venerdì 29 maggio 2020

Si sgonfia subito il “recovery fund

La differenza tra annunci e fatti è sempre clamorosa, ma mai quanto per le vicende dell’Unione Europea. Non poteva fare eccezione la presentazione della proposta di recovery fund, avvenuta ieri da parte della presidente della Commissione (il “governo” UE), Ursula von der Leyen.
Partiamo ovviamente dagli annunci, come sempre trionfalistici e ad alto tasso di “europeismo” apparente: 750 miliardi, il 50% in più di quanto previsto nella bozza concordata tra Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Parte in grants (trasferimenti a fondo perduto, ma condizionati secondo il tipo di utilizzo) e parte in prestiti. Per l’Italia ce ne sarebbero in totale 172 (80 di sussidi, 90 di prestiti), quasi il 10% del Pil. Quanto basta per brindare, no?
Dal lato dei fatti, chi conosce i meccanismi e i trattatati Ue (come Carlo Calenda) precisa a mezza bocca che di miliardi veri – ossia in più – ce ne sono solo 26 (massimo 28, secondo altri). Il perché è relativamente semplice: questi fondi sono sostanzialmente il bilancio europeo dei prossimi anni, dunque verranno costituiti con i contributi pro quota dei singoli Stati. La differenza tra il da versare e il ritirabile, nel caso dell’Italia, si aggira appunto intorno a quella cifra: 26-28 miliardi.
In un certo senso si può parlare di “successo” solo perché, per la prima volta, l’Italia non sarebbe un “contributore netto”, ossia un Paese che versa più di quanto prende, com’è stato finora.
Fine dei “successi”.
Stando ai fatti, anche questo nuovo piano – ribattezzato Next Generation, tanto per ribadire la chiave retorica che verrà usata ancora una volta (“lo facciamo per i giovani”) è per ora solo una proposta. Fino al 21 giugno le varie cancellerie del Vecchio Continente si scontreranno sopra e sotto i tavoli di trattativa per limare, aggiustare, correggere, redistribuire diversamente e soprattutto vincolare quei fondi a “riforme strutturali”.
La parte del “cattivo” è affidata di default ai Paesi definiti “frugali” (Olanda, Austria, Danimarca e Svezia, gli ultimi due fuori dall’euro), mentre la Germania stavolta di colloca tra i “mediatori”. Ma solo gli ingenui cronici possono credere che quattro Stati che insieme “contano meno dell’Italia da sola” (come è arrivato a dire nei giorni scorsi persino il diplomaticissimo Giuseppe Conte), e che soprattutto dipendono largamente dalle interconnessioni economico-finanziarie con la Germania, possano davvero pensare di condizionare una trattativa continentale senza giocare di sponda con Berlino.
Inutile però perdersi nelle ipotesi sul “come finirà?” (possiamo solo prevedere che ci sarà un compromesso al ribasso, che attenuerà le presunte “concessioni” ai paesi più colpiti dalla pandemia e dunque anche dalla crisi che ne sta derivando: Italia, Spagna, Francia), più logico attenersi al testo della bozza von der Leyen, che alleghiamo in fondo.
Iniziamo dalla tempistica. Non arriverà un euro prima di gennaio, se tutto va bene e se la trattativa non si incaglia. Dal 1 luglio comincia infatti il “semestre tedesco”, il periodo in cui la guida dell’Ue spetta alla Germania e dunque alla stessa Merkel. Una posizione di relativa forza che dovrebbe facilitare la ricerca del “compromesso”. In ogni caso vanno deluse le speranze del governo italiano che puntava ad avere alcuni via libera già da fine giugno. “È chiaro che le trattative saranno difficili e non saranno chiuse già al prossimo Consiglio europeo”, Merkel dixit e morta lì.
E qui si comincia a parlare di vincoli sull’uso dei fondi. La proposta di von der Leyen prevede esplicitamente di legare le risorse ad un piano di “investimenti e riforme” che – bontà sua – potrà essere elaborato dai singoli Stati, poi presentato a Bruxelles e infine approvato anche da tutti gli altri Stati membri in Consiglio europeo.
Un piano che naturalmente dovrà essere in linea con le regole del Patto di Stabilità (momentaneamente sospeso per l’emergenza) e le “raccomandazioni” che la Commissione prescrive per ogni paese (ai sensi del Fiscal Compact, del Six Pack e del Two Pack, ossia la procedura di formazione delle leggi di stabilità nazionali).
Si tratta delle regole che già conosciamo, quelle dell’”austerità”, che in questo modo risulta sospesa per l’anno in corso (cause di forza maggiore), ma sulla porta nei prossimi anni (anche se magari non già dal 2021).
C’è poi il capitolo complicatissimo di come finanziare questo Next Generation Fund. Non si possono chiedere ora soldi ai singoli Stati, visto che bisogna invece dargliene. Dunque ci saranno diverse emissioni di bond garantiti direttamente dalla stessa Unione Europea (come avviene per la Bei, il Mes, ecc). Titoli con “tripla A”, assolutamente sicuri agli occhi dei mercati e dunque a tasso di interesse bassissimo e dalla durata lunghissima (30 anni, ma anche di più).
Non si tratta esattamente di eurobond, però, perché gli interessi e la restituzione finale saranno a carico comunque degli Stati, anche se non proprio secondo le aliquote storiche (di qui nasce quella differenza di 26-28 miliardi nel caso dell’Italia).
Quanto basta per far incazzare i “frugali” e la destra interna tedesca, ma ben poco per cambiare la situazione di Italia, Spagna, ecc, che vedranno così salire alle stelle il proprio debito pubblico.
Allo studio anche alcune “tasse europee” per rastrellare risorse. Con i problemi tipici di ogni nuova forma di tassazione. La carbon tax, per esempio, è sgradita alla Polonia e altri paesi dell’Est (che anche di esportazioni di carbone campano), mentre la digital tax aumenterà i contrasti con gli Usa, visto che riguarderebbe soprattutto i giganti dell’informatica della Silicon Valley (più Huawei e pochi altri).
Finché ci sarà Trump alla presidenza, è prevedibile che una tassa del genere verrebbe “compensata” con sanzioni e aumento dei dazi. Ma l’unica alternativa alle tasse (dazi) verso merci extraeuropee è l’aumento della pressione fiscale interna ai vari paesi Ue. Scontentando così sia l’elettorato dei “frugali” (che si sentirebbe chiamato a regalare soldi alle “cicale” mediterranee), sia quello dei “beneficiari” (che si vedrebbero togliere con una mano quel che viene teoricamente dato loro con l’altra).
In teoria, il nuovo fondo dovrebbe contribuire non tanto a salvare settori economici “maturi” e semi-sconquassati dall’attuale crisi, quanto a promuovere green economy, nuove tecnologie, modernizzazione della sanità, istruzione e altri capitoli tutti da definire. Non è detto insomma che paesi come Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, ecc, possano offrire garanzie di sviluppo in questi capi tali da soddisfare le richieste europee per l’erogazione dei fondi.
In quel caso a beneficiarne sarebbe chi oggi si mostra più cauto (Germania e Francia, in prima fila) o addirittura contrario (i “frugali”).
In estrema sintesi, per essere una “grande risposta europea all’emergenza” si può dire che certamente non è abbastanza “grande”, non è per niente rapida (e da settembre, quando scadranno gli ammortizzatori sociali straordinari messi in campo fin qui da alcuni governi, compreso quello Conte, faremo tutti i conti con la durezza della scarpata in cui siamo precipitati), è sicuramente molto condizionata e – dettaglio non secondario – ancora tutt’altro che certa. Dunque, niente affatto all’altezza della crisi sistemica che il mondo intero sta affrontando.

Vale la pena, qui di riportare il giudizio di un “europeista deluso” come Yanis Varoufakis, raccolto da La Stampa.
Qualcuno dirà che l’Europa finalmente si sta muovendo veloce. Ma la direzione è sbagliata“, spiega l’ex ministro delle finanze dei primo governo Syriza (quello abbattuto dalla Troika e dalla resa di Tsipras).
E chiarisce la portata della partita politica in atto: “eravamo a un incrocio: da una parte l’integrazione finanziaria e politica, dall’altro lo sgretolamento dell’Ue.E abbiamo preso la direzione sbagliata“. Il piano di von der Leyen, in altri termini, non è un passo in avanti verso la condivisione comunitaria di rischi e progetti ambiziosi, ma la perpetuazione della vecchia logica orientata dalla concorrenza interna tra Paesi della Ue, in una cornice di trattati che la incentivano.
Per quanto riguarda la parte relativa all’Italia, il giudizio è drastico: “inciderà per circa l’1% del Pil italiano per i prossimi tre anni: un valore insignificante. Tanti miliardi, poi, essendo vincolati a investimenti in settori come le nuove tecnologie, saranno dirottati più su Francia e Germania che sull’Italia. Infine, i prestiti dovranno essere ripagati e, con un debito pubblico che salirà al 200% del Pil, sarà difficile farlo“.
Il nostro strutturale è sempre lo stesso: la Ue ha una banca centrale anomala, costruita per lottare solo contro l’inflazione, ma non abilitata a finanziare gli Stati membri o la stessa Ue. Questo, nelle situazioni eccezionali come l’attuale, impedisce di “monetizzare” debiti e prestiti e costringe cercare capitali sui mercati finanziari. Ossia sotto forma di prestiti da restituire con gli interessi.
Il che si trasforma in una garrota senza fine: hai bisogno di soldi per uscire dalla crisi, li ottieni, ma quando potresti cominciare a riprenderti sul serio ecco che devi cominciare a fare “austerità” interna per restituire quel che hai avuto. Un marcia all’indietro, verso la fossa…

Vero è che la Bce sta acquistando, con il quantitative esasing, anche titoli spazzatura di Stati membri che altrimenti non avrebbero facile accesso ai mercati. Ma questa attività “supplente” di uno Stato che non esiste non può andare avanti all’infinito. E già ora la Corte Suprema tedesca ha messo in discussione la partecipazione della Bundesbank a quei programmi di acquisto. Minando così lo stesso “edificio legale” dell’Unione Europea.
Non per caso Varoufakis chiude la sua analisi paragonando l’Italia al Giappone:  ”E’ uno Stato per certi versi simile al vostro: Paese industriale, votato alle esportazioni con una popolazione anziana. Ma con una sua banca centrale”.
Che non deve perciò depredare la propria popolazione e distruggere il proprio apparato industriale per far contenti partner avidi e gli strozzini dei “mercati”.

lunedì 25 maggio 2020

Debito pubblico e ambiente: istruzioni per nascondere il conflitto sociale

I tempi in cui ci troviamo non sono facili: i popoli europei sono stretti tra la morsa a tenaglia della pandemia da un lato, e delle pericolose strade che portano al Mes dall’altro.
Al momento, ad essere chiaramente visibili sono il terribile effetto del virus, e l’intransigente attaccamento delle istituzioni europee all’austerità che, seppur apparentemente ammorbidita da provvedimenti di corto respiro, dettati dall’eccezionalità del momento, è pronta a riprendersi la scena non appena l’emergenza si sarà attenuata.
Eppure, non c’è da star sereni neanche per l’immediato futuro. Se infatti tutti speriamo che il Coronavirus possa via via divenire un avversario più gestibile, già vediamo chiare avvisaglie dell’inasprimento dei toni per quanto riguarda la gestione delle spese necessarie alla gestione della crisi.
Si prospetta per l’Italia, così come per praticamente tutte le nazioni fortemente colpite dal virus, un fine d’anno segnato da cospicui aumenti dei deficit pubblici (il rapporto deficit/PIL salirà dall’1.6% all’11.1% per Italia, dal 2.8% al 10.1% in Spagna, e da un avanzo dell’1.4% a un disavanzo del 7% in la Germania).
Questo comporta, insieme alla rovinosa caduta del Pil, un aumento considerevole del rapporto debito/Pil, stimato per l’Italia intorno al 150-160% a fine 2020. Con opportunistico pudore, le armate dell’austerità non si sognano di ostacolare i programmi di spesa in deficit nell’immediato.
Tuttavia, strisciante, già serpeggia una velenosa e sibillina domanda: “Saremo indebitati, sarà un problema?”.
Le voci dell’austerità sul tema si stanno moltiplicando, come possiamo ben vedere dalle parole di Lucrezia Reichlin, nota economista liberista e membro dei CdA di importanti aziende e banche italiane, e di Carlo Messina, CEO di Banca intesa San Paolo.
Tuttavia, seppur forti e molto ascoltate, questo tipo di invettive hanno perso parte della loro forza virulenta. D’altro canto eravamo stati abituati a sentirci promettere i miracoli dell’austerità. E già dopo qualche anno, viste le tremende conseguenze, era avvenuta una mutazione del discorso dei ‘competenti’, che non era più incentrato sui miracoli dell’austerità quanto sulla sua necessità, dettata dal tenere i conti in ordine.
Ecco che, come dicevamo, seppur non meno pericolose, le favole incentrate su un messaggio già conosciuto e screditato dovrebbero attecchire meno.
Ciò che invece rappresenta un vero e proprio nuovo ceppo del virus dell’austerità è quello ‘ambientalista-zen’, ben rappresentato dalle recenti parole di Enrico Giovannini, ex ministro del Lavoro del Governo Letta.
Il discorso di quest’ultimo si basa sulle seguenti considerazioni: per fortuna, grazie all’intervento in deficit dello Stato “l’impatto sui redditi delle famiglie sarà molto contenuto e verrà quasi completamente recuperato nel 2021”, ma questo comporterà un enorme aumento del rapporto debito/PIL. A questo punto a Giovannini sembra ineluttabile domandarsi se “nel decidere come usare i ‘loro’ soldi, i decisori politici hanno considerato il fatto che sono anni che i giovani chiedono una sterzata decisa nelle politiche pubbliche a favore di un modello di sviluppo diverso, basato sul concetto di sostenibilità?”.
La conclusione è che la sostenibilità va assicurata in termini di capitale ambientale (tutela di natura e suolo, lotta all’inquinamento), umano (assicurare la formazione e istruzione delle persone), sociale (emersione del lavoro nero e dell’evasione fiscale) ed economico (corretta gestione delle finanze pubbliche). 
Chi si sognerebbe mai di essere contro questa ricetta?
Tuttavia, poiché il diavolo risiede nei dettagli, Giovannini ci serve una polpetta avvelenata esprimendo una preoccupazione per le future generazioni. E’ una preoccupazione, questa, che fa emergere tutta la logica che anima il discorso dominante, sul tema del debito pubblico.
Giovannini, infatti, presenta il debito pubblico come un fardello insostenibile per le future generazioni che saranno costrette a ripagarlo tramite maggiori tasse. Il punto, però, è che il debito pubblico, tanto più in una situazione di alta disoccupazione, permette a uno Stato di crescere, creare lavoro e ricchezza tanto per le generazioni presenti quanto per le generazioni future.
Come al solito, non esiste alcun conflitto intergenerazionale che possa giustificare le politiche di austerità le quali, invece, generano povertà e miseria tanto tra le generazioni presenti che tra quelle future.
Al contrario, le finanze pubbliche sono assolutamente necessarie all’interno del discorso sulla sostenibilità ambientale, economica e sociale, esse sono il volano della sostenibilità per il mondo futuro. Il settore pubblico, proprio per assicurare una transizione verso una produzione sostenibile, proprio per consentire a tutti l’accesso ad istruzione e sanità gratuite, dovrebbe impegnarsi a conseguire deficit sostenuti come importo e continui nel tempo.
Insomma, concordiamo con Giovannini sulla necessità di garantire la sostenibilità in senso lato, ma proprio a tal fine le finanze pubbliche devono essere usate come mezzo per raggiungerla e non subdolamente presentate come fine in sé, da tutelare mediante rigore sui conti pubblici. Le politiche espansive e un ruolo attivo dello Stato in economia sono, infatti, la sola via per garantire sostenibilità e uguaglianza.
Questo discorso ci porta a concludere due cose. La prima è che possiamo tranquillamente fare a meno di un discorso che si vorrebbe socialmente impegnato, quando in realtà è disegnato apposta per dare alla austerità una patina benevolente. Dipingere di verde l’austerità non ci consegnerà un Pianeta più sostenibile, ma di qualsiasi colore essa sia, lascerà solo macerie e non intaccherà l’ordine costituito.
La seconda è che, ancora una volta, per capire perché il debito pubblico sia un problema tocca rivolgersi non a fatiscenti principi di equità intergenerazionale, quanto piuttosto ai meccanismi istituzionali di una gabbia europea che non smette di soffocare neanche di fronte a drammi economici e sociali senza precedenti.

martedì 19 maggio 2020

Giovedi 21 è lo sciopero dei braccianti e degli invisibili

Gli invisibili delle campagne italiane e delle metropoli giovedì 21 maggio incrociano le braccia per chiedere la regolarizzazione di tutti. Il Decreto Rilancio ha nei fatti dato luogo, con uno strettissimo spiraglio irto di sbarramenti e condizionalità, alla regolarizzazione per mera utilità di mercato anziché garantire il diritto alla vita.
L’USB Lavoro Agricolo organizza in concomitanza con lo sciopero la consegna di cesti di frutta e verdura alle prefetture, simbolicamente destinati a un governo che non ha voluto raccogliere le grida di dolore degli invisibili, che siano lavoratori o meno.
Con il Decreto Rilancio ha precluso loro nei fatti il rilascio di un permesso di soggiorno per emergenza, convertibile per attività lavorativa, che consentisse due atti basilari: l’iscrizione all’anagrafe e la scelta di un medico di base.
Ancora una volta, per ragioni di cinico equilibrismo politico, si è voluto proseguire sulla strada dei decreti sicurezza e della Bossi-Fini, abbandonando a se stessi i disperati delle zone rurali e delle periferie.
Lo sciopero di giovedì 21 avrà il suo momento simbolico nella marcia dei braccianti da Torretta Antonacci, che alle 9 si muoveranno dalle campagne per raggiungere la prefettura di Foggia, dove una delegazione di lavoratori provvederà alla consegna della frutta e della verdura tanto preziosa per il governo nazionale.
In parallelo con la mobilitazione, USB Lavoro Agricolo, forte dalla solidarietà dei contadini ed agricoltori, chiama le consumatrici e i consumatori a uno sciopero della spesa da attuare sempre giovedì 21: niente acquisti di frutta e verdura, in segno di solidarietà con la richiesta di regolarizzazione che proviene dall’esercito degli invisibili delle campagne e delle periferie italiane.

lunedì 18 maggio 2020

Il rischio incalcolabile della “riapertura” padronale

la realtà è molto più dura di qualsiasi frasetta inventata da Casalino o chi per lui. E tutti abbiamo imparato che, se hai un problema serio e concreto, non basta “cambiargli nome” per risolverlo.
La “ripartenza”, o “riapertura”, innescherà certamente – per ragioni fisiche e statistiche che non dipendono dalla volontà o dalla “responsabilità individuale – un aumento dei contagi da coronavirus.
La dimensione dell’aumento dipenderà da molte variabili: quanta gente in più andrà a lavorare oltre quella che c’è sempre andata o ha ripreso già il 4 maggio; quanta gente comincerà a frequentare le attività riparte solo stamattina; quante cautele saranno prese dai gestori di queste attività (e capiamo benissimo che i costi supplementari per le “misure di sanificazione e sicurezza” confliggono radicalmente con un giro d’affari comunque molto minore di prima dell’epidemia); con quanto scrupolo i singoli individui che da stamattina si sentono psicologicamente “liberati” dagli arresti domiciliari riusciranno a rispettare le norme di autotutela sanitaria.
Questo video, girato proprio stamattina nella metropolitana di Napoli, non ci lascia molte speranze sul poter limitare i danni sanitari di massa conseguenti a questo tipo di “riapertura” senza troppi limiti pretesa da Confindustria e padroncini vari…

giovedì 14 maggio 2020

Von der Leyen ha un “piano”. Sempre lo stesso…

Chi pensava che rifiutando il ricorso al Mes (Meccanismo europeo di stabilità) per puntare tutto sul Recovery Fund ci si potesse sottrare alle infinite trappole delle “condizionalità” fissate dall’Unione Europea, dovrà rinfoderare quella speranza.
Pensiamo in primo luogo a Giuseppe Conte e al M5S, che su questo avevano tirato più del solito la corda dei rapporti interni alla maggioranza di governo e con Bruxelles. Gli altri sono equamente distribuiti tra chi comunque accetterebbe tutto (Pd, Leu, berlusconiani) e che finge di volere altre strade (sempre garantite dalla Ue, comunque).
A disegnare il prossimo futuro dell’Unione ci ha pensata il capo della Commissione, la tedesca Ursula von der Leyen, davanti a un Parlamento di Strasburgo per la prima volta “irritato” dal non essere ai stato neanche messo a conoscenza di quel che bolle in pentola (tanto per capire quanto conta il presunto “potere legislativo” nella Ue).
Può darsi benissimo che “il progetto” illustrato a grandi linee venga stracciato da un aggravamento della crisi sistemica – è l’ipotesi al momento più probabile, viste le “riaperture” frettolose con il virus ancora in circolazione – ma è bene aver chiaro come la Ue intende sfruttare questa crisi per imporre un “cambiamento strategico” alla costruzione comunitaria.
Von der Leyen ha spiegato che il Recovery Instrument (anche il cambio del nome ha un senso…) dovrà servire a disegnare un mercato comune più “autocentrato”, meno globalizzato, per non trovarsi di nuovo spiazzato di fronte ad emergenze cui non può fare fronte avendo dismesso una massa spaventosa di poduzioni strategiche (che non erano state considerate tali).
L’esempio immediato è tutta la strumentazione sanitaria (dagli apparecchi alle mascherine, ai farmaci, ecc), ma l’ambizione è ben più vasta.
Già prima della crisi sapevamo che avevamo bisogno di grossi investimenti privati nelle tecnologie e nei settori chiave. Questa crisi ha reso questa esigenza maggiore di prima ed è per questo che rafforzeremo InvestEU, creeremo anche per la prima volta un nuovo strumento strategico di investimento che aiuterà a investire nelle catene del valore chiave che sono fondamentali per la nostra autonomia strategica. Abbiamo visto durante la crisi quanto dipendevamo da approvvigionamenti stranieri nel settore farmaceutico per esempio, quindi l’Europa deve essere in grado di produrre farmaci critici per conto suo. Per tutto ciò abbiamo bisogno di aziende sane su cui investire. Ecco perché proponiamo in questo secondo pilastro un nuovo strumento di solvibilità che aiuterà a venire incontro a esigenze di ricapitalizzazione di aziende sane che sono state messe a rischio dal lockdown“.
Autonomia strategica, dunque, minore dipendenza dalle forniture extra-Ue (idrocarburi a parte), ma anche forte selezione infra-capitalistica tra aziende sane e non. La conseguenza logica è immediata: nessun salvataggio generalizzato delle imprese (che invece  continua per esempio a chiedere il neo capo di Confindustria, Bonomi), ma ridisegno delle catene del valore lungo gli assi che portano ad “economie resilienti, pronte per affrontare il cambiamento climatico e digitale”.
Sotto le belle parole c’è ovviamente una sostanza: i fondi che verranno mobilitati saranno indirizzati soprattutto verso quelle imprese (e verso gli investimenti pubblici orientati nella stessa direzione) che possono inserirsi o ristrutturarsi in tal senso. Principalmente, dunque, grandi aziende multinazionali, ancorché basate o comunque originarie di Paesi europei, competitive tecnologicamente.
Un fronte su cui i Paesi mediterranei, in generale, non hanno granché da mettere in mostra… Piccole e medie aziende, di grande qualità, anche tante. Ma non di dimensioni tali da poter fare la parte del leone quando si tratterà di “competere” per strappare finanziamenti europei.
Peggio ancora per gli Stati, alcuni dei quali (i Pigs, soprattutto), fanno conto più su finanziamenti a fondo perduto che su nuovi prestiti e nuovo debito. Su questo le linee illustrate da von der Leyen non lasciano troppe illusioni.
Il primo pilastro [del fondo per la ripresa, ndr] si concentrerà sul sostegno degli Stati alla ripresa, il grosso del denaro verrà speso nell’ambito di questo primo pilastro in uno strumento nuovo creato per finanziare negli Stati membri investimenti pubblici chiave e riforme che devono essere allineate alle politiche europee“.
Difficile essere più chiari, nel linguaggio diplomatico continentale… Quei fondi, pure consistenti, dovranno essere spesi sotto il pieno controllo delle istituzioni europee. Nessuna libera interpretazione da parte degli Stati che ne usufruiranno (ed è ovvio che gli Stati che vi faranno ricorso sono principalmente quelli che hanno meno autonomia finanziaria), tanto è vero che “Questo verrà fatto tramite il semestre europeo, sarà disponibile per tutti gli Stati membri e si concentrerà sulle parti dell’Unione che sono state più colpite”.
Il “semestre europeo”, per chi non lo sapesse, è la procedura di formazione delle “leggi di stabilità” dei singoli Stati sotto continuo controllo della Commissione, secondo quanto definito dai trattati Six Pack e Two Pack. Dunque il controllo della spesa avverrà passo passo, senza alcuna “libertà” concessa alle amministrazioni nazionali.
Persino l’indispensabile sostegno ai redditi di disoccupati e licenziati sarà sotto controllo: “Nell’ambito di questo primo pilastro troviamo anche una proposta della Commissione che prevede un pagamento supplementare ai fondi di coesione e si baserà sulla gravità dell’impatto socioeconomico della crisi“.
Si ballerà sulla musica suonata lassù, per qualsiasi esigenza…
Il minimo che si possa dire, senza voler esagerare, è che questa impostazione non tiene affatto conto della gravità della crisi. E’ la pedissequa continuità delle politiche precedenti, con l’unica differenza di un allargamento controllato dei cordoni della borsa, perché perfino Germania ed Olanda stanno pagando prezzi notevoli, pur avendo margini di surplus molto ampi.
L’illusione di poter tornare al più presto “come prima” è evidente. Così come è evidente che questa cecità di fronte all’abisso reale non è dovuta a “stupidità”, ma corrisponde ad interessi consolidati che spingono ora per trarre il massimo vantaggio dalla nuova situazione.
Banalizzando un po’, se molte aziende e banche “interessanti” dei Paesi mediterranei vanno in maggiori difficoltà, saranno scalabili o acquistabili a prezzo più basso. Anzi, stracciato…
E se gli Stati di quei paesi resteranno strozzati da un debito che chiude loro la possibilità di accedere normalmente ai mercati finanziari, anche gli asset pubblici di quegli Stati saranno acquistabili per un tozzo di pane (chiedete alla Grecia, che si è vista costretta a vendere i suoi aeroporti più frequentati alla tedesca Fraport…).
Non sembra dunque un caso che, proprio in queste ore, tre Stati profondamente “europeisti” come Spagna, Portogallo e Grecia dicano “No al Mes”. I tre governi del blocco meridionale Ue – molto diversi tra loro, due di centrosinistra e uno di destra – sono dell’idea che non ci siano le condizioni per ricorrere alla nuova linea di credito messa a punto dal Fondo Salva-Stati per affrontare l’emergenza sanitaria del Covid.
Chi ci è già passato non intende ripetere l’esperienza, nemmeno in forma “addolcita”.
Ma da quanto ha detto von der Leyen anche altri “strumenti” di finanziamento comunitari avranno una logica generale simile. Forse meno esplicitamente strozzina, ma altrettanto “dirigenziale” sui singoli Paesi.
Da ultimo, va sottolineato che questo “fondo per la ripresa” sarà semplicemente il bilancio dell’Unione Europea, ben al di sotto della dotazione necessaria per realizzare gli obbiettivi illustrati da von der Leyen. Il differenziale, infatti, verrà coperto con “garanzie” dei singoli Stati. Insomma: non si spende un euro più di quel che già c’è. Come se questa crisi fosse un “normale turbamento transitorio”.
L’unico margine di manovra ampio resta dunque in mano alla Bce. Che però può soltanto “stampare denaro” e iniettarlo nei mercati finanziari (alleggerendo, nel passaggio, lo spread sui titoli di Stato dei Paesi più esposti alla speculazione). Ma dopo oltre 10 anni dovrebbe esser chiaro che la sola politica monetaria non basta a rimettere in moto l’economia reale. Nemmeno dopo una crisi molto meno grave di questa.
Non a caso il presidente della Federal Reserbe Usa, Jerome Powell, si rifiuta esplicitamente di seguire la via dei “tassi negativi” (inaugurata da Mario Draghi e proseguita da Christine Lagarde), che pure Trump gli va chiedendo. Al contrario, suggerisce lui al Presidente di aumentare molto di più la spesa pubblica per investimenti e in difesa dei redditi.
Continente che vai, risposta che trovi. Certo, quella della Ue, è la più ottusa in campo

mercoledì 13 maggio 2020

Partita chiusa o solo rinviata

Sono questi tempi in cui le partite non si concludono con pareggi o con onorevoli sconfitte, dove il motto decoubertiniano “l’importante è partecipare” non riecheggia nella società operante.
L’importante è vincere, la miglior difesa è l’attacco, catenaccio ermetico e via in contropiede fino a sfondare la porta avversaria, pressing, pressing ed ancora pressing, questi gli imperativi d’ordine e in voga, diretti dal palazzo di Confindustria e che devono giungere a destinazione, costi quel che costi.
E, naturalmente, nonostante l’apparente ruolo neutro di alcuni media nazionali, preoccupati di improvvise rivoluzioni culturali in un mondo che all’improvviso si è visto catapultato in un cambio epocale, per cui i messaggi arrivano innanzitutto nelle case di chi avrebbe la giusta pretesa di voler lavorare meno a parità di salario; magari anche per vedere apparire all’orizzonte una possibilità di lavoro stabile per i propri figli, e/o comunque per le generazioni che da oltre tre lustri si sono affacciate nel mondo del lavoro ed hanno trovato spesso e solo precarietà.
Non abbastanza tronfi di questo loro prima spavalda determinazione, i capitalisti nostrani irridono al Governo che timidamente aveva avanzato una proposta in tal direzione e, si preparano alla concertazione a perdere (solo per i lavoratori) con i loro complici naturali: Cgil, Cisl e Uil.
Insomma, non c’è molto da dire: a chi pensava di aver vinto la Fase 1 (riduzione del contagio) e di poter governare la transizione alla Fase 2, ecco già servita l’ipoteca sulla Fase 3.
Sapranno reagire i Nostri a questa implacabile avanzata del nemico di sempre?

martedì 12 maggio 2020

La bomba è l’Italia. La crisi dell’UE è imminente

Noi vorremmo sapere… per andare dove dobbiamo andare… per dove dobbiamo andare?”
La battuta di Totò resta inarrivabile come sintesi del dibattito politico nella “sinistra” italiana, soprattutto quando si tratta di affronatre le coordinate fondamentali della realtà in cui ci troviamo a vivere. Ossia su struttura e gerarchia dei poteri (economici, politici, militari), stato della crisi capitalistica, ruolo dello Stato e quel “piccolo vincolo esterno” rappresentato dalla stratificazione di Trattati e istituzioni che costituiscono l’Unione Europea.
Senza un briciolo di chiarezza su questo mondo – certamente complesso – si è condannati a brancolare nel buio della regione. Tra patetici tentativi di usare le antiche categorie per nuovi fenomeni, o all’opposto di buttare a mare un patrimonio di idee e chiavi di lettura che non si riesce ad utilizzare.
Di base, quel che manca è lo studio della realtà empirica. Che è complicata, praticamente inaffrontabile con le risorse solo individuali e anche di piccoli gruppi. Ma camminare su un terreno sconosciuto espone ogni momento a rischi enormi, e a figuracce frequenti.
La scorsa settimana, solo per quanto riguarda l’ultimo (e persino il meno potente) dei “poteri forti” prima nominati, l’Unione Europea, si sono registrati due momenti importanti. Il primo è stata la sentenza della Corte Suprema tedesca, che ha dato tre mesi di tempo alla Bce per “giustificarsi” sulle politiche monetarie troppo “lassiste” degli ultimi anni.
Il secondo è stato l’”accordo” raggiunto nell’Eurogruppo per imporre il Mes (Meccanismo Europeo di Statbilità) come unico – al momento – strumento finanziario a disposizione dei governi per far fronte ai costi e ai danni della pandemia. Abbiamo smontato più volte la menzogna spudorata sull’”assenza di condizionalità”, e quei contributi rimandiamo senza tornarci.
Due eventi che vanno in direzione divergente, perché la sentenza di Karlsruhe evoca una pretessa di “diritto superiore tedesco” sulla struttura comunitaria sovranazionale (che ha prodotto ovviamente perplessità e irritazione a Bruxelles), mentre la trappola del Mes è in continuità diretta con la vecchia struttura “comunitaria”, così ossessionata da regole fuori tempo da non riuscire a modificarle neanche di fronte alla più immensa crisi che abbia colpito il modo di produzione capitalistico.
Non solo a noi sembra chiaro che una struttura di governance incerta sulla direzione da prendere (prevalere del nazionalismo tedesco, che aprirebbe la strada o a un dominio di stampo neocoloniale o, più probabilmente, a una reazione generale di stampo nazionalistico) si trova esposta a un serio rischio di implosione.
La questione non è però una curiosità intellettuale per patiti di geopolitica, peraltro troppo deboli per pesare nelle equazioni che descrivono i rapporti di forza.
Che l’UE ci sia o no, con quali politiche e quali effetti pratici, è questione che riguarda direttamente la vita di tutti noi, anche in questo Paese e nel più piccolo e sperduto paese del nostro territorio. Soprattutto, riguarda direttamente i nostri settori sociali di riferimento.
Se non altro perché quell’impianto sovranazionale (mal)diretto da Bruxelles decide se avremo o no possibilità di finanziare l’immensa quantità di sussidi a fondo perduto che sono pretesi da Confindustria, Confcommercio, lavoratori in cassa integrazione, precari e partite Iva, piccole imprese di tutti i tipi, ecc. Fino ad arrivare alla continuità di erogazione delle pensioni, la struttura sanitaria nazionale, l’struzione, ecc.
Ricordiamo sempre che i Paesi della Ue hanno perso la possibilità di monetizzare il debito attraverso le emissioni della Banca centrale nazionale, e che dunque possono soltanto ricorrere ai prestiti (ossia nuovo debito) delle istituzioni internazionali (Ue, Fmi, ecc) oppure dei “mercati finanziari”.
Incaprettati e con le mani legate dietro la schiena, sembra difficile non vedere che bisogna guardare a quel che avviene sul piano europeo per poter capire, con qualche anticipo, quel che accadrà a breve dalle nostre parti. Insomma, per poter approntare qualche reazione difensiva, un conflitto sociale razionale e intelligente, un briciolo di rappresentanza politica di interessi sociali sulla via dell’annientamento.
La lunga, ma necessaria premessa, serviva a introdurre questa importante intervista a Wolfgang Streeck, direttore emerito del Max Planck Institute, apparsa sulla Frankfurter Algemeine Zeitung.
Il parere di un illustre studioso tedesco, insomma, certamente affezionato al suo Paese ed anche alla UE, destinata al pubblico di uno dei più importanti quotidiani di Germania.
La descrizione di ciò che è la Ue, delle diseguaglianze costitutive dei trattati e della loro continua implementazione, nonché delle politiche di austerità, ecc, sembra scritta da feroci “anti-europeisti”. E invece è una pacata fotografia concettuale di un mostro che divora tutto ciò che incontra per garantire a un manipolo di capitali di crescere a dismisura. Anche nelle attuali condizioni.
Forse sarebbe il caso di aprire gli occhi e guardare in faccia la Gorgona. C’è la possibilità che, all’opposto del racconto mitologico, si possa uscire dalla pietrificazione del pensiero che si pensa “di sinistra”.
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La bomba è l’Italia. La crisi dell’UE è imminente

Le crisi degli ultimi anni sono state un fenomeno globale in rapida espansione. Gli stati sono stati in grado di risolvere le crisi?
Gli Stati sono allo scoperto. Non hanno alcun mezzo per affrontare efficacemente il rapido processo di globalizzazione. La globalizzazione può aver portato benefici, ma ha anche comportato costi troppo elevati.
Almeno per affrontare la globalizzazione, i paesi avrebbero dovuto rafforzare i loro sistemi sanitari, previdenziali ed educativi. Ma la maggior parte dei governi ha ridotto questi servizi pubblici o semplicemente li ha rimandati.
In Europa, negli ultimi trent’anni, il costo della globalizzazione è stato finanziato con più debito, anziché più tasse. Si sono accumulate enormi montagne di debito e il debito cresce da una crisi all’altra.
La cosiddetta “governance globale” mirava a rinunciare ai parlamenti nazionali; il termine tecnico è “diplomazia multilivello in un ordine multilaterale“.
Dagli anni ’90, i processi di liberalizzazione economica nell’Unione europea sono stati tali che un governo nazionale, con un sistema politico democratico, non sarebbe mai stato in grado di eseguire.
Si può dire che l’Unione europea ha fatto pressioni, ad esempio, per tagliare i sistemi sanitari?
Sì e no. La zona euro ha spinto su politiche di risanamento di bilancio, chiamate anche di “austerità”. In effetti, ha creato strumenti di monitoraggio specifici per controllare i budget.
L’economista irlandese Emma Clancy ha segnalato 63 casi in cui l’Unione Europea ha chiesto ufficialmente agli Stati membri di tagliare la spesa sanitaria pubblica.
L’UE ha inoltre presentato appelli permanenti per la privatizzazione delle prestazioni sociali e dei diritti dei lavoratori.
In Italia e Spagna, il sistema sanitario pubblico equivale al 6,5 percento del prodotto sociale, in Germania è superiore di tre punti percentuali, raggiungendo quasi il 10 percento.
Pensi che questa tendenza continuerà?
Ora si dice che dopo la pandemia nulla sarà più come prima. Comunque tendo a vedere una continuità. Non ho osservato alcun cambiamento nelle politiche di indebitamento, continua la crescita dell’offerta di moneta e purtroppo continua anche l’aumento della disuguaglianza sociale. A ciò si aggiunge il calo della spesa pubblica, che è ancora finanziata dalle tasse.
La Germania è stata a lungo una grande eccezione, beneficiando dell’asimmetria strutturale dell’unione monetaria. Questa politica, rappresentata dall’euro, ha favorito l’economia tedesca, che per la crescita è solidamente basata sulle esportazioni.
Nell’attuale crisi, lo stato nazionale ha dimostrato di essere un fattore stabilizzante. Significherà un cambiamento o saranno solo misure di emergenza?
Quando le cose si fanno serie, lo Stato nazionale è l’unico “che gioca per la città“, dicono gli americani… La retorica del ridimensionamento dello Stato-nazione è sempre stata una tecnica legittimante che i governi usano per giustificare il “libero commercio“. E poi, per coprire la loro impotenza con le crisi che hanno causato quelle politiche.
È possibile che l’unione monetaria rafforzi l’indipendenza degli Stati nazionali contro il potere dei mercati finanziari?
Al contrario. Francia e Italia hanno deciso di aderire all’unione monetaria perché i loro governi credevano che i loro paesi necessitassero di una “modernizzazione strutturale” nelle aree economiche e sociali. Questa “modernizzazione” non avrebbe potuto essere realizzata all’interno dei quadri democratici dello stato nazionale.
Per questo motivo, le élite politiche hanno accettato l’euro come vincolo esterno. Questa è in realtà una moneta “tedesca” dura. Il piano B ha cercato di ammorbidire questo duro euro. Si trattava di salvare l’unione monetaria mediante riforme strutturali “interne” in sostituzione di una svalutazione “esterna” dell’euro. Queste riforme falliranno, soprattutto in Francia, a causa della forte resistenza popolare.
Nell’attuale crisi, la Banca centrale europea fornirà 750 miliardi di euro e oltre duemila miliardi di euro acquistando obbligazioni emesse da governi nazionali. Che cosa significano queste misure?
Tutte le azioni importanti della BCE hanno conseguenze distributive asimmetriche tra i paesi che partecipano all’unione monetaria e sono anche piuttosto opache e oscure. Non esiste un Parlamento davanti al quale la Banca centrale europea deve rendere conto delle sue azioni. Gli Stati nazionali non possono mitigare la crisi creando il proprio denaro e devono raccogliere fondi sui mercati finanziari privati.
I finanziamenti del governo – anche attraverso la BCE – sono esclusi dal trattato di Maastricht. Tuttavia, la BCE acquista obbligazioni da istituti di credito privati. Questi istituti di credito sono banche private che creano liberamente euro ottenendo un premio per quella funzione. Fondamentalmente la Banca centrale europea non fa nulla per sostituire questo denaro creato da banche private.
Ciò significa che la BCE assumerebbe compiti politici senza controllo democratico e in contrasto con la legge della stessa UE. Perché i governi accettano questa politica monetaria?
Esistono molti strumenti oscuri per mantenere viva l’unione monetaria. Il governo tedesco li accetta perché il valore reale dell’euro viene svalutato a causa dell’adesione ai paesi più deboli. Questo in pratica favorisce l’esportazione di prodotti tedeschi.
Questa politica monetaria impedisce ai paesi dell’Europa meridionale di superare le crisi. Finché la classe politica rimarrà “pro-europea”, il costo di queste crisi continuerà a essere pagato dai settori popolari.
Quello che fa la BCE è il ruolo di una farmacia di emergenza che fornisce solo antidolorifici.
Cosa succederà se l’UE proseguirà con queste politiche?
La bomba a orologeria è il declino dell’Italia, che sarà probabilmente seguita da una caduta della Francia. Qualunque cosa faccia l’UE – in base al progetto di Maastricht – nulla sarà sufficiente per recuperare l’economia italiana.
Pertanto, esiste una reale possibilità che la classe politica filo-UE venga spazzata via alle prossime elezioni. Questo stava per accadere anche prima della crisi del coronavirus.
La stabilizzazione potrebbe essere solo il risultato di una ristrutturazione dell’Unione monetaria. C’è un modello per questo?
Il problema con l’euro è che non consente agli Stati membri di effettuare svalutazioni. Un’alternativa sarebbe che ogni paese abbia una valuta nazionale che viene aggiornata o deprezzata rispetto all’euro, a determinate condizioni concordate in anticipo.
Un’altra opzione sarebbe una certa gamma di fluttuazione automatica tra l’euro e le valute nazionali. Per inciso, ciò esiste tra l’area dell’euro e la Danimarca.
Per gli europei del sud, questo potrebbe almeno offrire loro l’opportunità di prendere una pausa. Consentirebbe inoltre loro di rimanere integrati nel sistema preservando la sovranità nazionale e la pace politica interna.
Le istituzioni politiche all’interno dell’UE non dovrebbero essere rafforzate per correggere il suo deficit democratico?
Nessuno vuole davvero un’unione politica. Quando si tratta di questa spinosa questione, la sovranità politica viene sempre per prima. Come abbiamo visto, lo stesso non accade con la sovranità economica.
Anche Emmanuel Macron la pensa così?
Soprattutto difende la sovranità politica. Nessun presidente francese vorrà rinunciare alla sovranità della Francia. Politicamente sarebbe morto.
La formula di Macron è: “Una Francia sovrana in un’Europa sovrana”. Questa non è esattamente un’unione politica.
La proposta tedesca di condividere il seggio francese nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è stata respinta da una Francia inorridita. I francesi non saranno mai disposti a mettere la Germania sotto l’ombrello atomico francese.
In queste condizioni, quali sono le prospettive future per l’Unione europea?
Trovo interessante la proposta di un’Unione europea limitata. È un’Unione europea organizzata in base a settori di attività selezionate congiuntamente. Un’Europa che sarebbe una piattaforma per la cooperazione orizzontale volontaria, senza una direttiva gerarchica.
Il modello attuale, che è in declino da molto tempo, è un progetto tecnocratico di globalizzazione e centralizzazione tipico degli anni ‘90. Ora ha fatto il suo tempo. Oggi viviamo in un altro mondo.
Ma il mondo ha bisogno di un’Europa politicamente forte: l’UE che descrivi avrebbe un fascino politico e un peso internazionale?
Non è serio o realistico credere che possiamo competere militarmente con gli Stati Uniti o con la Cina. Non potremmo nemmeno competere in termini militari con la Gran Bretagna. L’Europa potrebbe sfruttare con successo la dualità emergente nella politica internazionale. In questo modo potremmo costruire una nicchia, in modo che la civiltà europea preservi la sua diversità e viva pacificamente senza ambizioni imperiali (interne o esterne). A questo punto, vorrei regalarmi il lusso di sognare, per una volta.
** La ricerca di Streeck si concentra sull’analisi dell’economia politica del capitalismo, in cui propone di assumere un approccio dialettico all’analisi istituzionale in contrasto con le varietà più rigide del capitalismo. Ha scritto molto sull’economia politica della Germania e più recentemente si è occupato di dibattiti sulla politica dell’austerità, l’ascesa di ciò che definisce lo stato del debito come conseguenza della rivoluzione neoliberale degli anni ’80 e del futuro dell’Unione europea.
Nel 2014 Streeck ha scritto un articolo per la New Left Review in cui postula come il capitalismo potrebbe giungere al termine, discutendo di diversi fattori che rendono questo probabile.
Streeck afferma che poiché il capitalismo contemporaneo è afflitto da cinque disordini – crescita in declino, oligarchia, fame della sfera pubblica, corruzione e anarchia internazionale – per i quali al momento non esiste alcuna agenda politica adeguata ad affrontarli, continuerà a regredire e atrofizzarsi fin quando potrebbe finire.

lunedì 11 maggio 2020

Sono più di 37mila i contagiati sui luoghi di lavoro. In venti giorni novemila in più

Sui 211mila contagi in Italia registrati alla data del 4 maggio, oltre 37mila sono avvenuti sul luogo di lavoro. L’aggiornamento pubblicato dall’Inail  registra infatti  alla data del 4 maggio quasi novemila infezioni in più rispetto alla prima rilevazione del 21 aprile.
Sui posti di lavoro i casi mortali sono stati 129 (+31 rispetto alla rilevazione precedente), con una netta prevalenza degli uomini (82,2% del totale) rispetto alle donne (17,8%). I contagi da Covid 19 sul lavoro arrivati all’Inail tra la fine di febbraio e il 4 maggio sono stati  37.352.
Ma la stessa Inail precisa che: “Per quantificare il fenomeno, comprensivo anche dei casi accertati positivamente dall’Inail, sarà comunque necessario attendere il consolidamento dei dati, con la conclusione dell’iter amministrativo e sanitario relativo a ogni denuncia. Inoltre, giova ribadire che i dati Inail sono un sottoinsieme del fenomeno osservato a livello epidemiologico dall’Iss, non essendo oggetto della tutela assicurativa Inail, ad esempio, una specifica platea, anche particolarmente esposta al rischio contagio, come quella dei medici di famiglia, dei medici liberi professionisti e dei farmacisti”.
Il nuovo report dell’Inail conferma come la maggiore esposizione al riscio si quella del personale sanitario. Il 73,2% delle denunce e quasi il 40% dei casi mortali, infatti, riguardano il settore della Sanità.
La categoria professionale dei “tecnici della salute”, che comprende infermieri e fisioterapisti, con il 43,7% dei casi segnalati all’Istituto (e il 18,6% dei decessi) è quella più colpita dai contagi, seguita dagli operatori socio-sanitari (20,8%), dai medici (12,3%), dagli operatori socio-assistenziali (7,1%) e dal personale non qualificato nei servizi sanitari e di istruzione (4,6%).

L’analisi territoriale evidenzia che quasi otto denunce su 10 di infezione sul lavoro sono concentrate nel Nord-Ovest (53,9% del totale) e nel Nord-Est (25,2%), con gli altri casi distribuiti tra il Centro (12,5%), il Sud (6,0%) e le Isole (2,4%).
Tra le regioni il primato negativo spetta alla Lombardia, con oltre una denuncia su tre (34,2%) e quasi il 43% dei casi mortali, seguita da Piemonte (14,9%), Emilia Romagna (10,0%), Veneto (8,9%), Toscana (5,8%) e Liguria (4,2%).
L’età media dei contagiati è di 47 anni per entrambi i sessi, ma sale a 59 anni (58 per le donne e 59 per gli uomini) se si concentra l’attenzione sui soli casi mortali.
A ulteriore conferma della maggiore vulnerabilità al virus delle fasce di età più elevate della popolazione, il 43,1% delle denunce e oltre due decessi su tre riguardano i lavoratori di età compresa tra i 50 e i 64 anni. Più del 20% dei casi mortali, inoltre, ricade nella fascia di età oltre i 64 anni.

Milano. Gli spensierati complici dello sceriffo Sala

Ma se negli States, comportamenti definibili demenziali quali quelli di partecipare a party, denominati per i tempi che corrono “Covid-19”, rischiano di rappresentare una coazione a ripetere e di per se pericolosi nella sua diffusione, come chiamarli quelli che nella Milano delle movide sui Navigli, in un sol giorno, han visto una loro riedizione?
Stupidi ed incoscienti? Oppure insofferenti a 2 mesi di clausura forzata? In entrambe le domande, le risposte più semplici ma nel contempo più naturali, identificano questi atteggiamenti, esplosi all’improvviso, come iper-soggettivistici, noncuranti di preoccupazioni che, al contrario, invece pervadono e preoccupano migliaia di lavoratori, costretti da lunedì 4 maggio, al rientro nei luoghi di lavoro.
E chi se ne è avvantaggiato è stato il prode sindaco di Milano, Sala, al quale non è sembrato vero il poter ripetere con altre parole, ma non con altri intenti, la “Milano non si ferma” con “Milano deve riprendere a lavorare”, ma non a divertirsi.
E i nostri baldi frequentatori dei Navigli questa volta gli hanno dato una mano, visto che non solo l’ex capo di Expo 2015 li ha sgridati come si fa ad uno scolaretto che ha appena compiuto una marachella, ma ha addirittura sottolineato con voce perentoria, che le sue dichiarazioni sono li ad essere come un vero e proprio ultimatum.
Chi dovremo ringraziare se e quando la scure della repressione, quella che si è materializzata a Milano il 25 Aprile, diventerà ordinaria amministrazione nel tentativo di “contenere” nuove e vecchie forme di protesta civile, come potrebbero essere i flash mob o molto più semplicemente lo stare in piazza o nelle strade con le giuste precauzioni di salvaguardia dal possibile contagio, mantenendo le distanze consentite dal decreto di marzo e che potrebbero subire antichi comportamenti delle “forze dell’ordine” così pesanti e massivi come avvenuto in via Padova, proprio in occasione della Festa della Liberazione?
Detto questo, non resta che sottolineare la gravità “dell’avvertimento” di Sala, il quale, giunto a questo punto, ricorda da vicino le puntuali esternazioni da sceriffo dell’omologo di Fontana, nel ruolo istituzionale, De Luca, presidente a sua volta, della Giunta Campana, sempre attento a rievocare, anche con l’innata vocazione vocale e posturale, un “condottiero” di quel tempo che fu.