giovedì 31 ottobre 2019

L’eredità di Draghi: un pilota automatico sulla via dell’austerità

Al di là della retorica di queste ore, in cui si celebra la fine del suo mandato come Presidente della Banca Centrale Europea (BCE), la figura di Mario Draghi è una chiave utile a comprendere gli aspetti fondamentali dell’attuale contesto economico e politico europeo. Il suo operato alla guida dell’autorità monetaria passa per alcuni snodi fondamentali: dalla lettera a Berlusconi che firmò da Governatore della Banca d’Italia fino al “whatever it takes” con cui – si dice – abbia salvato l’euro, dalla repressione del dissenso greco nel 2015 al cosiddetto Quantitative Easing con cui ha inondato di liquidità i mercati finanziari europei.
Tuttavia, se fossimo stati invitati alla sua cerimonia di commiato che si è tenuta lunedì scorso a Francoforte, avremmo scelto come sintesi della sua eredità politica l’immagine del “pilota automatico”, che coniò nel lontano 2013.
Anno significativo, il 2013 anticipa tutto quello che vedremo svolgersi in Italia fino ai giorni nostri. Si apre, infatti, con le prime elezioni politiche che vedono la partecipazione del Movimento 5 Stelle, un partito che al suo ingresso nel panorama politico parlamentare si aggiudica circa il 25% dei consensi.
Si trattava di un marcato mutamento degli assetti politici tradizionali: all’indomani della fallimentare esperienza del Governo Monti, nessuna opzione politica – tra quelle che avevano scandito gli ultimi venti anni di vita politica italiana – appare percorribile: archiviato il bipolarismo, salta lo schema dell’alternanza tra centro-destra e centro-sinistra e si rendono necessarie nuove strategie e alleanze. Da lì in avanti assisteremo ad un disordinato rimescolamento della classe politica italiana, a partire dal Governo Letta – che vede convergere il centro-sinistra con pezzi consistenti del centro-destra – fino all’inedita alleanza tra PD e Movimento 5 Stelle che governa oggi.
Quell’anno inaugura dunque un’apparente instabilità politica che non sembra ancora esaurirsi, ma quando viene interpellato sui rischi di questa instabilità, il Presidente della BCE Mario Draghi stupisce tutti:
L’Italia prosegue sulla strada delle riforme, indipendentemente dall’esito elettorale. Le riforme continuano come se fosse inserito il pilota automatico.
In qualche maniera, la risposta delude i cronisti che stavano seguendo con passione i continui stravolgimenti del panorama politico nazionale: secondo Draghi, questo caos è solo un’apparenza, sotto alla quale resiste – solido – un disegno di società, un modello di politica economica che si va rafforzando “indipendentemente dall’esito elettorale”, cioè a dire indipendentemente dalla volontà espressa dal popolo sovrano circa la direzione da prendere per organizzare la nostra società.
Volendo riassumere in poche righe l’eredità politica che Draghi lascia all’Europa, nulla è più efficace della figura del pilota automatico. Dietro a quell’immagine c’è un attento lavorio, con il quale le istituzioni europee – la cui punta di diamante è la BCE guidata da Draghi – hanno usato la crisi del 2009 per perfezionare i meccanismi disciplinanti con cui governano l’economia ed impongono ad un intero continente una medesima linea politica, quella del neoliberismo più sfrenato, della deregolamentazione dei mercati, dello smantellamento dello stato sociale e della svalorizzazione del lavoro.
Ma quali sono i pilastri di questa architettura politico-economica che Draghi chiama pilota automatico? Superata l’Europa di Maastricht, meno efficace nelle decisioni ed incapace di accompagnare il rapido evolversi del quadro economico internazionale, Draghi lascia alle sue spalle un’Europa nuova, più flessibile e per questo capace di rafforzare il suo governo dell’economia, un controllo che passa per due momenti fondamentali: sorvegliare e punire.

Sorvegliare

Appena insediatosi a Francoforte, parlando ad un Parlamento Europeo diviso sul percorso da intraprendere per riformare l’Europa in piena crisi economica, Draghi indica una via. Mettere da parte le divisioni e concentrarsi immediatamente sulla disciplina fiscale:
“Credo che la nostra unione economica e monetaria abbia bisogno di un nuovo contratto di finanza pubblica – una riscrittura fondamentale delle regole di bilancio da associare agli impegni dei Paesi della zona euro”.
Un contratto fiscale, un accordo sulla disciplina dei conti pubblici scorporato da tutte le altre questioni sulle cui i politici europei si sarebbero potuti continuare a confrontare per lustri: è la nascita del Fiscal Compact, che impone ai paesi europei non più l’indicativa soglia del 3% massimo di deficit pubblico, ma un rigido pareggio di bilancio accompagnato da un monitoraggio costante dei conti pubblici, il Semestre Europeo. Si tratta di un vero e proprio salto qualitativo rispetto allo schema di Maastricht, uno schema che aveva consentito continue eccezioni alla regola, lasciando ampi spazi ai governi europei per aggirare la disciplina di bilancio.
Con il Fiscal Compact, il disavanzo pubblico di medio termine viene sostanzialmente bandito, costringendo tutti i Paesi ad una stretta fiscale. Con il Semestre Europeo, le istituzioni europee hanno la possibilità di vagliare ogni singolo passaggio nella definizione della politica economica dei Paesi membri, costretti a trasmettere a Bruxelles con anticipo tutti i documenti fondamentali di finanza pubblica.
La Commissione Europea controlla così la scrittura stessa della Legge di Bilancio, e può indicare a ciascun Paese i passi che deve intraprendere per tornare sul percorso di riduzione del debito pubblico imposto dal Fiscal Compact. Questo schema consente dunque una sorveglianza totale sulla politica economica dei singoli Paesi da parte delle istituzioni europee.

Punire

Questo meccanismo disciplinante sarebbe però inefficace se non prevedesse un’adeguata punizione per i Paesi restii a seguire le prescrizioni del Fiscal Compact. E qui interviene, direttamente, l’azione dell’autorità monetaria. Tutti i nuovi strumenti di politica monetaria introdotti sotto la Presidenza Draghi (dalle Operazioni Monetarie Definitive, le OMT, al Quantitative Easing, il QE) hanno condotto sul proscenio del governo dell’economia europea la sua banca centrale, confinata fino ad allora ai compiti tradizionali di gestione dei mercati finanziari e valutari.
Quando Draghi dichiarò che avrebbe fatto tutto il necessario per salvaguardare la tenuta della moneta unica, il famoso “whatever it takes”, sancì l’inizio di una dominanza monetaria sull’economia europea che passava per una impetuosa inondazione di liquidità. Più che triplicando la dimensione del proprio bilancio, la BCE si è posta al centro del funzionamento del sistema economico e, ciò che più conta, si è messa nella posizione di poter condizionare pesantemente le politiche fiscali nazionali.
La politica fiscale, ovvero la politica di bilancio di uno Stato, concerne le scelte di spesa pubblica e di finanziamento della stessa che può avvenire o tramite i tributi o in deficit (tramite il ricorso al debito pubblico): controllare i meccanismi e le condizioni dell’indebitamento pubblico significa, di fatto, controllare una parte rilevante della politica di bilancio di un Paese. Esattamente quello che la BCE sta facendo negli ultimi anni.
In che modo? Tra i più importanti strumenti concreti di conduzione della politica monetaria adottati da una banca centrale vi sono le compravendite di titoli sui mercati finanziari: si tratta di operazioni che consentono di immettere e ritirare moneta dal sistema economico. L’oggetto principale degli acquisti condotti dalla BCE dal 2015 ad oggi sono stati i titoli del debito pubblico dei Paesi membri, ed oggi l’autorità monetaria è il principale creditore di tutti i governi europei.
Questa posizione di dominio gli permette di attestarsi un ruolo di vertice anche nelle scelte di politica fiscale dei singoli Paesi. Ad esempio, se un governo prova a realizzare un deficit di bilancio maggiore di quello consentito dalla Commissione Europea, il tentativo viene immediatamente rilevato dal capillare meccanismo di sorveglianza dei conti e scatta la punizione: la BCE inizia a ridurre gli acquisti dei titoli del Paese indisciplinato, o addirittura inizia a vendere sui mercati lo stock di quei titoli in suo possesso.
Ciò provoca una diminuzione del prezzo del titolo e, parallelamente, un aumento del tasso d’interesse: appare così lo spread, ed il Paese indisciplinato inizia a ballare la rumba dell’instabilità finanziaria. Ecco che, usando la leva monetaria, cioè tutta la potenza di fuoco inaugurata con il “whatever it takes” e messa in campo con il QE, la BCE ha il potere di ricattare i governi europei: o accettano il percorso disegnato dal Fiscal Compact, e cioè la linea politica dell’austerità, oppure sono condannati all’instabilità finanziaria e alla crisi.
Ecco il pilota automatico. Noi possiamo certamente votare, in via ipotetica, per ricostruire lo stato sociale, per migliorare la legislazione sul lavoro, per nazionalizzare i settori strategici o per ogni altra misura che possa avvantaggiare le classi subalterne, ma l’Italia, piaccia o non piaccia al popolo sovrano, deve proseguire lungo i binari dell’austerità fiscale e della distruzione del modello sociale europeo, indipendentemente dall’esito elettorale.
Perché la nostra moneta, l’euro, non è un neutrale strumento di gestione dell’economia: è un progetto politico preciso, a cui Draghi ha conferito la forza di imporre disoccupazione, precarietà e sfruttamento fuori da ogni controllo democratico. Sì, Draghi ha salvato l’euro, ma per farlo ha condannato 500 milioni di europei ad un modello di società incentrato sul profitto di pochi e sulla precarietà di molti, il cui perimetro di definizione è scritto a chiare lettere nei trattati dell’Unione Europea.

mercoledì 30 ottobre 2019

il 4 novembre

Da molti anni le organizzazioni post-fasciste e neo-fasciste stanno dedicando grandi sforzi alle celebrazioni del 4 Novembre, giorno in cui in Italia si festeggia la vittoria nella Prima Guerra Mondiale. Ciò potrebbe apparire coerente con la retorica nazionalista dei fascisti, ma stride pesantemente con la storia. A differenza di quanto oggi si racconti, il Fascismo tradì le conquiste ottenute con la Prima Guerra Mondiale. Si tratta di una vicenda oscurata dal revisionismo, ma su cui vale la pena soffermarsi: tanto per riaffermare la verità, quanto per contrastare operazioni politiche reazionarie.
Con la vittoria nella Prima Guerra Mondiale l’Italia poté annettere diversi territori dell’ormai disciolto Impero Austro-Ungarico, arrivando a definire dei confini grosso modo analoghi a quelli attuali, più dei territori che ora sono rispettivamente parte di Slovenia e Croazia.
In Italia nel 1922 Mussolini prese il potere, mentre in Germania Hitler lo ottenne nel 1933. Nel farneticante disegno politico di Hitler era prevista la costruzione della “Grande Germania” o “Terzo Reich” che tra gli altri includesse i territori di quello che era stato l’Impero Austro-Ungarico. Cioè, nel programma del Capo del Governo tedesco era prevista l’annessione di territori facenti parte dell’Italia. Normalmente ciò basterebbe a congelare qualsiasi rapporto diplomatico, invece Mussolini decise di stringere un’alleanza con Hitler. Dal 1936 si cominciò ad utilizzare la locuzione “Asse Roma-Berlino”, Mussolini si mise così a dare forma all’intesa con chi voleva impossessarsi di una parte d’Italia.
Il progetto di “Grande Germania” si iniziò a concretizzare nel 1938 con l’Anschluss, l’annessione dell’Austria.
Il 22 maggio 1939 Italia e Germania siglarono il “Patto d’Acciaio” che oltre ai noti aspetti militari, prevedeva il rispetto dei confini: ma ciò era esplicitato solo nel preambolo (oltretutto con una formula molto vaga) e non tra i punti del trattato. Quel riferimento serviva solo a “gettare fumo negli occhi” dell’opinione pubblica italiana, Mussolini sapeva che la Germania non sarebbe stata vincolata al rispetto dei confini e che sicuramente non lo avrebbe fatto. Eppure Mussolini decise di siglare il Patto segnando il destino dell’Italia.
Il primo settembre del 1939 la Germania invase la Polonia dando il via alla Seconda Guerra Mondiale. L’Italia si schierò a fianco della Germania, ma le cose non andarono come prevedevano le forze dell’Asse: ci si ritrovò nella palese impossibilità di vincere o di uscire dignitosamente dal conflitto. Mussolini si era cacciato in un vicolo cieco, la guerra mieteva vittime e portava distruzione, era ormai improcrastinabile un cambiamento.
Su impulso del Re, il 25 luglio del 1943 il Gran Consiglio del Fascismo sfiduciò Mussolini che venne arrestato, il nuovo capo del Governo fu Pietro Badoglio che firmò l’armistizio entrato in vigore l’otto settembre del 1943. Il giorno dopo il Re e Badoglio scapparono da Roma per rifugiarsi nel sud Italia sotto la protezione degli anglo-americani. Pochi giorni dopo, il 12 settembre del 1943, un commando tedesco liberò Mussolini (che era detenuto sul Gran Sasso) e lo portò in Austria per poi incontrare Hitler. Da quell’incontro nacque la Repubblica Sociale Italiana (RSI), un governo fantoccio del centro-nord Italia affidato a Mussolini, ma in cui di fatto comandavano i tedeschi.
C’è la convinzione diffusa che la RSI governasse su tutta l’Italia settentrionale, ma non è affatto così: Mussolini cedette alla Germania alcune aree nella parte nord-orientale del Paese. Si trattava dei territori ottenuti con la Prima Guerra Mondiale, quelli che facevano parte dell’Impero Austro-Ungarico e che Hitler voleva riannettere al Reich. I territori in questione erano: il Friuli-Venezia Giulia con Istria e Dalmazia, una porzione di Veneto e il Trentino-Alto Adige. Questi territori divennero parte del Terzo Reich con il nome di “Zona d’Operazioni Litorale Adriatico” (OZAK) e “Zona d’Operazioni Prealpi” (OZAV).
Mussolini svendette alla Germania tutti i morti e le sofferenze della Prima Guerra Mondiale.
I revisionisti preferiscono omettere questa pagina della storia italiana, per loro non parlarne è il modo migliore per evitare il deflagrare delle contraddizioni. Quando li si costringe ad affrontare la questione si trincerano dietro una argomentazione apparentemente valida ma in realtà assolutamente falsa: che le cessioni territoriali del nord Italia al Terzo Reich erano una dolorosa necessità imposta dai mutamenti nei rapporti di forza determinatisi dopo la caduta del Fascismo e l’otto settembre. Ciò non è assolutamente vero, si tratta di una menzogna con cui i fascisti nascondono le proprie responsabilità.
La RSI era uno “Stato fantoccio” messo in piedi da Hitler per poter gestire i territori dell’Italia centro-settentrionale, lo afferma lo stesso Mussolini in un promemoria datato otto ottobre del 1943. I fascisti e i revisionisti mentono quando sostengono che a seguito della sudditanza della RSI alla Germania non ci si sarebbe potuti opporre alle cessioni territoriali imposte dai tedeschi, infatti il Fascismo aveva già da anni previsto di cedere alla Germania alcuni territori, in particolare quelli che dopo la Prima Guerra Mondiale erano stati annessi a scapito dell’Impero Austro-Ungarico.
Nel 1941 (cioè, ancora in una fase in cui si credeva di poter vincere la Guerra) Benito Mussolini disse: “l’Europa sarà dominata dalla Germania. Gli stati vinti saranno vere e proprie colonie. Gli stati associati saranno province confederate. Tra queste, la più importante è l’Italia. Bisogna accettare questo stato di cose perché ogni tentativo di reazione ci farebbe declassare dalla condizione di provincia confederata a quella ben peggiore di colonia. Anche se domani chiedessero Trieste nello spazio vitale germanico, bisognerebbe piegare la testa”.
La frase è riportata nei diari di Galeazzo Ciano, Ministro degli Esteri e genero del Duce. Questa frase riassume adeguatamente i rapporti di forza che intercorrevano tra Germania e Italia (cioè la sudditanza di Mussolini ad Hitler) e già da sola sarebbe sufficiente a smontare tutta la retorica nazionalista fascista. Emerge con chiarezza che il Fascismo storico in realtà non aveva minimamente a cuore la Patria e accettava la totale subalternità alla Germania.
Ma quel che rileva in merito alla questione del Confine Orientale è che almeno già dal 1941 Mussolini era pronto a cedere ai tedeschi i territori ottenuti con la Prima Guerra Mondiale: cosa che avvenne due anni più tardi al momento di fondare la RSI. Quindi la cessione di Trieste alla Germania era già preventivata dal Fascismo e determinata dai rapporti in essere tra Hitler e Mussolini e non (come vuol far credere la propaganda reazionaria) una contingenza dettata dagli sviluppi bellici successivi alla caduta del Fascismo e alla creazione della Repubblica Sociale Italiana.
Per quel che riguarda il Trentino-Alto Adige e parte del Veneto, la questione era molto più complessa, in quanto Hitler aveva manifestato l’intenzione (tutta da dimostrare come reale) di lasciare quei territori all’Italia e di trasferirne le popolazioni di lingua tedesca nelle regioni conquistate lungo il Fronte Orientale, progetto noto come “Grande Opzione”. Tuttavia il Terzo Reich aveva fin da principio avuto una condotta ambigua nel Tirolo meridionale.
In realtà, il Terzo Reich voleva annettere tutti i territori dell’Impero Austro-Ungarico persi con la Prima Guerra Mondiale, il Fascismo ne era cosciente e accettò di cederli in cambio di qualche remota colonia. Oltre alla questione puramente geografica, ce ne era pure una etnica: venivano ceduti ai tedeschi anche dei territori abitati da italiani a fronte di colonie con cui l’Italia non aveva alcun legame. Quindi il tradimento dei fascisti era sia verso l’Italia che veniva menomata, sia verso i combattenti e in particolar modo i caduti della Prima Guerra Mondiale che per ottenere quei territori avevano dato anche la vita, sia verso gli italiani che vivevano in quelle terre.
Per queste ragioni (e non solo) il Fascismo non era un movimento patriottico, ma fatto da laidi opportunisti che oggi definiremo “vendipatria”.
I fascisti che celebrano la giornata del 4 Novembre, anniversario della vittoria nella Prima Guerra Mondiale, fanno una becera operazione revisionista. Il Fascismo storico si ammantava di una parvenza nazionalista totalmente fasulla, era un regime fantoccio che svendette la Patria.
Non si può lasciare che i movimenti neo-fascisti vadano raccontando fandonie cercando di far passare il Fascismo per quello che non era. Oggi i neo-fascisti tornano a rappresentare il Fascismo attraverso l’immagine costruita dalla propaganda di regime, ma la storia ci ha dimostrato che le cose non stavano affatto come venivano raccontate.
Tra innumerevoli contraddizioni i neo-fascisti cercano di ripulire l’immagine del Fascismo per renderlo più appetibile alle nuove generazioni. Bisogna costantemente riaffermare che il Fascismo non era solo violenza e sopraffazione (aspetti che purtroppo attirano molti giovani), ma anche codardia, meschinità e falsità.

P.S.
Trattando di fascisti e Prima Guerra Mondiale si deve necessariamente menzionare anche un altro evento. Il 12 dicembre 1969 si inaugurò in Italia la cosiddetta “Strategia della tensione”, quella data è indissolubilmente legata alla strage di piazza Fontana a Milano, dove una bomba collocata dai fascisti fece 17 morti e 88 feriti. L’obiettivo era quello di far cadere la responsabilità dell’attentato su gruppi anarchici o comunisti (oggi si direbbe “false flag operation”) al fine di giustificare una feroce repressione. Tuttavia, sebbene molti non lo sappiano, quel giorno esplosero altri quattro ordigni collocati dai fascisti, quest’ultimi fecero solo feriti o danni materiali: uno in piazza della Scala a Milano, uno in via Veneto a Roma e due all’Altare della Patria a Roma.
A prescinder da ogni giudizio sul monumento (anche estetico) e della retorica che rappresenta, quel luogo è il principale sacrario di guerra italiano, la tomba del Milite Ignoto, un soldato scelto a caso, di cui non si sa l’identità, che incarna tutto il popolo italiano. Il Milite Ignoto fu tumulato il 4 novembre 1921 e da allora in quel giorno le massime autorità dello Stato si recano a rendergli omaggio. Il Milite Ignoto sta a ricordare il prezzo della Vittoria e rendendogli omaggio si ringraziano tutti i combattenti. Piazzare delle bombe su quella tomba oltre che meschino è un profondo sprezzo dei valori che quel sacrario rappresenta. Solo i fascisti ne sono stati capaci.
Il fatto che dopo quell’attentato il 4 novembre dei fascisti si rechino ad omaggiare il Milite Ignoto è una farsa oltraggiosa.

martedì 29 ottobre 2019

Il puzzle europeo perde il collante

Può sembrare curioso, in giorni monopolizzati dal voto in Umbria e dalle sue indubbie conseguenze politiche per l’Italia, girare lo sguardo sulla crisi dell’Unione Europea. I malevoli diranno: “ma c’avete la fissa…”
E invece ci sembra proprio che sia diventato impossibile capire perché il “malessere popolare” prende direzioni così folli (la Lega in Italia, Afd in Germania, Le Pen in Francia, ecc) se non si fanno i conti fino in fondo con la governance continentale, le politiche che questa ha imposto e che vorrebbe portare avanti senza grandi mutamenti, con i disastri provocati nelle economie e quindi nella “coesione sociale” dei diversi paesi.
Non solo di quelli euromediterranei, a questo punto, visto che anche la Germania è quasi ufficialmente in recessione.
La polarizzazione estrema del voto in Turingia – dove vincono la sinistra (non tanto) estrema con Die Linke e l’ultradestra più estrema con Afd – sono apparentemente in contraddizione con il voto umbro (tutto a destra, niente a sinistra, qualcosa – ma in tracollo – al centro).
La differenza ci sembra evidente: in Turingia (Germania Est, ex Ddr) è ancora viva la memoria di uno “stato sociale” magari non ricchissimo, ma certamente più egualitario della giungla liberista attuale, e c’è almeno un partito che dice di perseguire politiche sociali di redistribuzione, localmente guidato anche da dirigenti che non hanno rinnegato ogni cosa (non dappertutto è così, per la Linke).
In Italia, i presunti “eredi” di quella tradizione (nella vulgata popolare) sono invece diventati i più fedeli esecutori dell’ordoliberismo targato Bruxelles e Francoforte, tanto da rendere credibile la marea di balle sparate dai “sovranisti de noantri”, che abbaiano in campagna elettorale ma abbassano tutte le creste anti-europeiste quando invece vanno a Palazzo Chigi.
Fin qui, però, l’Unione Europea aveva tenuto il timone della baracca in modo abbastanza fermo da nascondere – o far sottostimare – i punti di crisi (riscrittura delle filiere produttive a beneficio dell’industria tedesca, precarizzazione del lavoro, salari bassi in tutta Europa, ecc), ponendo l’accento sui “benefici” teorici derivanti da una struttura continentale e ingigantendo/ridicolizzando (a ragione, persino) le tentazioni di ritorno allo staterello nazionale.
Senza che i nostri media mainstream ne diano qualche almeno vago accenno, invece, questa struttura sovranazionale sta incontrando difficoltà crescenti. Non tanto per l’opposizione popolare (confusa, distorta, strumentalizzata, dunque inefficace), quanto per la competizione interna tra strutture/filiere/apparati che trovano ancora un forte fondamento nazionale sotto la vernice della retorica “europeista”.
Il sempre sagace Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza, ne fa un quadro sintetico ma lucidissimo. Squarci di realtà di mandare a mente, per sbeffeggiare quanti ancora si trascinano nella confusione tra “europeismo” e internazionalismo. O, più seriamente, per calcolare i rischi dell’evoluzione politica e sociale a medio termine.
Non c’è nulla di più pericoloso, infatti, di un sistema marcio che vorrebbe presentarsi come “unitario e benefico” nel mentre si vedono ormai apertamente gli effetti disastrosi della sua azione. E soprattutto si sentono, a livello popolare.
Magari è difficile – per molti – risalire dalla propria triste condizione particolare alle cause “generali e unitarie” che la provocano. Questo favorisce i truffatori politici, quelli che indicano falsi nemici (migranti, rom, “comunisti”, come ai tempi dei nazisti), ma solo o soprattutto dove i “progressisti”, “la sinistra”, i “rivoluzionari” non fanno seriamente il proprio mestiere. Tra il movimento dei Gilets Jaunes e le selfie-adunate salviniane la distanza è infinita.
Una crisi devastante gira ancora per tutto il mondo occidentale. In America Latina le cause e l’avversario (la destra al servizio degli Stati Uniti) sono chiari a milioni di persone. In Europa, sotto il tallone dell’Unione Europea, la “percezione” è più confusa, complice anche il “finto progressismo” di cui si ammantano le forze politiche tradizionali, conservatrici e tecnocratiche.
Ma chi non si rende conto della filiera del comando finisce per combattere contro se stesso, aiutando “i padroni” a mantenersi a galla.
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Europa, perchè il puzzle va in pezzi

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza
Mentre a Bruxelles ed a Francoforte si celebrano i riti dell’addio, per accommiatarsi da chi in questi anni ha guidato la Commissione e la Bce, le preoccupazioni per il futuro dell’Unione si accrescono, malcelate.

Lotte di potere a Bruxelles

Salta di un mese l’insediamento della nuova Commissione europea, che era previsto per il 1° novembre. La Presidente Ursula von der Leyn non è riuscita a completarne l’iter di formazione, per via dello smacco clamoroso che ha subìto da parte del Parlamento europeo, che ha bocciato a scrutinio segreto la candidatura francese di Sylvie Goulard, fortemente sostenuta dal Presidente Emanuel Macron e Ministro della Difesa dell’attuale governo.
Praticamente, le hanno votato a favore solo i rappresentanti di Renew Europe, il gruppo cui aderiscono i macronisti: i Popolari si sarebbero vendicati della scelta della von der Leyen come Presidente della Commissione, e quindi del veto che fu posto da Macron al mantenimento del tradizionale sistema dello spitzenkandidaten che avrebbe portato automaticamente alla designazione di Manfred Weber.
Ad essere indigesto è stato anche l’eccezionale peso del portafogli assegnatole, che spazia dal Mercato interno all’Industria della difesa, fino a quella digitale. Tante competenze, tanti soldi; forse troppi: ma era esattamente questo il senso dell’accordo raggiunto tra von der Leyen e Macron. Anche per il Presidente francese è stata un segnale pesante.
Occorrerà rimpiazzare anche le due candidature della romena Rovana Plumb, indicata per il portafoglio dei Trasporti, e dell’ungherese Laszlo Trocsanyi, in corsa per l’Allargamento, che sono state dichiarate “non in grado di esercitare le proprie funzioni conformemente ai trattati e al codice di condotta”.
Il nuovo candidato francese è Thierry Breton, che vanta una grande esperienza sia politica che manageriale. Aver ricoperto tanti incarichi societari potrebbe dar luogo a conflitti di interesse, ma anche Francia vuole in Europa un uomo di assoluta fiducia. I Commissari europei sembrano ormai altrettanti ministri, solo che hanno sede e soldi a Bruxelles.

Spagna, tra elezioni politiche e tensioni a Barcellona

Il prossimo 10 novembre, la Spagna tornerà alle urne: sono le seconde elezioni in sette mesi e le quarte in quattro anni, un caso senza precedenti in Europa. Il Psoe, nonostante la maggioranza relativa ottenuta sotto la guida di Pedro Sànchez, non riesce a formare un governo aggregando Unidos Podemos, che è guidata da Pablo Iglesias. Costui non si lascia sedurre dalle poltrone e pone continuamente condizioni in materia di difesa delle classi deboli e dei lavoratori che i Socialisti ritengono eccessive. Un sistema politico frammentato, con posizioni inconciliabili tra loro, è l’eredità degli anni della crisi.
Le pesanti condanne irrogate di recente ai dirigenti catalani che parteciparono alle iniziative indipendentiste di due anni fa hanno rinfocolato le tensioni. A Barcellona, si sono ripetute manifestazioni di piazza, cui hanno partecipato centinaia di migliaia di persone.
Anche in questo caso, emerge un tema di fondo che riguarda l’Unione. Se per un verso l’enfatizzazione dell’Europa delle Regioni e le iniziative transfrontaliere servono a frammentare l’unità politica statale e ad accelerare l’abbattimento delle frontiere nazionali, le azioni per la coesione si sono dimostrate assai poco efficaci. I divari economici e sociali sono aumentati, alimentando le richieste di autonomia nelle aree più ricche ed il senso di abbandono in quelle più povere.

Crisi in Romania

Nella disattenzione generale, da mesi c’è grande tensione a Bucarest. Vecchi equilibri di potere sono saltati, creando una situazione di pericolosa incertezza anche istituzionale. E’ un Paese fondamentale sul piano geopolitico, oltre ad essere molto rilevante dal punto di vista economico. Mentre in Polonia ed in Ungheria si consolidano le rispettive leadership sovraniste, la Romania consuma quella stabilità che negli scorsi anni le aveva consentito una crescita sostenuta. E’ un brutto varco, nello scacchiere orientale.

Adesione all’Ue di Albania e Macedonia

Nessun allargamento, per ora. Se ne riparlerà a maggio, quando si svolgerà una conferenza generale sui Balcani occidentali. Non è affatto casuale che, nell’ultimo Consiglio, sia stata la Francia ad opporsi all’ingresso di Albania e Macedonia del nord nell’Unione: deve bloccare la germanizzazione strisciante di tutta l’area, che Berlino considera da sempre il suo “giardino di casa”. L’asse franco-tedesco, sul piano geopolitico, non esiste: ognuno aspira ad una propria egemonia, e contrasta quella altrui.

Turchia e Cipro: l’inesistente politica estera dell’Unione

L’ingresso delle truppe turche nel nord della Siria ha provocato reazioni quanto mai diverse: l’Italia ha convocato subito l’Ambasciatore turco, rinviando alla sede europea la decisione sull’embargo alla vendita di armi. Francia e Germania hanno agito con maggiore cautela: fermandosi ad un appello a fermare l’offensiva. Sul piano concreto, si sono poi limitate a sospendere le vendite future dei soli armamenti utilizzabili in questo genere di operazioni, soluzione in qualche modo poi seguita dall’Italia. La cautela tedesca risponde alla minaccia turca di aprile i campi profughi che ospitano centinaia di migliaia di persone fuggite dal conflitto siriano. Si sarebbe riaperta la rotta dell’emigrazione che attraversa i Balcani, per giungere in Germania. Per Angela Merkel sarebbe stato un disastro.
Le tensioni con la Turchia riguardano anche lo sfruttamento di giacimenti nell’area marittima di Cipro, che viene rivendicata dalla Turchia: italiani e francesi, che operano per lo sfruttamento, dovrebbero ottenere la protezione dei rispettivi Paesi, forse anche militare. Il paradosso è che siamo tutti parte della Nato: un’alleanza che si sta dimostrando al suo interno assai fragile, proprio come l’Unione.
Anche in questa occasione, non è comparsa pubblicamente la figura dell’Alto rappresentante dell’Unione per la politica estera e la Sicurezza: ad un titolo tanto altisonante corrisponde un ruolo che è stato finora altrettanto poco efficace. Anche la costosissima rete diplomatica che l’Unione sta realizzando da anni rappresenta un lusso poco utile.

Gran Bretagna, sulla Brexit ancora più confusione

L’atmosfera è sempre più avvelenata. Nessuno sa né come, né quando avverrà il recesso dall’Unione. Il Premier Boris Johnson si è dovuto rimangiare la promessa di far uscire comunque la Gran Bretagna dall’Unione il prossimo 31 ottobre, con o senza accordo.
Non solo Westminster gli ha varato una legge che impone al governo l’obbligo di chiedere a Bruxelles un rinvio della data del recesso nel caso che non sia stato approvato un accordo, ma poi nel giro di quarantott’ore gli ha inflitto un ulteriore, duplice smacco. L’esame parlamentare della nuova ipotesi di accordo di recesso è stato sospeso.
Londra ha così ribaltato il suo stallo politico su Bruxelles, in modo a dir poco pirandelliano, inviando due missive: con una, redatta su carta bianca e non firmata, ha chiesto il rinvio del termine del recesso, adempiendo all’obbligo di legge; con l’altra, il Premier Johnson ha comunicato ufficialmente la propria contrarietà politica a qualsiasi rinvio.
Anche Bruxelles si è divisa: pur convenendo tutti sulla opportunità di concedere un rinvio, la Francia si è detta disponibile ad offrire solo una dilazione tecnica, di un mese, e non già fino al 31 gennaio 2020. In questo modo si darebbe lo stesso tempo sia a Westminster, per approvare l’ipotesi di accordo, che alla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen per formare la nuova Commissione La Francia non vuole assolutamente rischiare che la Gran Bretagna rimanga ancora nell’Unione: ne va della strategia di ribilanciamento dei rapporti di forza con la Germania su cui si è impegnata a fondo.
La questione si è ulteriormente complicata dopo la decisione del Premier Johnson di chiedere a Westminster l’assenso per andare alle elezioni anticipate il prossimo 12 dicembre, proseguendo però nell’esame del nuovo schema di accordo fino al 5 novembre. E’ una mossa a sorpresa, di cui nessuno si fida, per ragioni opposte, tanto a Londra che a Bruxelles.
Intanto, per andare allo scioglimento anticipato, a Westminster serve la maggioranza dei due terzi, e quindi anche il voto favorevole dei Laburisti. Ma questi vogliono mantenere il vantaggio acquisito nei confronti di Johnson, ed essere sicuri di andare alle elezioni prima di votare di qualsiasi accordo con Bruxelles. Alle elezioni ci vogliono andare con le mani libere.
Ancora maggiore diffidenza circola a Bruxelles: fissando le elezioni inglesi al 12 dicembre, si scavalla la dilazione tecnica di un mese che la Francia è disposta a concedere per circoscrivere al massimo i tempi di approvazione dell’accordo da parte dell’Inghilterra. C’è chi ha il timore che dalle elezioni inglesi possa uscire una maggioranza dei Conservatori in grado di far passare la Hard Brexit, e chi al contrario teme una vittoria dei Laburisti, che interpreterebbero il voto popolare come un ribaltamento del risultato referendario ed a quel punto potrebbero chiedere la revoca del recesso della Gran Bretagna dall’Unione.
Aver usato come una clava contro la Gran Bretagna la decisione di uscire dall’Unione, rendendo il recesso quanto più doloroso possibile, fino al punto di provocare una crisi istituzionale a Londra, si sta trasformando in un rischio esistenziale per la stessa UE. Se la Brexit dovesse riuscire, al di là dei danni economici per tutti, i partner europei si dovranno ripartire un onere rilevantissimo di bilancio per mandare avanti l’Unione.
Per evitare un aumento delle contribuzioni nazionali, si dovrebbero ridurre le spese dell’Unione: una ipotesi completamente opposta rispetto alla strategia in atto, che mira ad aumentare le competenze e le dimensioni del bilancio dell’Unione, ad imitazione di qualsiasi Stato federale. La Germania ha già messo le mani avanti: di mettere mano al portafogli non ci pensa affatto.
Dopo le fanfare della Commissione uscente sulla prospettiva di una sovranità condivisa, conferendo nuovi poteri all’Unione, si torna mestamente al punto di partenza: ognun per sé.

lunedì 28 ottobre 2019

Abolire Quota 100”. La guerra alle briciole per le briciole

Che ‘Quota 100’ fosse una misura limitatissima e di corto respiro rispetto alle gravissime falle e inadeguatezze sociali del sistema pensionistico italiano, era chiaro sin dall’introduzione della misura.
Il provvedimento, lo ricordiamo, consente in via sperimentale, per il triennio 2019-2021, agli iscritti all’INPS, di conseguire il diritto alla pensione anticipata non appena venga raggiunta un’età anagrafica di almeno 62 anni e un’età contributiva di almeno 38 anni.
Una misura che non risolve in alcun modo il problema delle esigue pensioni attese dai lavoratori per via del combinato disposto di sistema contributivo e carriere lavorative precarie e che, proprio nella logica perversa del contributivo, offre ai lavoratori una triste alternativa tra anticipo del diritto alla pensione ed entità della pensione stessa. Insomma, un mero lenitivo che, per soli tre anni, ha reso meno rigido il sistema di accesso anagrafico e da anzianità contributiva alla pensione, consentendo a molti la possibilità di godersi qualche anno in più di meritato riposo a spese di un minor reddito pensionistico.
Tutte queste caratteristiche hanno mostrato, con grande evidenza, la linea velleitaria e del tutto subordinata alla politica economica patrocinata dalle classi dominanti e dalla regìa europea dei pochissimi e striminziti provvedimenti sociali del precedente governo giallo-verde.
Eppure, nel dibattito riguardante la predisposizione, ancora in corso, del disegno di legge di bilancio del nuovo Governo, si è giunti ad un’evoluzione che supera la stessa immaginazione, con punte di apparente masochismo politico.
Dopo qualche settimana di rassicurazioni sul mantenimento di Quota 100, sotto la spinta martellante del neo-partito di Renzi ‘Italia Viva’, la maggioranza ancora dibatte vivacemente sulla possibilità di abolire Quota 100, di anticiparne la fine al 2020 o, quanto meno, di allungare le finestre da tre a sei mesi per l’effettivo godimento della pensione da parte di coloro che faranno uso di Quota 100 nel 2020.
In tutti e tre i casi si tratterebbe di una meschina guerra verso le briciole rappresentate da un provvedimento già di per sé del tutto inadeguato nella sua concretizzazione temporanea triennale.
Gli esiti finali di questa vivace e miserevole discussione ancora non sono conoscibili. Ma il solo fatto che la discussione esista fa sorgere interessanti interrogativi.
C’è da chiedersi come mai un governo di nuova formazione alla sua prima finanziaria, dovrebbe andare a rosicchiare un provvedimento dall’impatto così immediato per centinaia di migliaia di persone con l’evidente rischio di scontare una forte impopolarità. Abolire Quota 100 da subito, o farla decadere un anno in anticipo rispetto alla sua scadenza naturale, o ancora anche solo allungare il tempo per l’effettivo godimento della pensione mensile, significherebbe rivedere o addirittura negare, dopo solo pochi mesi dalla sua approvazione, un sacrosanto diritto sociale acquisito, stravolgendo i piani di vita di lavoratori prossimi alla chiusura della propria carriera. Una sorta di dramma degli esodati-bis.
L’impatto di impopolarità e il parallelo aumento di consenso incassato dalla Lega di Salvini, che di quel provvedimento aveva fatto un pallido simbolo della sua presunta e inesistente politica sociale, sarebbe clamoroso: un ostentato autogol politico per racimolare qualche miliardo.
Eppure, Italia Viva insiste, e con martellante pervicacia ha ingaggiato una campagna ideologica di inedita aggressività, rispolverando in pochi giorni tutti i luoghi comuni liberisti più dirompenti sul funzionamento del sistema pensionistico, del mercato del lavoro e del rapporto tra giovani e anziani.
Le fa eco una buona parte del PD che, pur non arrivando a chiedere l’abolizione della misura, ne caldeggia modifiche o la descrive pubblicamente come terribilmente iniqua. Lasciamo parlare i protagonisti delle reiterate affermazioni.
Il più agguerrito detrattore di Quota 100, che sembra addirittura aver sorpassato a destra l’ex presidente dell’INPS Tito Boeri, è Luigi Marattin di Italia Viva, giunto a definirla l’emblema della “politica più ingiusta degli ultimi 25 anni”. A seguire Matteo Renzi, che ha più volte detto di volerla cancellare al fine di reperire risorse da destinare all’assegno unico per i figli proposto dal suo partito.
Ed ancora Renzi: “Quota 100 è un provvedimento pensato solo per chi ha già diritti”. E, ancora, direttamente dalla kermesse della Leopolda: “Quando diciamo che Quota 100 non va bene, non stiamo attaccando gli anziani: dico che 20 miliardi di euro messi tutti insieme su centocinquantamila persone sono un’assurdità. Gli 80 euro valgono 10 miliardi e vanno a 10 milioni di persone, Quota 100 va a 150.000 persone ed è un’ingiustizia”.
Infine, Maria Elena Boschi, dalle stesse fila: “Quota 100 obiettivamente crea un’ipoteca sul futuro delle nuove generazioni. È molto onerosa. Noi diciamo: aiutiamo le nuove generazioni e sosteniamole con investimenti veri sulle famiglie per contrastare anche il fenomeno della denatalità”.
Non manca neanche il neo-ministro dell’economia di area PD, Roberto Gualtieri. “Quota 100 fortunatamente andrà ad esaurimento e noi certo non la rinnoveremo. La misura, almeno nei piani di questo governo, non sarà resa strutturale, né si intende prorogarla così com’è. Magari faremo qualche manutenzione. Comunque non l’avrei mai fatta”. Una vera e propria ostinata battaglia, che possiamo interpretare attraverso una duplice lente di lettura.
In primo luogo, l’ennesimo governo dell’austerità, amico ostentato dell’Europa, deve fare comunque i conti con il proprio padrone, contrattando con Bruxelles gli angusti spazi di flessibilità per distribuire qualche briciola. É di questi giorni la notizia della consueta letterina sospettosa giunta dalla commissione europea per vederci più chiaro sulle coperture finanziarie annunciate dal governo a fronte del pur limitatissimo programma di spesa pubblica.
Si tratta della solita dinamica di controllo che la Commissione europea esercita in modo costante e soffocante su tutti i paesi e tutti i governi, persino quelli esteriormente più affidabili, per mantenere alto il livello di tensione e di potere dissuasorio a fronte di rischi anche minimi di una qualche ipotetica velleità di allentare la morsa dell’austerità. Una strategia del terrore preventiva che colpisce tutti i governi.
In questa grottesca guerra per ottenere una modestissima quota di flessibilità di manovra, i governi compiono scelte selettive, in cui, sostanzialmente, ciò che si dà con una mano, con l’altra viene tolto, e in cui ogni minimo provvedimento di spesa entra in immediata collisione con un altro. È la logica perversa e artificiale delle presunte risorse scarse che di anno in anno, ad ogni finanziaria, si esaspera ed aggrava alla luce dell’impietosa tabella di marcia del Fiscal Compact che scandisce nel tempo gli impegni di riduzione del rapporto debito-PIL stabiliti nel 2012 a perfezionamento del Trattato di Maastricht.
E così, se si vogliono disinnescare le clausole IVA, occorre trovare i soldi da qualche parte a parità di deficit consentito. Se poi, magari, i 7 miliardi di lotta all’evasione ottimisticamente annunciata dal governo vengono giudicati fantasiosi dalla Commissione, allora ecco rinnovarsi la necessità di andare a rosicchiare da una parte e dall’altra cominciando preferibilmente dalle briciole di Stato sociale ancora esistenti.
Questa pietosa ricerca di risorse a scapito di voci di spesa sociale trova una sua copertura ideologica nel conflitto titanico tra obiettivi enfatizzato ad arte. I giovani e i bambini contro gli anziani, la sanità contro le pensioni, la scuola contro i bambini che consumano merendine e bevande gassate, le infrastrutture e gli investimenti contro la spesa corrente per gli stipendi pubblici, i diritti degli italiani contro i diritti degli immigrati; e, più modestamente, il bonus di 240 euro a figlio proposto da Italia Viva (peraltro a scapito dell’attuale sistema di detrazioni per figli a carico) contro la presunta generosità di Quota 100.
Questo piano ideologico, nel caso dell’attacco frontale a Quota 100, riveste a ben vedere una funzione ancora più profonda che spiega, assieme all’esercizio del triste conflitto tra obiettivi escludentisi nel contesto dell’austerità e la lotta per una manciata di miliardi, la foga con cui l’argomento viene trattato in queste settimane.
Deve “passare il messaggio” che una revisione anche blanda del sistema pensionistico verso una minore rigidità di uscita è qualcosa di impensabile e di gravemente lesiva dei diritti dei più giovani.
Quando Marattin afferma che Quota 100 è l’emblema della politica più ingiusta degli ultimi 25 anni, o quando si ripete ossessivamente che Quota 100 ipotecherà il futuro dei giovani, si vuole affondare il coltello nella assurda e devastante idea secondo la quale esiste un inevitabile conflitto tra giovani e anziani e secondo cui le pensioni godute dagli anziani di oggi sono soldi permanentemente sottratti ai giovani che non solo soffrirebbero le conseguenze dell’amaro destino del lavoro precario, ma sarebbero anche costretti a finanziare i propri padri e nonni che hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità al tempo delle vacche grasse.
La coerenza di simili argomentazioni si scontra, però, con due questioni: in primo luogo, il problema della precarietà del lavoro e la discontinuità lavorativa che indubbiamente impediscono ai lavoratori di oggi di avere diritto ad una dignitosa pensione futura si risolve, molto semplicemente, eliminando quella precarietà e quella discontinuità lavorativa, non evitando agli anziani (ossia i lavoratori di ieri) di poter andare in pensione prima.
In secondo luogo, il tempo delle “vacche grasse” a cui si allude, appellativo dispregiativo affibbiato ad un periodo in cui era in vigore un sistema pensionistico di tipo retributivo e in cui l’importo della pensione media attesa era superiore rispetto a quello attuale, era tale proprio perché, in ultima analisi, gli importi pensionistici erano più alti rispetto agli odierni.
Se, dunque, si affronta la questione di un livello dignitoso della pensione per i lavoratori di oggi, allora il problema risiede nella struttura del sistema pensionistico attuale, e non nel fatto che, in sintesi, gli anziani di oggi ricevono pensioni più elevate di quelle che percepiranno i loro nipoti (gli anziani di domani).
E’, dunque, questo, un attacco ideologico frontale che svia l’attenzione dal vero nemico comune, la classe sociale dominante, verso il falso nemico generazionale, i vecchi cosiddetti privilegiati figli dell’insostenibile e obsoleto stato sociale novecentesco. Un attacco ideologico ad un mondo che si vuol far scomparire, in cui una buona e piena occupazione veniva logicamente vista come il naturale preludio ad un forte sistema pensionistico pubblico e in cui a nessuno saltava in mente di contrapporre gli interessi oggettivi di giovani e anziani della stessa classe sociale.
Italia Viva e il PD, entrambi manifestazione del progetto neoliberale nella sua variante “progressista”, devono così svolgere a qualsiasi costo e ordinatamente il ruolo materiale e ideologico per cui esistono come forze politiche. Costi quel che costi, anche in termini di perdita di consenso elettorale immediato. Lo stesso ruolo, del resto, che la Lega e i vari frammenti di centro-destra devono svolgere cavalcando simili, ma diversi, conflitti ed agitando il popolo contro analoghi, ma diversi, falsi obiettivi.
Nel mezzo, il sostanziale silenzio o la disarmante passività post-ideologica dei 5 Stelle, nuovo ago della bilancia di un bipolarismo risorto, buoni per ogni stagione ed ogni ammucchiata reclamata dai padroni del vapore per stabilizzare il sistema politico sulle linee della compatibilità con le politiche economiche dominanti. Immigrati, anziani o lavoratori sindacalizzati, nella logica delle risorse scarse cambia il capro espiatorio, ma non cambia l’obiettivo: coprire il volto della classe dominante.

venerdì 25 ottobre 2019

L’evasione fiscale miliardaria delle multinazionali, in Europa

Un recente studio pubblicato da tre economisti, Gabriel Zucman dell’Università di Berkeley, Thomas Tørsløv e Ludvig Wier dell’Università di Copenaghen, rivela con dovizia di dati come le multinazionali evadano in modo consistente le tasse, penalizzando le economie di molti paesi europei e avvantaggiandosi dei paradisi fiscali esistenti nel cuore stesso dell’Unione Europea, in particolare in Olanda, Lussemburgo e Irlanda. Con il primo dei tre che molto spesso si erge ad arbitro del “rigore” nei conti pubblici degli altri paesi dell’Unione come Italia, Grecia, Spagna. Insomma predica ma razzola male, anzi malissima.
Nel loro studio, i tre economisti hanno indagato e valutato l’impatto dell’elusione fiscale da parte di grandi gruppi come Amazon, Apple, Facebook, Google e Nike, individuando gli spostamenti degli utili dal paese in cui sono stati realizzati ad un paese che offre aliquote quasi a zero, in primo luogo perché spesso vengono registrati come proventi da attività intangibili come brevetti, ricerca e sviluppo, importazione di servizi.
I tre economisti portano in evidenza alcuni paradossi nella contabilità di Nike, Facebook, Apple e Google. In ciascuno di questi gruppi, la somma dei profitti realizzati dalle società controllate – così come visibile nella banca dati Orbis di Bureau Van Dijk-Moody’s – bizzarramente risulta pari a una frazione minima dei profitti consolidati globali. Il caso più estremo è Facebook, i cui profitti del 2015 sono di circa 11 miliardi di euro ma la somma dei ricavi tassabili di tutte le sussidiarie resta a zero.
Per individuare la reale situazione Tørsløv, Wier e Zucman cercano indizi nella quantità di ricavi tassabili in proporzione al monte-salari dei dipendenti in ogni dato Paese: i profitti trasferiti artificialmente infatti gonfiano il bilancio, ma non il numero dei dipendenti. Lo studio ha cercato di capire in quali paesi risulta che la quota di profitti in mano agli stranieri sia curiosamente fuori proporzione e studiano le comunicazioni sulla contabilità aggregata delle imprese che devono essere inviate obbligatoriamente ad Eurostat da tutti gli Stati aderenti all’Unione Europea.
E qui vengono fuori i buchi neri rappresentati non da paradisi fiscali in esotiche isole caraibiche ma da stati membri dell’Unione Europea. Il Lussemburgo ad esempio, che con aliquote bassissime su una base imponibile tanto artificiale quanto sterminata, presenta profitti societari tassabili pari a sette volte le medie europee (in rapporto al monte-salari). Del tutto fuori linea anche Irlanda e Olanda. Questi tre Paesi nel 2015 pesano da soli per 293 miliardi di euro di base imponibile societaria sottratta al resto del mondo, si tratta più di cento miliardi ciascuna per Irlanda e Olanda.
Alle grandi multinazionali è bastato  registrare in Olanda i profitti realizzati nel resto d’Europa sulla vendita di servizi definiti «intangibili», perché digitali. Questi ricavi, in Olanda, vengono fatti apparire con aliquote quasi pari a zero e il gioco è fatto. Solo per intenderci. Sapete dove la Fca, la ex Fiat, ha portato i libri contabili e paga le imposte? In Olanda!! E in Italia si continua a inseguire gli spiccioli.

giovedì 24 ottobre 2019

Def 2019: sparisce il salario minimo ed arriva l'”equo compenso

Ovvero, come continuare ad avere i salari più bassi d’europa
Nella Nota di aggiornamento al nuovo DEF (Documento di economia e finanza) a pagina 85, nella sezione Mercato del lavoro, politiche attive del lavoro e politiche sociali, si legge che “[…] il Governo individuerà l’equo compenso per i lavoratori non dipendenti, al fine di evitare forme di abuso e di sfruttamento, in particolare a danno dei giovani professionisti, e interverrà per limitare il fenomeno delle cosiddette ‘false partite Iva’”.
Cosa vuol dire ”equo compenso”? Nel DEF si parla di “lavoratori non dipendenti“, mentre è scomparso dal testo qualsiasi riferimento al “salario minimo” e non vi si fa più alcun riferimento ai salari e, di conseguenza, ai lavoratori dipendenti.
Eppure, in Europa 22 stati su 28 prevedono il salario minimo, unica misura in grado di contrastare efficacemente il fenomeno dei working poor. Ma perché in Italia non lo si vuole introdurre?
Innanzitutto si sono messe di traverso le organizzazioni sindacali tradizionali che vedrebbero indebolirsi di molto il proprio potere contrattuale. Poi, il governo dice e scrive di puntare “a realizzare l’efficacia erga omnes dei contratti mediante la previsione contenuta in un altro punto del DEF […] di sostenere l’intervento di regolazione della rappresentanza sindacale e datoriale realizzato mediante la disciplina di indici rigorosi di misurazione della rappresentatività delle organizzazioni dei lavoratori e delle imprese”. Di buone intenzioni sono lastricate le strade dell’inferno.
D’altronde, il patto siglato da CGIL, CISL e UIL e Confindustria, il 19 settembre scorso va, in tutt’altra direzione e con l’avvento del nuovo governo giallorosè, si respira un’aria di nuova concertazione, ovvero, un bel ritorno a ciò che, in buona sostanza, ha causato una progressiva caduta dei salari dal fatidico: lo storico accordo sul costo del lavoro del 1993 firmato da Cgil-Cisl-Uil, Confindustria e il Governo Ciampi, che poi non fu altro che il completamento della svolta dell’Eur, con la definitiva cancellazione della scala mobile e l’ancoraggio dei futuri aumenti contrattuali all’”aumento della produttività”.
Un accordo che diede l’avvio ad una sfrenata corsa, da parte dei padroni, all’intensificazione selvaggia dei tassi di sfruttamento ed al crollo verticale di salari e stipendi. In obbedienza allo spirito del trattato di Maastricht, appena sottoscritto dal governo precedente (Andreotti) a Camere sciolte.
La cancellazione dell’art. 18 dello Statuto del lavoratori, il Jobs Act e lo smantellamento del welfare svenduto alle assicurazioni private hanno fatto il resto ed hanno portato i lavoratori italiani prossimi ad una condizione di semi-schiavitù e ad avere il triste primato delle retribuzioni più basse dell’Europa occidentale.
Va subito chiarito che un larga fetta dei CCNL firmati da Cgil, Cisl e Uil in questi anni si colloca al di sotto dei minimi proposti, cioè della soglia di 9 euro l’ora. Un salario minimo per legge sopra quella soglia provocherebbe un effetto rialzo dei salari per milioni di lavoratori, con un effetto a catena inevitabile anche su tutti i livelli salariali, non solo su chi sta al minimo. Tuttavia la banda del nuovo “patto sociale” non ha nessuna intenzione di perseguire davvero un rialzo dei salari.
Sono contrari sia i sindacati “maggiormente rappresentativi” che quelli che firmano i contratti pirata. L’importante per loro è che i salari restino bassi. E gli argomenti risuonati al tavolo della nuova pace sociale rimandano a questa rinnovata unità di intenti: le imprese non possono sostenere questi rialzi. E si sa che, a parte qualche lodevole eccezione, la maggior parte delle imprese italiane è ben lungi dall’avere mai puntato su innovazione e ricerca, avendo sempre preferito la tradizionale ricetta padronale all’italiana: bassi salari e costante aumento dei tassi di sfruttamento.
Confindustria e CGIL, CISL e UIL ripetono da mesi all’unisono: “Nessun salario minimo per legge: basta la contrattazione collettiva” .
Secondo il loro ragionamento la contrattazione collettiva è una tutela sufficiente, mentre un salario minimo previsto per legge è “improponibile poiché, nel caso in cui fosse inferiore a quello stabilito dai contratti collettivi ne provocherebbe la disapplicazione e, nel caso in cui fosse più alto, si creerebbe uno squilibrio nella rinegoziazione degli aumenti salariali con incrementi del costo del lavoro non giustificati dall’andamento dell’azienda o del settore”. Per dirla con Corrado Guzzanti, la seconda che hai detto.

Il lavoro deve restare una variabile dipendente dal capitale e, se il ciclo è negativo per i profitti, la crisi devono pagarla i lavoratori con stipendi da fame, precarietà, insicurezza e ritmi di lavoro feroci.
La domanda però è: per quanto tempo ancora i lavoratori italiani possono continuare a vivere con questi salari da fame?
Una cosa è certa: a fronte di una crescita clamorosa del lavoro povero e di una condizione generale di impoverimento che riguarda ormai una fetta larghissima di popolazione, sindacati(complici), Confindustria, centrosinistra e Lega sono tutti uniti contro i lavoratori.
E la CGIL di Landini? Certo, sono passati 30 anni da quando Bruno Trentin lanciò un messaggio quasi disperato all’Assemblea di Chianciano del 1989 nella quale, pose con forza il tema di come fare sindacato in un mondo del lavoro che si frammentava e si personalizzava. Trentin aveva chiaro che di fronte alla frammentazione sociale che attraversava il mondo del lavoro e la società intera non era possibile limitarsi a difendere “il fortino”, ma occorreva aprirsi alle nuove soggettività lontane dai modi tradizionali in cui il sindacato pensava se stesso e le sue regole di rappresentanza ed alle nuove forme del lavoro precario e “flessibile”.
Un’angoscia, la sua(testimoniata dai diari recentemente pubblicati) nel constatare come fosse difficile cambiare la Cgil a fronte dei grandi mutamenti che stavano palesandosi già allora e davanti ai quali la sinistra politica stava perdendo ogni capacità di leggere ed interpretare le nuove dinamiche sociali, già ammaliata dai miti della modernizzazione dell’innovazione tecnologica ed incatenata all’imperativo della governabilità a tutti i costi.

E come ci ricordò non molto tempo fa, durante una delle sue immancabili rassegne stampe mattutine, lo storico e mai tanto compianto direttore di Radio Radicale Massimo Bordin, quando, una volta, chiesero a Trentin cosa ne pensasse della storica dicotomia legge sul salario minimo-contrattazione, rispose secco: “Cosa importa se un miglioramento per i lavoratori sia introdotto da una legge o dalla contrattazione? Ciò che è importante è ottenere quel miglioramento. La contrattazione non è un mito.”.