giovedì 31 maggio 2018

La discesa agli inferi dell’Italia” sulla stampa internazionale

La crisi italiana continua ad avere un posto di primo piano sulla stampa estera, soprattutto per la sua ricaduta immediata sull’Eurozona e sui mercati di tutto il mondo che hanno chiuso con grosse perdite. Il più melodrammatico è il quotidiano economico francese “Les Echos” che parla addirittura di discesa agli inferi dell’Italia sui mercati.
Il Wall Street Journal e il Financial Times dedicano grandi titoli a questo tema. Azioni Usa in caduta mentre le sofferenze italiane turbano i mercati”, scrive il Wall Street Journal online parlando di “Italia scintilla della paura globale della nuova crisi dell’euro”.
I mercati finanziari globali colpiti dalla crisi italiana”, questo uno dei titoli di apertura del Financial Times online, che torna anche “sull’avvertimento agli elettori italiani” da parte del Commissario europeo Oettinger. Il giornale scrive che: “La terza economia più grande dell’eurozona potrebbe ora affrontare elezioni anticipate in cui si organizzerebbero campagne per la definizione di linee pro e anti-euro, con conseguenze che avranno grandi conseguenze sul futuro della moneta unica e della stessa UE”.
Passando ai giornali tedeschi, risaltano i titoli della Welt: “Il più grande attentato alla Costituzione del dopoguerra” e ancora “L’Italia fa impazzire i mercati”.
E poi la Suddeutsche Zeitung secondo cui “E’ arrivata l’ora della resa dei conti”.
Il Guardian scrive che “la crisi della zona euro in Italia non prevede alcuna soluzione facile alla Banca Centrale Europea”
Per il giornale francese Le Monde la crisi italiana ha reso Mattarella l’arbitro del gioco politico, mentre definisce Cottarelli come la bestia nera dei populisti.

mercoledì 30 maggio 2018

I mercati insegneranno agli italiani come votare”. Parola di commissario “tetesco”

Non fosse bastato il colpo di Sergio Mattarella, ora intervengono direttamente i boss della Commissione Europea a spiegare che non solo “la sovranità” appartiene ormai ai mercati globali, ma anche il diritto di voto individuale deve essere reimpostato integralmente.
A spiegarlo – secondo quanto anticipa su Twitter il giornalista Bernd Thomas Riegert, che ha intervistato il Commissario Ue a Strasburgo per l’emittente Dwnews – è il commissario europeo al Bilancio, non a caso tedesco, Gunther Oettinger: “I mercati insegneranno agli italiani a votare nel modo giusto“. Ossia come dicono loro, altrimenti non vale più…
Nel suo delirio di onnipotenza come portavoce dei “mercati” – con cui intrattiene probabilmente rapporti continui, vista la straripante presenza di lobbisti legali a Bruxelles e Strasburgo – Oettinger si lascia addirittura sfuggire i dettagli di una strategia intenzionale concordata tra Unione Europea e “mercati”: Lo sviluppo negativo dei mercati porterà gli italiani a non votare più a lungo per i populisti“. E’ bene sapere che in questo termine, a Bruxelles, si identificano sia alcuni partiti di destra, sia o forse soprattutto quelli di sinistra, a cominciare dalla sempre più forte France Insoumise, capace di raggiungere il 10,6% alle elezioni presidenziali ed essere al centro delle mobilitazioni popolari contro Macron che stanno scuotendo la Francia da oltre un mese.
E ancora: «Le regole sono chiarissime: i criteri del nuovo indebitamento e dei debiti complessivi vanno rispettate. Se questo non accade ci saranno colloqui molto seri. Anche il governo greco alla fine si è attenuto ai diritti e ai doveri dell’eurozona». Poi, in serata, nell’orgia di “precisazioni” messa in moto dai vertici europei e dal sistema dei media, ha chiosato con ancora maggiore puntualità: “La mia preoccupazione, la mia speranza, è che nelle prossime settimane l’andamento negativo dei mercati, dei titoli di Stato e dell’economia italiana in generale, possano essere così incisivi da fornire un’indicazione per gli elettori di non votare i partiti populisti di destra e di sinistra.”

In pratica Oettinger spiega che l’attacco della speculazione ai vari paesi segue una logica condivisa dalla Commissione Europea: chi minaccia di non rispettare i diktat (come è avvenuto per la Grecia tre anni fa ed ora con il defunto governo grillin-leghista) deve essere sbranato con attacchi tali da generare il terrore nella popolazione di quel paese. Che in questo modo “imparerà” a obbedire agli ordini, invece di “montarsi la testa” con pretese pericolose come un po’ di welfare, la scuola pubblica e gratuita, un reddito minimo garantito, salari decenti, occupazione non precaria e magari anche un po’ di autodetrminazione nelle scelte fondamentali.
Una entrata a gamba tesa così sguaiata e reazionaria da spaventare i suoi stessi colleghi, fin qui “narratori” della bella favola secondo cui vivremmo in un mondo libero e democratico, visto che fin qui abbiamo almeno potuto votare apparentemente per chi vogliamo (non ci addentreremo ora sulle conseguenze del “marketing politico”).
E’ stato dunque il più conosciuto commissario agli affari economici, il francese ex “socialista” Pierre Moscovici, a cercare di ammorbidire i toni: “Gli italiani hanno bisogno di scegliere il loro destino ed avanzare con le loro regole democratiche verso il destino che si sceglieranno e allo stesso tempo di restare nell’ambito delle regole comuni e nell’euro, che è positivo per tutti noi“.
Tradotto: potete scegliere se essere spolpati fino alla morte, restando sotto i nostri ordini, oppure essere bombardati subito se provate a fare diversamente (qualunque sia la direzione, anche opposta, verso cui scegliete di andare).
I più disorientati, al momento, sono gli esponenti del Pd (ricordate? Il partito di Renzi…), che stavano aprendo la campagna elettorale proprio sul tema ormai non più nascondibile dell’Unione Europea («Siamo consapevoli che siamo gli unici con una chiara posizione europeista. Su queste basi lavoreremo nelle prossime settimane per costruire una larga e credibile coalizione di centrosinistra», concionava ancora ieri Ettore Rosato). Tanto da costringere il “reggente” Martina a far finta di indignarsi: “Nessuno può dire agli italiani come votare. Meno che mai i mercati. Ci vuole rispetto per l’Italia”. Lo spiegasse a Mattarella, che ha messo i mercati davanti a tutto…

martedì 29 maggio 2018

Der Präsident Mattarella

La sovranità appartiene allo “spread”, che la esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla Troika. La riforma costituzionale in senso eurocratico della Costituzione italiana, fortemente voluta da Bruxelles, è stata completata ieri al Quirinale.
Ad imprimere la svolta mercatista, basata unicamente su sentori, impressioni, previsioni e libere interpretazioni del programma di governo sottoscritto da M5S e Lega, è stato Sergio Mattarella. Veto sul nome di Paolo Savona all’Economia, conseguente remissione dell’incarico da parte del professor Giuseppe Conte e Cottarelli pronto dietro l’angolo per un’investitura cara alla Troika e alle minoranze politiche perdenti in Italia e nell’Europa massacrata a colpi di rigore.
Il tardo pomeriggio di ieri, domenica 27 maggio, passerà alla storia. Neanche Napolitano era arrivato a tanto. Postura da generalissimo sudamericano, contenuti tedeschi e scenario greco sullo sfondo. La nomina dell’art.92, relativa ai Ministri, è un atto di investitura, non di scelta e a discrezionalità praticamente nulla. Con il successore di Napolitano ha assunto i contorni di un atto marcatamente politico con un’evoluzione de facto in senso presidenziale della Repubblica italiana, decisa altrove.
La convocazione al Quirinale di Carlo Cottarelli, economista e commissario alla spending review nominato nel 2013 da Enrico Letta, per ricevere dal Capo dello Stato il mandato a formare un governo “neutrale” che possa “tranquillizzare” i mercati, induce a pensare che l’operazione fosse stata preparata con cura e parallelamente alle consultazioni delle ultime settimane. Mentre leghisti e grillini trovavano la quadra su programma e nomi, Cottarelli, uomo del Fondo Monetario Internazionali, sputava sentenze nei salotti televisivi, con la sicumera tipica di chi può tutto.
“Speriamo che l’Italia abbia presto un governo stabile pro-europeo. L’Italia è un Paese fondatore dell’Ue, abbiamo sempre potuto contare sull’Italia come Paese amico dell’integrazione con cui abbiamo lavorato molto da vicino e con fiducia, e ci aspettiamo che l’Italia sia all’altezza di questa tradizione in futuro”, ha affermato il ministro tedesco agli Affari europei, Michael Roth.
Un auspicio che sa tanto di dettatura dell’agenda politica. Il professor Paolo Savona è stato respinto dal Quirinale perché non gradito a Draghi il governatore dellla Bce. Savona non piace alla signora Merkel e agenzie di rating, sicari in doppiopetto reclutati e pagati dalla grande finanza per assassinare gli Stati sovrani.
Le prossime ore diranno molto sull’evoluzione di una situazione preoccupante e per molti aspetti inedita. Luigi Di Maio e Giorgia Meloni hanno chiesto l’impeachment di Mattarella, Salvini riflette sul da farsi ma ha già annunciato che non voterà la fiducia a Cottarelli. Qualche minuto fa, anche Giorgio Mulé, portavoce dei gruppi di Fi alla Camera e al Senato ha annunciato che gli azzurri “non daranno i voti a un governo tecnico”.
A favore di Mattarella e di Cottarelli si è schierato invece il Pd, uscito malconcio dalle politiche e dalle regionali, che vede nel governo tecnico una ghiotta occasione per ritornare al potere.
Pd e capo dello Stato che hanno indossato per l’occasione gli abiti dei “difensori dei risparmiatori”. Dov’erano Mattarella, Renzi e Gentiloni durante le burrasche di Banca Etruria, Banca Marche, Carife, CariChieti e Veneto banca?
Se la memoria non ci tradisce, non ci risultano prese di posizione così forti a difesa dei risparmiatori. M5S e Lega hanno vinto le elezioni e trovato un accordo per la formazione di un governo ma l’incarico andrà ad un tecnico scelto altrove, con l’appoggio minoritario di chi dalle urne è uscito pesantemente sconfitto per i disastri di questi anni.
“Maestà, il popolo protesta perché manca il pane. Se non hanno pane, che mangino lo spread”.
Sembra strano ma è proprio così. Ce lo chiede l’Europa.

lunedì 28 maggio 2018

Chi è Carlo Cottarelli: mr Spending review chiamato a nuova impresa

Economista con la convinzione che l'Italia abbia il potenziale per crescere di più. Carlo Cottarelli, 62 anni, convocato al Quirinale da Mattarella dopo la rinuncia di Giuseppe Conte, è conosciuto più per il suo tentativo, per lo più fallito, di individuare e tagliare gli sprechi della pubblica amministrazione come Commissario straordinario per la Revisione della spesa pubblica, nominato nel 2013 da Enrico Letta.

Dopo un anno, Matteo Renzi lo ha riassegnato al Fondo Monetario Internazionale, dove Cottarelli ha svolto gran parte della sua carriera di grande esperto di funzionamento di apparati fiscali. È stato con vari incarichi a Washington sin dalla fine degli anni '80, dopo un inizio in Banca d'Italia, dove entrò nel 1981.

Quello di mr. Spending Review è stato l'incarico più governativo che ha avuto, pur essendo un semplice consulente del Tesoro. Lasciò in eredità un corposo dossier su tutti i punti d'intervento possibili con risparmi quantificati in 32 miliardi (chiusura delle partecipate pubbliche inutili, maggiore centralizzazione e monitoraggio degli acquisti nella Pa specie locale), ma non ha mai nascosto la frustrazione di aver trovato poca collaborazione dai politici e molta, comprensibile, resistenza dalla burocrazia.

Mr. Forbici ha mantenuto come obietttivo dei suoi studi quello della spesa pubblica, assumendo la carica di direttore dell'Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano e nei mesi scorsi aveva chiarito le sue posizioni riguardo alla situazione dei conti italiani: la spesa va tenuta sotto controllo, il deficit ridotto. Nessuna fiducia verso gli effetti salvifici pro crescita di Flat Tax o mini bond. Posizioni adatte a rassicurare i mercati, a cui si aggiunge una consuetudine con i consessi internazionali ed europei che dovrebbero ulteriormente rafforzare la posizione del nascente governo che difficilmente avrà la maggioranza in parlamento.

Proprio partendo dalle rilevazione del suo osservatorio, in questi mesi ha ribadito come l'Italia, nonostante i miglioramenti ottenuti, avrebbe dovuto combattere con un aumento del debito pubblico. E' entrato anche nel dibattito della campagna elettorale sottolineando l'assenza di coperture per la quasi totalità delle misure previste dal contratto Lega-M5S e il 25 febbraio scorso rispose su Twitter al leader pentastellato: "Un chiarimento: Di Maio ha appena detto durante il programma dell'Annunziata che un governo 5stelle applicherebbe il piano Cottarelli, anche se non tutto, in particolare non i tagli alla scuola. Nel mio piano non c'erano tagli alla scuola o in generale alla pubblica istruzione"

Anche se Cottarelli però non può essere annoverato tra gli acritici difensori dell'attuale unione monetaria.

giovedì 24 maggio 2018

Bilderberg: che cosa ha deciso negli anni

È bene chiarirlo sin dal principio: in via ufficiale il gruppo Bilderberg, che riunisce ogni anno alcuni fra i più influenti politici, manager, imprenditori e giornalisti, non decide nulla. Il Bilderberg lo ha chiarito nei suoi, pur laconici, comunicati stampa: “Non ci sono risultati desiderati, e non viene scritto nessun resoconto o report (…) non sono proposte soluzioni, non vengono fatte votazioni, e nessuna dichiarazione di policy viene redatta”.
Stimare l’effettiva influenza politica di questo forum dei potenti della Terra non può essere, dunque, dimostrato sulla base di elementi oggettivi. Ma i dubbi restano, proprio per la natura assolutamente riservata dell’incontro: persino i giornalisti che prendono parte all’evento sono vincolati a non rivelare nulla di quello che viene discusso. La natura privata del forum viene giustificata in quanto garantirebbe maggiore franchezza fra i membri: “i partecipanti [così] non sono legati alle convenzioni del proprio ufficio o alle posizioni pre-concordate”.
Il vero nodo critico è che, non essendovi traccia delle posizioni che emergono durante il Bilderberg, risulta impossibile riconoscere l’eventuale influenza sugli eventi di questo meeting a porte chiuse. Nemmeno a posteriori. L’unici elementi di riflessione sono costituiti dai temi oggetto di confronto, e dalla lista dei partecipanti, informazioni che vengono diffuse a ridosso dell’incontro: si tratta di questioni politico economiche che, almeno idealmente, non dovrebbero coinvolgere in modo così riservato e ravvicinato politica e multinazionali, per non parlare dei giornalisti che rinunciano a esercitare il diritto d’informazione pur di partecipare a questo incontro.
Al momento sono disponibili solo i comunicati relativi all’incontro del 2017, sebbene manchino poche settimane all’incontro che vedrà riunito il Bilderberg in Italia, probabilmente a Venezia. I temi toccati dalle discussioni erano stati di assoluto interesse pubblico: “La direzione dell’Ue”, “La globalizzazione può essere rallentata?”, “Lavoro, reddito e aspettative deluse”, “La Russia nell’ordine internazionale”.
Sul fronte dei partecipanti è possibile farsi un’idea sul posizionamento del Gruppo, visto che nessuno degli invitati del 2017 vedeva esponenti provenienti dalla Russia. A discorrere di questi temi, tuttavia, erano presenti grossi nomi del business internazionale: il presidente di FCA John Elkann, il ceo di Ryanair Michal O’Leary, il presidente dell’ING Ralph Hamers, il ceo di Axa Thomas Buberl, solo per citarne alcuni. Per l’Italia erano presenti anche noti giornalisti come Lilli Gruber (membro dello Steering Committee del Bilderberg), Beppe Severgnini e il direttore de La Stampa Maurizio Molinari.
Negli anni precedenti, altri temi discussi nel Bilderberg sono stati: “Esiste la privacy?”, “Grandi cambiamenti nella tecnologia e nel lavoro”, “Il futuro della democrazia e la trappola della classe media” (tutti trattati nel 2014); e ancora: “Lavoro, diritti e debito” (2013), “Il futuro della democrazia nel mondo sviluppato” (2012), “Un euro sostenibile: implicazioni per le economie europee” (2012).
Dato il tono generico delle questioni, non si può che speculare sulla direzione che possono aver preso le discussioni. Di certo, però, l’assenza di invitati provenienti dalla società civile (assenti i sindacati, di esponenti di organizzazioni nate dal basso o di politici non mainstream) lascia il forte sospetto che espressione del Bilderberg sia una ben precisa élite che, annualmente, si confronta al suo interno, mantenendo il massimo riserbo

mercoledì 23 maggio 2018

California green, dal 2020 solo pannelli solari per tutte le nuove case. Si punta sul fotovoltaico

Si calcola che nel 2020, quando entrerà in vigore la legge, saranno costruite 117mila abitazioni singole e 48 edifici per più nuclei familiari. Un impianto solare montato su una villetta costerà 9500 dollari, che potranno essere recuperati in 15 anni, con un risparmio energetico di circa 80 dollari al mese. Si prevede inoltre che la spesa avrà dei costi non irrisori in uno stato che sta sperimentando un boom dei prezzi delle case.

Si tratta di un radicale cambiamento di modello per l’industria e la società. La svolta green voluta dal governatore democratico Jerry Brown può migliorare la qualità della vita per i 40 milioni di californiani, tagliando le emissioni di anidride carbonica. In California sono più di 5 milioni gli edifici che si alimentano con il fotovoltaico.

La nuova legge è anche un’occasione per raggiungere lo “zero net energy”, cioè lo standard che prevede un consumo energetico dalla rete elettrica praticamente nullo. Negli Usa la produzione di energia elettrica è ancora dominata da carbone e gas con una quota complessiva del 62,7%, il nucleare è al 20% e le rinnovabili sono al 17,1%. Secondo il New York Times, l’industria solare in California contribuisce al 16% della produzione totale di energia elettrica, impiegando 86mila lavoratori.
Altri stati americani, in particolare quelli con il clima più caldo – dalla Florida all’Arizona – stanno valutando la legislazione californiana, anche se nell’amministrazione Washington non ci sono grandi sostenitori delle fonti naturali. Infatti, lo scorso 23 gennaio, il presidente Trump ha imposto tariffe del 30% sui pannelli solari importati dalla Cina.

martedì 22 maggio 2018

Per cambiare davvero, servono cultura, valori profondi e una visione complessiva del mondo

Forse ci eravamo arrivati ben prima di tanti altri, perché con le parole non vogliamo ingannare nessuno, quindi arriviamo alle cose per logica, per senso, per esperienza, non perché ci preme vendere qualcosa o fare chissà quali carriere. Infatti, spesso chi vuole ingannarci o venderci qualcosa ha poca fantasia e al massimo può copiare. Ma ormai la parola cambiamento non ha praticamente più alcun senso, è svuotata di ogni significato e usata per qualsiasi scopo. Così come le parole onestà, coerenza, ambiente, giustizia; ormai non significano nulla se chi le cita non ha dentro di sé valori, cultura e una visione complessiva del mondo che le incarni. Infatti, chi al giorno d’oggi è contro l’ambiente? Nessuno; pure i costruttori di una centrale nucleare ti dicono che sono per l’ambiente. Pure le multinazionali del petrolio e le industrie automobilistiche si presentano come paladini per l’ambiente. Chi non è onesto? Qualsiasi politico implicato nei maggiori scandali afferma di essere persona onestissima. Chi poi voglia puntare a qualche potere o posizione di prestigio racconterà tutto e il contrario di tutto ingannando se stesso e gli altri, pur di raggiungere l’obiettivo. Questo accade perché si dà per scontato che l’unica cosa che conta è il fine, i mezzi sono assai trascurabili e si usano tutti indifferentemente per garantirsi il fine. Tanto, cosa vuoi che  interessino aspetti come onestà intellettuale, coerenza, mantenimento della parola data... Robe per bambini romantici che non hanno capito come stanno le cose nel mondo dei “grandi”.
Fatto sta che quel mondo sta andando a picco proprio per la mancanza di romanticismo e bambini che credono ancora alle favole. Quelle che tra l’altro ci raccontavano da piccoli in chiesa e ci dicevano che gli uomini erano tutti uguali, che dovevamo fare del bene, pensare agli altri in maniera disinteressata, che eravamo tutti figli di Dio, non importa se bianchi, neri, gialli, arancioni o a pallini. Ma poi si cresce e queste favolette si mettono da parte in nome dell’interesse privato, si inizia la battaglia della vita dove tutti sono contro tutti e l’unico obiettivo è arrivare, schiacciare, ingannare chiunque sia di intralcio al proprio successo, alla propria affermazione, grande o piccola che sia. E con crocefissi e rosari in mano si va alle crociate contro i diversi. La pubblicità e la società poi ce lo dicono costantemente: devi essere il numero uno, devi vincere, devi primeggiare, devi distruggere la concorrenza.  E più grande è il potere, il successo a cui si arriva e più si potrà fare e dire tutto e il contrario di tutto; tanto, se si ha abbastanza potere o visibilità da rimanere in piedi ugualmente nonostante le proprie evidenti balle, il problema non si pone.  La propria coscienza o dignità conta meno di zero nel palcoscenico che è ormai diventata l’esistenza. La coscienza è qualcosa che non si vede, a cui non si possono fare video da mettere in rete, quindi è come se non esistesse, anche se poi magari qualche prurito lo dà.
Diffidate di chi parla di cambiamento senza avere una solida cultura, senza una visione complessiva del mondo e senza valori sani e forti. Quei valori che sono l’antidoto alle balle di arrivisti e falsi, drogati dal potere e dalla sopraffazione dell’altro. Nulla di buono arriverà mai dagli stupratori delle parole. E finché ci saranno persone come l’ex presidente dell’Uruguay Mujica che, pur essendo passato per le pene dell’inferno e pur facendo politica cioè la cosa più sporca del mondo, hanno mantenuto parole, dignità e coerenza, vorrà dire che è possibile farlo in qualsiasi contesto e in qualsiasi situazione. Ma in quella persona c’erano appunto profondi valori, cultura e visione del mondo.

lunedì 21 maggio 2018

L’ultima minaccia di Trump alla Corea democratica rende impossibile un accordo

Il presidente Trump ha di nuovo sabotato i negoziati con la Corea democratica. Sarà difficile riavviarli. L’atteggiamento che ha mostrato ne rende improbabile uno qualsiasi. La Corea democratica minacciava di cancellare il vertice col presidente degli Stati Uniti Trump. I commenti del Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Bolton secondo cui il “modello libico” sarebbe stato applicato alla Corea democratica, sono stati considerati un insulto. La Libia aveva acquistato alcune attrezzature che potevano essere utilizzate per avviare l’arricchimento di uranio. Ma non ha mai avuto un programma per lo sviluppo di armi nucleari, né base industriale ed accademica per perseguirne uno simile. Per uscire dalle sanzioni, la Libia rinunciò al poco materiale che aveva. Tutto fu spedito negli Stati Uniti prima che le sanzioni fossero revocate. Bolton probabilmente si riferiva solo a questa parte del “modello libico”. Ma c’è anche altro. Pochi anni dopo che la Libia aveva abbandonato il suo minuscolo materiale nucleare, Francia, Regno Unito e Stati Uniti (FUKUS) avviarono la guerra per il cambio di regime contro di essa. Con l’aiuto degli Stati Uniti, Muammar Gheddafi fu assassinato dagli islamisti e Hillary Clinton persino ci scherzò. Da allora la Libia è nel caos totale e in una guerra tribale dalle continue ingerenze straniere. La Corea democratica respinge naturalmente il modello libico. Si ritiene, giustamente, Stato nucleare a tutti gli effetti. Richiede negoziati sulla base della parità. Dopo le minacce nordcoreane di cancellare il vertice, il portavoce della Casa Bianca ritirava il “modello libico” di Bolton: “Riferendosi al confronto con la Libia, la segretaria stampa della Casa Bianca Sarah Sanders ha detto che non l’ha visto “come parte di alcuna discussione, quindi non so se sia un nostro modello. Non lho visto come specifico, so che quel commento fu fatto. Non esiste un modello di stampa che possa funzionare“.
Il treno per il vertice sembrava marciare ancora. Poi Donald Trump lo deragliava di nuovo. Alla conferenza stampa del 17 maggio gli fu chiesto del problema “modello Libia” e, con un commento apparentemente scontato, approfondiva il confronto: “Il modello, se si guarda a quello con Gheddafi, fu la decimazione totale. Siamo andati lì per batterlo. Ora quel modello avrebbe avuto luogo se non avessimo fatto un accordo, molto probabilmente. Ma se facciamo un accordo, penso che Kim Jong-un sarà molto, molto felice“. Si potrebbe chiamare “l’arte della mafia”: “Firmi o ti uccido”. Alcuni media fingono che Trump abbia solo “assicurato” Kim Jong-un. Reuters indicava che Trump cercava di placare Kim su un vertice incerto; il New York Times: Trump e Corea democratica rifiutano il “Modello Libia” di Bolton; Politico: Trump offre assicurazioni a Kim e un avvertimento. La “decimazione totale” sembra più di “un avvertimento”. The Guardian aveva l’approccio più realistico: Minaccia di Donald Trump a Kim Jong-un: fai l’accordo o subisci la stessa sorte di Gheddafi. La minaccia di Trump alla Corea democratica dimostra la giustezza di acquisire armi nucleari e capacità di lanciarle sugli Stati Uniti continentali. Cederle sarebbe un suicidio. Trump aveva anche borbottato che avrebbe dato “forti rassicurazioni” a Corea democratica e Kim Jong-un sulla loro sicurezza se faranno l’accordo. Non spiegava quali sarebbero. Il modo in cui Trump aveva distrutto l’accordo nucleare con l’Iran, attuato con le “forti rassicurazioni” di un presidente degli Stati Uniti e l’appoggio del Consiglio di sicurezza dell’ONU, dimostra che alcuna garanzia degli Stati Uniti è degna della carta su cui è scritta. Quando fu annunciato il vertice, si sapeva che aveva poche possibilità di successo perché c’erano troppi interessati a mantenere il conflitto con la Corea democratica, come John Bolton, i militari statunitensi e il premier giapponese Abe.
La Corea democratica sicuramente risponderà alla minaccia della “decimazione totale” di Trump. Probabilmente uscirà dal vertice previsto per il 12 giugno a Singapore. Potrebbe tornare se la Casa Bianca tornerà sui suoi commenti. La Cina, che spinge Corea democratica e Stati Uniti a un accordo, lascerà che la Casa Bianca sappia cosa fare. Ma credo che il vertice, se avrà luogo, non ha possibilità di successo. Trump non sa nulla dei dettagli politici e tecnici e non ha idea della cultura asiatica. Sbufferà e insulterà il partner dei negoziati. Probabilmente richiederà il totale disarmo nucleare della Corea democratica. Non ci sarà alcun accordo. Solo dopo questo fallimento imparerà che la “decimazione totale” della Corea democratica non è un’opzione che può perseguire.

venerdì 18 maggio 2018

Accademici al servizio dell’impero

Nell’ultimo mezzo secolo sono stato impegnato in ricerche, ho tenuto conferenze e lavorato con movimenti sociali e governi di sinistra in America Latina. Ho intervistato funzionari e think tank statunitensi a Washington e New York. Ho scritto decine di libri, centinaia di articoli professionali e ho presentato numerosi articoli in occasione di riunioni professionali. Nel corso della mia attività ho scoperto che molti accademici spesso s’impegnano in ciò che i funzionari del governo chiamano “de-briefing”! Gli accademici si incontrano e discutono sul campo di lavoro, sulla raccolta di dati, sui risultati delle ricerche, sulle osservazioni e sui contatti personali durante il pranzo presso l’ambasciata con funzionari del governo degli Stati Uniti o a Washington con funzionari del dipartimento di Stato. I funzionari del governo degli Stati Uniti aspettano con ansia questi “commenti”; l’accademico fornisce un utile accesso alle informazioni che altrimenti non potrebbero ottenere da agenti d’intelligence o collaboratori locali. Non tutti gli informatori accademici sono in ottima posizione od investigatori competenti. Tuttavia, molti forniscono utili informazioni, specialmente sui movimenti di sinistra, partiti e i leader avversari antimperialisti reali o potenziali. I costruttori dell’impero statunitense, sia che svolgano attività politiche o militari, dipendono da informazioni in particolare su chi sostenere e chi sovvertire; chi dovrebbe ricevere supporto diplomatico e chi dovrebbe ricevere risorse finanziarie e militari. Gli accademici interrogati identificano avversari ‘moderati’ e ‘radicali’, così come vulnerabilità personali e politiche. I funzionari sfruttano spesso problemi di salute o bisogni familiari per “trasformare” le sinistre in spie imperialiste. I funzionari degli Stati Uniti sono particolarmente interessati agli accademici ‘gate-keeper’ che escludono critiche all’imperialismo, attivisti, politici e funzionari governativi. A volte, funzionari del dipartimento di Stato degli Stati Uniti dichiarano di essere simpatizzanti ‘progressisti’ che si oppongono ai “neanderthaliani” nelle istituzioni, al fine di avere informazioni privilegiate dagli informatori accademici di sinistra. Il debriefing è una pratica diffusa e coinvolge numerosi accademici provenienti da importanti università e centri di ricerca, così come “attivisti” non governativi e redattori di riviste e pubblicazioni accademiche. Gli accademici che partecipano al debriefing spesso non pubblicizzano i loro rapporti col governo. Molto probabilmente condividono i rapporti con altri informatori accademici. Tutti affermano semplicemente di condividere le ricerche diffondendo informazioni per la “scienza” e per promuovere “valori umani”. Gli informatori accademici giustificano sempre la loro collaborazione fornendo un’immagine chiara e più equilibrata ai “nostri” responsabili politici, ignorando i prevedibili risultati distruttivi che potrebbero derivarne.
Accademico al servizio dell’impero
Gli informatori accademici mai studiano, raccolgono ricerche e pubblicizzano rapporti sulle politiche statunitensi segrete, palesi e clandestine, in difesa delle multinazionali e dell’élite latinoamericana che collaborano coi costruttori dell’impero.
Piantare il “Regime Change” in Venezuela
I funzionari degli Stati Uniti sono desiderosi di conoscere tutti i rapporti sui “movimenti dal basso”: chi sono, quanta influenza hanno, suscettibilità a tangenti, ricatti e inviti dal dipartimento di Stato, da Disneyland o dal Wilson Center di Washington. I funzionari statunitensi finanziano ricerche accademiche su sindacati, movimenti sociali agrari, minoranze femministe ed etniche impegnate nella lotta di classe e attivisti e leader antimperialisti, poiché tutti sono obiettivi della repressione imperiale. I funzionari sono anche appassionati dei rapporti accademici sui cosiddetti collaboratori “moderati” che possono essere finanziati, consigliati e reclutati per difendere l’impero, minare la lotta di classe e dividere i movimenti. Gli informatori accademici sono particolarmente utili nel fornire informazioni personali e politiche su intellettuali, accademici, giornalisti, scrittori e critici di sinistra latinoamericani permettendo ai funzionari statunitensi di isolare, calunniare e boicottare gli antimperialisti, così come gli intellettuali che possono essere reclutati e sedotti con concessioni di fondi e inviti al Kennedy Center di Harvard. Quando i funzionari statunitensi hanno difficoltà a comprendere le complessità e conseguenze dei dibattiti ideologici e divisioni nei partiti o regimi di sinistra, gli informatori accademici d’ex-sinistra, che raccolgono documenti e interviste, forniscono spiegazioni dettagliate e forniscono ai funzionari un quadro politico per sfruttare ed esacerbare divisioni e guidare la repressione, minando gli avversari impegnati nella lotta antimperialista e di classe. Il dipartimento di Stato degli USA lavora a stretto contatto con centri di ricerca e fondazioni nel promuovere riviste che evitino ogni menzione dell’imperialismo e dello sfruttamento della classe dirigente; promuovono “questioni speciali” su politiche di identità “senza classe”, teorizzazioni postmoderne e conflitti etnico-razziali e conciliazioni. In uno studio sulle due principali riviste di scienze politiche e sociologiche, si nota che in cinquanta anni hanno pubblicato meno dello 0,01% sulla lotta di classe e l’imperialismo USA. Gli informatori accademici non hanno mai riferito sui legami del governo degli Stati Uniti con governanti narco-politici. Gli informatori accademici non studiano l’ampia e lunga collaborazione israeliana cogli squadroni della morte in Colombia, Guatemala, Argentina e El Salvador, a causa della lealtà a Tel Aviv e nella maggior parte dei casi perché il dipartimento di Stato non è interessato ai rapporti che espongono alleati e complicità.
Informatori accademici: cosa vogliono e cosa ottengono?
Gli informatori accademici s’impegnano nel debriefing per vari motivi. Alcuni lo fanno semplicemente perché condividono politica ed ideologia dei costruttori imperialisti e sentono che è un loro “dovere” servire. La stragrande maggioranza sono accademici affermati con legami coi centri di ricerca che informano perché ingrassano il loro curriculum vitae, aiutando a garantirsi borse di studio, appuntamenti prestigiosi e premi. Gli accademici progressisti che collaborano hanno un approccio da Giano bifronte; parlano alle conferenze pubbliche di sinistra, in particolare agli studenti. e in privato riferiscono al dipartimento di Stato degli USA. Molti studiosi ritengono di poter influenzare e cambiare la politica del governo. Cercano d’impressionare i funzionari autodichiariati “progressisti” con le loro conoscenze interne su come “trasformare” i critici latini in collaboratori moderati. Inventano innocue categorie e concetti accademici per attirare studenti per l’ulteriore collaborazione coi colleghi imperialisti.
La conseguenza del debriefing accademico
Gli informatori accademici ex di sinistra sono frequentemente citati dai mass media come “esperti” affidabili e competenti per calunniare governi, accademici e critici antimperialisti. Gli accademici di ex-sinistra spingono gli studiosi emergenti dalla prospettiva critica ad adottare critiche ragionevoli “moderate”, a denunciare ed evitare gli “estremisti” antimperialisti e a screditarli come “ideologi polemici”! Gli informatori accademici in Cile hanno aiutato l’ambasciata USA ad identificare i militanti di quartiere poi consegnati alla polizia segreta (DINA) durante la dittatura di Pinochet. Informatori accademici statunitensi in Perù e Brasile hanno fornito all’ambasciata piani di ricerca che identificavano ufficiali nazionalisti e studenti di sinistra successivamente epurati, arrestati e torturati. In Colombia, gli informatori accademici statunitensi furono attivi nel fornire rapporti sui movimenti dei ribelli rurali che portarono a una repressione di massa. Collaboratori accademici fornirono rapporti dettagliati all’ambasciata in Venezuela sui movimenti di base e le divisioni politiche tra il governo chavista e gli ufficiali al comando di truppe. Il dipartimento di Stato degli USA finanziava accademici che lavoravano con organizzazioni non governative che identificano e reclutano giovani della classe media come combattenti di strada, narcogangster e indigenti per impegnarli in violente lotte per rovesciare il governo eletto e paralizzare l’economia. Rapporti accademici sul regime “violento” e “autoritario” servivano da foraggio propagandistico per il dipartimento di Stato ed imporre sanzioni economiche, impoverendo la gente, fomentando il colpo di Stato. Collaboratori accademici statunitensi hanno arruolato i colleghi latini per firmare le petizioni che spingono i regimi di destra nella regione a boicottare Venezuela. Quando gli informatori accademici affrontano le conseguenze distruttive dell’imperialismo, sostengono che non era loro “intenzione”; che non erano i loro contatti col dipartimento di Stato a portare avanti le politiche regressive. La più cinica affermazione è che il governo avrebbe fatto il lavoro sporco a prescindere dal debriefing.
Conclusione
Ciò che è chiaro in quasi tutte le esperienze note è che i de-briefing degli informatori accademici rafforzano gli imperialisti e completano il lavoro mortale degli operatori professionisti di CIA, DEA e National Security Agency.

giovedì 17 maggio 2018

Siamo nati stanchi? No, lo diventiamo anche quando dormiamo tanto ma male

Gli americani hanno un problema molto serio, e non è Donald Trump e la sua presidenza. Piuttosto è il sonno: il 35 per cento della popolazione non dorme a sufficienza e il 20 per cento denuncia una spossatezza, curata anche attraverso i medici, che non gli consente di fare una vita normale. Con un danno perfino economico per il sistema Paese, visto che i dipendenti poco efficienti, per la stanchezza, costano alle aziende, pubbliche e private, qualcosa come 100 miliardi di dollari l’anno. Da qui le domande: Siamo nati stanchi? La stanchezza è ormai cronicizzata e non possiamo fare nulla di fronte a un colossale spreco di salute, di benessere, di serenità, e anche di soldi?

STANCHEZZA E SONNO

Le risposte stanno arrivando, intanto, dal mondo della scienza. Una ricerca dell’università olandese di Radboud, molto commentata sui media americani, ha scoperto che il 30 per cento del campione di persone prese in esame per capire i problemi del sonno (ventimila in tutto, non poche) è andata a finire in uno studio medico per capire i motivi in base ai quali si sentiva sempre e comunque stanco.
In realtà, proprio dalla ricerca olandese è venuta fuori la più importante conferma che dovrebbe tutti farci riflettere di fronte ai problemi delle cattive dormite e della stanchezza cronica: il sonno non è solo un problema di quantità, ma innanzitutto di qualità. O meglio: puoi anche dormire 7-8-9 ore, ma se dormi male, sarai sempre stanco. In particolare, nel nostro cervello, per dirla in termini semplici ma chiari, esiste un orologio che coordina gli ormoni e l’attività cerebrale per fare in modo che di giorno ci possiamo sentire svegli, dopo che abbiamo riposato la sera, o anche in qualche pausa diurno, con la classica e antica pennichella. L’orologio funziona con questo ciclo: il picco della nostra lucidità è al mattino, poi c’è un calo nel pomeriggio e la stanchezza che invece dilaga la sera.

IMPORTANZA QUALITÀ DEL SONNO

Che cosa può rompere il buon funzionamento dell’orologio? Il dormire male. Per esempio, ecco una delle scoperte più significative degli scienziati, poca luce al mattino o troppa luce la sera, possono mandare in tilt le lancette dell’orologio. E condurci sul burrone della stanchezza endemica. Ciò significa, di conseguenza, che per dormire bene, abbinando quantità e qualità del sonno, abbiamo bisogno di spegnere la luce, tutte le luci. E azzerare l’uso di qualsiasi apparecchio elettronico, dalla tv al computer passando dallo smartphone. Altro elemento fondamentale per avere una buona qualità del sonno, e non diventare degli stanchi a vita, è il buon umore, la sana leggerezza, tutti gli anticorpi contro la depressione. Già, non a caso tutte le persone che soffrono di depressione confessano di sentirsi molto stanche, prive di forze, anche perché non hanno la giusta dose di serotonina che aiuta il famoso orologio a funzionare bene.
Infine, tra i consigli che gli scienziati ci danno per non sentirci stanchi troppo spesso, ne ricordo alcuni che sono molto in sintonia non quello che scriviamo ogni giorno sul nostro sito. Non fermatevi quando fate qualcosa che vi piace, anche se vi sentite stanchi.  In questo caso si tratta di una stanchezza sana, che vi porterà dolcemente e automaticamente, come se fosse un tappeto volante, nel cielo delle magnifiche dormite. Trasformate il vostro stresso al quale sentite di non sapere rinunciare, in un piacere e l’orologio tornerà a funzionare in modo corretto. E sforzatevi sempre e comunque, tutti i giorni, di fare un minimo di attività fisica. Chi riesce a farlo in modo regolare, dorme meglio anche se il suo sonno è più breve. E da sveglio non è quasi mai stanco.

mercoledì 16 maggio 2018

Bollette salate: i 10 costi nascosti che paghiamo

Non sono solo i consumi a far lievitare le nostre bollette del telefono, fisso o mobile che sia, ma soprattutto i costi nascosti o in alcuni casi ignorati dal cliente che compaiono al momento del saldo e che a conti fatti ci costano quel 10-15% in più.
I conti li fa l’Unc, l’Unione nazionale consumatori che ha deciso di rivolgersi all’Antitrust segnalando Tim, Vodafone, Wind Tre e Fastweb per addebiti oscuri per la fruizione di vari servizi. Massimiliano Dona, presidente dell’associazione invita i clienti a riportare le proprie disavventure sui social network, con l’hashtag #costinascosti.
Ma quali sono i costi meno conosciuti dagli utenti che incidono sul caro-bolletta? Sono in totale dieci secondo l’Unc.
  1. ChiamaOra, Ti ho cercato, Chiamami: sono i servizi che avvisano l’utente nei casi in cui non è stato possibile contattarlo. Il problema è che non tutti sanno che sono servizi a pagamento! Nello specifico: Vodafone richiederebbe € 0,12 al giorno (ma solo quando utilizzato), Wind€ 0,19 a settimana, Tre € 1,50 euro al mese e Tim € 1,90 al bimestre.
  2. L’ascolto dei messaggi in segreteria ha un costo, ma non è comunicato adeguatamente ai consumatori. Tre, ad esempio, fa pagare € 0,20 a chiamata indipendentemente dalla durata della chiamata o dall’ascolto dei messaggi, mentre per Tim il costo per l’ascolto dei messaggi ricevuti varia a seconda del piano tariffario; più cara Vodafone, che per ogni chiamata alla segreteria telefonica per ascoltare i messaggi o per personalizzare le impostazioni richiede 1,50 euro al giorno (solo in caso di utilizzo).
  3. piani tariffari base quanto costano? Tim, Vodafone e Wind pretenderebbero circa € 0,50 centesimi a settimana.
  4. costi di incasso o altri costi: sembrerebbe che tutti gli operatori addebitino a carico degli utenti, indipendentemente dalla modalità di pagamento prescelta, i costi di incasso. Non è dato sapere a quali servizi siano imputati tali costi che, tuttavia, si trovano puntualmente fatturati nelle bollette.
  5. Il tutto incluso non è sempre reale… alcuni operatori non informerebbero i propri clienti dell’addebito di costi aggiuntivi per chiamate da linea fissa sebbene il contratto di abbonamento preveda la formula tutto incluso.
  6. Il pagamento della chiamata per conoscere il credito residuo. Vodafone prevede un costo pari a € 0,40 per ogni telefonata al numero 414: beffa nelle beffe visto che nessun altro operatore la prevede e che lo stesso servizio è offerto -anche da Vodafone- gratuitamente tramite App o sito internet.
  7. Il servizio antivirus a pagamentoVodafone ha introdotto un servizio antivirus denominato Rete sicura: questo, inserito di default all’attivazione della sim, è gratis per i primi 3 rinnovi, poi costa € 1 ogni 4 settimane. Purtroppo, si rileva che molti utenti hanno lamentato di aver appreso che il rinnovo del servizio fosse a pagamento solo dopo aver ricevuto l’addebito del costo.
  8. L’omessa o inadeguata informativa circa i costi del servizio tetheringVodafone non renderebbe immediatamente percepibile che il servizio di navigazione in modalità hotspot ha un costo “ulteriore” rispetto alla cd. tariffa base.
  9. L’addebito di penali in caso di recesso da un contratto di abbonamento. 
  10. L’addebito di costi di attivazione delle sim nei punti vendita. Tutti gli operatori richiederebbero agli utenti che intendono attivare una sim nei punti vendita, oltre che il costo della scheda (in genere 5 euro), un ulteriore costo una tantumper la sua l’attivazione (prezzo che varia dai 3 ai 5 euro indebitamente richiesto ai consumatori, considerato che l’attivazione sul portale online del gestore è gratuita).

martedì 15 maggio 2018

Governo: riprende tavolo M5S-Lega, avanti tutto il giorno

È ripreso, alla Camera, il tavolo sul contratto di programma tra Movimento 5 Stelle e Lega. Deputati e senatori dei due schieramenti arrivano a Montecitorio alla spicciolata con la prospettiva di portare avanti il lavoro per tutto il giorno. Al momento non ci sono i leader Luigi Di Maio e Matteo Salvini. In mattinata diversi componenti del tavolo si dovranno assentare per seguire le audizioni di enti locali e parti sociali sul Def, a partire dal presidente della commissione Speciale di Montecitorio Nicola Molteni.
"Buona giornata Amici! Coerenza, pazienza, voglia di fare, umiltà e concretezza, e serve anche fortuna. Vi voglio bene": così su Twitter il leader della Lega Matteo Salvini postando la foto di un cappuccino con tanto di disegno di un cuore di cacao.
M5S e Lega nel lunedì che avrebbe dovuto essere decisivo per dare il là perlomeno al contratto di governo si rivelano distanti sul programma e sulla casella della premiership, vero e proprio nodo gordiano per Luigi Di Maio e Matteo Salvini. I due leader salgono al Colle separatamente e, all'apparenza, due soli dati sembrano legarli: la richiesta di altro tempo inoltrata al presidente Sergio Mattarella e la decisione di mettere il programma al vaglio di una base sempre più scalpitante. Mattarella per ora pazienta e concede un lasso di tempo imprecisato ai due partiti ma all'indomani della vorticosa due giorni di riunioni al Pirellone la quadra tra M5S e Lega ancora non c'è. Di Maio e Salvini tornano a vedersi alla Camera, a margine della nuova riunione tecnica convocata dalle due delegazioni.
Quindi vanno al Colle, il primo alle 16.30, il secondo alle 18. E, di fronte ai cronisti ammettono, ognuno con il suo tono, che l'accordo di governo è ancora lontano. "Siamo consapevoli delle scadenze internazionali ma chiediamo qualche altro giorno perché si sta scrivendo un programma di governo per 5 anni", afferma Di Maio che mostra, comunque, un certo ottimismo nonostante la fumata nera di oggi: "in fondo è solo la prima consultazione che facciamo dopo l'intesa". Più dure le parole di Salvini. Il leader della Lega parla di "visioni diverse o distanti" su giustizia, infrastrutture, rilancia la necessità di ridiscutere i trattati europei e pretende "mano libera sui migranti". "Se non siamo in grado di fare quello che ci chiedono gli italiani non cominciamo neanche e ci salutiamo, è il messaggio di Salvini, che torna a evocare le urne: "se dessi retta ai sondaggi sarei il primo a dire andiamo al voto". Entrambi, invece, lasciano da parte la questione della squadra.

"Nomi pubblicamente non li facciamo", spiega Di Maio. "Non questioniamo sui nomi", gli fa eco Salvini. Ma il nodo c'è, eccome. La ricerca del premier terzo, finora, non dà frutti, le chance dell'economista Giulio Sapelli - proposto dalla Lega - affondano nel giro di una mattinata né sembra prendere quota l'avvocato Giuseppe Conte, candidato ministro del M5S, unico nome rimasto ancora appeso - a quanto pare - nei colloqui tra M5s-Lega e Quirinale. I due nomi, tra l'altro, sarebbero stati fatti nella giornata di ieri. Al fulcro dell'impasse, al di là della scelta tra una figura tecnica o politica, c'è tuttavia lo scontro su chi, tra M5S e Lega, avrà lo scettro di comando del governo Jamaica. Un nodo sul quale pesa, soprattutto dopo la riabilitazione di Silvio Berlusconi, il legame di Salvini con la coalizione di centrodestra. E non è un caso, forse, che il leader della Lega dica "no" ad una premiership di Di Maio nel giorno in cui Giorgia Meloni ribadisce la sua opposizione ad un esecutivo a guida M5S. E anche sul programma, l'ombra dell'ex Cavaliere non svanisce. "Siamo per i processi brevi ma partiamo da questioni differenti anche perché io sono in questa veste non solo da leader della Lega ma della coalizione di centrodestra", avverte il leader della Lega che il weekend prossimo allestirà dei gazebo ad hoc per consultare i suoi elettori sul programma. E "presto" anche il MS5 chiederà il parere dei suoi iscritti sulla piattaforma Rousseau per "decidere se il governo dovrà o meno partire". Di fatto con queste scadenze M55 e Lega si danno un'altra settimana di tempo. L'ultima, anche perché, lunedì prossimi saranno passati quasi 80 giorni dalle elezioni.

lunedì 14 maggio 2018

Grecia targata Tsipras a passo di record: nei tagli alle pensioni

Grecia in festa o almeno così parrebbe stando alle cronache ufficiali, Giornali come Repubblica snocciolano dati entusiasmanti o quasi. Cosa c’è di vero?
Procediamo con ordine. Da inizio anno oltre 100mila occupati in più. Oltre la metà vengono definiti come stabili. Poi però vai a vedere che in aprile, inizio della stagione turistica, il boom c’è sempre stato (80% dei posti di lavoro si colloca in tale settore).  Se si va nei dettagli si vede infatti che, rispetto all’aprile 2017, l’aumento è solo di 8mila posti. Maggiormente significativo potrebbe essere l’attributo della stabilità, ma ci farebbe piacere conoscere l’opinione di un esperto del mercato del lavoro greco per capire se si tratti di una stabilità “ai tempi del welfare” o di una “ai tempi del job act”. A parte il fatto che, quando hai toccato il fondo, scendere ancora più giù diventa impossibile.
Fatto sta che la Trojka di buona memoria, ancora presente nell’Ellade a dettare legge, è contenta. Si sono fatte un bel po’ di riforme di struttura, come volevano lorsignori, proprio quelle sulle quali accusano l’Italia di non aver mosso un dito e i risultati si vedono. Non a caso tra i 13 tagli delle pensioni, operati in 10 anni, c’è anche quello, a noi peraltro familiare, dell’aumento dell’età pensionabile, ragione per cui, per ogni pensionato in meno c’è un lavoratore anziano in più, a tenere meno basso il numero degli occupati. Non sale per nulla invece, guarda caso, nella fascia 15-24 anni, dove la disoccupazione è di poco al di sotto del 50%.
Se Repubblica, nell’articolo di Ettore Livini, trasuda una certa quale allegria, il Sole 24 (articolo di Andrea Gagliardi e Andrea Marini)  esprime una ottimismo più contenuto, limitandosi a dire che tutto sommato, anche se vanno al governo i non meglio definiti populisti (di sinistra in Grecia e di destra in Austria), la situazione rimane sotto controllo.  Dopo di che i dati snocciolati suscitano entusiasmi sempre meno calorosi: non tanto per il taglio degli sconti fiscali alle isole, l’aumento delle tasse e la riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici, quanto per il capitolo Iva, il cui aumento, che qui ci terrorizza, lì pare sia stato imposto dai riformatori trilaterali. Ma è soprattutto il capitolo pensioni che nella descrizione di una fonte autorevole come il Sole lascia atterriti: tetto massimo di 2300€, con buona pace di chi ha versato maggiori contributi; taglio delle pensione minime, principalmente collegato alla eliminazione dell’Ekas. Che roba è? L’equivalente della nostra integrazione al minimo delle pensioni di chi ha lavorato solo un po’ più di 20 anni e che se ricevesse la pensione in base al contributivo creperebbe di fame. Pare dunque che in Grecia l’operazione di eliminarla sia passata. E i morti di fame? Tutto sommato tante pensioni da pagare in meno. Un’indicazione utile anche per lo scenario italiano, a pensarci bene, dove l’integrazione al minimo può rappresentare la quasi-sopravvivenza per centinaia di migliaia di persone, gli ultimi della fila.
A farci passare la voglia di scherzarci sopra basta leggere un articolo di Francesco De Palo, sul blog del Fatto quotidiano di dieci giorni fa: oltre ai tagli alle pensioni (madre di tutte le battaglie) mele a 2€ e 50 al kg, guerriglia urbana dei disperati, nelle città, un campo profughi alle Termopili, nascosto alle telecamere per ragioni di decenza, che ha forse contribuito a diminuire il prezzo delle sanzioni da subire.
Il tutto in un clima di sobria soddisfazione delle autorità costituite, nazionali e internazionali. Pare infatti che i tecnici della Trojka (Commissione Ue, Bce, Fmi), chi più chi meno, si siano espressi in termini positivi e sarebbe peccaminoso far circolare la voce che, quello che per loro rappresenta la gioia, per milioni di greci rappresenta il dolore. I prestiti della finanza pubblica internazionale hanno quindi raggiunto gli obiettivi prefissati dai creditori, i cultori dell’austerity. Coraggio Grecia e forza Tsipras che se tutto procede di questo passo in agosto i commissari della Trojka leveranno le tende. Vi diranno che avete imparato bene la lezione e che adesso siete in grado di farcela da soli a mandare in rovina i più deboli tra di voi.
Quello che resta molto più difficile da imparare è come evitare di essere mandati a picco, con le cattive se non con le buone. E con l’aria che tira in Italia ci converrà trovare in fretta qualche via d’uscita alternativa: ammesso che esista.

venerdì 11 maggio 2018

Ingerenza esterna e Sovranità. La "sinistra imperiale" che tifa Mattarella dovrebbe studiare la Costituzione

Vogliamo un attimo ricordare a quei vecchi e nuovi fans di Mattarella, elevato al rango di "salvatore della Patria" da chi è già pronto a vendersi anche a Renzi, in nome di presunti "valori della democrazia", che questo nostro attuale presidente è stato ministro della Difesa (con D'Alema presidente del Consiglio), quando l'Italia si aggiunse all'aggressione della NATO alla Jugoslavia, scatenata in barba al diritto internazionale, senza alcun mandato dell'ONU? Quando la Serbia fu inondata di uranio impoverito (che contaminò e uccise anche tanti nostri soldati). Quando anche le acque del nostro Adriatico furono contaminate dalle bombe superflue sganciate dagli aerei (anche italiani) che ritornavano dai loro attacchi criminali.
  E vogliamo anche ricordare che la nostra Costituzione uscita dalla Resistenza e che ha tra i suoi primi firmatari il grande comunista Umberto Terracini garantisce la difesa della sovranità popolare e nazionale da qualsiasi ingerenza straniera, comunque giustificata?
Lo vogliamo ricordare a quei tanti utili idioti della "sinistra imperiale",. responsabile di tutte le misure più antipopolari e lesive della pace che hanno caratterizzato i nostri governi "tecnici" e di "centro-sinistra" (da Monti in poi) e che tanto dolore hanno arrecato ai lavoratori del nostro paese e ai popoli di tante altre nazioni? E non solo (a leggere certi commenti) dobbiamo ricordarlo a costoro ma, purtroppo, anche "più a sinistra"

giovedì 10 maggio 2018

Con Moro morì una Repubblica

Pochi hanno avuto il coraggio di dire con chiarezza che la Prima Repubblica terminò con quel corpo ritrovato il 9 Maggio 1978 in via Caetani, più o meno nelle vicinanze della sede centrale dei due partiti in causa nel celebre compromesso storico di cui Aldo Moro era la sponda principale all’interno della Democrazia Cristiana. Quando Mani Pulite arrivò la Prima Repubblica era già stata seppellita e il Pool si ritrovò soltanto un opulento simulacro tra le mani, che volò via al primo soffio.
Aldo Moro non fu soltanto il principale sostenitore del discusso compromesso, ma anche uno dei più importanti Ministri degli Esteri della Storia Repubblicana, ed ebbe una peso rilevante anche sui Servizi Segreti. Fu lui il creatore del poco ricordato Lodo Moro, con il quale l’Italia si impegnò segretamente a garantire l’impunità ai terroristi palestinesi, in cambio del loro impegno a non colpire in Italia. Non trascurò affatto la Realpolitik, né una certa visione della politica che tuttavia non mancò di rimproverare nelle sue lettere durante la prigionia a Giulio Andreotti. Fu anche un accanito conservatore.
tuonava Giorgio Gaber nell’apocalittica Io se fossi Dio, scritta a quattro mani con Luporini, rinfacciando a più riprese nel testo il conservatorismo del politico democristiano.
Cosa possiamo dire, con sincerità, a quarant’anni dalla sua scomparsa? Badiamo a dare un giudizio politico, e non giudiziario, come si fa spesso, confondendo le carte. Chiediamoci, con coraggio: cosa morì davvero con il ritrovamento di quella Renault rossa? Senza dubbio perì qualunque formale innocenza delle Istituzioni, e questo al di là delle tesi sconvolgenti sostenute da Ferdinando Imposimato, per il quale Andreotti e Cossiga seppero il luogo della detenzione di Moro e di proposito non intervenirono. Morì la possibilità di qualunque moderna alternanza democratica, dimostrando reiteratamente l’incapacità del Paese ad avvicinarsi ai requisiti di una democrazia liberale. Perì la fiducia del medesimo Stato nella propria capacità decisionale e sanamente coercitiva, annegata tra blocchi di poteri più o meno occulti e travolgenti, con il ruolo di mediatore o peggio, di spettatore.
La situazione sembra traslabile nella contemporaneità, eppure non c’è Moro ma Di Maio, non Almirante ma Salvini, non Berlinguer ma Renzi. I paragoni sono impietosi, caricaturali: perì anche un tipo di cultura politica, con tutti i suoi vizi e virtù. Oggi rimangono i cocci. Il medesimo giorno fu ritrovato il cadavere di Peppino Impastato. Una storia diversa, un’anima senza ombre e genuinamente rivoluzionaria. Ad essa dobbiamo dedicare tutto il coraggio di cui siamo capaci, lottando senza timore su qualunque maceria, sia essa politica, morale o culturale. Buon quarantennale

mercoledì 9 maggio 2018

La sciagura dei derivati

Quello che segue è un breve riassunto riguardante una delle pagine più nere delle tante che contrassegnano da molti anni il malgoverno italiano al centro come in periferia.
Si tratta della vera e propria “sciagura dei derivati”, sulla quale non ci si deve stancare di riferire e indagare.
L’inserto “Affari e Finanza” di Repubblica del 7 maggio ospita un ampio servizio di Luca Pinna sul processo alla Corte dei Conti per il buco di 3,9 miliardi provocato al bilancio dello Stato dall’incauto comportamento dei dirigenti del Ministero del Tesoro tra il 1994 e il 2007.
Tra i soggetti implicati addirittura due ex-ministri, Siniscalco e Grilli, oltre all’ex-responsabile della direzione del debito pubblico.
I documenti elaborati dalla procura della Corte dei Conti per la richiesta danni ricostruiscono con dettagli inediti le operazioni fatte con Morgan & Stanley dai dirigenti del Ministero e rivelano che gli errori generavano perdite colossali già anni prima della crisi del 2011, quella che provocò con la vicenda dello “spread” la caduta del governo Berlusconi e l’avvento del dicastero di (apparente) “economia fino all’osso di Monti.
Nell’articolo però non compare nessun accenno all’estensione della vicenda agli Enti Locali. Situazione nella quale un nugolo di assessori incompetenti e presuntuosi hanno finito con l’accumulare un debito enorme in nome di goffi tentativi di speculazione.
Magra consolazione che dal 2009 Regioni, Province ed enti locali non possano più stipulare contratti derivati, con l’eccezione delle “protezioni” contro il rialzo dei tassi di interesse sui mutui.
Verifichiamo allora questo tipo di situazione esaminata qualche tempo fa:
 Perché prima del 2009 le autonomie territoriali si sono riempite la pancia di questi strumenti, per un valore poco inferiore ai 25 miliardi di euro sui 160 complessivi che sono nel portafoglio dello Stato italiano. E lo hanno fatto non per gestire meglio il proprio debito, ma per ottenere incassi immediati che sono poi stati segnati disinvoltamente a bilancio tra le entrate. Il tutto, in molti casi, senza essere in grado di valutare rischi e potenziali conseguenze. A metterlo nero su bianco è la Corte dei Conti, che mercoledì ha presentato alla commissione Finanze alla Camera un’indagine conoscitiva sui derivati basata sui rilievi delle Sezioni regionali di controllo. Le quali, esaminando i rendiconti degli enti locali, hanno individuato “gravi anomalie“.
Secondo i magistrati contabili, il valore nozionale dei derivati sottoscritti dagli enti territoriali ammontava, al momento del blocco, appunto a quasi 25 miliardi, “il 60% dei quali imputabili ai contratti sottoscritti da Regioni e Province autonome”. Una cifra che vale il 28% dei 52,77 miliardi di debito delle Regioni, con punte del 91% in Campania e del 73,9% in Liguria. Ma, a fronte di questa scorpacciata di prodotti con “profili di criticità piuttosto elevati”, gli “apparati preposti alla loro gestione” sono “inadeguati“. Peggio ancora, le contabilizzazioni risultano spesso “errate” ed emergono “violazioni normative e notevoli squilibri contrattuali in danno agli enti per la mancata valutazione della convenienza economica dei contratti”.
Non mancano i casi limite: per esempio contratti sottoscritti “in lingua inglese in assenza delle traduzioni” o, com’è successo in tre comuni pugliesi, “afferenti mutui già estinti” o “per la concessione di delegazioni di pagamento in violazione dell’art. 206 del Testo unico degli enti locali”. Ma gli esempi sono numerosi. In Campania i magistrati contabili hanno scoperto che i consulenti scelti dal comune di Scafati per avere consigli sui contratti “coincidevano con la figura dell’intermediario finanziario, in palese conflitto d’interessi“.
La Sezione regionale di controllo per la Liguria ha scovato operazioni “non conformi alla normativa all’epoca vigente, dal momento che contrastavano con il principio di contenimento del rischio di mercato che risultava, invece, incrementato essendovi il rischio di perdere le somme versate in caso di bancarotta, ripudio o ristrutturazione del debito da parte degli Stati e degli enti pubblici i cui titoli sono stati immessi nel fondo”.
In Emilia Romagna i comuni di Modena e Forlì – Cesena non avevano creato il fondo di accantonamento necessario per coprire eventuali perdite future legate ai derivati. Venezia deve fare i conti con “una situazione di forte incertezza sulla tenuta degli equilibri di bilancio” a causa di “quattro contratti di finanza derivata che soltanto nell’esercizio 2011 hanno prodotto flussi negativi per un totale di 5,1 milioni”.
Non stupisce, davanti a questo panorama, che il risultato delle operazioni giudicato sulla base del valore di mercato dei derivati sia “costantemente negativo”. Come, del resto, quello complessivo dei derivati sottoscritti dal Tesoro a partire dagli anni Novanta: la perdita teorica nel caso fossero stati chiusi alla fine del 2014, hanno ricordato gli esponenti della Corte, sarebbe stata di circa 42 miliardi. 
Nel complesso i dati dell’indebitamento da derivati è così riassunto dal report n.3 del MEF per il 2018: Totale. 11.261. 460.421 per 166 enti coinvolti e 331 contratti.
Non ci stancheremo ogni qual volta potremo averne l’occasione di denunciare questo stato di cose che segnala, prima di tutto, la superficialità e l’impreparazione di chi – strombazzando – si candida a delicate cariche pubbliche soltanto in nome della propria “visibilità”.
Questo deteriore stato di cose e di comportamenti è stato reso possibile dalla permeabilità di soggetti politici che ormai hanno smarrito l’idea di una preparazione specifica per gli amministratori degli Enti Locali e, più in generale, di un minimo di rapporto serio tra la politica, la cultura, la conoscenza dei problemi.
E’ questo il dato che si è perduto probabilmente in una dimensione irrimediabile, nel corso degli anni, e che rende ormai completamente deteriorato il rapporto tra amministrazione pubblica e cittadini.
Un vuoto che non può essere colmato da cosiddetti “tecnici”.

martedì 8 maggio 2018

Multe a Big Pharma: quasi 3 miliardi tra il 2016 e il 2017

Public Citizen, un’associazione statunitense che tiene sotto controllo le azioni delle lobby sull’amministrazione USA, riferendone ai cittadini, pubblica periodicamente un rapporto che riassume le sentenze del governo federale contro le industrie farmaceutiche e i relativi pagamenti. Riassumiamo qui sotto le informazioni più importanti dell’ultimo rapporto (originale a questo link ), concernente 38 casi per un totale di 2.9 miliardi di dollari nel 2016 e 2017 (412 casi per un totale di 38.6 miliardi di dollari tra il 1991 e il 2017). I precedenti rapporti erano stati pubblicati nel 2010, 2012 e 2016.
Risultati principali
Nel biennio 2016-17, la multa maggiore è stata quella comminata alla Wyeth, ditta controllata dalla Pfizer: 785 milioni di dollari nell’aprile del 2016 per aver nascosto di aver dato illegalmente degli incentivi agli ospedali affinché comprassero il Protonix (pantoprazolo) nell’ambito del programma Medicaid per le famiglie di basso reddito. La seconda multa in ordine di grandezza è stata per la ditta Mylan: 465 milioni di dollari nell’agosto del 2017 per non aver classificato Epipen, un auto- iniettore di epinefrina, come farmaco generico ed aver per questo fatto spendere troppi soldi al programma Medicaid.
In generale, rispetto al biennio e ai periodi precedenti, è confermata una diminuzione delle sentenze per azioni criminali, come la corruzione e l’uso di tangenti, e per promozione illegale di farmaci, come la pubblicità per usi off-label. Ciò sembra dovuto in parte ad una riduzione delle attività di controllo da parte della giustizia federale e statale, in parte ad un indebolimento delle normative che permettono a molte attività, che in passato sarebbero state giudicate criminali, di passare inosservate. Tra le multe per corruzione, spicca quella da 519 milioni di dollari comminata alla ditta Teva per aver corrotto medici e ospedali in Ucraina e Messico allo scopo di aumentare le vendite del Copaxone (glatiramer acetato) e altri farmaci.

lunedì 7 maggio 2018

La riforma “recupera bottiglie” vede la luce

Chi è più avanti con l’età si ricorderà dello storico sistema del “vuoto a rendere”. Un sistema semplice che induceva nei consumatori un comportamento virtuoso: riportare le bottiglie di vetro al negozio per riavere indietro la cauzione. Qualcosa di analogo sarà finalmente possibile, anche in Italia, per il mondo della plastica. O, meglio, al PET, materiale usato soprattutto per le bottiglie di acqua, latte e altri liquidi alimentari. Dopo due anni dalla richiesta, il Ministero dell’Ambiente ha emanato il decreto che autorizza le attività del consorzio Coripet, il progetto presentato nella primavera 2016 da sei dei più importanti produttori di acque minerali e dai riciclatori. Il via libera ministeriale permetterà di gestire in modo autornomo le bottiglie in PET.

Più bottiglie riporti, più guadagni

Il nuovo sistema si sgancerebbe dal consorzio Corepla, che dal 1998 si è occupato dell’intero universo dei materiali plastici e introdurrà una novità importante per i cittadini. Le bottiglie in PET potranno ancora essere gettate con gli altri materiali plastici nella raccolta differenziata. Ma verrà introdotto un “premio” per i cittadini che decideranno di inserirle in appositi macchinari eco-compattatori che saranno installati man mano nei supermercati. Per ogni bottiglia riportata, verrà riconosciuto infatti un importo di 1,5 centesimi, da sottrarre al costo della spesa effettuata. Dal consorzio fanno sapere che sono già pronte 2700 macchine da collocare nei punti vendita.

A regime il sistema potrebbe permettere di raccogliere in questo modo circa 2 miliardi di bottiglie ogni anno. Stimolando la partecipazione attiva dei cittadini, aumenterebbe le percentuali di riciclo, inesorabilmente ferme attorno al 43% delle quantità immesse a consumo. I proponenti sono convinti di riuscire a portarle attorno all’80%. In questo modo, l’Italia recupererebbe posizioni rispetto ad altri Stati Ue.


Vantaggi anche per i Comuni

Una volta raccolto, il quantitativo di bottiglie in plastica immesse sul mercato dalle acque minerali consorziate (Ferrarelle, Lete, Norda, San Pellegrino, Maniva e Drink Cup che insieme rappresentano il 35% del mercato) sarà avviato al riciclo meccanico grazie anche ai riciclatori soci di Coripet (Aliplast, Dentis Recycling Italy e Valplastic, 75% del relativo comparto) e giàin possesso del parere positivo dell’Efsa (Agenzia europea per la sicurezza alimentare) per la produzione di RPET idoneo al diretto contatto alimentare.
Ma non sarebbero solo i consumatori a trarre benefici dalla novità. Il nuovo sistema garantirebbe maggiori risorse economiche ai Comuni. Ad essi andrebbero 305 euro per ogni tonnellata di PET recuperata attraverso la raccolta differenziata contro i 281,7 euro pagati in media da Corepla. E si vedrebbero addebitate somme inferiori a quelle imposte dal sistema Conai per gestire la “frazione estranea” (la parte di rifiuti diversi dal PET che finiscono per errore nella differenziata). Gli attuali 209 euro a tonnellata scenderebbero a 195 euro/ton.

“Aumenteremo quantità e qualità del riciclo”

Ovviamente raggianti i vertici del nuovo consorzio che hanno dovuto affrontare finora una lunga trafila burocratica per vedersi approvare il progetto. “Siamo lieti di poter avviare il nostro progetto di economia circolare” ha dichiarato Giancarlo Longhi, Presidente del Consorzio. “Con esso contiamo di raggiungere obiettivi di riciclo sempre piùambiziosi. Le nuove modalità coinvolgeranno e incentiveranno non solo i Comuni, ma anche direttamente i cittadini. Desideriamo che il riciclo da bottiglia a nuova bottiglia diventi una possibilita concreta per tutti”.
Il progetto, spiegano da Coripet, si inserisce e non stravolge la filiera oggi operativa. “Alla luce dei nuovi ed ambiziosi obiettivi europei di riciclo – prosegue Longhi – il riconoscimento di Coripet è un chiaro segnale che va nella direzione indicata dall’Europa: riciclare sempre di più e con una migliore qualita. Sicuramente inizieremo ad operare in sinergia e collaborazione con tutta la filiera: dall’attuale sistema consortile, ai Comuni, che rappresentano l’indispensabile anello di congiunzione con i cittadini, agli impianti di selezione, alla Grande Distribuzione che, da tempo, si èmostrata attenta al nostro progetto”.

Un programma in due fasi

Come prevede la legge, il provvedimento di riconoscimento ministeriale è diviso in due fasi. La prima, provvisoria, per la fase di avvio ed implementazione del progetto, avrà una durata di due anni. Al raggiungimento degli obiettivi previsti, seguirà la definitiva. Coripet inizieràad operare sul mercato, al pari degli altri operatori già autorizzati. In questa fase di avvio, sono previste delle verifiche e dei controlli periodici sul raggiungimento degli obiettivi sia da parte di ISPRA che del Ministero dell’Ambiente.

venerdì 4 maggio 2018

Cresce la spesa militare mondiale: nel 2017 è stata di 1.739 miliardi di dollari

Le spese militari mondiali crescono dell’1,1% in termini reali, superando nel 2017 il muro dei 1.700 miliardi di dollari con una valutazione fissata a 1.739 miliardi di dollari, pari al 2,2% del PIL mondiale (230 dollari pro capite). Lo certificano le stime del Sipri, l’istituto svedese di ricerca sulla pace, relative alla spesa per eserciti ed armamenti di tutti gli Stati del mondo. La leggera crescita, che fa proseguire un trend in atto da alcuni anni, è il risultato dell’incremento ormai da tempo robusto nelle spese dell’area mediorientale - Arabia Saudita su tutti - e del continuo aumento dei fondi militari impiegati da Cina e India. Un aumento che avviene nonostante il drastico taglio delle spese militari della Russia (- 20%) e una stasi in quelle statunitensi che comunque superano, da sole, quelle dei successivi sette Paesi della lista e si prevedono in rialzo già sul 2018.
Il dato relativo al Medio Oriente risulta in crescita di oltre il 6% nonostante non siano valutabili (e quindi esclusi dal conteggio) i dati di paesi in guerra come Siria e Yemen oltre che di storici speditori militari come Qatar ed Emirati Arabi. In Europa si registra un incremento generalizzato, più pronunciato in quella centrale (+12%), e comunque presente in quella occidentale (+1,7%) sia per la percezione di pericolo russo sia per le richieste di aumento di spesa che la NATO sta reiterando. I principali Paesi per spesa militare in Europa sono Francia (-1,9%), Gran Bretagna (+0,5%), Germania (+3,5%) e Italia (+2,1%). Dunque anche il nostro Paese viene stimato con una spesa militare in rialzo e superiore ai 26 miliardi di euro, circa 29 miliardi di dollari, con un controvalore pari all’1,5% del PIL. Sono numeri che confermano il trend in rialzo già evidenziato dalle analisi dall’Osservatorio Mil€x, più specifico nelle valutazioni sul bilancio dello Stato Italiano.
Di fronte a questo continuo scelta di investimento militare da parte di tutti Paesi del mondo la Campagna globale sulle spese militari (GCOMS) ribadisce la richiesta di una riduzione della spesa militare con conseguente spostamento di fondi su altre più urgenti necessità. Che andrebbero a favore delle popolazioni di tutto il mondo.
“I fondi attualmente destinati ad usi militari devono essere urgentemente reindirizzati verso i veri bisogni umani! I fondi che oggi vengono spesi negli eserciti sono necessari invece e con urgenza per ridurre le disuguaglianze, per aumentare la cooperazione mondiale, per eliminare le ingiustizie energetiche, per sfidare le dinamiche che stanno spingendo la massiccia crisi di rifugiati e sfollati, per implementare regolamenti globali di mercato basati sulle persone e per costruire un mondo pacifico” si legge nella Dichiarazione internazionale diffusa dalla GCOMS.
“Come primo passo, chiediamo pertanto una riduzione del 10% della spesa militare in tutti i Paesi e le Alleanze, compresa la NATO, al fine di uno spostamento di questi fondi verso i veri bisogni umani e obiettivi sostenibili” è la richiesta fondamentale della mobilitazione internazionale promossa dall’International Peace Bureau e sostenuta da centinaia di organizzazioni della società civile di cinque continenti.
L’obiettivo della Campagna è far pressione sui Governi affinché investano denaro in salute, istruzione, posti di lavoro e cambiamenti climatici, oltre che alla costruzione della Pace, piuttosto che nelle spese militari. La Rete Italiana per il Disarmo sostiene la GCOMS nella richiesta di una riduzione del 10% delle spese militari, a partire da quelli italiane che in particolare sono sbilanciate sulla spesa per il personale e prevedono quasi 6 miliardi di euro annui per l’acquisto di nuovi armamenti. La Rete Disarmo sottoscrive e rilancia del nostro Paese la dichiarazione conclusiva della Campagna internazionale che analizza la situazione derivante da scelte politiche globali influenzate dal complesso militare-industriale: “Gli affari di guerra si basano sul commercio di armi e sulla ricerca di strutture di potere, dominio e mascolinità che provocano morti civili, conflitti degradanti, sfruttamento predatorio del pianeta e contribuiscono attivamente al cambiamento climatico. Le azioni per promuovere la giustizia globale e ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici richiedono una riduzione delle spese militari e rinnovati sforzi per utilizzare i negoziati nel risolvere i conflitti. Produrre e vendere armi è un affare molto redditizio che uccide le persone, mentre l'acquisto di armi sottrae denaro da obiettivi positivi centrati sulle esigenze umane”.