lunedì 31 luglio 2017

Perché le nuove sanzioni Usa alla Russia sono un regalo al terrorismo. (E la Germania questa volta non ci sta)

”Non accetteremo un’applicazione extraterritoriale delle sanzioni americane contro le imprese europee”. Lo ha detto il ministro degli esteri tedesco, Sigmar Gabriel, in risposta alle sanzioni contro la Russia approvate dal senato Usa».
«Secondo Gabriel, riporta il settimanale Der Spiegel, “la politica delle sanzioni non è uno strumento né adatto né conveniente per la promozione degli interessi nazionali nell’export e nel comparto energetico”».
La netta presa di posizione del ministro degli Esteri della Germania è stata ripresa da Swissinfo, mentre poco spazio ha trovato sui media italiani. Eppure a parlare è stato il ministro degli esteri tedesco. Che denuncia quanto abbiamo scritto in altra nota, ovvero che le sanzioni anti-russe colpiscono di fatto l’Europa (vedi Piccolenote).
Esse servono infatti ad affossare il Nord Stream 2 e a favorire l’esportazione di idrocarburi americani che dovrebbero rimpiazzare quelli russi. Come appunto denuncia puntualmente Sigmar Gabriel.
Significativo che quando la Germania ha attaccato Trump sul clima, al recente G20, tutti i media italiani hanno osannato il coraggio teutonico, baluardo contro la prepotenza americana che con i suoi distinguo puntava ad affondare appunto l’accordo sul clima.
In questi giorni in cui la Germania si trova a fare da vero contraltare a tale prepotenza (non ha parlato solo il ministro degli Esteri), su un tema ben più importante che non un trattato sul clima, la cosa è passata quasi inosservata.
Ciò è dovuto forse al fatto che nell’occasione il bersaglio della reazione tedesca non è il solo Trump, presidente sgradito ai tanti orfani della Clinton, ma gli ambiti neocon che gli muovono guerra e che gli hanno imposto una politica conflittuale con Mosca.
Il bello, il brutto anzi, è che la controversia attuale è ben più importante, dal momento che riguarda non solo il futuro economico dell’Unione europea, cui viene tolta la possibilità di vendere e comprare con Mosca, ma anche la sua indipendenza, ché la dipendenza energetica dagli Stati Uniti non solo è anti-economica, ma toglierà all’Europa gli ultimi residui di libertà, rendendola del tutto dipendente da Washington. Una banale colonia dell’Impero.
La Germania non è sola in questa battaglia, dal momento che anche la Francia ha denunciato la non rispondenza al diritto internazionale delle sanzioni varate da Washington, dal momento che hanno portata extra-territoriale.
In pratica gli Stati Uniti si sono arrogati il diritto di punire imprese straniere nonostante esse operino in conformità con le leggi vigenti nella propria nazione.
Resta che la nazione più danneggiata da questa decisione del Congresso americano è la Germania, dal momento che contava proprio sul Nord Stream 2 per poter supportare al meglio il proprio sviluppo. Da qui la dura presa di posizione tedesca.
Difficile dire se e come questa controversia andrà a svilupparsi, anche se è possibile un qualche aggiustamento. Di certo non giova a Berlino il rinnovarsi della sfida terroristica: ieri un morto ammazzato ad Amburgo ad opera di un agente dell’Isis.
Una sfida che indica che il terrorismo non termina con la fine del Califfato in Iraq e Siria, ormai prossima, e che rende l’Occidente più vulnerabile e quindi ne necessità l’unità.
Tale sfida, insomma, impone di non rompere il filo del dialogo con Washington in funzione di un coordinamento anti-terrorismo. Necessità che va quindi a intersecarsi in maniera variabile con quella di un chiarimento e di un compromesso riguardo le sanzioni contro la Russia.

Certo, ci sarebbe da registrare il fatto che Mosca è la nazione che più ha contrastato il Terrore, ché senza il suo intervento in terra siriana l’Isis avrebbe facilmente costituito il suo Califfatonella regione a cavallo tra Siria e Iraq.
E che da questo punto di vista le sanzioni contro Mosca sono un regalo al terrorismo internazionale. Ma questo è argomento che ai neocon non interessa, dal momento che considerano la Russia più pericolosa dell’Isis

venerdì 28 luglio 2017

Plastica, i rifiuti che la Cina non vuole più intasano gli impianti italiani

Nelle scorse puntate greenreport (qui e qui) ha cercato di approfondire il problema della crisi della filiera post-consumo della plastica italiana, che si è trovata a gestire più rifiuti da raccolta differenziata del previsto, e soprattutto di una qualità peggiore rispetto al passato. Abbiamo cercato di mostrare i punti deboli del sistema, disvelare le cause e proporre soluzioni: prima di tutto quella di una progettazione più sostenibile degli imballaggi (prevenzione), poi di un sistema di incentivazione fiscale al riciclo e di una presa di coscienza da parte della pubblica amministrazione, che smetta di guardare solo al dato quantitativo della raccolta differenziata e cominci a pensare anche alla qualità, al successivo riciclo e infine al ri-acquisto dei prodotti riciclati: la spesa in acquisti di beni e servizi da parte della Pubblica amministrazione italiane vale oggi 284 miliardi di euro – circa il 17% del Pil – , e avrebbe quindi tutta la forza per riorientare l’economia in senso ecologico, se solo lo si volesse.
Detto tutto ciò non possiamo però esimerci di allargare lo sguardo anche al di fuori dei nostri confini. Perché se il problema è venuto a galla oggi e non magari fra qualche anno, dipende da una superpotenza globale come la Cina. Eh sì. La Cina. Perché la Cina non è così diversa da noi: pochi giorni fa il governo cinese ha notificato all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) che smetterà di accettare spedizioni di 24 tipi di rifiuti e il lancio di una campagna contro la “spazzatura straniera”. La Cina non è così diversa da noi, perché il governo ha semplicemente annunciato una cosa che il mercato aveva già deciso: nel 2016 infatti si è toccato la punta record di 7,3 milioni di tonnellate di rifiuti plastici importati dal gigante asiatico, ma a partire proprio dagli ultimi mesi dello scorso anno questa tendenza si è interrotta. La Cina infatti aveva già iniziato a ridurre le importazioni di certi rifiuti da diversi paesi che per anni se ne sono approfittati, mandando laggiù materiali di pessima qualità (e badate bene, parliamo solo di traffici legali, controllati e certificati).
Per un po’ il giochino è continuato, magari utilizzando triangolazioni con paesi da cui venivano fatti transitare i rifiuti e che non erano stati ancora messi nella ‘lista nera’; poi, alla fine anche queste sponde sono venute meno e nel frattempo i cinesi si sono costruiti gli impianti. Tanti impianti e di ogni genere, così da evitare l’import: per selezionare e riciclare i rifiuti prodotti da loro stessi secondo la logica di prossimità (che poi, ambientalmente, è cosa razionale e sostenibile). Una tendenza cui dovremmo – velocemente – abituarci, dato che non riguarda “solo” la Cina: anche la Germania, che finora si è sobbarcata (profusamente pagata) la gestione dei rifiuti contenenti amianto italiani che l’Italia non vuole, presto ci lascerà con il cerino in mano.
Tornando alla filiera dei rifiuti plastici, la conseguenza della nuova politica cinese è chiara: i riciclatori europei hanno improvvisamente avuto a loro disposizione molta più scelta di materiali, e a prezzi molto più convenienti. Il risultato è che chi aveva raccolte differenziate e selezioni di qualità (la Germania) è riuscita comunque a vendere, magari a prezzi molto ridotti, i propri rifiuti riciclabili. Mentre i paesi che avevano un materiale di qualità inferiore non sanno più a chi darlo. Tra questi anche l’Italia, con la richiesta di Corepla di riservare una quota di termovalorizzazione anche alle plastiche più difficili da riciclare.

giovedì 27 luglio 2017

Masochisti, contraddittori e approfittatori: che futuro ci aspetta?

Praticamente tutti si lamentano che non hanno abbastanza soldi, da Berlusconi all’ultimo dei senzatetto, eppure di fronte a sprechi e ladrocìni di ogni tipo da parte dello Stato, non si fa granchè. Negli ultimi anni alle banche, dopo che hanno rubato, truffato e arraffato a più non posso, sono stati regalati qualcosa come circa 80 miliardi di lire e abbiamo servizi in Italia da quarto o quinto mondo. Mezzi pubblici allo sfascio, patrimonio edilizio e culturale che crolla ad ogni occasione, sanità in condizioni miserabili, scuole fatiscenti, dissesto idrogeologico e l’elenco potrebbe proseguire per giorni. E non si tratta solo di banche che fanno parte di questa vergogna, ma anche dirigenti di aziende pubbliche dagli stipendi faraonici e buonuscite milionarie, altrettanti stipendi vergogna e vitalizi ai politici di tutte le caste possibili: nazionali, regionali, provinciali, comunali. Quantità incredibili di denaro pubblico che alimenta questo enorme e vomitevole schifo tenuto in piedi dalle tasse dei cittadini. E dalle alte sfere si ostinano a raccontarci che non ci sono soldi e che ci si deve pure sacrificare.
Eppure si va avanti come se nulla fosse, abituati ad essere derubati sempre e comunque, abituati a votare partiti e politici che permettono tutto ciò e più lo permettono e più li si votano.
E tra un servizietto e l’altro dei governi alle banche, nel frattempo gli italiani che fanno? Si divertono a dare fuoco al loro paese, per mafia, per gioco, per follia, per interessi privati. Può esistere gente più masochista di questa? Distruggere le stesse fondamenta della propria esistenza. E anche grazie ai soldi elargiti a mafie e banche varie, non ci sono soldi per la prevenzione, per i soccorsi e si assiste impietriti alla rovina.
E’ purtroppo assai facile in queste condizioni essere profeti di sventura: lo avevamo detto, con la siccità aumenterà il pericolo di incendi e con gli incendi aumenta l’effetto serra che aumenta il pericolo di incendi in una spirale perversa e devastante.
Di fronte alla follia autodistruttiva ci vogliono radicali cambiamenti e un trapianto di dna degli italiani sperando che riesca l’operazione e si capisca finalmente che pensare di essere i più furbi perché si approfitta di tutto e di tutti, non porta da nessuna parte e prima o poi ci si ritorce sempre drammaticamente contro, sempre.

mercoledì 26 luglio 2017

Via d’Amelio 2017: le verità di Ferdinando Imposimato

Paolo Borsellino è stato in grado di unire la saggezza all’umiltà” con queste parole prese da Antonino Caponnetto, l’ex magistrato e Presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione, Ferdinando Imposimato, ha aperto il suo acceso intervento, che ha lasciato impietrito il pubblico, soprattutto chi conosce meglio i fatti e continua a ricercare le risposte ancora mancanti.
Imposimato conobbe Falcone e Borsellino fin dal 1980 perché come loro si era interessato a Michele Sindona, il banchiere che si occupava di trasferire soldi illeciti in porti sicuri anche per conto della Chiesa, tanto da essere definito “il banchiere di Dio”.
In quegli anni, a Roma, Imposimato indagava su Sindona perché aveva organizzato un falso sequestro per apparire vittima delle Brigate Rosse, mentre Falcone e Borsellino, a Palermo, lo indagavano per altri delitti di stampo mafioso. Dall’intrecciarsi di queste indagini era nata l’idea di costituire un super pool, che aveva permesso a molti magistrati che si occupavano di mafia di incontrarsi ogni mese in diverse città d’Italia, per coordinare e rendere più efficace l’azione della magistratura contro la criminalità organizzata. La capacità d’indagine, quindi, si era moltiplicata grazie allo scambio d’informazioni e d’idee. Per Imposimato, tutto ciò aveva creato una grande preoccupazione da parte dei politici.
Scalfaro, “che prendeva cento milioni al mese dai servizi segreti” e “aveva promesso di fare la legge sui pentiti, che poi non ha fatto”, si era dovuto comunque confrontare con l’esplosione del pentitismo che ormai dilagava. Tommaso Buscetta aveva cominciato a parlare, denunciando accordi tra mafiosi, imprenditori e politici; anche questo era fonte di grande preoccupazione, soprattutto per quella politica coinvolta nel malaffare.
E così… erano cominciati i primi delitti, a partire da Boris Giuliano, ucciso per le sue indagini su Sindona, il primo di una lunga serie.
A questo punto dell’intervento è scattata l’inevitabile domanda “chi ha voluto la morte di Falcone e Borsellino?”. Per il Presidente onorario la risposta c’è già ed è nei documenti.
I due magistrati avevano indirizzato le proprie indagini su un’organizzazione sovversiva mondiale pericolosissima. “Io non sono pazzo!” ha esclamato Imposimato, specificando che quell’organizzazione si chiamava Gladio, Stay-behind.
Queste informazioni sarebbero state anche dentro i diari di Falcone. In quelle pagine, fin dal 1990, si legge che Falcone aveva capito che Gladio era implicata negli omicidi di Piersanti Mattarella e di Pio La Torre.
Secondo quanto appreso da Caponnetto, il Giudice ne aveva parlato con il procuratore Giammanco per convincerlo a seguire questa pista, sulla base della richiesta degli avvocati di parte civile, ma non aveva ottenuto risultati. Anche Caponnetto aveva ricevuto quelle richieste da Falcone e Borsellino, ma non era voluto intervenire perché Gladio era una struttura “potentissima” e, secondo Imposimato, ha le responsabilità di quasi tutti gli omicidi politico-mafiosi italiani.
Nell’intervento del 25 giugno in memoria di Falcone, Paolo Borsellino aveva detto di aver saputo, dall’amico e magistrato appena ucciso, delle cose che avrebbe riferito soltanto nelle sedi opportune. A quel tempo, il procuratore di Caltanissetta con l’incarico di indagare sulla strage di Capaci era Salvatore Celesti.
In quell’occasione, Borsellino aveva anche detto un’altra cosa importante, che il contenuto del diario di Falcone, da poco reso pubblico, corrispondeva alla verità.
Con quelle parole il Giudice non si riferiva alle indagini sugli appalti come, secondo Imposimato, si vorrebbe far credere, ma piuttosto a quelle sull’organizzazione eversiva Gladio, dichiarata illegittima anche dalla Commissione Stragi.
Tale organizzazione era guidata dalla Cia che controllava anche i Servizi italiani e si era servita di questi, oltre che della mafia e dei terroristi, per compiere tutte le stragi italiane da Portella della Ginestra in poi. Per Imposimato, come ha riportato anche in un suo libro, queste stragi fanno parte di una strategia della tensione a livello mondiale.
Vi erano e vi sono, dunque, collegamenti tra la Cia, la massoneria e una parte del Vaticano per “condizionare lo sviluppo della democrazia in Italia”.
Il presidente Imposimato ha specificato di aver potuto ricostruite la storia della loggia massonica grazie ad un documento del 1967, che fa parte della requisitoria del pm Alessandrini.
Quando Borsellino disse che il contenuto del diario di Falcone, pubblicato allora da Liliana Milella su “Il Sole 24 ore”, era vero, creò le cause per la sua immediata uccisione, ne accelerò i tempi.
“Questo non significa che la mafia non c’entra”, ha continuato Imposimato, precisando che tutti i nomi indicati da Spatuzza sono realmente coinvolti nella strage di via d’Amelio, così come lo sono i servizi segreti al servizio della Cia “definita in questo documento (come) un mostro incontrollabile”. Essa disponeva di 500 milioni di dollari all’anno e con questi “corrompeva chiunque; corrompeva uomini politici, e corrompeva i sindacati, e corrompeva la maggioranza e l’opposizione”.
Secondo quest’analisi, la Cia ha controllato il nostro Paese attraverso una penetrazione capillare, disponendo di una propria base nella Gladio, situata in Sardegna.
Anche Vito Ciancimino era un gladiatore e, in quest’organizzazione, era coinvolto persino Totò Riina.
Secondo uno studio fatto da una tesista, di cui Imposimato era relatore, Riina sarebbe stato un uomo della Cia. Quest’aspetto era stato confermato anche dalle parole di Badalamenti.
Poi, il Presidente onorario ha dichiarato, alzando il tono della voce, “Moro è stato vittima di un complotto politico infame della Gladio” e ha proseguito “purtroppo erano implicati anche qui i servizi che sapevano dov’era la prigione e non hanno liberato Aldo Moro, è una vergogna!”.
“Finché ci sono uomini come Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia, noi abbiamo la possibilità di andare avanti seguendo la strada giusta”, ha detto ancora Imposimato, aggiungendo un’ulteriore drammatica informazione: in via Sicilia a Roma c’erano gli uffici della Gladio, della Cia, dell’OSS e addirittura della P2, uno accanto all’altro. Enti che si sarebbero dovuti combattere tra loro mentre, invece, erano complementari e avevano l’unico scopo di condizionare il nostro Paese, eliminando gli emblemi della legalità come Borsellino e Falcone.
Tinebra, Celesti e tutti gli altri “erano dei mascalzoni”. Per Imposimato, è necessario avere il coraggio di denunciare il Csm quando sbaglia e affida le nomine a magistrati subalterni al potere politico; negli uffici devono esserci dei “magistrati che hanno fatto i magistrati, non persone che sono state al ministero”.
Questo lungo e sconvolgente intervento del presidente Imposimato si chiude con parole di speranza, sostegno ed esempio per i giovani.
Via d’Amelio applaude, ma molti volti sono segnati, e non solo dalla stanchezza.

martedì 25 luglio 2017

Famiglie in crisi, è corsa ai prestiti

Il primo semestre dell'anno si è concluso con una crescita dell'1,5% delle richieste di prestiti da parte delle famiglie italiane rispetto allo stesso periodo del 2016. E' quanto risulta in base alle consultazioni effettuate sul Sistema di Informazioni Creditizie Eurisc di Crif.
A giugno, in particolare, c'è stato un incremento delle richieste pari a +2,4% rispetto allo stesso mese dello scorso anno ma, al contempo, si è rafforzato anche il trend di crescita degli importi medi richiesti, che si sono attestati a 9.234 euro (+7,8% rispetto a giugno 2016).
Il primo semestre, spiega il Crif, è stato spinto dal comparto dei prestiti personali (+4,0%), a cui si contrappone un leggero calo dei prestiti finalizzati all’acquisto di beni e servizi (quali autoveicoli, motocicli, articoli di arredamento, elettronica ed elettrodomestici, viaggi, spese mediche, palestre), che ha fatto segnare una contrazione del -0,6% rispetto al corrispondente semestre del 2016, che aveva però registrato un picco di richieste.
Per altro, continua il report, il dato di giugno conferma la tendenza in atto a partire dal 2016 di una maggiore vivacità per la componente dei prestiti personali rispetto ai prestiti finalizzati. Nello specifico, a giugno le richieste di prestiti personali sono cresciute del +6,2% mentre quelle di prestiti finalizzati hanno segnato un -0,8% rispetto allo stesso mese dello scorso anno.
Nel primo semestre c'è stato anche l’incremento dell’importo medio dei prestiti richiesti che, nell’aggregato di prestiti personali più finalizzati, si assesta a 9.178 euro (+6,5% rispetto allo stesso semestre 2016). L’incremento relativo al solo mese di giugno risulta pari a +7,8%, consolidando il recupero rispetto ai valori pre-crisi, come si evince anche dal grafico seguente.
Il dato semestrale dell’importo medio richiesto relativamente ai prestiti finalizzati è stato pari a 6.030 euro, con una crescita del +9,0% rispetto al 2016. Anche i prestiti personali registrano un incremento dell’importo medio richiesto (+3,8%) che si attesta a 12.921 euro.
Concentrandosi sulla distribuzione delle richieste di prestiti da parte delle famiglie per fascia di importo, il rapporto del Crif mostra come nei primi 6 mesi dell’anno la classe inferiore ai 5.000 euro sia stata quella preponderante, con una quota pari al 45,5% del totale.
Nel dettaglio delle diverse tipologie di finanziamento, i prestiti finalizzati sono il vero aggregatore di offerte nella fascia fino a 5.000 Euro, con il 61,9% delle richieste, mentre le interrogazioni relative ai prestiti personali risultano maggiormente uniformi nelle classi fino a 20.000 Euro (25,8% del totale nella prima classe, 26,8% in quella tra 5.001 e 10.000 Euro, 28,8% in quella tra 10.001 e 20.000 Euro).
L’analisi della distribuzione per durata, si legge ancora, conferma che nel primo semestre la classe di durata superiore ai 5 anni è stata quella in cui si è concentrato il maggior numero di richieste di prestito, con una quota pari al 25,1% del totale, in aumento di 1,8 punti percentuali rispetto allo stesso periodo del 2016.
Al contrario si evidenzia una contrazione della classe di durata inferiore ai 12 mesi, che passa dal 17,4% al 16,0% del totale, in continuo calo nelle ultime rilevazioni.
Per quanto riguarda i prestiti finalizzati, nei primi sei mesi dell’anno le richieste si sono concentrate per il 26,7% nella classe di durata inferiore ai 12 mesi ma complessivamente si registra un allungamento delle durate anche per questa tipologia di finanziamento, in linea con la dinamica che caratterizza le richieste di prestiti personali, che si stanno indirizzando sempre di più nella fascia di durata superiore ai 5 anni (44,0% sul totale).
Osservando, infine, la distribuzione delle interrogazioni in relazione all’età del richiedente, l’ultimo aggiornamento del Barometro Crif evidenzia come nel primo semestre 2017 sia stata la fascia compresa tra i 45 e i 54 anni ad essere quella prevalente, con una quota pari al 25,6% del totale, seguita a breve distanza da quella tra i 35 e i 44 anni, con il 23,7%.
Si segnala però una crescita di +0,7 punti percentuali rispetto all’anno precedente dell’incidenza delle classi di età superiori ai 55 anni.
Relativamente ai prestiti finalizzati, in cui hanno un peso particolarmente significativo gli acquisti di auto/moto ed elettronica di consumo, si segnala una crescita di 1 punto percentuale per le richieste da parte di consumatori di età superiore a 55 anni.

lunedì 24 luglio 2017

Fisco, Italia più tassata della media Ue

Più tasse e più soldi nelle casse statali che non si sono tradotti, per l'Italia, in un miglioramento dei conti pubblici. Negli ultimi 10 anni, i contribuenti del nostro Paese hanno visto crescere enormemente il peso delle tasse senza riscontrare un andamento virtuoso delle finanze pubbliche: la pressione fiscale era al 39,1% del prodotto interno lordo nel 2005 ed è progressivamente salita fino ad attestarsi al 43,5% nel 2015; e contemporaneamente sono aumentati gli incassi per lo Stato, passati dal 42,5% del pil al 47,6%; un incremento di balzelli ed entrate a cui non ha fatto seguito un contenimento del debito, schizzato al 132,7% del pil nel 2015 rispetto al 101,9% del 2005.
E' quanto emerge da un'analisi del Centro studi di Unimpresa secondo cui in Italia si registra il livello più alto sia per le imposte sui consumi (Iva), con un'aliquota massima al 22%, sia per le imposte personali sul reddito (Irpef), con un'aliquota massima al 48,9%, sia per le imposte sul reddito delle società (Ires), con un'aliquota massima al 31,4%.
Impietoso il confronto con altri Paesi: in Germania, prosegue lo studio, la pressione fiscale è passata dal 38,4% al 39,6% del pil, il debito pubblico dal 66,9% al 71,2%; nella media dell'area euro il peso delle tasse è passato dal 39,4% al 41,%; il debito degli Stati dal 62,1% all'83,3%; in Gran Bretagna, il fisco è salito dal 35,7% al 34,8% e il "rosso" nei conti dello Stato dal 41,5% all'89,2%; negli Stati Uniti, il prelievo fiscale è rimasto sostanzialmente invariato, dal 26,3% al 26,4% con il debito salito dal 66,9% al 113,6% del pil Usa.

venerdì 21 luglio 2017

Ecco dove scoppieranno le prossime guerre per l’acqua

Nel mondo sono in fase di progettazione o costruzione più di 1.400 nuove dighe o deviazione di corsi d’acqua e molte di queste gigantesche opere riguardano fiumi che scorrono attraverso più Stati, alimentando le potenzialità di gravi conflitti per l’acqua tra alcuni Paesi.
Il nuovo studio “Assessment of transboundary river basins for potential hydro-political tensions”, pubblicato su Global Environmental Change da un team di ricercatori spagnoli dell’Universidad Complutense de Madrid e del Water Observatory della Botín Foundation, statunitensi dell’Oregon State University e cileni del Centro de Estudios Avanzados en Zonas Áridas, utilizza un insieme di fattori sociali, economici, politici e ambientali per individuare le aree di tutto il mondo più a rischio di guerre “idro-politiche”. Questo studio su bacini fluviali e conflitti fa parte del Transboundary waters assessment program dell’Onu e i ricercatori hanno realizzato un analisi globale commissionata loro dalla Economic commission for Europe dell’Onu come indicatore degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite per la cooperazione in materia di acque.
Dallo studio emerge che, nei prossimi 15-30 anni, i rischi di conflitti sono proiettati a crescere in quattro hotspot regionali: Medio Oriente, Asia centrale, bacino Ganges-Brahmaputra-Meghna e i bacini dell’Orange e del Limpopo nell’Africa australe. Inoltre, il Nilo in Africa, gran parte dell’Asia meridionale, i Balcani nell’Europa sudorientale e Sud America settentrionale sono tutte aree nelle quali sono in costruzione nuove dighe e dove i Paesi limitrofi affrontano una crescente richiesta di acqua, dove mancano trattati applicabili o, peggio, non è stata ancora discussa la questione.
Uno degli autori dello studio, Eric Sproles, del College of Earth, ocean, and atmospheric sciences dell’Oregon State University, sottolinea che «Se due Paesi hanno già concordato il flusso e la distribuzione dell’acqua quando c’è una diga a monte, non esiste in genere un conflitto, Questo è il caso del bacino del fiume Columbia tra gli Stati Uniti e il Canada, il cui trattato è riconosciuto come uno degli accordi più resilienti e avanzati al mondo. Purtroppo, questo non è il caso di molti altri sistemi fluviali, nei quali vengono attivati ​​diversi fattori, tra cui il forte nazionalismo, il contenzioso politico e la siccità o il cambiamento delle condizioni climatiche».
I ricercatori fanno notare che «Il conflitto per l’acqua non è limitato al consumo umano. C’è una minaccia globale per la biodiversità in molti dei sistemi fluviali del mondo e il rischio di estinzione delle specie è moderato a molto alto nel 70% dell’area dei bacini fluviali transfrontalieri».
E’ il continente più popoloso, l’Asia, ad avere il maggior numero di dighe proposte o in costruzione su bacini transfrontalieri: 807, seguono l’America del Sud con 354; l’Europa con 148; l’Africa con 99; l’America del Nord con 8. Ma lo studio avverte che «l’Africa ha un livello più elevato di tensione idro-politica, con fattori più aggravati». I ricercatori fanno l’esempio dei bacini del Nilo, una delle arre geopoliticamente più calde e controverse del mondo, e dell’Awash, dove l’Etiopia sta costruendo sui suoi altipiani diverse dighe sugli affluenti che toglieranno acqua ai Paesi a valle, compreso a una potenza regionale pericolosa e assetata come l’Egitto. «A contribuire alla tensione sono la siccità e una popolazione crescente più dipendente da una fonte d’acqua che può diminuire», dicono con preoccupazione gli esperti.
I rischi di guerre per l’acqua sono molto elevate anche a causa delle dighe in costruzione o progettate nell’Asia meridionale e del sud-est, in particolare nel sub-continente indiano e in Indocina. Oltre all’India e al Pakistan che si disputano le acque dell’Indo, un conflitto potrebbe scoppiare tra Cina e Vietnam per l’utilizzo dei fiumi Bei e Xi e tra il Myanmar e i Paesi vicino a causa della costruzione di dighe sugli affluenti dell’Irrawaddy. Sembra invece molto più tranquilla la situazione lungo l’Amur, il fiume di confine tra Cina e Russia che era un fronte caldissimo ai tempi dell’Unione Sovietica e della Cina maoista.
Sproles aggiunge: «Quando osservi una regione, la prima cosa che cerchi di identificare è se ci sia un trattato e, in caso affermativo, se sia uno che funziona per tutte le parti e se sia abbastanza flessibile da resistere al cambiamento. E’ facile pianificare l’acqua se è la stessa ogni anno, a volte anche quando il suo livello è basso. Ma quando le condizioni variano – e la siccità è un fattore chiave – la tensione tende ad aumentare ed è più probabile che avvenga un conflitto».
Lo studio dimostra che, oltre alla variabilità ambientale e alla mancanza di trattati, altri fattori che portano alle guerre per l’acqua comprendono l’instabilità politica ed economica e i conflitti armati.
Sproles conclude: «Una ragione per cui il trattato Columbia River Basin tra Stati Uniti e Canada ha funzionato bene è la relativa stabilità idrica. Al contrario, i modelli climatici suggeriscono che il bacino del fiume Orinoco nel Brasile settentrionale e il bacino dell’Amazzonia nel Sudamerica superiore possano affrontare condizioni più secche, che p

giovedì 20 luglio 2017

Il Senato approva il decreto sui vaccini, ora passa alla Camera

Il dl dovrà essere approvato in tempi rapidi e senza modifiche, per evitare un nuovo passaggio al Senato che ne metterebbe a rischio la conversione in legge
Via libera dell’Aula del Senato al decreto Vaccini. I voti a favore sono 172. Oltre alla maggioranza, tra gli altri hanno votato a favore anche Forza Italia, Scelta civica-Ala e Mdp, seppur riconoscendo la «piena libertà» ai propri senatori di «votare in dissenso contro il decreto», ha detto la capogruppo Cecilia Guerra.
Il provvedimento passa ora all’esame della Camera, che dovrà approvarlo in tempi rapidi e senza modifiche, per evitare un nuovo passaggio al Senato che ne metterebbe a rischio la conversione in legge, visto che il decreto scade il 6 agosto.
Al momento del voto finale si è verificato qualche problema tecnico, tanto che alcuni voti, sia a favore sia contro il decreto, non sono stati registrati dal sistema elettronico. Sul tabellone i voti a favore risultavano 171, poi a voce uno dei senatori ha chiesto che venisse verbalizzato anche il suo voto, facendo così salire a 172 il totale dei sì.
Queste le novità contenute nella norma.
Obbligatori e consigliati
L’aula di Palazzo Madama ha confermato la riduzione da dodici a dieci dei vaccini obbligatori e sono: l’anti-poliomielitica, l’anti-difterica, l’anti-tetanica, l’anti-epatite B, l’anti-pertosse e l’anti-Haemophilus influenzae tipo b. Quelli sempre obbligatori, ma solo fino al 2020 sono: anti-morbillo, anti-rosolia, anti-parotite e anti-varicella. Nel nuovo decreto si prevede che 4 vaccinazioni diventeranno fortemente consigliate dalle Asl, oltre che gratuite come già previsto dal Piano nazionale: si tratta di quelle contro il meningococco C e B, che fino ad ora erano nel gruppo delle obbligatorie, e di quelle contro il rotavirus e lo pneumococco.
Riduzione sanzioni
Approvato il correttivo che fa diminuire le sanzioni amministrative: l’importo sarà al minimo 100 e al massimo 500 euro. In origine la multa prevista andava dai 500 ai 7.500 euro. Cancellata anche la previsione che stabiliva la perdita della patria podestà.
Anagrafe vaccinale
E’ stato inoltre confermata l’istituzione dell’anagrafe vaccinale e per l’integrazione degli obbiettivi dell’unità di crisi che monitora le attività del Servizio sanitario nazionale «per renderli funzionali alle esigenze di coordinamento tra tutti i soggetti istituzionali competenti in materia di prevenzione delle malattie infettive nonché di regia rispetto alle azioni da adottare in condizioni di rischio o allarme».
Monocomponente
Il Senato ha poi approvato l’emendamento presentato dalla relatrice Manassero, che prevede che un soggetto già immunizzato potrà adempiere all’obbligo vaccinale con vaccini in formulazione monocomponente o combinata in cui sia assente l’antigene per la malattia per cui si è già coperti.
Prenotazione in farmacia
Ok alla prenotazione delle vaccinazioni nelle farmacie convenzionate aperte al pubblico attraverso il Centro unificato di prenotazione (Cup). In particolare, la norma prevede «in via sperimentale e al fine di agevolare gli adempimenti vaccinali relativi all’anno scolastico 2017/2018».
Autocertificazione medici e insegnanti
Un emendamento al testo approvato dal Senato prevede che anche gli operatori scolastici, gli operatori socio sanitari e gli operatori sanitari possano presentare una autocertificazione attestante la copertura vaccinale.

mercoledì 19 luglio 2017

Il massacro silenzioso

Proseguono, nella pressoché totale indifferenza della comunità internazionale, le violenze perpetrate dal regime saudita nei confronti della minoranza sciita nella provincia orientale di al-Qatif; regione ricca di risorse petrolifere, e dunque strategicamente cruciale per la sopravvivenza del sistema di potere creato dalla Casa dei Saud.
di Daniele Perra - 18 luglio 2017
Una legittimazione internazionale comprata a suon di dollari e grazie alla complicità del quasi paterno alleato nordamericano, ed una legittimazione islamica ottenuta attraverso l’indebita appropriazione del titolo di “comunità sunnita” a seguito della wahhabizzazione forzosa di larga parte del mondo islamico, non sembrano ancora garantire la necessaria sicurezza alla Casa dei Saud, ben consapevole della propria estraneità rispetto alla reale tradizione islamica. I recenti fatti di Awamiyah e la brutale repressione con la quale, ancora una volta, il regime si è rapportato con le proteste della minoranza sciita ne sono l’ulteriore dimostrazione.
Lo scorso 10 maggio le forze di sicurezza saudite hanno iniziato quello che, a oggi, ha assunto i connotati di una vera e propria occupazione militare della città di Awamiyah nella provincia orientale del Regno. Tale operazione è stata giustificata con l’intento di impedire nuove interruzioni al progetto di riqualificazione e rinnovamento del centro cittadino. Di fatto, non per la prima volta all’interno di un Regno che fa dello spregio per tutto ciò che rappresenta la cultura e la tradizione la sua peculiarità intrinseca, il malcelato obiettivo è ancora una volta quello di radere al suolo un centro storico con più di 400 anni di storia, cacciando, allo stesso tempo, dalle proprie case la popolazione sciita della città. Una tattica che i sauditi, negli ultimi anni, hanno imparato fin troppo bene dai loro alleati sionisti. L’ONU stesso, in un inusuale impeto di coraggio nei confronti della monarchia del Golfo, ha inviato un’esplicita richiesta al governo saudita affinché blocchi un progetto considerato alla stregua di grave minaccia al patrimonio storico e culturale.
L’opposizione della popolazione ad un simile progetto viene ripetutamente presentato dalle emittenti televisive saudite (al-Arabiya su tutte) come “terrorismo”, sorvolando sulle pesanti pressioni che gli abitanti del centro hanno dovuto subire per abbandonare le proprie case (taglio reiterato dell’energia elettrica e minacce). Gli inevitabili scontri hanno portato fino ad ora alla morte di sei uomini delle forze di sicurezza, di sei presunti militanti sciiti (ovviamente infiltrati dall’Iran secondo la propaganda nazionale) e ad un numero ancora imprecisato di vittime tra la popolazione civile. Non è da sottovalutare altresì il fatto che il chierico Nimr al-Nimr, predicatore e leader delle protesta sciita in nome dell’eguaglianza dei diritti iniziata nel 2011 e giustiziato nel gennaio 2016 dalle autorità saudite, era originario proprio di Awamiyah. E che, proprio dal 2011, torture e detenzioni arbitrarie nell’area da parte delle forze di sicurezza sono all’ordine del giorno. La discriminazione e persecuzione della popolazione sciita dell’area non è tuttavia una novità all’interno di uno Stato, espressione di una setta islamica eterodossa, che paradossalmente considera gli sciiti alla stregua di eretici o di “anomalia sociale” vista la tradizionale dedizione di questa comunità alla vita contadina; il tutto nonostante l’esplicito divieto wahhabita a consumare i loro prodotti o semplicemente la stessa carne da loro macellata. Con il boom petrolifero, larga parte della popolazione sciita della regione ingrossò le file della manodopera a basso costo all’interno dell’industria di estrazione del greggio, pur continuando a non usufruire di nessun tipo di servizio sociale e con la severa preclusione alla carriera militare o pedagogico – scolastica. Inoltre, le pratiche del culto, come la commemorazione del martirio di Hussein a Kerbala, erano precluse ed apertamente condannate dall’autorità.
Il 1979 ha segnato una data cruciale nella storia recente del Regno saudita. Due diversi episodi misero in luce la sostanziale vulnerabilità politico – ideologica del Regno. Il primo fu l’occupazione della moschea della Mecca durante la stagione del pellegrinaggio ad opera del predicatore Juhayman ibn Muhammad al-Utaybi e Muhammad ibn Abdullah al-Qahtani (proclamato Mahdi dallo stesso Juhayman ed acclamato dai suoi discepoli). Al-Utaybi, predicatore che aveva espresso dubbi sul retto governo islamico dei sauditi alleati con le potenze infedeli, pretese la destituzione della famiglia reale e rese evidente l’incompatibilità tra il dogma religioso wahhabita e la reale politica del Regno. Il governo mobilitò gli ulema e attraverso l’Istituto dell’Ifta’e degli Studi Eruditi, guidato dallo Shaykh Abd al-Aziz ibn Baz, ottenne una fatwa volta a giustificare l’intervento armato in uno deli luoghi più sacri dell’Islam ed all’interno del quale lo spargimento di sangue era proibito sin dai tempi della jahiliyya. Le forze di sicurezza impiegarono più di due settimane per reprimere una ribellione i cui strascichi si fecero sentire per tutto il corso dei decenni successivi. L’altro evento decisivo fu la scelta della comunità sciita di abbandonare il principio della taqiyya (dissimulazione) e commemorare l’ashura (il martirio dell’Imam Hussein, figlio di Ali, genero e cugino del Profeta) apertamente, in strada, e non più relegando tale pratica alla sfera del privato
Ora, è importante sottolineare che in ambito sciita l’Imam Hussein è il vessillo della lotta dell’umanità per la conoscenza e la verità, mentre Kerbala rappresenta il campo per antonomasia della battaglia contro l’oppressione. Con la morte dell’Imam il martirio ha acquisito il valore di una scelta consapevole volta a superare la morte (l’annullamento di se stessi) in nome della restaurazione della dimensione del sacro. E la comunità sciita, forte della vittoria della Rivoluzione in Iran, mirava a far sentire la propria voce nei confronti di un governo che da quel momento in poi iniziò a percepire il genuino esempio rivoluzionario iraniano alla stregua di minaccia esistenziale.
La manifestazione venne repressa nel sangue attraverso l’invio di 20.000 unità della Guardia nazionale. Stessa sorte toccò ai dimostranti sciiti che l’anno dopo, nel 1980, scesero in piazza in varie aree di al-Qatif per celebrare l’anniversario del ritorno di Khomeini in Iran dall’esilio. Tali eventi, da allora, sono noti come intifadat al-mintaqa al sharqiyya (la sollevazione della provincia orientale). Solo nel 1993 si giunse ad una parziale riconciliazione attraverso la promessa di riforme ed il riconoscimento della pesante discriminazione che la comunità sciita dovette subire ad opera delle autorità.L’intensificarsi dello scontro geopolitico, mascherato da scontro settario, negli ultimi ha riportato al centro delle preoccupazioni della dinastia saudita la questione della minoranza sciita del Qatif; regione dalla quale proviene larga parte della ricchezza petrolifera della nazione e con essa l’unica fonte di legittimazione del potere della casa regnante. Ciò spiega la nuova ondata persecutoria nei confronti di una comunità da sempre percepita come “nemico interno”. L’obiettivo del governo è fin troppo chiaro: spingere, attraverso la repressione brutale, una popolazione a cui non sono mai stati del tutto riconosciuti i diritti di cittadinanza ad abbandonare le proprie case e con tutta probabilità lo stesso territorio nazionale. È palese che la Casa dei Saud non possa permettersi una simile minaccia potenzialmente secessionista nella sua regione più ricca. Il tutto, alla pari delle stragi saudite nello Yemen, nell’indifferenza di una comunità internazionale che per molto meno, sul finire degli anni Novanta, optò per la tragica avventura bellica contro la Serbia.

martedì 18 luglio 2017

Rapporto Istat. In Italia la povertà è raddoppiata in dieci anni di crisi

8 milioni e 465mila persone, pari a 2 milioni 734mila famiglie, sono in «povertà relativa». In questa condizione si trova chi è prigioniero della «trappola della precarietà». 7 miliardi di euro all’anno sarebbero necessari per finanziare un sussidio contro la povertà. 14-21 miliardi per un «reddito minimo». In Italia è in corso una guerra economica silenziosa, ma concretissima, che precarizza tutta la vita
Nel paese dove si salvano le banche con 68 miliardi di euro, non si trovano i 7 miliardi all’anno necessari per un sostegno «universale» contro la povertà assoluta. Senza contare i 14-21 miliardi necessari per finanziare le ipotesi di reddito minimo che permetterebbe di affrontare seriamente un nuovo problema: la «trappola della precarietà». Oggi in Italia chi lavora con un reddito basso non riesce a sottrarsi alla povertà e arrivare a fine mese.
LA CLAMOROSA asimmetria, prodotto di un gigantesco spostamento di ricchezza verso il capitale e di politiche economiche sbagliate come i bonus a pioggia o l’abolizione della tassa sulla prima casa, si ritrova nel report «La povertà in Italia» nel 2016, pubblicato ieri dall’Istat. Come sempre i dati vanno interpretati, e visti sulla tendenza di medio periodo: gli ultimi dieci anni, quelli della crisi. L’Istat sostiene che nel 2016 i «poveri assoluti» erano 4 milioni e 742 mila persone, pari a 1 milione e 619 mila famiglie residenti. La «povertà relativa» riguarda 8 milioni 465mila persone, pari a 2 milioni 734mila famiglie. Rispetto al 2015, il livello si presenta «stabile». Dato in sé preoccupante a conferma che nulla è stato fatto in quei 12 mesi dal governo Renzi, in un periodo in cui le statistiche attestavano una «crescita» che non produce occupazione fissa, né un arretramento della povertà. Tuttavia c’è qualcosa che peggiora ancora. L’incidenza della povertà assoluta sale tra le famiglie con tre o più figli minori e interessa più di 814 mila persone. Oggi aumenta e colpisce 1 milione e 292 mila minori.
PARLIAMO DI PERSONE che non riescono a raccogliere risorse primarie per il sostentamento umano: l’acqua, il cibo, il vestiario o i soldi per un affitto. Questa situazione riguarda anche coloro che possiedono un lavoro. L’incidenza della povertà assoluta è doppia per i nuclei il cui capofamiglia è un «male breadwinner» e lavora come operaio. L’Istat registra anche un’altra tendenza: la «povertà relativa» colpisce di più le famiglie giovani. Raggiunge il 14,6% se la persona di riferimento è un under35 mentre scende al 7,9% nel caso di un ultra sessantaquattrenne. L’incidenza della povertà relativa si mantiene elevata per gli operai (18,7%) e per le famiglie dove il «breadwinner» è in cerca di occupazione (31,0%). Suggestioni statistiche che indicano l’esistenza di un continente sommerso: il lavoro povero, e non solo quello della deprivazione radicale a cui spesso è associata la tradizionale immagine della povertà.
LA SITUAZIONE GENERALE è tale che Marco Lucchini, segretario della fondazione Banco alimentare onlus, ha sostenuto che oltre 80 mila tonnellate di cibo distribuite in 8 mila strutture caritative in Italia hanno arginato la crescita del fenomeno, ma non non risolvono l’emergenza sociale più dimenticata nel Belpaese. Dieci anni fa, nel 2007, i poveri assoluti erano 2 milioni e 427 mila persone. Oggi sono raddoppiati: 4 milioni e 742 mila. È uno scenario di guerra, quella economica che prosegue silente, ma concretissima, da anni. A tutti i livelli.
I RIMEDI SONO PANNICELLI CALDI. Ieri il ministro del Welfare Giuliano Poletti si affannava, ancora, nel tentativo di spiegare come il governo ha modificato i criteri di accesso alla prima, e modesta, misura «contro la povertà». Quest’anno 800 mila persone dovrebbero prima beneficiare della social card del «Sia» che sarà trasformata in corsa nel «reddito di inclusione». La sproporzione è evidentissima: solo i poveri assoluti sono 4 milioni e 742 mila persone. Ci sarebbe bisogno di una misura pluriennale crescente fino a 7 miliardi, ma i fondi stanziati resteranno fermi al miliardo. E poi dovranno essere rifinanziati. Ma questa è un’altra storia: riguarderà la prossima legislatura. Quindi un altro mondo, un altro universo, lontanissimo. Concretamente si parla di un sussidio di ultima istanza che va da un minino di 190 a un massimo di 485 euro per le famiglie più numerose con 5 componenti. Importi per di più vincolati a una serie di condizionalità che rendono tale sussidio tutto tranne che «universale».
LA DISCONNESSIONE TOTALE tra la politica economica seguita in questi 10 anni e la condizione materiale che urla da questi dati è evidente. L’Alleanza contro la povertà, il cartello di associazioni e sindacati che ha premuto per ottenere il «reddito di inclusione» chiede l’introduzione di un piano pluriennale già dalla prossima legge di bilancio che permetta a chi non ha una famiglia con figli di condurre uno standard di vita dignitoso. Susanna Camusso (Cgil) ritiene che tale «reddito» sia uno «strumento corretto da finanziare» evitando di «distribuire bonus a pioggia». Il Movimento 5 Stelle attribuisce gran parte delle responsabilità di questa situazione «all’immobilismo politico del governo Renzi». Giulio Marcon (Sinistra Italiana) fa un ragionamento di sistema: questo è il frutto del cieco rigore delle politiche Ue e dell’incapacità dei governi di uscire dalle disuguaglianze e dalla precarizzazione progressiva

lunedì 17 luglio 2017

I poveri italiani triplicati in un decennio, mentre l’economia crolla

Da Bloomberg, una foto impietosa della relazione tra crisi demografica e crisi economica italiana, basata sul rapporto Istat pubblicato questa settimana. Dopo aver perso il 25% della produzione industriale nella crisi più profonda dalla Seconda Guerra Mondiale, con la disoccupazione ufficiale all’11% e la popolazione in povertà assoluta triplicata nell’ultimo decennio e arrivata a quasi 5 milioni di persone, non è difficile capire perché gli italiani facciano meno figli: fare un figlio significa diventare poveri. La demografia è ormai il nuovo campo della lotta di classe in Italia.
di Lorenzo Totaro e Giovanni Salzano, 13 luglio 2017

Gli italiani che vivono al di sotto del livello di povertà assoluta sono quasi triplicati nell’ultimo decennio, mentre il paese attraversava una doppia recessione di durata record.
L’agenzia statale di statistica, Istat, oggi ha dichiarato che i poveri assoluti, ovvero coloro che non sono in grado di acquistare un paniere di beni e servizi necessari, hanno raggiunto i 4,7 milioni l’anno scorso, dai quasi 1,7 milioni nel 2006. È il 7,9% della popolazione, e molti di questi poveri sono concentrati nelle regioni meridionali dell’Italia.

Italia più povera. Gli italiani che non possono permettersi un livello accettabile di vita sono quasi triplicati dal 2006. Percentuale di povertà assoluta.

Mentre l’Italia tra il 2008 e il 2013 attraversava la sua più profonda recessione, e quindi la più lunga, dalla Seconda Guerra Mondiale, più di un quarto della produzione industriale nazionale è stato spazzato via. Nello stesso periodo, anche la disoccupazione è aumentata, con il tasso di disoccupazione cresciuto fino al 13% nel 2014, partendo da un livello basso, del 5,7%, nel 2007. La disoccupazione era all’11,3% nell’ultima rilevazione di maggio.
Per decenni l’Italia ha lottato con un basso tasso di fertilità: solo 1,35 bambini per donna rispetto a una media di 1,58 in tutta l’Unione Europea a 28 paesi nel 2015, l’ultimo anno per il quale sono disponibili dati comparabili.
“Il rapporto sulla povertà mostra che è inutile domandarsi per quale motivo ci siano meno neonati in Italia”, ha dichiarato Gigi De Palo, presidente del Forum delle Associazioni Familiari. “Fare un figlio significa diventare poveri, sembra che in Italia i bambini non siano visti come un bene comune”.
Il numero di poveri assoluti è aumentato l’anno scorso tra le classi sociali più giovani, raggiungendo il 10% nel gruppo di quelli tra i 18 e i 34 anni. Il rapporto Istat ha mostrato anche che tra i più anziani è sceso, arrivando al 3,8% nel gruppo degli ultra65enni.
All’inizio di quest’anno, il Parlamento italiano ha approvato un nuovo strumento contro la povertà chiamato “reddito di inclusione”, che sostituisce le misure esistenti per il sostegno al reddito. Sarà utile a 400.000 famiglie, per un totale di 1,7 milioni di persone, secondo quanto riferisce Il Sole 24 Ore citando documenti parlamentari. Il programma quest’anno sarà finanziato con risorse per circa 2 miliardi di euro, che dovrebbero salire a quasi 2,2 miliardi di euro nel 2018, secondo quanto riporta Il Sole 24 Ore.
Anche l’incidenza della povertà relativa in Italia, calcolata sulla base della spesa media di consumo e che interessa un numero di persone più grande, è aumentata l’anno scorso.
Secondo il rapporto dell’Istat, gli individui poveri in termini relativi sono quasi 8,5 milioni, il 14% della popolazione, con una incidenza maggiore nelle famiglie con un numero maggiore di bambini e nei gruppi di età inferiore ai 34 anni.

giovedì 13 luglio 2017

Cellulare alla guida: in arrivo sospensione della patente fino a 6 mesi e taglio di 10 punti

La novità prevista dal ddl all'esame della commissione trasporti alla Camera. In allegato il testo
due donne con cellulare alla guida
di Marina Crisafi - Sospensione della patente fino a 6 mesi e decurtazione di 10 punti in caso di recidiva, per chi viene beccato alla guida col cellulare. È solo una delle tante novità previste dal disegno di legge recante modifiche al codice della strada, approdato all'esame della commissione trasporti della Camera il 5 luglio scorso (sotto allegato).
Il ddl, che contiene novità ben più ampie e variegate, rispetto al decreto annunciato dal Governo nei mesi scorsi, che doveva inasprire le pene per chi usa impropriamente dispositivi elettronici, come gli smartphone, al volante (Leggi: Telefono alla guida: in arrivo la sospensione della patente fino a 3 mesi) è frutto della predisposizione di un testo unificato (di diverse proposte di legge) elaborato dal comitato ristretto e adottato come testo base da parte della commissione.
Ecco le novità principali:
Cellulare alla guida, sanzioni più salate
Una delle novità più interessanti del ddl è contenuta nell'art. 11 diretto a contrastare l'uso improprio di dispositivi elettronici durante la guida.
A tal fine, viene modificato l'art. 173 del codice della strada, inserendo al comma 2, lo specifico divieto di usare "smartphone, computer portatili, notebook, tablet e dispositivi analoghi, ovvero di usare cuffie sonore".
Viene inoltre modificato il comma 3-bis sancendo che per la violazione del divieto si applica la sanzione amministrativa accessoria della patente di guida da 2 a 6 mesi (il doppio in luogo di quella attuale), oltre al raddoppio dei punti sottratti (da 5 a 10) nel caso di recidiva nell'arco di un biennio.
Autovelox a 300 metri di distanza dal segnale
Il ddl, all'art. 8, interviene anche sui limiti di velocità e sui controlli. All'art. 142 del codice della strada viene specificato (comma 6-bis) che i sistemi elettronici di rilevamento automatico della velocità siano collocati "ad almeno 300 metri" di distanza dal segnale che indica l'obbligo di riduzione della velocità. Inoltre, il comma 1 aumenta il limite di velocità in autostrada per i veicoli che trainano rimorchi (a 70 km/h fuori dei centri abitati e a 100 km/h sulle autostrade), al fine di allinearlo con quello previsto negli altri paesi dell'Ue.
Stop ai furbetti delle auto immatricolate all'estero
Il testo interviene altresì in materia di controlli sui veicoli immatricolati in uno Stato appartenente all'Ue o allo spazio economico europeo (See), introducendo un nuovo articolo 132-bis nel codice della strada, al fine di evitare condotte fraudolente. In particolare, viene previsto che i soggetti residenti in Italia circolanti alla guida di veicoli immatricolati in via provvisoria o definitiva all'estero debbano essere in grado di documentarne "le regolari detenzione e circolazione, affinchè esse non integrino l'elusione delle disposizioni amministrative e tributarie italiane". In caso di violazione, sono previste multe da euro 84 a euro 335, nonché il ritiro della carta di circolazione del veicolo per 30 giorni, e, ove possibile, l'obbligo di reimmatricolazione con targa italiana.
Viene prevista, infine, una modifica all'art. 9 del codice della strada, per inserire i veicoli da competizione, tra quelli "atipici" di cui all'art. 59.
Bici sui marciapiedi e ciclisti in controsenso
Il testo detta disposizioni anche sul fronte ciclisti, consentendo, attraverso il nuovo comma 4-bis dell'art. 158 del cds, innanzitutto "la sosta sui marciapiedi e all'interno delle aree pedonali, in mancanza di apposite attrezzature di parcheggio", ciò naturalmente a condizione che il mezzo non crei intralcio ai pedoni o interferisca con i percorsi tattili per i disabili visivi.
Viene sancito altresì che, nelle strade o nelle zone all'interno dei centri abitati nelle quali il limite massimo di velocità è uguale o inferiore a 30 km/h, "può essere consentita, se espressamente prevista con ordinanza, la circolazione dei ciclisti anche in senso opposto a quello della marcia di tutti gli altri veicoli". Tale possibilità è adeguatamente segnalata, mediante l'aggiunta, ai segnali verticali di divieto e di obbligo generico, "di un apposito pannello integrativo indicante l'eccezione per i velocipedi".
Allarme bimbi auto
Dal testo unificato, sia al fine di contenere le modifiche al cds in un numero limitato, sia per i profili di complessità presentati, sono state stralciate le disposizioni che prevedevano l'introduzione dell'obbligo di un "dispositivo antiabbandono" sui seggiolini dei bimbi in auto. Tali disposizioni, tese ad assicurare un trasporto sicuro dei minori, verranno trattate in ogni caso in fase di emendamenti al testo.

mercoledì 12 luglio 2017

LA GUERRA AI POVERI COMINCIA SUL BAGNASCIUGA

Aiutiamoli a casa loro”. Noi ci scherziamo un po’, su questa cosa, ma dovete capirci: viviamo da sempre in cittadine di 10, 20, qualche volta 30 mila abitanti che ogni estate triplicano. E non c’è spazio, non ci sono servizi, non ci sono parcheggi. Non riesci più a entrare nei negozi, anche comperare un litro di latte è una gara di resistenza.
Fin da piccoli abbiamo imparato a temere questa entità mitologica, “il milanese”. Che per noi sono tutti milanesi, anche quelli di Bergamo, Lugano, Pinerolo o Trento. Ma per noi è “il milanese”, non quello reale, ovvio, ma quello dello stereotipo: arrogante, ostenta il denaro, si comporta da padrone. E poi, santo cielo, quelle “e” così aperte, birrètta, pizzètta, spiaggètta, barchètta…
Insomma, invoco la legittima difesa, che va tanto di moda. E del resto cosa possiamo fare, noi che abbiamo la grazia e il tedio a morte di vivere in provincia ? Siamo gente di scoglio, un po’ selvatica, e soffriamo di non essere abbastanza europei; ci prendiamo qualche patetica rivincita: mangiamo focaccia anche di martedì, e mettiamo la foto su Facebook, con lo sfondo del mare; mandiamo ai nostri amici di oltre appennino la foto dalla passeggiata di Nervi bella da fare male, mentre andiamo al lavoro, e aggiungiamo: “Tutto bene, in tangenziale ?”
Però, quello che è scherzo un po’ sciocco, sta diventando una realtà triste e molto preoccupante: sono molte, ormai, le località turistiche della riviera ligure, e di tutto il modo, che denunciano il sovraffollamento e studiano misure per impedirlo. Niente di male, in sé: chiunque viva in un luogo turistico sa quali storture produca sul territorio. Lo snaturamento e la gentrificazione dei quartieri, se parliamo di città; l’assalto con cemento e cazzuola a ogni metro quadro di terreno, se parliamo di paesi.
Il problema, qui da noi, è che il nemico non è quello. Il nemico, dichiarato, aperto, sono i poveri. Quelli che spendono poco, o nulla, e hanno la pretesa di stendere il loro asciugamano OVS sulla sabbia. Quelli che vengono in pullman, a pochi euro, per fare una giornata al mare. Eh no, loro no !
C’è un sindaco del ponente ligure che dichiara al Corriere: “Arrivano con gli autobus ? Allora li fermiamo al casello, facciamo salire i vigili, e chiediamo i documenti a tutti ! Così passa almeno un ora e mezza, e vedrete che la prossima volta ci penseranno, prima di venire !”. L’odio di classe, in purezza.
Perché di fronte ai soldi, state sicuri, ci si inchina rispettosi. Alle Cinque Terre, per dire, dove il sovraffollamento è davvero un problema di incolumità pubblica, quelli che non vogliono fare nulla sono i commercianti: pur di vendere una bottiglietta d’acqua in più, vanno bene anche i turisti che rantolano stravolti negli angoli. E siamo sempre pronti a costruire, asfaltare, cementificare, anche dove non serve, anche dove ci sono migliaia di case sfitte.
Ma devono spendere, consumare, pagare. Se non lo fanno, beh, allora davvero “aiutiamoli a casa loro”. Se ne stiano nei centri commerciali, hanno anche l’aria condizionata, cosa vengono a rompere le balle.
E le spiagge che siano chiuse, recintate, ferocemente private. Qualcuno propone che anche le spiagge libere abbiano un ticket d’ingresso; “libera”, ma a pagamento: non si sa se davvero il degrado ne sarebbe sconfitto, certo la logica subisce una bella botta.
Ormai è il “Briatore pensiero” che muove le politiche turistiche dalle nostre parti. Sì, ho scritto “pensiero”, e senza ironia. Perché c’è una logica feroce, esplicita, argomentata. L’idea che il territorio, il mare, il sole, l’aria, siano beni che hanno un prezzo. Che devono essere fruiti da chi può pagare, e in modo diverso a seconda di quanto può spendere.
Qualche anno fa un ligure malinconico come Montale scriveva “… tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza, ed è l’odore dei limoni”. In fondo era un ottimista:i poveri, per molti sindaci, devono annusare solo nei supermercati.

martedì 11 luglio 2017

Un gioco truccato

Un cadavere è stato riesumato, quello del bipolarismo. Sepolto sotto le ceneri della Seconda Repubblica, l’archeologia politica ha deciso di riportarlo alla luce. Si cerca così di riassemblare i due blocchi dissolti. Da una parte, Berlusconi tenta di ridare la scintilla vitale al centrodestra, cercando un accordo con Salvini. Il vecchio centrodestra era tenuto assieme dalla figura carismatica di Berlusconi; adesso che questa figura ha perduto forza sembra molto più difficile ritornare ai fasti del passato. Il progetto originario di Berlusconi, in più, è oggi definitivamente superato. Questo progetto, che vide l’imprenditore di Arcore affermarsi nella costellazione di partiti distrutti da Tangentopoli, si basava su una promessa di successo individuale che sarebbe arrivato dopo il ripudio del ceto dirigente statalista della Prima Repubblica (che veniva a torto identificato con i postcomunisti) e l’apertura al mercato e all’impresa privata; una sorta di “via italiana al reaganismo” che però si sarebbe rivelata presto nulla più che propaganda.
La promessa di arricchimento individuale era incarnata dalla sua figura di imprenditore vincente e dall’affermazione delle reti Fininvest che interrompevano il monopolio televisivo di stato e portavano in Italia una televisione commerciale ed edonista, poco interessata alle preoccupazioni pedagogiche della vecchia RAI. Il progetto di “reaganismo italiano” sarebbe più tardi naufragato per un’essenziale ragione: l’evidenza che l’edonismo berlusconiano e la sua seduzione erano solo una finzione dietro cui si celava la realtà amara della stagnazione, della disoccupazione crescente e della cancellazione dei diritti. Da questo punto di vista il linguaggio del centrosinistra era molto più al passo con il tempi. Se il berlusconismo era reganiano, l’antiberlusconismo era thatcheriano, prometteva poco, ma esigeva implacabilmente “sacrifici” e “conti in ordine” come necessità improrogabili. Fu proprio di fronte a questa versione più aggiornata del neoliberismo – che sarà rappresentata poi dal “commissario” Monti incaricato dalla Troika – che l’imprenditore milanese, pur avendo resistito per molto grazie al suo plebiscitarismo, dovette capitolare. Il nuovo neoliberismo, avrebbe imparato Berlusconi a sue spese, non è plebiscitario e non cerca un rapporto entusiastico con le masse, che redarguisce invece di tentare di sedurre. Piuttosto si avvale di gruppi di pressione, di think tank, per penetrare in circoli ristretti e nelle università, ma assume un profilo sobrio e misurato sui grandi media.
Sull’altro fronte, invece, i fuoriusciti del PD, una parte del PD non renziano e figure a sinistra del PD tentano di ricostituire il centrosinistra. Anche qui si tratta di un processo difficilmente reversibile. La fine del centrosinistra, come quella del centrodestra, non è stata accidentale, frutto dell’incapacità o della litigiosità dei suoi capi, ma strutturale. Il progetto del centrosinistra consisteva nel raccogliere il bacino elettorale del vecchio PCI e di parte della DC per traghettarlo verso l’orientamento neoliberale che ormai soppiantava la socialdemocrazia presso tutti i maggiori partiti della sinistra europea. Questo progetto si basava sulla capacità di far accettare il mondo globalizzato e la modernità liquida, la flessibilità per ogni lavoratore e l’incertezza del futuro. Questa, che era la realtà che si stava delineando, veniva considerata come un dato immutabile cui tutti dovevano adeguarsi senza indugio. A tale scopo, il centrosinistra proponeva alcune parziali compensazioni – comunque inferiori al male da ingoiare – come, ad esempio, gli “ammortizzatori sociali”, ovvero sussidi per i lavoratori precarizzati e i disoccupati; ma soprattutto usava una retorica moralistica che si avvaleva di alcuni canovacci sperimentati e luoghi comuni: “non rubare il futuro alle prossime generazioni”, “ridurre il debito che pesa sulle spalle dei nostri figli”, “responsabilità e bilanci virtuosi”, ecc. e che faceva perno sull’idiosincrasia rispetto alla figura carismatica di Berlusconi. Ma presto ci si accorse che la cura era peggiore del male, per non dire che era essa stessa il male da cui avrebbe dovuto mettere in guardia. Ed è così che la narrazione neoliberista neo-thatcheriana, e con essa il centrosinistra che vi si era identificato, iniziava ad attraversare una crisi di consenso. Crisi che verrà trasferita direttamente al PD, erede e rinnovatore di quel progetto.
La ricostruzione di centrodestra e centrosinistra si basa su su un tentativo di restaurare un momento della storia italiana non più ripetibile: non solo per la presenza di un terzo incomodo, il Movimento Cinque Stelle, che per sua natura non può essere piegato al gioco bipolare e non si presta ad alleanze; ma soprattutto perché questa resurrezione apparente, contrariamente all’operazione originale dei primi anni Novanta, si svolge nel deserto elettorale, come testimonia il livello inedito di astensionismo ad ogni elezione. Non esiste nessuna possibilità di coinvolgere le masse che sono ormai completamente disilluse circa la vera natura dei due blocchi. E non sarà certo una legge elettorale, nemmeno la più maggioritaria, ad arginare questo fenomeno. Il dualismo destra/sinistra della Seconda Repubblica doveva essere il surrogato del conflitto capitalismo/socialismo, abbandonato dopo il crollo del Muro di Berlino, per la credenza fideistica dell’eternità del capitalismo, e il bipolarismo centrodestra/centrosinistra era il surrogato del surrogato. Ma a questo gioco oggi la gran massa del corpo elettorale rifiuta di giocare, perché ha scoperto che è un gioco truccato, che appena dietro la vernice del conflitto mediatico conclamato si cela la realtà delle leggi di mercato, dell’adesione incondizionata a esse, della capitolazione dello stato e della modernità liquida. Per questo l’antirenzismo non è che una nuova declinazione dell’antiberlusconismo: l’opposizione a una persona e alla forma del suo linguaggio, ma con la tacita approvazione della sostanza condivisa.
L’ammiccamento di Renzi a Berlusconi, quindi, lungi dal rappresentare un qualche tradimento, è soltanto lo svelamento della essenziale complicità dei due poli opposti e simmetrici come due facce della stessa medaglia e dell’adesione acritica di tutti i maggiori partiti al capitalismo neoliberale.

lunedì 10 luglio 2017

La trappola libica, le ferite che non passano

Perché siamo nei guai? L'Italia in Libia nel 2011 ha dovuto accettare il bombardamento di Gheddafi e sotto la minaccia che venissero colpiti i terminali Eni si è accodata ai raid aerei. Ha perso così il suo più importante alleato nel Mediterraneo con cui aveva firmato un trattato cinquantennale soltanto sei mesi prima, legato dal cordone ombelicale di un gasdotto. Si è trattato della più devastante sconfitta dalla seconda guerra mondiale, inferta da una coalizione franco-anglo-americana, cioè da presunti alleati che hanno poi abbandonato la Libia al suo destino salvo poi flirtare con il generale Khalifa Haftar, con l’Egitto e bombardare l’Isis, senza però dimostrare la minima intenzione di riportare la Libia ai suoi confini originari.
Le frontiere dell’Italia sono affondate sulle coste della Sirte e i confini Schengen si sono dissolti nel Sahel. Adesso l’Unione corre debolmente ai ripari dopo anni di anarchia alle frontiere libiche che sono diventate pure quelle dell’Europa. Per fermare la rotta balcanica dei profughi sono stati promessi 6 miliardi di euro a Erdogan accettando che diventasse una sorta di autocrate mediorientale, non il candidato all’ingresso nell’Unione. E oggi l’Austria, presa a schiaffi da Ankara sul partenariato della Nato, schiera i corazzati al Brennero. L’impressione è che i membri dell’Unione alzino la voce senza esprimere la minima comprensione del problema che va ben oltre i migranti di oggi ma riguarda la stessa possibile disgregazione dell’Europa. L’Italia dopo Gheddafi è stata vista come un Paese sconfitto e che per di più non ha saputo reagire alla frantumazione della Libia puntando sui cavalli sbagliati. La Francia intanto è intervenuta in Africa e in Mali quando i suoi interessi sono stati minacciati.
Libia: piano Minniti in sette mosse all’esame dell’Ue
Non c’è da stupirsi della mancata solidarietà europea: potrebbero i francesi, gli inglesi o gli americani ammettere di essersi sbagliati a eliminare Gheddafi accettandone le conseguenze? Il dittatore libico, come ha detto un rapporto dello stesso Parlamento britannico, non sarebbe mai caduto senza un intervento esterno. Dobbiamo stare molto attenti con alleati del genere perché sono gli stessi secondo i quali Assad era già finito sei anni fa. Abbiamo partecipato a missioni all’estero, dall’Iraq all’Afghanistan, che sono servite a ben poco ma non siamo stati in grado di difendere i confini reali e della nostra geopolitica. Tutto il resto sono chiacchiere. Tocca a noi decidere che cosa vogliamo fare del nostro presente e forse anche del nostro futuro, cosa non facile per un Paese che per 70 anni si è cullato sotto l’ombrello americano e della Nato.

venerdì 7 luglio 2017

Macron, un colpo di stato silenzioso

La messa in opera del “sistema Macron” continua, sia nella sua dimensione formale, sia in quella informale. Le due dimensioni ci confermano la natura autoritaria del sistema, sotto la ostentata maschera della “benevolenza”. Gli incidenti che si sono moltiplicati in Parlamento, dove La République en Marche e i suoi alleati monopolizzano la maggior parte dei seggi, con la decisione del Presidente di rivolgere un messaggio al Congresso (Assemblea Nazionale e Senato) riunito a Versailles, non sono di buon auspicio. I progetti di ordinanze e di leggi completano il quadro.
Un colpo di Stato silenzioso ?
Un primo incidente ha dunque segnato la sessione inaugurale del Parlamento eletto nelle ultime elezioni. Al di là dell’elezione di Francesco de Rugy – tipico rappresentante dell’opportunismo parlamentare più sfrenato e una delle personalità meno onorevoli di questa assemblea – è la monopolizzazione dei seggi da parte di En Marche, in particolare per quanto riguarda i ruoli di questore, che ha attirato l’attenzione. Naturalmente, nulla impedisce al partito di maggioranza in Assemblea di arraffare tutte le cariche. Ma questo sistema di occupare tutti i posti, tipico degli Stati Uniti, è profondamente estraneo alla cultura politica francese. Quest’ultima, proprio perché siamo in un sistema in cui i poteri non sono rigorosamente separati – come avviene invece negli Stati Uniti – ha inscritto nelle sue pratiche il requisito del pluralismo. È questa la tradizione che En Marche ha calpestato. Ma c’è stato anche di peggio, vale a dire una manifestazione di disprezzo nei confronti dell’opposizione. Il Presidente della Repubblica è infatti in procinto di praticare un vero e proprio colpo di stato silenzioso.

Il colpo di stato riguarda i suoi avversari, ma è rivolto anche contro i suoi sostenitori. Come non vedere che la decisione di Emmanuel Macron di parlare a entrambe le camere in seduta comune minerà l’autorità e la credibilità del suo primo ministro Edouard Philippe? Certo, il rapporto tra il presidente e il suo primo ministro non è mai stato semplice nella Quinta Repubblica. Ma, perlomeno, ci metteva un paio di mesi prima di degradarsi in modo esplicito. Oggi, il presidente intende mostrarci fin da subito che è lui l’unico a prendere decisioni: che non è la massima autorità, bensì l’unica. E così facendo stravolge ancora una volta la Costituzione della Quinta Repubblica, e in misura di gran lunga maggiore rispetto a chiunque tra i suoi predecessori. Questo, combinato con la debolissima legittimità di un’assemblea eletta da meno del 16% degli aventi diritto, è davvero il segno di un colpo di stato silenzioso.

Quando il presidente non rispetta nemmeno lo spirito della legge…
La decisione di Emmanuel Macron di non dare l’intervista tradizionale in occasione del 14 luglio, e di presentare invece un messaggio al Congresso riunito per l’occasione a Versailles, sono entrambi gesti che mostrano un profondo disprezzo per coloro che lo hanno sostenuto e che hanno votato per lui e per i candidati che si sono presentati nella lista di En Marche. La riunione del Congresso è la più spettacolare, ma non necessariamente la più significativa. Nella costituzione della Quinta Repubblica, la riunione del Congresso è riservata agli atti solenni. Non alla presentazione del programma del quinquennio. Nel decidere di annunciare il suo programma in questo contesto, Emmanuel Macron dimostra in realtà di capovolgere l’intero edificio costituzionale francese, un edificio che vuole che il governo e il suo leader, il Primo Ministro, determinino e guidino la politica della nazione. Qui dobbiamo ricordare a coloro che li hanno dimenticati, i due articoli della Costituzione della Quinta Repubblica.

Articolo 20
Il Governo determina e dirige la politica nazionale.
Dispone dell’amministrazione e delle forze armate.
È responsabile davanti al Parlamento alle condizioni e secondo le procedure previste dagli articoli 49 e 50.

Articolo 21
Il Primo Ministro dirige l’azione del Governo. È responsabile della difesa nazionale. Assicura l’esecuzione delle leggi. Fatte salve le disposizioni di cui all’articolo 13, esercita il potere regolamentare e attribuisce le cariche civili e militari.
Può delegare alcuni poteri ai ministri.
Sostituisce, se del caso, il Presidente della Repubblica nella presidenza dei consigli e dei comitati previsti dall’articolo 15.
Può, a titolo eccezionale, sostituirlo nella presidenza di un Consiglio dei Ministri dietro delega espressa e per un ordine del giorno determinato.

Mi si dirà, naturalmente, che sono anni, da quando Jacques Chirac ha fatto votare la riforma del quinquennato, che il Presidente della Repubblica si è trasformato nel leader della maggioranza parlamentare. Ciò è senza dubbio corretto, ma questo cambiamento della prassi era in contrasto col testo della Costituzione e i successivi presidenti Sarkozy e Hollande, pur con tutti i difetti che avevano e tutti gli eccessi che hanno generato, non avevano osato violare in modo così esplicito lo spirito e la lettera della Costituzione.

Il Presidente non si rivolge più al popolo
Questo atto è in sé particolarmente grave; ma non è il solo. In effetti, il rifiuto del Presidente di dedicarsi all’esercizio, sicuramente concordato, della conferenza stampa in occasione del 14 luglio, rivela un alto grado di disprezzo, finora impensato, da parte del presidente. Questa intervista permetteva al presidente di rivolgersi direttamente ai francesi. In questo senso, giocava un ruolo importante, al di là dei dettagli del suo svolgimento.
Naturalmente, mi si potrà dire che un messaggio al Congresso offre gli stessi vantaggi. Ma questo vuol dire commettere un grave errore sul significato, sia della Repubblica, sia delle nostre istituzioni. Attraverso questa intervista, il presidente si rivolgeva direttamente al popolo, non ai suoi rappresentanti: al popolo, che è il custode della sovranità nazionale. È vero che il presidente Emmanuel Macron non dà molta importanza alla sovranità. Ed è forse in questo che va ricercata la vera ragione dell’abbandono di questa “tradizione” e la creazione della “innovazione” rappresentata dal messaggio al Congresso. Perché, quando non si riconosce più la sovranità del popolo, il disprezzo che si manifesta nei confronti degli avversari o dei propri alleati non ha molto peso.
In realtà, è questa la sostanza del problema. Emmanuel Macron, eletto a sorpresa, e in un certo senso contro la volontà della maggioranza dei francesi, non può contare su alcuna sovranità popolare. Deve dunque distruggere tutti i suoi simboli. L’abbiamo visto in occasione del Consiglio europeo del 22 e 23 giugno. Lo vediamo con questa imitazione grossolana e grottesca del “messaggio sullo stato dell’Unione” – ma in un contesto e con tradizioni politiche completamente diverse – del Presidente degli Stati Uniti.

Ritirarsi sull’Aventino?
Se queste scelte non hanno provocato la disapprovazione e le proteste che meritano, è perché l’opposizione è, al momento, in briciole. L’ex UMP, ribattezzato “I repubblicani” (LR), è spaccato a causa dell’adesione di alcuni dei suoi membri al potere di Emmanuel Macron. Ancora più profondamente, la sua linea, conservatrice ed europeista, è in grado di soddisfare solo quei “Repubblicani” che partecipano di questa ideologia letale. Il P “S” sta morendo, dissanguato da un’emorragia di macronismo. Quanto ai due partiti che potrebbero incarnare una vera opposizione, si dibattono in situazioni difficili. Il Fronte Nazionale continua a pagare lo scotto dell’episodio del “dibattito” (dibattito televisivo tra Emmanuel Macron e Marine le Pen NdVdE) tra i due turni elettorali e della sua mancanza di credibilità politica, mentre la France Insoumise oggi fatica a convincere i potenziali elettori di essere una forza capace di incarnare un’opposizione globale, vale a dire realmente sovranista.
In questo contesto, di fronte al susseguirsi di questi colpi di mano e al colpo di stato strisciante, solo pochi deputati, tra cui quelli del gruppo France Insoumise, hanno deciso di non partecipare alla riunione di Versailles. Hanno fatto la scelta giusta. Il popolo ha manifestato la sua insoddisfazione attraverso lo “sciopero” del voto alle elezioni parlamentari. Ora si prepara a una forma di ritiro dalle istituzioni che potrebbe scoppiare in modo forte ed eclatante al rientro di settembre. Fino ad allora, è meglio non partecipare al gioco perverso di Macron, e ricordare questo proverbio latino: “Coloro che Giove vuole perdere, per prima cosa li priva della ragione…”

giovedì 6 luglio 2017

Non è un Paese per giovani, ma dove sono i giovani?

Si moltiplica la pubblicistica sui "giovani", i trend sono molteplici ma i filoni principali riguardano il malessere "esistenziale" che contraddistingue i Millenials e le loro difficoltà economiche e di realizzazione.
Non è un Paese per giovani, ma dove sono i giovani?
Le narrazioni partono sempre da un dato quantitativo: il numero dei giovani che vanno all'estero, i dati sulla disoccupazione giovanile, le analisi sulla crescita dei disturbi depressivi e d'ansia e non ultime le dichiarazioni di Boeri, presidente dell'Inps, sulla povertà degli under 35. Nell'oggettività di questi dati statistici viene costruita una narrazione qualitativa, un senso comune forte sulla vita dei cosidetti giovani. Da una parte sempre più poveri e senza prospettive dall'altra accusati dalla politica di essere choosy, pigri e non disponibili a prestarsi al mercato del lavoro. Una narrazione ambivalente le cui contraddizioni esplodono, come abbiamo visto nel caso del suicidio di Michele.
«C’è un problema generazionale molto forte nel modo in cui la sicurezza sociale ha affrontato i problemi dei giovani», afferma Boeri. Più di un under 35 su dieci sta al di sotto della soglia di povertà assoluta ma i fondi Inps destinati a questa fascia sono neanche il 26% della spesa complessiva erogata. La disoccupazione giovanile continua ad attestarsi intorno al 40%, due milioni e mezzo di NEET (giovani che non lavorano e non studiano) e il tasso di nascite diminuisce drasticamente. Questi dati rappresentano dei “problemi” a cui la politica non vuole rispondere perché funzionali alla riproduzione di un mercato del lavoro conveniente per gli investitori.
L'affermazione di Boeri è da manuale per descrivere i tre aspetti che caratterizzano la vita di un "giovane italiano".
Il primo è un problema generazionale ad ora tutto raccontato e imposto dall'apparato sistemico. In un contesto di crisi permanente chi più ne fa le spese sono le donne e i giovani, privati degli strumenti economici e sociali per vivere una crescita autonoma nel proprio presente. Non si tratta più di "costruirsi un futuro", slogan delle ultime ondate di movimento studentesco, ma di riuscire a vivere un presente. La contrazione temporale delle aspettative è indice di un profondo cambiamento soggettivo, in cui l'integrazione diviene il chimerico obiettivo da perseguire per una fascia di “giovani” molto diversificata e stratificata al suo interno. La normalità dei lavori a rimborso spese, non pagati, a "tutele crescenti" è un dato non messo esplicitamente in discussione. Le chiacchiere da spogliatoio sono un lamentio sfiduciato nella politica e nelle possibilità che il sistema offre, insieme ad una rassegnata accettazione del dover sottostare a questo iter di cui non si conosce l'esito. Una lotta per l'integrazione, per non essere relegati in questa “generazione” depressa, o un crogiolarsi in una lamentela sulla propria condizione. Chi rifiuta questa prospettiva scappa all'estero, i più fortunati per lavorare nell'industria della conoscenza e della formazione i più a lavare piatti o vendere gelati. Il rifiuto di questo sistema che macina e distrugge vita, conoscenza, crescita e temporalità è silenzioso e ambivalente, mancano le parole per descriversi comunemente a partire da un posizionamento proprio e per riuscire a incidere collettivamente su questa “sorte”, che nulla ha di fatalistico.
Il secondo punto è quella che Boeri ha definito “sicurezza sociale”, concetto della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, Articolo 22 : Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l'organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità.
Un richiamo a un universalismo neutralizzante poi utilizzato nella pratica per imporre delle discipline sempre più ghettizzanti e isolanti: regolamenti degli spazi scolastici e universitari sempre più restrittivi, tagli al diritto allo studio ormai in fallimento ma nessuna misura di sostegno al reddito. Le uniche misure statali sono state quelle legate alla Garanzia Giovani, progetto ampiamente fallito di tirocini formativi a rimborso spese per i quali ancora si aspetta la retribuzione dei lavoratori. La sicurezza sociale chiamata in causa non è la soluzione ma la base dei problemi affrontati in quanto arma di ricatto utilizzata dalle istituzioni e dal mercato del lavoro.
Il terzo sono i “problemi dei giovani”. Questi problemi sono stati definiti dalle indagini Istat, dalle statistiche, dai politici e dai media. Nessun'altra voce si è alzata per contestare dei problemi ed è per questo che nessuno fa qualcosa per risolverli, infrangendo così le perenni speranze del pubblico da casa. Così si moltiplicano le analisi sociologiche e psicologiche volte a neutralizzare e medicalizzare in “crisi dei 25 anni” e “generazione dell'ansia” delle situazioni ben più complesse che riguardano sia la sfera soggettiva di costruzione di personalità e certezze che quella oggettiva delle “sicurezze materiali”. Un circolo vizioso funzionale a mantenere soggiogati milioni di “giovani” e preoccupati i loro “genitori”, mantenendo immutata una condizione sociale ed economica. Questo almeno nel discorso e nella narrazione perché dei cambiamenti volti a una sistematizzazione normativa di questa “crisi generazionale” sono invece in atto: Job Act, riforma della scuola e università, restrizione degli spazi di socialità violentemente (vedi piazza Giulia a Torino) disciplinati per essere ulteriormente mercificati.
Nessuno risolverà dei problemi se una soggetto collettivo non li porrà con forza e ne pretenderà una risoluzione.
Sia nei significativi dati referendari di questo dicembre (80% di NO al referendum costituzionale) che nei dibattiti pubblici in seguito al suicidio di Michele il dato da cui ri-partire è quello di un'assenza di presa di posizione, di una mancanza di parole e di espressione collettiva.

mercoledì 5 luglio 2017

Un milione di bottiglie di plastica al minuto

E' questo il nostro consumo mondiale di bottigliette di acqua, Coca Cola, e tutto quello che beviamo-e-gettiamo.
Ogni giorno, in media, che sia estate, che sia inverno. I numeri sono in constante aumento e non se ne vede la fine, specie con l'avanzare della voglia di "moderno" in paesi in via di sviluppo e fra i nouveau riche, primi fra tutti in Cina.
Cosa vuol dire un milione al minuto?
Un miliardo e quattrocentoquaranta al giorno.
Mezzo trilione all'anno.
Per vederlo con tutti gli zeri sono
525,600,000,000.
Se le mettessimo tutte di fila sarebbero meta' della distanza dalla terra al sole.
Ogni tanto compaionio immagini di isole remote coperte dalla plastica, di uccelli con tappi nello stocamo, di delfini e balene e altre creature del mare soffocate dalla plastica.
Non va bene, e la colpa siamo tutti noi.
Ora uno dira' va bene, le recicliamo. E in effetti il PET delle bottigliette di plastica e' reciclabile. Si chiama polyethylene terephthalate, e non e difficile, in principio, trovare altri usi a bottigliette usate. Ma le percentuali di reciclaggio sono bassissime.
Nel 2016 meno della meta' delle bottigliette di plastica e' stata raccolta con lo scopo di essere reciclata, e alla fine solo il 7% e' finito veramente con l'essere trasformato in bottiglie nuove. Il resto e' finito in discarica, o peggio, in mare, o peggio ancora a pezzettini negli stomaci degli esseri marini.
Ogni anno, fra bottiglie di plastica e altra roba fra i 5 e i 13 milioni di tonnellate di plastica finiscono direttamente nelle pancie di uccelli, pesci e altri organismi del mare.
Come si puo' non pensare che presto la plastica non arrivera' anche nei nostri corpi?
Siamo un ciclo chiuso. Non e' che plastica e pesci e mare tutti assieme, e l'uomo no. Prima o poi succedera'.
E infatti alcuni ricercatori belgi dell'Universita' di Ghent hanno stimato che fra i consumatori di pesce, la media e' circa 11mila pezzettini di microplastica l'anno ingeriti. Spesso non ce ne accorgiamo perche' sono piccolissimi.
Allo stesso modo, uno studio dell'Universita' di Plymouth riporta che di tutti i pesci catturati nel Regno Unito, un terzo hanno plastica in corpo, e questo include merluzzi, sgombri e altri pesci del mare del Nord. Sono pesci destinati al consumo umano.
Ancora, nel 2016, la European Food Safety Authority che si occupa di dare linee guida per il consumo di pesce in Europa riporta che esistono i rischi del consumo di microplastica da parte dell'uomo a causa del pesce contaminato da pezzetti di plastica e consiglia vivamente che ci siano studi adeguati e sensibilizzazione fra le persone.
Ovviamente la plastica non si puo' in nessun modo mangiare.
Cosa fare? Le risposte sono semplici, e urgenti in questi mesi estivi, cioe' usarne di meno di bottiglie di plastica, riutilizzarle, essere sicuri di sapere dove vanno a finire, una volta che non si usano piu', e se si vede plastica in mare o in spiaggia non verognarsi a raccoglierla e a smaltirla correttamente. Magari mettere le tasse per il vuoto a rendere, come fanno gia' in alcune parti del mondo.
Si stima che il consumo di plastica raddoppiera' in 20 anni.
Gli sforzi per il riciclo e il riuso non sono in nessun modo adeguati su questo pianeta.
Le prime bottigliette di plastica sono comparse sulla scena mondiale ngli anni 1940. Quelle che sono finite in mare da allora, sono ancora pressoche' intatte. E cosi pure tutte quelle successive.
La plastica e' cosi dappertutto nei nostri mari. A parte le enormi isole di monnezza nel Pacifico, i Great Garbage Patch, cumuli di plastica arrivati in Artico, alle Maldive, e in isole disabitate e remote.
Di chi e' la colpa?
Beh, il principale tipo di plastica che finisce in mare e' proprio la bottiglietta di plastica per l'acqua. Dalla Cina ne arrivano sempre di piu: un quarto delle bottiglie consumate sul pianeta arriva da li.
Basti solo dire che nel 2015 sono stati usati 68 miliardi di bottiglie in Cina. Nel 2016 siamo arrivati a 74. E questo perche fa chic, ma anche perche man mano che ci si sposta a vivere in zone sempre piu urbanizzate l'acqua di bottiglia e' percepita essere piu' sana dell'acqua di rubinetto, e forse lo e' realmente.
Grandi aumenti anche in India e in Indonesia.

martedì 4 luglio 2017

XI vola a Mosca. Russia e Cina firmano accordi per 10 miliardi di dollari

Lunedì 3 luglio, il presidente cinese Xi Jinping è arrivato a Mosca per due giorni di incontri al vertice con il presidente russo Vladimir Putin. Il leader del Cremlino lo ha definito come "un evento di grande importanza nelle relazioni bilaterali".
Durante la visita di Xi, programmata per il 3 e 4 luglio, la Russia e la Cina firmeranno accordi per il valore complessivo di 10 miliardi di dollari, oltre ad una dozzina di accordi di cooperazione. Lo riporta TASS citando il viceministro degli esteri cinese Li Huilai.

Prima di arrivare a Mosca, Xi ha rilasciato un'intervista a TASS nella quale ha criticato il dispiegamento del sistema di difesa antimissilistica statunitense THAAD in Corea del Sud perché "minaccia l'equilibrio strategico nella regione e minaccia la sicurezza di tutti i paesi della zona, tra questi Russia e Cina".
Secondo Andréi Denísov, ambasciatore russo in Cina, Mosca e Pechino hanno deciso di allineare le loro posizioni sulle principali questioni di politiche internazionali. Questo ha permesso un riavvicinamento in ambito delle varie organizzazioni internazionali, in particolare l'ONU. "Diciamolo direttamente: il tutto ha un effetto canalizzatore sui nostri colleghi diplomatici nelle varie organizzazioni", ha sintetizzato. L'ambasciatore russo, in un'intervista a Rio Novosti, ha concluso dichiarando come "le relazioni russo-cinesi sono oggi un fattore di stabilizzazione".

lunedì 3 luglio 2017

Chi ruba il lavoro ai giovani

Gli economisti discutono se l’allungamento dell’età pensionabile riduca le nuove assunzioni. Ma il punto è se si sceglie come obiettivo la piena occupazione o si accetta un’organizzazione sociale che sconta che ci siano disoccupati
“E’ una società stolta e miope quella che costringe gli anziani a lavorare troppo a lungo e obbliga una intera generazione di giovani a non lavorare quando dovrebbero farlo per loro e per tutti”. Le parole del Papa hanno rilanciato un dibattito che impegna da tempo economisti, politici e sindacalisti. Gli anziani tolgono il lavoro ai giovani? Le due posizioni contrapposte, di chi ne è convinto e di chi lo nega, hanno ancora i loro militanti, specie tra gli economisti con indefettibili convinzioni ideologiche (come il direttore dell’Istituto Bruno Leoni , Alberto Mingardi), ma oggi sembrano tendere a un compromesso, come mostra nella sua ottima rassegna sull’argomento Nicola Salerno (economista che lavora all’ Ufficio parlamentare di bilancio ).
La posizione a cui il Papa ha dato voce non ha bisogno di spiegazioni. Ma cosa replicano i sostenitori dell’altra tesi? Affermano che il numero dei posti di lavoro non è limitato, e citano a loro sostegno ricerche fatte su lunghissimi periodi (35 anni quella citata da Salerno) che dimostrerebbero l’insussistenza dello “spiazzamento”. In più – aggiungono – mandare in pensione prima i padri significa addossare ai figli la spesa per il loro mantenimento, “perché è la popolazione attiva che paga per chi attivo non lo è più” (Mingardi).
La posizione intermedia emersa di recente si basa su due ricerche fatte dopo l’ultimo innalzamento dell’età pensionabile, quello della “riforma Fornero”. Entrambe concludono che lo spiazzamento c’è stato eccome: “un rinvio di cinque anni-lavoratore (ad esempio un lavoratore bloccato per cinque anni o due lavoratori bloccati per due anni e mezzo, etc.) implicano un giovane assunto in meno”. E dunque, anche se nel lunghissimo periodo non sembrano emergere effetti negativi, nel breve e in determinate condizioni dell’andamento dell’economia questi effetti si possono produrre, e in Italia è accaduto proprio questo. D’altronde, chi avesse seguito le rilevazioni dell’Istat negli ultimi anni ha ben potuto vedere che l’occupazione, quando aumenta, aumenta soprattutto nella classe di età oltre i 55 anni, mentre i dati sulla disoccupazione giovanile continuano ad essere catastrofici. (C’entrano naturalmente anche i fattori demografici, come mostra uno studio di Leonello Tronti e Andrea Spizzichino: ma questo può essere considerato un aspetto specifico del problema generale).
Tutte queste ricerche, però, hanno in comune un presupposto metodologico. Esaminano uno o più paesi, scelgono le variabili da osservare o da neutralizzare, applicano complesse formule matematiche e poi traggono le conclusioni. Del tutto fuori dal campo di ricerca resta la logica che ha generato quelle situazioni. L’organizzazione della società viene assunta come data, gli studi riguardano il modo in cui si muovono le variabili nell’ambito delle varie situazioni esistenti. Ma che succede se si agisce su una variabile dell’organizzazione sociale?
Obiezione scontata: gli economisti studiano quello che c’è, non quello che potrebbe esserci. Eggià. E’ proprio questo il vero problema. Perché una cosa è analizzare una situazione esistente con il proposito di farla funzionare nel miglior modo possibile; cosa del tutto diversa è individuare un obiettivo ed elaborare una strategia adatta a realizzarlo. Ci spostiamo nel campo della filosofia e della politica? No, nessuno “spostamento”: o si assumono esplicitamente degli obiettivi relativi all’organizzazione sociale, oppure si stanno semplicemente accettando quelli impliciti.
Facciamo un esempio. I due studi sugli effetti della Legge Fornero hanno indagato che cosa cambiava con quella decisione, mantenendo implicitamente ferme tutte le altre variabili di regolamentazione del lavoro e di gestione dell’economia. Hanno correttamente concluso che, nella situazione data, ci sono state quelle conseguenze. Ma quella situazione non era l’unica possibile, perché si sarebbero potute fare scelte di politica economica diverse. Per esempio, se insieme alla legge Fornero fosse stata approvata una norma per limitare a casi eccezionali gli straordinari e una che riducesse l’orario di lavoro, probabilmente staremmo raccontando una storia diversa. Ma questo non avrebbe aumentato i costi per le imprese proprio in un periodo di crisi? Sì, ma questa è l’obiezione che si fa da oltre due secoli ogni volta che c’è da prendere una decisione del genere. Non abbiamo notizie in proposito, ma saremmo pronti a scommettere che sia stata fatta anche in Inghilterra nel 1819, quando fu varato il Cotton Mills and Factories Act , che vietava l’assunzione di bambini sotto i nove anni e limitava la durata della giornata lavorativa per i ragazzi dai nove ai sedici anni a “sole” dodici ore.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, ma i lavoratori hanno sempre dovuto lottare per conquistare condizioni più favorevoli. “Se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorar”, cantavano le mondine quando, nel 1906, il deputato socialista Modesto Conoglio presentò la sua proposta di legge. Le otto ore furono approvate, e l’economia non crollò, così come continuò a prosperare anche dopo altri miglioramenti delle condizioni del lavoro. Il XX secolo è stato quello che nella storia ha visto – nei paesi occidentali – le più grandi conquiste dei lavoratori e la più forte espansione dell’economia. Poi però i capitalisti hanno ripreso la lotta di classe (parola del miliardario americano Warren Buffett) e, con la globalizzazione, hanno messo in concorrenza i lavoratori dei paesi avanzati con centinaia di milioni di altri lavoratori che, quanto a diritti e protezioni, erano all’anno zero. Il seguito lo conosciamo.
E dunque, la domanda giovani-anziani è mal posta. In un certo tipo di organizzazione sociale e di politica economica, che non si ponga come obiettivo la piena occupazione e anzi consideri opportuno un dato livello di disoccupazione – ossia, la situazione in cui siamo ora – far lavorare più a lungo gli anziani riduce le occasioni dei giovani, perché la scelta è quella di lasciar fuori qualcuno, e dunque se si tira la coperta da una parte si lascia scoperta l’altra. Se invece l’obiettivo principale è la piena occupazione il problema giovani-anziani ovviamente non si pone. Naturalmente si potrà affermare che quell’obiettivo è irraggiungibile a meno di non danneggiare l’economia. Avranno sicuramente detto la stessa cosa quando si opponevano a limitare a sole dodici ore il lavoro dei bambini.