza americano, dove invece le aziende non sono tenute a riportare sull’etichetta informazioni relative all’utilizzo di antibiotici o ormoni steroidei sulle carni da macello, così come di determinati pesticidi e fertilizzanti nella coltivazione di frutta e ortaggi. La seconda questione rilevante interessa le procedure di risoluzione delle controversie in ambito di conflitto di interessi tra stati e investitori privati in un paese straniero, tramite l’istituzione di tribunali speciali ISDS – presenti in ogni trattato di libero scambio ad oggi stipulato. Tale prassi prevede che, qualora la legge di uno stato vada a sfavorire – quindi a creare un danno economico – un investitore straniero, quest’ultimo ha il diritto di presentare ricorso a questa corte (che, per inciso, non ha una sede fisica e i giudici sono generalmente degli avvocati nominati di volta in volta), domandando al governo un risarcimento pecuniario. Lo storico di tali procedure mostra come, nella realtà dei fatti, in oltre due terzi delle centinaia di controversie istruite, si sia giunti ad un accordo economico di compromesso o favorevole al privato. Il significato politico di questa congiuntura – con un pizzico di provocazione – consta di un “depotenziamento” dello strumento di governo, che si ritrova condizionato agli interessi dei gruppi di pressione della sfera economica privata.
In un senso puramente etico, anch’esso posto nero su bianco durante i 12 round di contrattazione, ciò che svilisce il senso di protezione civica e sociale che le istituzioni dovrebbero adottare è proprio la tendenza business-oriented che questo trattato tende a rimarcare. Nei vari capitoli del Trattato, infatti, la preoccupazione principale messa sul tavolo dal team di Dan Mullaney (rappresentante della parte americana), riguarda la rimozione di tutti gli ostacoli normativi che possano andare ad intaccare il corretto svolgimento delle attività commerciali, incluse quelle di carattere sanitario e ambientale, ponendo quindi in secondo piano le questioni potenzialmente dannose per la salute pubblica in senso lato. Inoltre, il significato sul piano geopolitico di questo accordo si colloca in un contesto molto più ampio di assoggettamento del mercato globale alle direttive di matrice statunitense. In parallelo, infatti, Washington si era prodigato per la ratifica – già avvenuta – di un omologo trattato di libero scambio sulla West Coast, il TPP, che vede coinvolti i principali partner commerciali americani dell’area del Pacifico, Australia e Giappone in primis. Va da sé che una strategia di questo genere va ad inserirsi in un piano di arginamento delle principali potenze concorrenti in ambito politico e commerciale, cioè Russia e Cina, entrambe mal viste dalle parti di Washington per le più disparate ragioni. Il disegno politico di Putin prevedeva la creazione di una vasta area economico finanziaria in seno all’heartland europeo, l’Unione Economica Eurasiatica, arenatasi in malo modo in seguito al degenerare degli eventi che hanno prodotto attrito tra Bruxelles e Mosca in territorio ucraino, innescando il meccanismo di sanzioni per il quale tuttora paghiamo dazio. Il fronte cinese, invece, non ha necessitato dell’utilizzo di strumenti di hard power, complice anche la lieve e propagandata frenata della crescita economica cinese, di cui attendiamo ulteriori sviluppi nel breve-medio periodo.
Negare conseguenze dolorose per l’Europa qualora questa barbarie normativa venisse approvata sarebbe indubbiamente ipocrita, vista anche la clandestinità che ha contrassegnato fino allo scorso anno i contenuti delle contrattazioni e la totale assenza della copertura mediatica di un accordo negoziato privatamente, sebbene si tratti di materie di interesse pubblico, andando ad intaccare la vita ciascun privato cittadino. Manlio Dinucci ha paragonato il TTIP ad una “NATO economica”, come una sorta di chiusura di un cerchio che stringe la sua presa sull’Europa in maniera sempre più asfissiante. Il 7 maggio, a Roma, si terrà la prima manifestazione italiana contro il TTIP: se anche questo Paese si è svegliato, lo sapremo presto.