venerdì 29 settembre 2017

A futura memoria. La fine del Q.E., il governo e la propaganda elettorale

Ci troviamo ad un dipresso da un momento storico sovraccarico di incognite, incertezze e paure: a nove anni dall’avvio prima in America e poi in tutto il mondo del quantitative easing, la manovra- senza precedenti su questa scala – di introduzione di dosi gigantesche di liquidità sui mercati mediante l’acquisto di bond per debellare la crisi, inizia ora la fase opposta.
Sarebbe utile tenere a memoria le dichiarazioni rilasciate dal Presidente del Consiglio Gentiloni e del Ministro dell’Economia Padoan al momento della presentazione della Legge di Stabilità per il 2018.
E’ il caso di farlo perché, al momento del “dunque” emergerà il tema della conclusione dell’operazione Q.E. da parte della BCE (da parte di altre Banche Centrali l’operazione è già cominciata: la FED ad esempio l’ha avviato dal 2015) e inizieranno i dolori della restituzione.
Questo Governo, dall’apparente “basso profilo”, ha proseguito nella continuità rispetto al precedente sul terreno della propaganda e dell’elettoralismo, virando  soltanto di brutto sul tema del rapporto con lo spinoso problema dei migranti verso posizioni di pura destra unificando surrettiziamente politica esterna e politica interna.
Ma non è questo il punto.
La questione che si intende sottolineare oggi riguarda l’evidente sottovalutazione che, per ragioni di pur propaganda, il governo italiano sta esercitando rispetto alla prossima fase conclusiva del Q.E.
Le banche centrali di tutto il mondo, in questo momento, si trovano infatti in “pancia” 15mila miliardi di dollari in titoli dei quali ben 9mila statali, un quinto dei debiti pubblici totali: è il momento di alleggerire i portafogli ma per gli analisti si rischia un rialzo dei tassi che fermerebbe la ripresa.
Più prudente di così, Janet Yellen non poteva essere: a ottobre il bilancio della Fed, che ha raggiunto i 4.200 miliardi di dollari, scenderà di 10 miliardi, 6 in Treasury bond e 4 in obbligazioni delle società. Un’inezia. E non saranno neppure venduti perché semplicemente scadranno e non saranno rinnovati.
Torniamo al punto di partenza, quello del momento storico.
Un momento storico sovraccarico di incognite, incertezze e paure come si scriveva in epigrafe: a nove anni dall’avvio prima in America e poi in tutto il mondo del quantitative easing, la manovra- senza precedenti su questa scala – di introduzione di dosi gigantesche di liquidità sui mercati mediante l’acquisto di bond per debellare la crisi, inizia la fase opposta.
I bond acquistati tornano indietro, le banche centrali non comprano più e anzi rivendono.
L’exit strategy coinvolgerà la Bce – dove il Qe dovrebbe finire l’anno prossimo – e poi la Bank of England, la Bank of Japan, e in misura minore la Riksbank svedese e la Swiss National Bank. In tutto, le banche centrali deterranno alla fine di quest’anno buoni e obbligazioni per 15mila miliardi di dollari, dei quali 9mila in government bond, in media un quinto del debito pubblico dei Paesi interessati. Anzi, in diversi casi ancora di più, tanto da avvicinarsi al limite del 33% del debito pubblico scritto nello statuto sia della Bce che della Fed (per evitare che una banca centrale finanzi direttamente un Paese).
Tutti avranno lo stesso problema: come liberarsi di quest’ingombrante massa di denaro.
Qualcuno afferma che per fortuna le elezioni saranno già passate in Italia quando il Qe finirà. Prima però ci sarà la campagna elettorale (vera e unica ragione di vita per l’intero sistema politico che vive di illusioni e di abbagli in una difficilissima crisi di credibilità) e questo è davvero il “punctum dolens” di questa vicenda.
Poi ci sono da tener presente le questioni di lungo termine, compresa la garanzia dell’indipendenza della Bce quando Draghi lascerà nel 2019. Non è un momento troppo lontano per chi vuole avere un quadro prospettico chiaro”.
Teniamo allora bene in vista nel nostro archivio della memoria le dichiarazioni del Governo Italiano, così tanto per aver chiaro lo storytelling che ci troviamo a dover ascoltare.
Dunque a futura memoria:
Qualcuno afferma che per fortuna le elezioni saranno già passate in Italia quando il Qe finirà. Prima però ci sarà la campagna elettorale (vera e unica ragione di vita per l’intero sistema politico che vive di illusioni e di abbagli in una difficilissima crisi di credibilità) e questo è davvero il “punctum dolens” di questa vicenda.
Poi ci sono da tener presente le questioni di lungo termine, compresa la garanzia dell’indipendenza della Bce quando Draghi lascerà nel 2019. Non è un momento troppo lontano per chi vuole avere un quadro prospettico chiaro”.
Teniamo allora bene in vista nel nostro archivio della memoria le dichiarazioni del Governo Italiano, così tanto per aver chiaro lo storytelling che ci troviamo a dover ascoltare.
Dunque a futura memoria:
“La crescita del Pil nel 2017 sarà dell’1,5%. Nel 2018 il deficit nominale italiano si attesterà all’1,6%. Con un abbattimento del debito già nel 2017 anche tenendo conto delle somme messe a disposizione del sistema bancario per affrontare le situazioni di crisi. «La crescita del Pil del 2017 è confermata all’1,5% e 1,5% è quella che secondo noi va confermata per il ’18 e il ’19», ha detto il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan al termine del Cdm che ha approvato la Nota di aggiornamento del Def, il Documento di economia e finanza che dà il quadro dello stato di salute dell’economia italiana e disegna la cornice entro la quale preparare la legge di bilancio. Alla Nota di aggiornamento è allegata anche la Relazione al Parlamento. Il debito sarà al 131,6% quest’anno e al 129,9% rispetto al Pil nel 2018. È stato un consiglio dei ministri veloce, durato 33 minuti.
«Il Paese è a una svolta e lasciamo un’eredità forte alla prossima legislatura , la fine del Qe non ci deve spaventare ma ci pone nuovi obblighi ,Si cresce di più, il debito scende, il sistema bancario è in sicurezza. Stiamo entrando in una nuova fase. In questo quadro ci avviamo alla legge di bilancio». Il ministro conferma fermando che il sentiero resta stretto. «Le risorse per la legge di bilancio sono limitate: il sostegno all’occupazione giovanile è qualcosa che nessuno può negare debba essere affrontato. Ma su questo nelle prossime settimane daremo indicazioni più precise» ha aggiunto.
I dati della nota di aggiornamento al Def presentati ha chiarito Padoan «sono positivi e incoraggianti, ma non vengono fuori a caso, non sono il frutto di qualche magia. Questo lo voglio rivendicare con grande orgoglio per quello che questo governo e molto anche il governo precedente hanno fatto: sono frutto di una strategia sempre precisa». Una strategia «vincente»  ha rivendicato  e« mi auguro possa continuare in futuro».
La fine del QE non ci deve spaventare ma avverte Padoan « ci pone nuovi obblighi. Siamo preparati? Sì, ma dobbiamo a nostra volta fare delle cose come la gestione del debito». Perché«è possibile vivere in un mondo con tassi d’interesse più alti” ma “i mercati guardano con attenzione se i Paesi continuano a fare le riforme. Il Paese deve continuare a farle e deve farlo in un contesto di
stabilità politica».

Queste incaute dichiarazioni vanno ben tenute a mente :per non dimenticare l’avventatezza della propaganda seminatrice di illusioni a buon mercato portata avanti dai governi che hanno attraversato questo scorcio di legislatura: 80 euro, job act, agevolazioni per le imprese,modello “Marchionne” nella relazioni industriali.
Il  tutto apparentemente a buon mercato fidando sulla bolla del Q.E.e per agevolare i padroni del vapore e alimentare le disuguaglianze economiche e sociali. Sulla “bolla” creata dal Q.E. si svilupperà sicuramente la speculazione, non essendo state minimamente aggredite le radici di questo stato di cose che stanno essenzialmente nella ferocia del  governo del ciclo capitalistico contrassegnato da quella che è stata definita globalizzazione e dalla politica dei banchieri, impuniti protagonisti di questo vero e proprio disastro sociale e politico.

giovedì 28 settembre 2017

erché l’indipendenza dei curdi e dei catalani va bene, ma quella dei britannici no?

Gli scozzesi votano per rendersi indipendenti dal Regno Unito? È un esercizio di democrazia. I curdi votano per rendersi indipendenti dall’Iraq? È un esercizio di democrazia. I catalani votano per rendersi indipendenti dalla Spagna? È un esercizio di democrazia. I britannici votano per rendersi indipendenti dalla UE? Bigottismo, xenofobia, razzismo!

È strano, davvero. La tendenza globale è quella ad andare verso un numero sempre maggiore di piccole nazioni. Negli anni ’50 c’erano 80 stati nel mondo. Oggi ce ne sono circa 200. Trenta di questi si sono formati dopo il 1990. Più recentemente è stata la volta del Montenegro, del Kosovo e del Sud Sudan. Nel loro insieme, questi sviluppi sono sia progressisti che liberali: implicano che le decisioni vengano prese sempre più vicino alle persone che ne sono riguardate, e implica anche che la fedeltà alla nazione sia più vicina ai vincoli elettorali, rendendo così più efficace la democrazia.

Eppure, per qualche ragione, le stesse persone che inneggiano all’indipendenza del popolo tibetano o di quello timorese sono quelle che reagiscono in modo del tutto opposto all’idea dell’indipendenza britannica. Sospetto che questo abbia qualcosa a che fare con la tendenza a classificare il mondo per gerarchie di privilegi, e a generare le proprie simpatie non sulla base criteri oggettivi, ma sulla base del sostegno a chi si percepisce essere il più debole. I catalani, ad esempio, e ancora di più i curdi, si presentano, in modo sicuramente plausibile, come vittime. Anche i separatisti scozzesi hanno cercato di presentarsi sotto questa luce – sebbene con minori giustificazioni storiche, e questa è una delle ragioni per le quali hanno perso.

Il Regno Unito, ad ogni modo, non riceverà mai molti voti di simpatia. Essendo stata la prima nazione industrializzata, tende ad avere un vantaggio tecnologico sui suoi rivali. Anche quando è stata manifestamente dalla parte della ragione, difficilmente poteva essere vista come debole o vittima. La sua dimensione geografica e la sua storia implicano che il suo euroscetticismo venga accolto con uno sdegno che non è mai toccato, per esempio, alla Norvegia o alla Svizzera. Quando i norvegesi o gli svizzeri hanno votato contro l’appartenenza alla UE la loro decisione è stata vista per quello che era: una democratica preferenza per l’autogoverno. Quando i britannici hanno votato allo stesso modo, però, una schiera di editorialisti diversamente intelligenti ha sciorinato ogni genere di cliché sull’impero britannico.

Nonostante ciò, la UE sta nuotando contro la corrente della Storia. La sua ossessione per le dimensioni è segno della sua età, sono i postumi di quella sua infanzia, negli anni ’50. A quei tempi ciò che era grande era bello, sia nel business che nella politica, e le persone ragionevoli concordavano sul fatto che il futuro dovesse risiedere negli immensi conglomerati.

Ma le cose non sono andate in quel modo. Hong Kong ha finito col superare la Cina, Singapore ha sopravanzato l’Indonesia – la Svizzera, per quanto ci riguarda, ha superato la UE. I paesi con il più alto reddito pro capite del pianeta, secondo il factbook globale della CIA, sono il Liechtenstein, il Qatar e Monaco. A dire il vero il Qatar è l’unico paese nella top ten ad avere una popolazione che supera i 350.000 cittadini.

La UE non rinuncerà all’integrazione politica. Ha rifiutato di concedere a David Cameron di mantenere anche una sola competenza, e in questo modo si è assicurata di perdere il referendum sulla Brexit. In un mondo in cui i poteri diventano sempre più decentralizzati e diffusi, Bruxelles resta dogmaticamente attaccata a quel federalismo che Jean-Claude Juncker la scorsa settimana non ha mancato di predicare.

Questa differenza di visione spiega perché è nell’interesse di tutti che la Gran Bretagna sostituisca la sua condizione attuale [nei confronti della UE, NdT] con un accordo più libero e amichevole. Dopo la Brexit, secondo lo stesso principio, dovremo essere noi stessi a concedere quel potere che abbiamo ripreso da Bruxelles verso il basso e verso l’esterno, cioè verso le autorità locali o, meglio ancora, verso i singoli cittadini. Questa, però, è un’altra storia.

mercoledì 27 settembre 2017

Gli sciacalli di Amatrice: false residenze per incassare il sussidio dei terremotati

Come definire questi furbetti se non sciacalli e approfittatori? I magistrati reatini hanno indagato oltre 120 persone con l'accusa di aver spostato la residenza nei Comuni terremotati del centro Italia per ottenere il Contributo autonomo di sistemazione, il sussidio destinato alle persone realmente colpite dal sisma del 24 agosto. Gli indagati sono principalmente romani che, nei luoghi del terremoto, possiedono una seconda o terza casa. Il sussidio statale al quale avrebbero avuto accesso come residenti poteva arrivare fino a 1300 euro al mese. A far insospettire i giudici è stata la sproporzione fra l'enorme numero di domande presentate per accedere al Cas e la popolazione effettivamente residente.
Ora il procuratore Giuseppe Saieva sta per chiudere le indagini con le ipotesi di truffa e falso.
Cambi operati da cittadini residenti in altri territori (prevalentemente nella Capitale) i quali, secondo l’ipotesi degli investigatori, avrebbero tentato di spostare la residenza nei due Municipi devastati dal sisma proprio per poter percepire i contributi economici stanziati dallo Stato in sostegno delle popolazioni residenti.
La Procura ha vagliato le tante domande di accesso al sostegno economico - da un minimo di 400 euro al mese, per i nuclei familiari composti da una sola persona, a un massimo di 900 per le famiglie numerose - anche con il supporto dei sindaci dei comuni interessati, riscontrando centinaia di anomalie.

martedì 26 settembre 2017

Modello Ryanair in crisi. Il neoliberismo battuto sui salari

L’inaspettata crisi di Ryanair è la crisi di un modello di business neoliberista che ha fatto furore negli ultimi 30 anni, contribuendo in modo decisivo allo smantellamento del sistema di welfare europeo e delle regole del mercato del lavoro.
Dal punto di vista dal “personale dipendente”, Ryanair ha indubbiamente imposto salari bassissimi rispetto agli standard del trasporto aereo, turni assurdi in dispregio delle stesse normative europee sulla sicurezza (un pilota stanco è un pilota pericoloso…), zero diritti sindacali, licenziabilità ad libitum. Se questo fosse stato sufficiente a creare una compagnia low cost di successo, tutte le altre compagnie avrebbero seguito la stessa strada (e in misura notevole lo hanno anche fatto) spostando la concorrenza sul livello più basso possibile del costo del lavoro. Il successo clamoroso – nelle dimensioni dei profitti – ha invece arriso quasi alla sola società di Michael O’Leary, mentre molte altre compagnie low cost sopravvivono appena dignitosamente e qualcuna fallisce miseramente (la tedesca Air Berlin, che pure ha alle spalle l’esperienza e la potenza di Lufthansa).
In fondo gli altri costi industriali (prezzo dei velivoli, manutenzione, carburante, tasse aeroportuali, ecc) sono uguali per tutti i vettori. Dunque il solo costo del lavoro basso non può bastare.
Il segreto del successo di Ryanayr deve dunque stare da qualche altra parte. E in effetti è una delle poche compagnie – è stata la prima – ad aver sottoscritto oltre un quarto di secolo fa accordi con consorzi pubblico-privati interessati ad aumentare il traffico passeggeri sul proprio territorio (utenza business e turistica), sfruttando piste e aeroporti marginali e poco utilizzate. Questi consorzi versano annualmente quote finanziarie e contribuiscono a migliorare notevolmente i bilanci Ryanair, permettendole una politica tariffaria particolarmente aggressiva (su una certa quota di posti su ogni aereo, gli altri sono a prezzo “di mercato”) in grado di sbaragliare molta concorrenza (a partire ovviamente dalle compagnie più antiche e “paludate”, anche sul piano contrattuale).
Il secondo elemento strutturale è l’ottenimento dalle autorità nazionali di slot appetibili (diritti di atterraggio e decollo negli orari più richiesti) sui singoli aeroporti, garantendosi così un buon ventaglio di opzioni per programmare i voli. Qui si è misurata l’abilità politica di O’Leary o, al contrario, la dabbenaggine di alcuni governi europei. In Italia, per esempio, a Ryanair sono stati concessi slot vantaggiosi (in termini di orario) anche sulle tratte interne più redditizie (la Roma-Milano, fino a qualche anno fa), aprendo dunque le porte alla concorrenza in dumping contro Alitalia (che allora era compagnia pubblica). La quale, contemporaneamente, veniva gestita da incompetenti o complici che privilegiavano il “medio raggio” – il meno redditizio e più esposto alla concorrenza delle low cost – a discapito del lungo raggio (memorabile la chiusura della Roma-Pechino mentre si andava verso le Olimpiadi cinesi…).
In Francia, al contrario, lo Stato difendeva la tratta Marsiglia-Parigi (tesoretto della società pubblica Air France) senza neanche un divieto formale; bastava offrire slot inutilizzabili con profitto, e Ryanair rinunciava. Anche per arrivare a Parigi da altri paesi, in fondo, ti fanno scendere a Beauvais (80 km a nord), mica a Ciampino (ai bordi del Raccordo Anulare).
Modello comunque  inattaccabile? A quanto pare no. E addirittura offrendo stipendi molto più alti, oltre ad altri benefit impensabili dentro lo schema della “concorrenza basata sul taglio dei salari”.
Nei mesi scorsi diversi media mainstream avevano riportato, come fosse una stranezza tutta orientale, che grandi compagnie aeree asiatiche – soprattutto cinesi – stavano girando l’Europa per assumere piloti offrendo stipendi favolosi (fino a 250.000 euro annui, vedi qui). Morta lì? No, perché a quanto pare li stanno trovando proprio dalle parti di Ryanair e simili, più che tentati da un salario 4-5 volte più alto, oltre ad alloggio, scuole e lavoro per l’intera famiglia. Il che ha svuotato il parco piloti della compagnia irlandese costringendola a cancellare centinaia di voli e ad offrire un bonus da 12.000 euro ai soli comandanti, nel tentativo.
Ovvio che non sarà sempre così. Prima o poi anche le compagnie cinesi copriranno i vuoti d’organico esistenti in questa fase di sviluppo accelerato del mercato interno, e non avranno dunque più bisogno di offrire cifre così alte. Ma intanto segano le gambe alla concorrenza, preparando il terreno a un’espansione verso altri mercati.

La prova arriva direttamente da IlSole24Ore che pubblica una lettera abbastanza sconclusionata di un giovanissimo pilota fuggito tra le munifiche braccia cinesi.
Al di là delle evidenti sciocchezze “ideologiche” (il giovane professionista è convinto per esempio che il debito pubblico italiano sia cresciuto per “elevare lo stile di vita” dei coetanei di suo padre, mostrando così di essere una vittima del “senso comune” sparso dai media), questa testimonianza mostra con chiarezza come quelle politiche neoliberiste abbiano prodotto una declino inarrestabile dei paesi che le hanno subite o adottate con gioia.
Tra un po’, infatti, l’ondata migratoria da questi paesi verso i punti alti dello sviluppo economico – la Cina, non gli Usa – sarà inarrestabile perché trainata dalla dinamica salariale. Per le professioni di punta, naturalmente; tutti gli altri – braccia a disposizione sottocosto per l’industria, il commercio e i servizi – li lasceranno volentieri nei paesi d’origine. Fin quando non scapperanno, magari su un barcone…

lunedì 25 settembre 2017

’entrata in vigore del CETA è uno scandalo per la democrazia

Il CETA, trattato di libero scambio con il Canada, è infine entrato in vigore giovedì 21 settembre, ad eclatante dimostrazione di come gli Stati abbiano rinunciato alla loro sovranità, lasciando spazio ad un nuovo diritto, indipendente dal diritto degli stessi Stati e non soggetto ad alcun controllo democratico.

Il CETA sarebbe, sulla carta, un “trattato di libero scambio”. In realtà però prende di mira le normative non-tariffarie che alcuni Stati potrebbero adottare, in particolare in materia di protezione ambientale. A questo riguardo, c’è da temere che il CETA possa dare l’avvio a una corsa a smantellare le norme di protezione. A ciò si aggiungono i pericoli che scaturiscono dal meccanismo di protezione degli investimenti contenuto nel trattato. Il CETA crea infatti un sistema di protezione per gli investitori tra l’Unione Europea e il Canada che, grazie all’istituzione di un tribunale arbitrale, permetterà loro di citare in giudizio uno Stato (o a una decisione dell’Unione Europea) nel caso in cui un provvedimento pubblico adottato da tale Stato possa compromettere “le legittime aspettative di guadagno dall’investimento”. In altre parole, la cosiddetta clausola ISDS (o RDIE) è in pratica un meccanismo di protezione dei guadagni futuri. E si tratta di un meccanismo unilaterale: nel quadro di questa disciplina, nessuno Stato può, da parte sua, citare in giudizio un’impresa privata. È chiaro quindi che il CETA metterà gli investitori in condizione di opporsi ai provvedimenti politici ritenuti contrari ai loro interessi. Questa procedura, che rischia di essere molto dispendiosa per gli Stati, avrà certamente effetti dissuasivi già con una semplice minaccia di processo. Al riguardo, non dimentichiamo che, a seguito della dichiarazione della Dow Chemical di voler portare la causa in tribunale, il Québec fu costretto a fare marcia indietro sul divieto di una sostanza, sospettata di essere cancerogena, contenuta in un diserbante commercializzato da questa impresa.

Vi sono inoltre dubbi in merito alla reciprocità: si fa presto a dire che il trattato apre i mercati canadesi alle imprese europee, tanto più che il mercato dell’Unione Europea è già adesso aperto alle imprese canadesi. Ma basta solo guardare alla sproporzione tra le popolazioni per capire chi ci guadagnerà. Al di là di questo, c’è il problema più ampio del libero scambio, in particolare dell’interpretazione del libero scambio che si evince dal trattato. Al centro si trovano gli interessi delle multinazionali, che di certo non coincidono con quelli dei consumatori né dei lavoratori.

I rischi rappresentati dal CETA riguardano quindi la salute pubblica e, senz’ombra di dubbio, la sovranità. Ma ancora più grave è anche la minaccia posta dal trattato alla democrazia. Al momento della sua votazione finale nel Parlamento Europeo, tra i rappresentanti francesi sono stati quattro i gruppi a votare contro: il Fronte di Sinistra, gli ambientalisti dell’EELV, il Partito Socialista e il Front National. Un’alleanza forse meno anomala di quanto sembri, se si prendono in considerazione i problemi sollevati dal trattato. È indicativo il fatto che sia stato rigettato dalle delegazioni di tre dei cinque paesi fondatori della Comunità Economica Europea, e dalle seconda e terza maggiori economie dell’Eurozona. Ciononostante è stato ratificato dal Parlamento Europeo il 15 febbraio 2017, e deve adesso passare la ratifica dei singoli parlamenti nazionali. Nondimeno, è già considerato parzialmente in vigore prima della ratifica da parte degli organi rappresentativi nazionali. Il CETA è quindi entrato in vigore provvisoriamente e parzialmente il 21 settembre 2017 per gli aspetti riguardanti le competenze esclusive dell’UE, ad esclusione, per il momento, di certi aspetti di competenza concorrente che necessitano di votazione da parte dei paesi membri dell’UE, in particolare le parti riguardanti i tribunali arbitrali e la proprietà intellettuale. Ma anche così, circa il 90% delle disposizioni dell’accordo vengono già applicate. Ciò rappresenta un grave problema politico di democrazia. Come se non bastasse, anche nel caso in cui un paese dovesse rigettare la ratifica del CETA, quest’ultimo resterebbe comunque in vigore per tre anni. È evidente che è stato fatto di tutto perché il trattato fosse formulato ed applicato al di fuori del controllo della volontà popolare.

In effetti questo non è affatto ciò che normalmente si definirebbe un trattato di “libero scambio”. Si tratta di un trattato il cui scopo è essenzialmente imporre norme decise dalle multinazionali ai singoli parlamenti degli Stati membri dell’Unione Europea. Se ciò che si voleva dare era una dimostrazione della natura profondamente anti-democratica dall’UE, non si poteva certamente fare di meglio.

Ciò pone un problema sia democratico che di legittimità di chi si è fatto fautore del trattato. In Francia uno solo dei candidati alle elezioni presidenziali, Emmanuel Macron, si era dichiarato apertamente a favore del CETA. Anche uno dei suoi principali sostenitori, Jean-Marie Cavada, aveva votato al Parlamento europeo per l’adozione del trattato. Si profila quindi nelle elezioni presidenziali, e non per la prima volta nella nostra storia, il famigerato “partito dall’esterno” che a suo tempo (per l’esattezza il 6 dicembre 1978) era stato denunciato da Jacques Chirac dall’ospedale di Cochin…[1]

Prima della sua nomina a ministro del governo di Edouard Philippe, Nicolas Hulot aveva preso nettamente posizione contro il CETA. La sua permanenza al governo, a queste condizioni, ha il valore di un voltafaccia. Come ministro della Transizione Ambientale (sic), non ha sicuramente finto un certo rammarico lo scorso venerdì mattina su Europe 1. Ha riconosciuto che la commissione di valutazione nominata da Edouard Philippe lo sorso luglio aveva identificato diversi potenziali pericoli contenuti nel trattato. Ma ha anche aggiunto: “…i negoziati erano ormai arrivati a un punto tale che, a meno di non rischiare un incidente diplomatico con il Canada, che certamente vorremmo evitare a tutti i costi, sarebbe stato difficile bloccarne la ratifica”. Questa è una perfetta descrizione dei meccanismi di irreversibilità deliberatamente incorporati nel trattato. Non dimentichiamo inoltre che, prima di essere nominato ministro della Transizione Ambientale, l’ex-presentatore televisivo aveva più volte dichiarato che il CETA non era “compatibile con il clima”. Si può qui immaginare quanto fosse grande la spada che ha dovuto ingoiare: praticamente una sciabola.

Da parte sua, fin dalla sua elezione Emmanuel Macron si è presentato come difensore allo stesso tempo dell’ecologia e del pianeta riprendendo, capovolgendolo, lo slogan di Donald Trump “Make the Planet Great Again”. Ha spesso ribadito questo concetto, sia alle Nazioni Unite che in occasione del suo viaggio alle Antille dopo l’uragano “Irma”. Ma non si può ignorare che il suo impegno a favore del CETA e la sua sottomissione alle regole dell’Unione Europea, che ha comunque registrato un terribile ritardo sulla questione degli interferenti endocrini, dimostrino come non sia decisamente l’ecologia a motivarlo, e che al massimo questa non sia che un pretesto per una comunicazione di pessimo gusto e di bassa lega.

È dunque necessario avere ben chiare le conseguenze dell’applicazione del CETA, oltre alla minaccia che esso rappresenta per la sovranità nazionale, la democrazia e la sicurezza del paese.

venerdì 22 settembre 2017

Il discorso di Trump all'Onu: l'epitaffio dell'Impero


Trump, nel suo discorso alle Nazioni Unite, ha attaccato nell'ordine Kim Jong-Un, Maduro, Obama, Castro, la rivoluzione islamica Iraniana, Hezbollah, le Nazioni Unite, Assad, il socialismo Sovietico, il comunismo Cubano e indirettamente pure Chavez e la Federazione Russa (in merito alla vicenda Ucraina).

Per il resto, solito doppio messaggio. Uno indirizzato alla popolazione americana, sullo stile della campagna elettorale che l'ha portato alla presidenza. L'altro indirizzato al resto del mondo, chiaramente incentrato sul ruolo degli Stati Uniti quale nazione unica ed indispensabile (American exceptionalism) tinto però di una sorta di realismo politico (a suo dire).

Quel che conta è la frattura nel campo imperialista nordatlantico. Trump è disprezzato dai neoliberal alla Clinton e detestato dai neocon alla McCain (anche se fa di tutto, specie con la retorica più che azioni, per entrare nelle loro grazie), osteggiato persino dalla maggior parte dei partner Europei. Senza contare l'incapacità di fondo dell'amministrazione di conciliare le diverse posizioni di Trump in politica estera, generando terremoti (geo)politici devastanti come visto con Qatar e Arabia Saudita o tra Washington ed Ankara.

Trump non pare voler lasciare in eredità al paese l'ennesima guerra (con conseguente sconfitta), tradendo ulteriormente il mandato elettorale. Si è però volutamente circondato di generali assetati di guerre, soldi e appalti per i giganti del complesso militare industriale, sperando di salvarsi la presidenza. Non a caso ha deciso di aumentare il budget della difesa, ma non perde occasione per ribadire che gli Stati Uniti non vogliono usare la forza.

Ancora una volta, conta la realtà dei fatti e non le parole dietro cui Trump e l'establishment americano spesso si nascondono: in Siria hanno perso, così come in Iraq ed Afghanistan; tutto mentre Pyongyang sviluppava il suo deterrente nucleare e perfezionava quello convenzionale, rendendo le minacce nordamericane vuota retorica.

Il discorso di Trump provoca indifferenza ed ilarità ai nemici nordamericani, sfiducia nelle nazioni ancora orbitanti nella bolla unipolare di Washington e grande soddisfazione per regimi come Israele e Arabia Saudita che si accontentano ormai persino della scadente retorica di una delle persone meno stimate sulla scena internazionale.

Trump, ogni volta che parla, ci ricorda indirettamente quanto la transizione ad un ordine mondiale multipolare sia fortunatamente irreversibile ed in pieno svolgimento.

giovedì 21 settembre 2017

La Russia ribadisce: Gli USA in Siria sono degli intrusi

"Confermiamo il nostro parere, anche se riconosciamo la reale presenza della coalizione statunitense in Siria, è in verità un'intrusa", ha dichiarato, ieri, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov.

Il Ministro degli Esteri russo ha fatto questi commenti alla fine di un incontro con la sua controparte nordamericana, Rex Tillerson, a margine della 72a sessione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA) a New York.

 "Confermiamo il nostro parere, anche se riconosciamo la reale presenza della coalizione statunitense in Siria, è in verità un'intrusa", ha dichiarato, ieri, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov.

Il Ministro degli Esteri russo ha fatto questi commenti alla fine di un incontro con la sua controparte nordamericana, Rex Tillerson, a margine della 72a sessione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA) a New York.

mercoledì 20 settembre 2017

Giulio Regeni, le contorsioni e l’ipocrisia della politica italiana sulle rive del Nilo

La vicenda che coinvolge il giovane “attivista” Giulio Regeni sembra una scena da film, alla James Bond, ma qui non c’è nessuna finzione cinematografica.
Il 3 Febbraio 2016 ha inizio ufficialmente “il caso Regeni”, i giornali, talk show e politici nostrani non hanno fatto in tempo ad apprendere la notizia che già si annunciavano “ripercussioni”, “embarghi”, accuse verso il governo Al-Sisi, il ritiro dei diplomatici e altre azioni di boicottaggio verso il Cairo.
Regeni da quanto ci viene raccontato dal professor Gennaro Gervasio che teneva i contatti con il giovane studente italiano sarebbe arrivato in Egitto ufficialmente per “studiare il sindacalismo egiziano”, tramite Maha Ahbdelramah, docente a Cambridge, esperta di medio oriente e tutor del ragazzo friulano.
Un anno e mezzo di “battaglie” diplomatiche, inchieste giudiziarie, intanto in Italia fioccano manifestazioni di protesta capeggiate da senatori, associazioni come Amnesty International, trasmissioni d’inchiesta, la condanna contro il governo Al-sisi è pressoché totale.
Ma facciamo una disamina dal punto di vista geo-strategico di questa vicenda, il cadavere di Regeni viene ritrovato nel momento in cui la delegazione italiana capeggiata dal ministro Guidi approda al Cairo per firmare importanti accordi, commerciali, militari e non solo: sul piatto c’è anche il bacino di Zohr, scoperto da Eni nel 2014 e in gestione assieme alla Egyptian Gas Natural company, è il più grande giacimento di gas del mediterraneo.
Dal punto di vista strategico questa scoperta ha allarmato altri colossi dell’energia, in primis British Petroleum e Total, ed ecco che si inserisce la vicenda Regeni, con l’Università di Cambridge che fa da sfondo a “una guerra di spie”, l’ateneo britannico a detta di molti analisti è terreno di conquista per il servizio segreto MI6.
Ma non è tutto, si viene a sapere che lo stesso Regeni tra il 2013 e il 2014 è stato operativo presso la “Oxford Analytica”, struttura d’intelligence che ha nei suoi uomini di punta John Negroponte, ex ambasciatore statunitense e creatore delle milizie “contras” per attenuare l’avanzata sandinista in Nicaragua negli anni 80.
Sappiamo che Regeni aveva contatti con l’opposizione egiziana, con alcuni rappresentanti della fratellanza musulmana che aveva espresso come presidente Mohammed Morsi (condannato a 25 anni di carcere per spionaggio), spodestato dai militari egiziani guidati dal generale Al-Sisi nel 2013.
Altro punto di scontro tra Italia ed Egitto in questi mesi è stata la questione “Libia”, da una parte l’Italia con gli Stati Uniti vicine al governo di Tripoli di al-Serraj, dall’altra Russia e appunto Egitto vicine al generale Haftar, governatore di Tobruk, intanto l’ambasciatore italiano ha già lasciato il Cairo da parecchio tempo.
La vicenda Regeni come vediamo si incunea alla perfezione per minare i rapporti diplomatici ed economici storici che legano le due nazioni mediterranee.
Solamente in questi ultimi mesi notiamo delle inversioni di marcia sul caso Regeni, dovuti forse a un cambio negli assetti politici internazionali. I partiti di opposizione come il M5S e qualche membro dei partiti di governo, come il presidente della Commissione Affari Esteri della Camera Fabrizio Cicchitto, cominciano a parlare di “intromissioni” da parte di agenzie di intelligence estere (una pista che la magistratura italiana aveva già preso in considerazione mesi orsono), ritorna l’ambasciatore italiano in Egitto e si cerca la via della “realpolitik” e con le inchieste congiunte.
Questo mutamento o “trasformismo” tutto italiano lo dobbiamo al fatto che la classe dirigente e politica del nostro paese ha perso del tutto la prospettiva “mediterranea” che aveva portato l’Italia ad essere considerata un partner di prima importanza e stabile per paesi in fase di sviluppo negli anni del dopo guerra come Egitto, Siria, Libia, Algeria solo per citarne alcuni, frutto dell’azione politica dei vari Enrico Mattei, Aldo Moro, Bettino Craxi e Giulio Andreotti.
La vicenda Regeni ci mostra che la classe politica è totalmente dipendente dalla “politica delle cannoniere” (es. Libia 2011) e totalmente inconsapevole dei mutamenti geo-politici e strategici a livello sia regionale sia mondiale.

martedì 19 settembre 2017

Il commercio d’armi mondiale: più si espande meno se ne parla

Il commercio d’armi mondiale, nel mainstream, è un argomento che viene affrontato poco e di solito vagamente, benché sia un drammatico fenomeno quotidiano.
E’ chiaro che meno se ne parla, peggio è. Analogamente ad altri fenomeni, come la mafia.
Se vi fosse un “bombardamento” mediatico costante relativamente al mercato delle armi, la questione inizierebbe ad entrare negli abituali dibattiti.
Ma invece se ne discute, al più, ad intermittenza. Ad esempio, è più facile attaccare quotidianamente un migrante con argomentazioni generiche del tipo “viene a rubarci il lavoro o a portarci instabilità”. E’ più comodo alimentare questa guerra tra poveri. Del resto, i grossi ed influenti gruppi finanziari in Italia e all’estero spesso gestiscono pure il commercio delle armi. In Italia la grossissima Finmeccanica non a caso è la maggiore esportatrice di armi, tramite aziende “possedute o in varia misura partecipate” da questa [1].
Abbiamo un’infinità di terribili esempi collegati al commercio d’armi mondiale. Che, tra l’altro, riconducono ai disordini globali e a buona parte delle migrazioni.
Basti pensare che per l’invasione dell’Iraq, ufficialmente avvenuta per via di armi di distruzione di massa possedute da Saddam Hussein che la storia ha dimostrato non esserci (e come sottolineavano in molti già allora), invasione che oltretutto ha causato la morte di più di 100mila civili iracheni, gli Stati Uniti spesero nell’acquisto di armi e sistemi di difesa nel 2004 in media 4,4 miliardi di dollari al mese (oltre 50 miliardi di dollari l’anno), nel 2006 in media 7,2 miliardi, nel 2007 in media 10,2 miliardi (ovvero oltre 120 miliardi l’anno) [2]. Un grossissimo affare per le industrie d’armi statunitensi (che già quando divenne presidente nel 2000 George W. Bush videro inseriti oltre 30 amministratori dell’industria delle armi, consulenti e lobbisti di questo settore nella sua amministrazione [3]).
Detto ciò, si consideri che 25 miliardi di dollari (cioè solo una parte di quei soldi) superano la somma annua del PIL (Prodotto Interno Lordo) dei 100 Stati più poveri del pianeta [4]. Questa stessa cifra corrisponde a quanto guadagnò nel solo 2005, dal commercio d’armi in Iraq, la Lockheed Martin, una delle più grosse multinazionali del settore negli Usa. La stessa fu la maggiore sostenitrice economica, tra le compagnie d’armi, della campagna politica di Bush del 2004, con circa 200mila dollari [5].
Adesso, si pensi un attimo a tutte le guerre e instabilità politiche che ci sono in giro per il pianeta e le quali causano crisi e migrazioni di massa. (In Africa ve ne sono una miriade che noi tendenzialmente ignoriamo..).
Alcune armi provengono anche dai depositi dismessi dei Balcani. Ma appunto, alcune.
In Siria basta vedere i giochi geopolitici che ci sono e a quali Stati, alleati di chi, conveniva armare l’Isis (senza girarci troppo intorno, vi sono ormai molti report che tirano in ballo direttamente Arabia Saudita, Qatar e Turchia in chiave anti-Assad. E non è una difesa nei confronti di Assad, ma un dato di fatto. Si consideri inoltre che i maggiori fornitori d’armi dell’Arabia Saudita sono gli Stati Uniti..
 A ciò si aggiunga che nel maggio di quest’anno Donald Trump ha firmato un accordo con l’Arabia Saudita per la vendita nel corso dei prossimi anni di armi e sistemi di difesa del valore di 110 miliardi di dollari [7].Ma lo stesso Barack Obama non è stato da meno. Nel corso della sua presidenza gli Stati Uniti hanno venduto ai sauditi armi per 110 miliardi e garantito a Israele il piano di aiuti militari più ampio (38 miliardi in 10 anni) mai concesso dagli Usa a un altro Paese [8].
Ma gli “affari” legati al commercio d’armi, ovviamente, non riguardano solo l’Occidente.
Per fare qualche esempio. La Cina non si fa problemi a vendere armi ovunque le sia possibile e a proteggere regimi oppressivi con i quali ha forti rapporti commerciali, usando anche il veto all’Onu (come verso lo Zimbabwe del dittatore Mugabe). Prima della caduta di Mubarak, il regime egiziano acquistava armi principalmente da questa, oltre che da Stati Uniti, Russia, Francia e Inghilterra [9]. In Russia coloro i quali detengono le redini del potere controllano il commercio delle armi del Paese, che non esita a venderle a regimi sanguinari e oppressivi come (tra gli altri) quello pluridecennale dell’ex Birmania [9].
Se ne parlassimo quotidianamente, invece che dei migranti che spesso scappano da situazioni causate anche da tale violenza, staremmo già affrontando il problema più alla radice. Giri di denaro rispetto ai quali è complice anche l’Italia.
Iniziamo a discutere con più costanza di questo e non dei problemi superficiali che sono semplicemente le molliche che ci vengono lanciate dall’alto. Facciamo rientrare l’orrore e il business del commercio delle armi tra gli argomenti da inserire nella nostra quotidianità. Perché è alla base di molti drammi, sia locali che globali. La soluzione non è legata ai disperati che attraversano il Mediterraneo in zattera (o almeno, non nei termini intesi da un Salvini a caso).
Vi sono inoltre tanti altri “mercati”, naturalmente, che appartengono a questo cinico giro. A cominciare dall’oro nero (il petrolio).
E se il problema di fondo risultasse essere il profitto, se affrontando il discorso e criticando questo modello di sviluppo ingiusto proponiamo delle alternative che possono sembrare troppo ambiziose o idealiste.. “chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle, forse, è ancora più pazzo di te”

lunedì 18 settembre 2017

Pil e lavoro, dal governo solo propaganda

Renzi e Gentiloni vantano il loro milione di posti di lavoro e lo dicono merito del Jobs Act. A questa propaganda di regime, che non a caso usa le stesse cifre storiche di Berlusconi, si contrappongono tre semplici verità:

1) In tutto il mondo c'è una ripresa economica, molto fragile secondo tanti economisti. Negli USA il PIL è cresciuto del 3% , in GB di oltre il 2, così Germania e Francia. La crescita dell'1,4% del PIL dell'Italia è quindi una delle più basse e comunque segue un'onda generale, quindi il Jobs Act non c'entra nulla, altrimenti saremmo cresciuti più degli altri e non meno. In ogni caso dopo una lunga recessione e stagnazione questa ripresa né in Italia né nel resto del mondo è solida, anche perché non una delle cause economiche e finanziarie che hanno provocato la crisi é stata rimossa.

2) Se è vero che si é raggiunto il numero di occupati del 2008, come qualità questa occupazione è molto diversa. TUTTE le nuove assunzioni sono precarie, non solo i contratti a termine, ma anche quelli formalmente a tempo indeterminato. Non bisogna mai dimenticare infatti che con il Jobsact è stato abolito l'articolo 18 per tutte le nuove assunzioni, quindi chi entra al lavoro con contratto a tempo indeterminato può essere licenziato in qualsiasi momento, senza possibilità di reintegra.I 23 milioni di oggi sono composti da una percentuale molto più alta di precari di quelli del 2008. Inoltre una parte di essi è formata da chi È COSTRETTO a restare al lavoro dalla legge Fornero. Se poi dovessimo misurare le ore lavorate, scopriremmo che molti dei nuovi assunti fanno orari ridotti sottopagati Gli occupati supersfruttati, precari, anziani oggi sono assieme al doppio di disoccupati ufficiali rispetto a ieri. Nel 2008 il tasso di disoccupazione ruotava attorno al 6%, oggi sta sempre attorno all'11. Anche questi dati andrebbero considerati prima di spargere stupido ottimismo da spot pubblicitario.

3)Infine, per realizzare questo obiettivo il governo Renzi ha speso dai 15 ai 20 miliardi di incentivi alle imprese e quello Gentiloni vuole aggiungere la sua nuova quota. Qui bisogna affermare una verità che stranamente i governanti cultori del libero mercato dimenticano. Nessuna impresa assume lavoratori di cui non abbia bisogno, neppure se il governo dà un bel premio per ognuno di essi. Così i miliardi del Jobs Act sono andati ad imprese che in gran parte quelle assunzioni le avrebbero fatte COMUNQUE. Sono stati un regalo ai profitti aziendali e non alla occupazione. Nessuno dei soldi pubblici spesi ha creato nuovo lavoro. Tutto questo ha drogato un mercato del lavoro che si è abituato agli incentivi, per cui se ci fosse una nuova fermata produttiva la catastrofe sarebbe enorme, anche perché, come si è detto, tutti i nuovi assunti sono precari o licenziabili in qualsiasi momento.

È di questi giorni il fallimento annunciato delle Acciaierie di Piombino, svendute dal governo ad un imprenditore fantasma che si è rapidamente dileguato. Ecco, lì si stanno cancellando migliaia di posti di lavoro qualificati a tempo e salario pieno. Lo stesso avviene in Alitalia, ad Almaviva, si preannuncia per l'Ilva e per tutte le grandi aziende le cui crisi non si risolvono mai. Sono 166 per 200000 dipendenti le crisi insolute parcheggiate al Ministero dello Sviluppo ( si fa per dire) Economico. Poi c'è la distruzione della ricerca - sono appena stati lasciati a casa 22 precari dell'ISPRA - i tagli alla scuola ed al lavoro pubblico, lo smantellamento dei servizi sociali.

I liberisti al governo, cioè il PD, spiegano che tutto questo è inevitabile perché il mondo cambia, finiscono i vecchi lavori e ne nascono dei nuovi. Peccato però che tutti i lavori che finiscono siano quelli di 40 ore settimanali , pagate secondo i contratti. Mentre gran parte dei nuovi impieghi sono fondati su un numero molto inferiore di ore, pagate pochi euro l'una. Qui sta il grande imbroglio: i nuovi lavori non sono altro che i vecchi lavori poveri riorganizzati, facchinaggio, pulizie, servizi privati. Saltano i posti da 1500 euro al mese e dilagano quelli da 600. Per questo mentre formalmente aumenta l'occupazione, cresce anche l'emigrazione, interna e verso l'estero, soprattutto di persone qualificate. E l'incremento dell'occupazione femminile non supera la disparità salariale e di qualifiche con gli uomini, ma al contrario l'aggrava con il supersfruttamento dei lavori sottopagati.

In conclusione i dati sulla occupazione non sono affatto il segno di un superamento della crisi sociale, ma anzi per certi versi significano un suo aggravamento. È il modello americano, che nasconde la disoccupazione di massa con milioni di poveri che lavorano, senza minimamente migliorare la loro condizione. lo stesso accade da noi, dove contemporaneamente aumentano gli occupati e coloro che vengono dichiarati ufficialmente poveri. Se l'Istat riproporzionasse gli occupati alle ore effettivamente lavorate ed al salario percepito, i 23 milioni diventerebbero molti meno. Ma come si sa, oggi basta un'ora di lavoro a settimana per essere considerati ufficialmente occupati, nella voce part time.

venerdì 15 settembre 2017

Autostrade: i pedaggi aumentano, ma gli investimenti sono fermi

Le autostrade italiane si confermano galline dalle uova d’oro. Lo dimostrano tre dati contenuti nella relazione 2016 della Direzione generale per la Vigilanza sulle concessionarie autostradali del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti. Partiamo dal traffico: tra 2009 e 2016 i veicoli sulla rete (misurati in milioni per chilometri percorsi) sono lievemente diminuiti, -3% (da 83,8mila a 81,3). Nello stesso periodo, ed è il secondo dato, i ricavi netti da pedaggio sono passati da 4,7 a 5,7 miliardi di euro (su un fatturato che ha superato la soglia dei 6,8 miliardi di euro). Significa +20%. Se il settore frutta, gli investimenti sono ancora molto distanti da quelli promessi nei contratti. Lo riconosce lo stesso ministero: la “spesa progressiva per investimenti nel periodo regolatorio 2008–2016” ammonta a 15 miliardi di euro. Una cifra che “risulta inferiore rispetto alle previsioni riportate dai Piani Finanziari operativi […] pari a 21,7 miliardi di euro”. Tradotto: la percentuale di attuazione è del 69,41%”. E tra 2016 e 2015 il valore degli investimenti è risultato inferiore del 23,9%.

Nonostante questi numeri, l’incipit della relazione ministeriale è abbastanza trionfale. “In conseguenza dei significativi investimenti eseguiti nel corso degli anni -si legge-, la rete autostradale dal 2000 ad oggi ha subito una rilevante trasformazione che consente di soddisfare una domanda accresciuta di traffico”. I chilometri “in esercizio” sarebbero 6.023,20 (per il 67% su due corsie), 440 circa in più rispetto al 2000.
Le tratte d’asfalto vengono gestite con modalità diverse. La più rilevante è quella in pancia al ministero delle Infrastrutture che ha affidato a 24 società concessionarie qualcosa come 5.886,6 chilometri di rete, il 97% del totale. Autostrade per l’Italia Spa, da sola, ha in concessione fino al 2038 2,8mila chilometri: dalla A1 Milano-Napoli alla A14 Bologna-Taranto.
Alla categoria “ministeriale” si aggiungono poi le autostrade gestite direttamente da Anas Spa (ad esempio la A3 “Salerno-Reggio Calabria” o la Palermo-Catania), quelle in capo a società partecipate da Anas Spa e ad alcune Regioni (come Pedemontana Lombarda, Brebemi o la Roma-Latina), e infine quelle realizzate da società che hanno come “concedente” una Regione (in Lombardia è il caso ad esempio della Broni–Pavia–Mortara).
In tema di investimenti, le schede iniziali della relazione ministero sembrerebbero riportare una “buona notizia”. “Nel periodo tra il 2000 e il 2017 -spiega- le società concessionarie hanno posto in essere una spesa per investimenti pari a 22,127 miliardi di euro corrispondente ad una spesa d’investimento annuo di 1,301 miliardi di euro”. Senza aggiungere altro. Come detto, però, l’attuazione complessiva è ferma al 69,41%”. Con picchi negativi. L’autostrada del Brennero (314 chilometri) è ad esempio al 54,47%, la Brescia-Padova (235,6 chilometri) al 51,39%, SAT (Società Autostrada Tirrenica) è ferma al 12,50%. Non va meglio per i 127 chilometri dell’A4 Torino-Milano in capo a SATAP (quasi interamente della holding SIAS Spa del Gruppo Gavio), al 63,41% degli investimenti programmati. E se Autostrade per l’Italia risulta al 98,11% del previsto, la “Autocamionale della Cisa Spa” è ferma al 33,01%.
Investimenti a parte, l’attenzione della Commissione europea in materia di concorrenza resta alta. Nella relazione di 642 pagine del ministero c’è un capitolo “diplomatico” intitolato “Rapporto con la Commissione europea”. Il primo paragrafo riguarda la “Società Autostrada Tirrenica Spa” (la A12 “Livorno-San Pietro in Palazzi” e la “Civitavecchia-Tarquinia”), per il 99,93% di proprietà di Autostrade per l’Italia. La Commissione contesta una “presunta incompatibilità con le norme europee sugli appalti pubblici e sulle concessioni”. Motivo? La proroga della concessione: dal 2028 al 31 dicembre 2046. Mentre il dicastero di Graziano Delrio scrive “presunta” prima di “incompatibilità”, il 17 maggio di quest’anno Bruxelles ha “deciso di deferire l’Italia alla Corte di giustizia dell’Unione europea per violazione del diritto dell’Unione”.
La A35 “Brebemi” è citata poco nel report. Come detto, non fa riferimento alle Infrastrutture ma a “CAL Spa”, società “concedente” di Anas e Regione Lombardia. La concessionaria invece è la Società di progetto Brebemi Spa, che ha chiuso il bilancio 2016 con una perdita di quasi 50 milioni su un fatturato di 57 e alla voce “patrimonio netto” si ritrova con il segno “meno” davanti a 140 milioni di euro. Nell’aprile 2016, spiega la relazione, “la Commissione europea ha richiesto informazioni in merito alla concessione di un presunto aiuto di Stato”. Brebemi Spa nel suo ultimo bilancio di esercizio continua però a definirlo “contributo pubblico in conto impianti”: 320 milioni di euro da erogarsi tra il 2016 ed il 2029. Un mano pubblica per la “presunta” prima autostrada completamente autofinanziata.

giovedì 14 settembre 2017

Il bluff del "calo della disoccupazione" in Italia

Cala la disoccupazione secondo l'Istat e naturalmente il governo festeggia, anche se la stragrande maggioranza delle nuove assunzioni sono a termine e part time.

È bene sempre ricordare come, a causa del jobsact, anche le pochissime assunzioni a tempo indeterminato siano in realtà precarie. Perché i lavoratori non hanno la tutela dell'Articolo 18 e quindi possono essere licenziati in qualsiasi momento. Perché allora le assunzioni sono quasi tutti a scadenza prefissata? Perché molte imprese non credono alla durata della ripresa alla quale inneggia Renzi. E infatti tutte le previsioni economiche segnalano un rallentamento di essa già l'anno prossimo. E soprattutto i nuovi posti di lavoro sono in gran parte poveri e dequalificati.


In questi giorni si registra il fallimento annunciato delle Acciaierie di Piombino, svendute dal governo ad un imprenditore fantasma che si è rapidamente dileguato. Ecco, lì si stanno cancellando migliaia di posti di lavoro qualificati a tempo e salario pieno. Lo stesso avviene in Alitalia, ad Almaviva, in tutte le grandi aziende le cui crisi non si risolvono mai. Sono 166 per 200000 dipendenti le crisi insolute parcheggiate al Ministero dello Sviluppo ( si fa per dire) Economico. Poi c'è la distruzione della ricerca - oggi sono stai lasciati a casa 22 precari dell'ISPRA - i tagli alla scuola ed al lavoro pubblico, lo smantellamento dei servizi sociali.

I liberisti al governo, cioè il PD, spiegano che tutto questo è inevitabile perché il mondo cambia, finiscono i vecchi lavori e ne nascono dei nuovi. Peccato però che tutti i lavori che finiscono siano quelli di 40 ore settimanali , pagate secondo i contratti. Mentre gran parte dei nuovi impieghi sono fondati su un numero molto inferiore di ore, pagate pochi euro l'una. Qui sta il grande imbroglio: i nuovi lavori non sono altro che i vecchi lavori poveri riorganizzati, facchinaggio, pulizie, servizi privati. Saltano i posti da 1500 euro al mese e dilagano quelli da 600. Per questo mentre formalmente aumenta l'occupazione, cresce anche l'emigrazione, interna e verso l'estero, soprattutto di persone qualificate. E l'incremento dell'occupazione femminile non supera la disparità salariale e di qualifiche con gli uomini, ma al contrario l'aggrava con il supersfruttamento dei lavori sottopagati.

In conclusione i dati sulla occupazione non sono affatto il segno di un superamento della crisi sociale, ma anzi per certi versi significano un suo aggravamento. È il modello americano, che nasconde la disoccupazione di massa con milioni di poveri che lavorano, senza minimamente migliorare la loro condizione. lo stesso accade da noi, dove contemporaneamente aumentano gli occupati e coloro che vengono dichiarati ufficialmente poveri. Se l'Istat riproporzionasse gli occupati alle ore effettivamente lavorate ed al salario percepito, i 23 milioni diventerebbero molti meno. Ma come si sa, oggi basta un'ora di lavoro a settimana per essere considerati ufficialmente occupati, nella voce part time.

Il lavoro degrada verso la schiavitù e i governanti vantano il successo. Come l'altoparlante dei supermercati che annunzia l'offerta di due prodotti al prezzo di uno.

mercoledì 13 settembre 2017

Dell’austerity e di altri falsi miti

Alla luce del fallimento delle politiche attuate da quasi un decennio, occorrerebbe una radicale correzione di rotta. Nella direzione dell’utilizzo dello spazio fiscale disponibile per maggiori investimenti pubblici che facciano crescere, contestualmente, la domanda interna e la produttività del lavoro
Il combinato di politiche di austerità (ridenominate misure di “consolidamento fiscale”) e precarizzazione del lavoro, secondo la Commissione europea e i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni, dovrebbe garantire la ripresa della crescita economica attraverso l’aumento delle esportazioni. Il consolidamento fiscale viene perseguito con l’obiettivo dichiarato di ridurre il rapporto debito pubblico/Pil, mentre la precarizzazione del lavoro viene attuata con l’obiettivo dichiarato di accrescere l’occupazione. Le due misure – ci si aspetta – dovrebbero inoltre migliorare il saldo delle partite correnti, mediante maggiore competitività delle esportazioni italiane.
Si ipotizza, cioè, che la moderazione salariale, derivante da minore spesa pubblica e maggiore precarietà del lavoro, riducendo i costi di produzione, ponga le imprese italiane nella condizione di essere più competitive (ovvero di poter vendere a prezzi più bassi) nei mercati internazionali. Anche le misure di defiscalizzazione rientrano in questa logica, dal momento che ci si attende che minori tasse sui profitti implichino minori costi per le imprese e, dunque, maggiore competitività nei mercati internazionali.
Si tratta di un’impostazione che si è rivelata del tutto fallimentare e che, a meno di non pensare che dia i suoi risultati nel lunghissimo periodo, andrebbe completamente ribaltata. Le basi teoriche sulle quali poggiano queste politiche sono estremamente fragili, per i seguenti motivi.
1) Le politiche di austerità, soprattutto se attuate in fasi recessive, determinano un aumento, non una riduzione, del rapporto debito pubblico/Pil, che è infatti costantemente aumentato (dal 120% del 2010 al 133% del 2016). Ciò a ragione del fatto che la riduzione della spesa pubblica riduce il tasso di crescita, riducendo il denominatore di quel rapporto più di quanto ne riduca il numeratore. Questo effetto è tanto maggiore quanto maggiore è il valore del moltiplicatore fiscale, stimato, dal Fondo Monetario Internazionale, a 1.5. In tal senso, il consolidamento fiscale è prima ancora che un errore di politica economica un errore tecnico, basato su una stima sbagliata degli effetti moltiplicativi di variazioni della spesa pubblica
2) Le politiche di precarizzazione del lavoro non accrescono l’occupazione, anzi tendono a generare aumenti del tasso di disoccupazione. Ciò fondamentalmente per due ragioni. In primo luogo, la precarizzazione del lavoro accrescere l’incertezza dei lavoratori in ordine al rinnovo del contratto e, dunque, incentiva risparmi precauzionali deprimendo consumi e domanda interna. In secondo luogo, la precarizzazione del lavoro, in quanto consente alla imprese di recuperare competitività attraverso misure di moderazione salariale, disincentiva le innovazioni, dunque il tasso di crescita della produttività del lavoro e, per conseguenza, dell’occupazione.
3) La detassazione degli utili d’impresa non ha effetti significativi sugli investimenti, dal momento che questi dipendono fondamentalmente dalle aspettative imprenditoriali, le quali, a loro volta, sono fortemente condizionate dalle aspettative di crescita (e dunque, da ciò che ci si attende di poter vendere). Manovre fiscali restrittive, comprimendo i mercati di sbocco interni (quelli rilevanti per la gran parte delle imprese italiane), possono semmai peggiorare le aspettative e, dunque, generare riduzione degli investimenti. Peraltro, la detassazione degli utili d’impresa – in una condizione nella quale occorre generare avanzi primari – implica aumenti di tassazione sui redditi dei lavoratori, ovvero sui redditi di quei soggetti che esprimono la più alta propensione al consumo. Anche per questa ragione, detassare le imprese significa ridurne i mercati di sbocco, almeno quelli interni, con conseguente riduzione dei profitti e aumento delle insolvenze. Il problema si pone soprattutto per la riproposizione di queste misure nel tentativo di attrarre investimenti nel Mezzogiorno, attraverso la recente istituzione delle “zone economiche speciali”. Come rilevato da Gianfranco Viesti, il tentativo di stimolare gli investimenti nel Mezzogiorno attraverso misure di incentivazione non tiene conto della modesta dinamica della domanda interna (le imprese investono se si attendono di poter vendere e ottenere ragionevoli margini di profitto; cosa che non accade se la domanda è bassa e in riduzione), della presenza di criminalità, del deficit di infrastrutture.
4) La moderazione salariale non accresce le esportazioni. L’ultimo Rapporto ISTAT certifica che il saldo delle partite correnti italiano è migliorato solo perché si sono ridotte le importazioni, a seguito della caduta della domanda interna, e che l’economia italiana è, ad oggi, una delle meno internazionalizzate fra le economie europee. Si registra anche che nonostante un seppur leggero aumento dei margini di profitto delle nostre imprese a partire dal 2014, gli investimenti privati continuano a essere in costante riduzione.
Si tratta, peraltro, di politiche attuate ormai da quasi un decennio, sempre con risultati fallimentari. Il fondamentale errore degli ultimi Governi sta appunto nell’aver usato le (poche) risorse disponibili nel peggiore dei modi possibili: decontribuzioni alle imprese e trasferimenti monetari alle famiglie (si pensi alla misura degli 80 euro del Governo Renzi). Misure che non impattano né sugli investimenti privati né sui consumi. Ma che, verosimilmente, e in una logica di brevissimo periodo, accrescono il consenso, salvo poi tornare al punto di partenza ma con meno risorse.
Occorrerebbe, per contro, una radicale correzione di rotta, nella direzione auspicabile dell’utilizzo dello spazio fiscale disponibile per maggiori investimenti pubblici che facciano crescere, contestualmente, la domanda interna e la produttività del lavoro. Le risorse necessarie andrebbero reperite attraverso una più equa ripartizione del carico fiscale, ribaltando la logica fin qui seguita di detassazione dei redditi più elevati. Ripristinare maggiore progressività delle imposte (ovvero innalzare le aliquote fiscali sui redditi più alti, soprattutto se derivanti da rendite finanziarie o immobiliari), oltre a rispondere a un elementare criterio di equità, è una pre-condizione per accrescere le entrate.
Nelle condizioni istituzionali date, dovendo cioè rispettare i Trattati europei, è questa la sola strada percorribile per riprendere un sentiero di crescita. Una strada che peraltro molti autorevoli economisti in più sedi, e da anni, inascoltati sollecitano.

martedì 12 settembre 2017

La Cina “scopre” la Sardegna: tour operator cinesi in visita nel sud dell’isola

La Sardegna e la Cina sono ancora più vicine. Il viaggio del presidente Xi Jinping dello scorso mese di novembre ha fatto da apripista. In questi giorni, su iniziativa della Regione e grazie alla collaborazione di UnionCamere Sardegna, 16 tour operator e agenti di viaggio cinesi, prevalentemente del segmento del lusso, visiteranno il sud dell’isola per un educational tour che ripercorre, ampliandolo, l’itinerario seguito dalla delegazione presidenziale.
A fare le presentazioni della destinazione Sardegna agli operatori asiatici, sono stati l’assessore al Turismo Barbara Argiolas e il presidente regionale di UnionCamere, Agostino Cicalò.
“È un momento importante, dichiara Argiolas, perché ci presentiamo a un mercato grande e complesso come quello cinese e abbiamo bisogno di confrontarci con agenzie e tour operator per conoscere meglio il turista cinese e creare le condizioni per ospitarlo al meglio”.
“La Cina, aggiunge l’assessore al Turismo, è un mercato di grande interesse, praticamente ancora inesplorato: la visita del presidente Xi Jinping ha suscitato grande curiosità verso la nostra isola e questo educational ci aiuterà a capire anche come possiamo diventare una destinazione di appeal per i viaggiatori cinesi”.
Il più grande mercato dell’Asia alletta molto UNIONCAMERE, la cui scommessa di puntare sui mercati esteri, si sta rivelando vincente.
“I mercati stranieri, dice Agostino Cicalò, sono quelli che ci stanno dando maggiori soddisfazioni e l’avvio dei contatti con la Cina è molto importante trattandosi di un mercato dai grandi numeri. Questa è la strada da percorrere, visti i risultati di quest’anno e degli anni precedenti e puntiamo a vedere i primi risultati già nei prossimi mesi”.
Strategico è il settore turistico. Tra le preferenze dei viaggiatori cinesi, spiega Argiolas, “l’Europa è in crescita e gli esperti ritengono che l’area mediterranea sarà la meta di tendenza del prossimo anno. I numeri della Sardegna finora sono stati modesti ma con un forte trend positivo che dobbiamo valorizzare, tanto più che il 2018 sarà l’Anno del turismo Europa-Cina: nel 2016 abbiamo avuto 20.512 presenze dalla Repubblica popolare cinese, molto più del doppio rispetto alle 9.300 del 2015, con una permanenza media di sei giorni e mezzo. È ancora poco ma la visita del presidente cinese può essere per noi un importante elemento di attrazione”.
La delegazione di tour operator e agenzie di viaggio cinesi è composta dai rappresentanti di 12 aziende che operano nei più importanti segmenti: dal luxury al lifestyle, dal MICE (Meetings, Incentives, Conventions e Exhibitions) al wedding, dal business ai viaggi personalizzati più una rappresentanza della stampa specializzata.
Nei quattro giorni in terra sarda, la delegazione visiterà le rovine di Nora, proposta sia come destinazione di interesse culturale ma anche come location per matrimoni (le Terme antiche). Poi visite alla città di Cagliari e alle sue attrazioni: tra le altre, il Museo archeologico e il Museo etnografico della Cittadella dove, grazie alla presenza di alcuni gruppi in abito tradizionale, i partecipanti all’educational ammireranno la straordinaria fattura dei vestiti e dei gioielli della tradizione. Nel tour saranno comprese anche escursioni in altre località del sud dell’isola, come il villaggio nuragico di Barumini, e alcuni incontri alla scoperta delle specialità enogastronomiche.
“La grande crescita economica della Cina negli ultimi dieci anni,  dice ancora Barbara Argiolas, ha creato una fascia di turisti che, secondo le valutazioni degli esperti, sono tra quelli che spendono di più al mondo, viaggiano sempre più spesso all’estero e, negli ultimi tempi, oltre a monumenti e shopping, vanno alla ricerca di esperienze di vita locali. L’elemento più interessante riguarda la composizione anagrafica: i cinesi che viaggiano sono o giovani, nati negli anni Novanta, oppure persone over 55 con la famiglia al seguito”.
L’educational con tour operator e agenzie di viaggio rientra nella strategia del governo regionale di intensificazione dei rapporti tra la Sardegna e la Repubblica popolare cinese, che, tra le altre cose, ha anche portato all’insediamento di un centro di ricerca del gigante tecnologico Huawei nel polo tecnologico del CRS4 a Pula.

lunedì 11 settembre 2017

Come disuguaglianza e demografia stanno cambiando i consumi italiani

L’appena pubblicato Rapporto 2017 rappresenta una vera e propria miniera di dati, utilissima per fare il punto sull’evoluzione dell’Italia attraverso lo specchio dei suoi consumi (e non solo). La fotografia scattata dall’Ufficio studi di Coop è quella di un Paese che, dopo dieci anni di crisi, si scopre stanco di essere infelice e cerca la sua via di fuga in un rinnovato carrello della spesa.
Non che gli italiani abbiano d’improvviso serenità d’animo. Dal 2008 al 2017 la soddisfazione per la propria vita – in una scala da 0 a 10 – è anzi crollata in media da 7,2 a 5,3, un punteggio sotto la sufficienza e più basso rispetto a quelli registrati in Francia, Spagna, Germania o Regno Unito; a salire sono state in compenso insicurezza e paure, legate sì alle condizioni economiche (in dieci anni i poveri assoluti sono raddoppiati a 4,6 milioni di individui, con il 28,7% della popolazione a rischio povertà o esclusione sociale), ma sempre più anche a inquinamento (+53% delle ricerche su Google dal 2012) e immigrati (+107%), che hanno probabilmente aumentato la propensione degli italiani ai consumi di antidepressivi (+18% in dieci anni, con picchi in Liguria e Toscana).
È in questo scenario che si inseriscono i dati della mini-ripresa in corso: «Il Pil fa registrare un +1,5% nel 2017 e un +1,2% atteso nel 2018  considerato tutto sommato un risultato incoraggiante seppur lontano dal 2,1% dell’area euro, e i consumi continuano il loro trend positivo (l’anno in corso si chiuderà con un + 1,2%) a patto però di una diminuzione del tasso di risparmio e del nuovo incremento dei prestiti». La felicità, in comode rate.
In quest’Italia alla ricerca di una nuova identità non cambia però solo la quantità ma anche la qualità dei consumi. Il Rapporto Coop 2017 ci descrive come «ossessionati dalla salute e dalla rincorsa al benessere», diretti verso «nuove forme più soft di spiritualità nella vita quotidiana (buddismo, yoga, vegan)» e, «a partire dai più ricchi», sempre «meno interessati al consumo ostentato e ipertrofico» ma interessati a «investimenti oculati e fruizione di nuove esperienze».
In primis i viaggi, dunque: pur di partire «il 76% degli italiani farebbe economia su pranzi e cene al ristorante, il 74% sulle pratiche sportive, il 68% sull’abbigliamento», mentre il 33% circa si dichiara pronto ai consumi alimentari. Consumi che nel mentre sono sempre più biologici (una passione per il 40% dei consumatori, primi in Europa) e “prodotti senza”, che si tratti di lattosio, glutine, olio di palma o zuccheri aggiunti.
Come questa (ri)composizione dei consumi nazionali si rifletta sull’altra faccia della medaglia, ovvero quella dei rifiuti prodotti, è ancora presto per dirlo; l’Ispra da una parte certifica un modesto calo dei rifiuti urbani (-0,4%) e dall’altra sottolinea un ben più robusto incremento dei rifiuti speciali (+2,4%), ma gli ultimi dati disponibili si fermano al 2015.
Per provare a districarsi in questa fase di profonda incertezza è più utile fermare lo sguardo sull’orizzonte. In questo caso, a emergere dal Rapporto Coop sono due dinamiche profonde, già in atto e che si intrecciano profondamente tra loro: quelle relative alla disuguaglianza, e quelle demografiche.
Oggi le famiglie italiane dichiarano in media un reddito netto da 30.500 euro/anno insieme a una ricchezza netta da 218mila euro (con il 35,4% della popolazione maggiorenne indebitata); numeri che pesano però in modo assai squilibrato nelle tasche degli italiani, tanto che secondo il Rapporto Coop «il vero tema resto quello delle disuguaglianze». L’1% delle famiglie possiede già un quinto di tutta la ricchezza (una dimensione che, senza interventi, crescerà ancora nei prossimi cinque anni), mentre «l’indice di Gini, che sintetizza l’entità delle disuguaglianze, colloca l’Italia tra i Paesi con i maggiori divari». Una frattura che sta divenendo sempre più di tipo generazionale.
Nelle famiglie dove la persona di riferimento è un millennials il reddito è del 30% inferiore (-11mila euro l’anno) rispetto a quelle dove il capofamiglia ha dai 55 ai 64 anni, e le cose vanno ancora peggio passando dal reddito alla ricchezza: in media, quella in disponibilità delle famiglie giovani ammonta ad appena 18mila euro, contro i 180mila euro (dieci volte tanto) di patrimonio presenti in quelle più anziane.
Non è un caso dunque che i dati più recenti mostrino «come l’età di uscita dal nucleo di origine sia salita attorno ai 30 anni nel nostro Paese», con un «rovesciamento degli schemi tradizionali: la lunga recessione, colpendo in misura più accentuata i nuovi entranti nel mercato del lavoro, ha prodotto un congelamento delle scelte di emancipazione e di formazione di una nuova famiglia».
Anche per questo l’Italia sta diventando un Paese sempre più anziano. Entro il 2065 «uomini e donne arriveranno a vivere rispettivamente sino a 86,1 anni e fino a 90,2 anni, circa 6 anni in più in confronto ad oggi», ma l’Italia sarà sempre più vuota, nonostante un’immigrazione della quale abbiamo incomprensibilmente paura a prescindere. «La popolazione residente è attesa decrescere dai 60,7 milioni di abitanti attuali a 58,6 milioni entro il 2045 per poi ripiegare ulteriormente sino ai 53,7 milioni del 2065, con una perdita complessiva di 7 milioni di persone (-11,5% rispetto ai valori odierni)», tornando così alla popolazione italiana presente agli inizi degli anni Settanta.
«L’impatto sulla domanda interna sarebbe ingente – evidenzia il Rapporto Coop – Un monte atteso di minori consumi pari a 130 miliardi di euro ai prezzi attuali (-12,7%), l’equivalente della spesa annuale dell’intero Paese per alberghi e ristoranti e poco meno di tutti i consumi alimentari. Un cambiamento al quale non sarà facile prepararsi».
L’unica risposta sensata per coniugare la sostenibilità ambientale (verso la quale forse ci sta già conducendo la demografia, tagliando in modo robusto i consumi italiani) con quella sociale ed economica appare quella dell’adozione «di un vero e proprio “Piano Marshall” sociale» adesso, prima che sia tardi, dando respiro alle giovani generazioni e dunque una prospettiva al Paese. Già oggi i millennials mostrano un’elevata propensione a cambiare i propri consumi per tutelare l’ambiente, ma senza le risorse per poterlo fare il cambiamento rimarrà solo un’amara illusione, per tutti.

venerdì 8 settembre 2017

Indagine-choc: fibre di plastica nell’acqua del rubinetto

Quanta plastica beviamo? Molte ricerche ormai mostrano la presenza di fibre plastiche, praticamente ovunque: negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria. E oggi uno studio americano prova l’esistenza di una contaminazione da plastica persino nell’acqua corrente domestica, spiegano Dan Morrison e Chris Tyree in un report su “Repubblica”. «Dai rubinetti di casa di tutto il mondo, da New York a Nuova Delhi, sgorgano fibre di plastica microscopiche», secondo una ricerca originale di “Orb Media”, un sito di informazione no-profit di Washington. Insieme ai ricercatori dell’università statale di New York e dell’università del Minnesota, “Orb Media” ha testato 159 campioni di acqua potabile di città grandi e piccole nei cinque continenti. L’83% dei campioni contiene microscopiche fibre di plastica: compresa l’acqua che esce dai rubinetti del Congresso degli Stati Uniti. E se la plastica è nell’acqua di rubinetto, probabilmente sarà presente anche nei cibi preparati con l’acqua, come pane, pasta, zuppe e latte artificiale. «È una notizia che dovrebbe scuoterci», dice Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace 2006. «Sapevamo che questa plastica tornava da noi attraverso la catena alimentare. Ora scopriamo che torna da noi attraverso l’acqua potabile. Abbiamo una via d’uscita?».
Yunus, il fondatore della banca di microcredito Grameen Bank, progetta di lanciare un’iniziativa contro lo spreco di plastica nei prossimi mesi. Ricerche sempre più numerose, aggiungono Morrison e Tyree, dimostrano la presenza di microscopiche fibre di plastica negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria: «Questo studio è il primo a provare l’esistenza di una contaminazione da plastica nell’acqua corrente di tutto il mondo». Attenzione: «Gli scienziati non sanno in che modo le fibre di plastica arrivino nell’acqua di rubinetto, o quali possano essere le implicazioni per la salute. Qualcuno sospetta che possano venire dai vestiti sintetici, come gli indumenti sportivi, o dai tessuti usati per tappeti e tappezzeria. Il timore è che queste fibre possano veicolare sostanze chimiche tossiche, come una sorta di navetta che trasporta sostanze pericolose dall’acqua dolce al corpo umano». Negli studi su animali, «era diventato chiaro molto presto che la plastica avrebbe rilasciato queste sostanze chimiche, e che le condizioni dell’apparato digerente avrebbero facilitato un rilascio piuttosto rapido», racconta Richard Thompson, direttore della ricerca all’università di Plymouth, Gran Bretagna.
Dalle osservazioni sulla fauna selvatica e l’impatto che sta avendo questa cosa abbiamo dati a sufficienza per essere preoccupati, aggiunge Sherri Mason, una delle pioniere della ricerca sulla microplastica, che ha supervisionato lo studio della “Orb Media”: «Se sta avendo un impatto sulla fauna selvatica, come possiamo pensare che non avrà un impatto su di noi?». La contaminazione, scrive “Repubblica”, sfida le barriere geografiche e di reddito: il numero di fibre trovate nel campione di acqua di rubinetto prelevato nei bagni del Trump Grill, il ristorante della Trump Tower a New York, è uguale a quello dei campioni prelevati a Quito, la capitale dell’Ecuador. “Orb Media” ha rilevato fibre di plastica persino nell’acqua in bottiglia, e nelle case in cui si usano filtri per l’osmosi inversa. Le autorità sono spiazzate: gli Usa non hanno nemmeno inserito le particelle di plastica nella lista delle possibili sostanze contaminanti rintracciabili nell’acqua di rubinetto. Dei 33 campioni d’acqua prelevati in varie città degli Stati Uniti, il 94% è risultato positivo alla presenza di fibre di plastica. E’ la stessa media dei campioni raccolti a Beirut, Libano. Fra le altre città monitorate figurano Delhi (India, 82%), Kampala (Uganda, 81%), Giacarta (Indonesia, 76%), nonché Quito (Ecuador, 75%) e varie città europee (72%).
La ricerca, precisa “Repubblica”, è stata progettata dal dipartimento di geologia e scienza ambientale dell’università statale di New York, e i test sono stati eseguiti dalla ricercatrice Mary Kosuth, della scuola di salute pubblica dell’università del Minnesota. «E’ la prima indagine a livello globale sull’inquinamento da plastica nell’acqua di rubinetto», afferma la Kosuth. I risultati rappresentano «un primo sguardo sulle conseguenze dell’uso e dello smaltimento della plastica». I campioni sono stati raccolti da scienziati, giornalisti e volontari addestrati, seguendo i protocolli stabiliti. «Questa ricerca si limita a scalfire la superficie, ma ha l’aria di essere una questione molto seria», ammette Hussan Hawwa, amministratore delegato della società di consulenze ambientali Difaf, che si è occupata della raccolta dei campioni in Libano. «La ricerca sulle conseguenze per la salute umana è appena agli inizi», dice Lincoln Fok, studioso dell’ambiente presso l’Education University di Hong Kong. In ogni caso, la ricerca «solleva più interrogativi di quelli che risolve», secondo Albert Appleton, già commissario alle acque del Comune di New York. «C’è un bioaccumulo? Influisce sulla formazione delle cellule? È un vettore per la trasmissione di agenti patogeni nocivi? Se si scompone, che cosa produce?».
Il mondo, riassume “Repubblica”, sforna ogni anno 300 milioni di tonnellate di plastica. Oltre il 40% di questa massa «viene usato una volta soltanto, a volte per meno di un minuto, e poi buttato via». Ma la plastica «rimane nell’ambiente per secoli». Secondo un recente studio, dagli anni ‘50 a oggi sono stati prodotti in tutto il mondo oltre 8,3 miliardi di tonnellate di plastica. Sono migliaia di miliardi le scorie plastiche disseminate sulla superficie dell’oceano: fibre di plastica sono state ritrovate «dentro i pesci venduti nei mercati, nel Sudest asiatico, nell’Africa orientale e in California». E la plastica dal rubinetto di casa? «È una cosa brutta: si sentono così tante cose sul cancro», ha detto Mercedes Noroña, 61 anni, dopo essere stata informata che un campione di acqua prelevato dal suo rubinetto di casa, a Quito, conteneva fibre di plastica. «Forse esagero, ma ho paura delle cose che ci beviamo con l’acqua». Non è sola, nella sua inquietudine: un recente sondaggio Gallup svela che il 63% degli americani è «fortemente preoccupato» per l’inquinamento dell’acqua potabile.
Tra le fonti inquinanti, aggiungono Dan Morrison e Chris Tyree, c’è anche l’abbigliamento: gli indumenti sintetici emettono fino a 700.0006 fibre a lavaggio, ma gli impianti di depurazione delle acque ne intercettano solo la metà (il resto finisce nei corsi d’acqua, per un totale di 29 tonnellate di microfibre di plastica al giorno, secondo l’università di Plymouth). E poi l’aria: uno studio del 2015 calcolava che a Parigi, ogni anno, si depositano sulla superficie fra le 3 e le 10 tonnellate di fibre sintetiche. Laghi e fiumi possono essere contaminati da deposizioni atmosferiche cumulative, afferma Johnny Gasperi, professore dell’università di Parigi-Est Créteil: «Nelle ricadute atmosferiche è presente un’enorme quantità di fibre». Questo, osserva “Repubblica”, potrebbe spiegare perché si trovano fibre di plastica anche in sorgenti idriche sperdute, in tutto il mondo. Ma la “Orb” ha trovato fibre di plastica anche in acque di rubinetto provenienti da falde sotterranee. Tante le incognite: quanto è grande il pericolo se le fibre di plastica assorbono “perturbatori endocrini” che alterano i nostri sistemi ormonali? «Non abbiamo mai veramente preso in considerazione questo rischio prima», ammette Tamara Galloway, ecotossicologa all’università di Exeter.
Le città stanno appena cominciando a fare i conti con l’inquinamento da fibre di plastica e con il ruolo che giocano in tutto questo le lavatrici di casa, continua il report su “Repubblica”. Rallentare il processo di trattamento delle acque reflue consentirebbe di intercettare una maggior quantità di fibre di plastica, dice Kartik Chandran, ingegnere ambientale della Columbia University. Ma potrebbe anche accrescere i costi. «I grandi marchi dell’abbigliamento dicono che stanno lavorando per migliorare i loro tessuti sintetici in modo da ridurre l’inquinamento da fibre. E sta venendo fuori tutta una serie di filtri, di prodotti da inserire nel cestello della lavatrice durante il lavaggio e di altri prodotti per ridurre le emissioni di fibre durante i lavaggi. Test indipendenti mostreranno quale di questi metodi è più efficace». Sherri Mason, la prima ricercatrice a scoprire la forte presenza di inquinamento da microplastica nella regione americana dei Grandi Laghi, si dice «sconvolta» dai risultati dei test sull’acqua potabile: «La gente mi chiedeva sempre: “Ma queste cose ci sono anche nell’acqua che beviamo?”. Io rispondevo sempre che non lo sapevo». Ora invece, purtroppo, lo sa.

giovedì 7 settembre 2017

Quel tabù che fa paura alla finanza

Parlare di annullamento del debito oggi significa affrontare quello che, con l’avvento della dottrina liberista, è diventato un vero e proprio tabù. Secondo la narrazione dominante, infatti, un mancato pagamento è qualcosa di eccezionale che bisogna evitare ad ogni costo. Peccato che la storia si incarichi di dimostrare l’esatto contrario. La prima proclamazione di annullamento del debito di cui si ha riscontro risale all’anno 2400 a.C. nella città di Lagash (Sumer), mentre il regno di Hammurabi, re di Babilonia (1792-1750) fu contrassegnato da quattro annullamenti generali dei debiti dei cittadini con i poteri pubblici. In totale, gli storici hanno identificato con precisione una trentina di annullamenti generali del debito in Mesopotamia tra il 2400 e il 1400 a. C..
Venendo a tempi più recenti, nel periodo 1800-1945 si contano 127 cessazioni del pagamento, mentre negli ultimi sessanta anni (1946-2008) si sono avuti non meno di 169 sospensioni del pagamento di debiti sovrani, della durata media di tre anni. Per fare solo alcuni esempi, dalla propria indipendenza fino al 2006 l’Argentina ha dichiarato 7 cessazioni del pagamento, il Brasile nove ed il Messico otto; in Europa, la Spagna ha dichiarato una cessazione del pagamento 13 volte, mentre la Germania e la Francia 8 volte ciascuno.
Ma che significa annullare un debito? Significa dare il via ad un processo di indagine (audit) indipendente sul debito pubblico per verificare nel dettaglio come, da chi e con chi è stato contratto, per quali obiettivi ed interessi e con quali conseguenze per le condizioni di vita degli abitanti di un territorio.

mercoledì 6 settembre 2017

La libertà di stampa vale soltanto quando i giornalisti non sono russi

Quando c’è la Russia di Vladimir Putin di mezzo spesso dall’Europa si fa fatica ad essere imparziali . É scattato infatti da parte delle istituzioni e i principali media dell’Europa occidentale un meccanismo di “due pesi e due misure” nel giudicare fatti che coinvolgono Mosca. Ecco un recentissimo esempio.

La “scomparsa” della giornalista russa in Ucraina

Si ha notizia certa che una giornalista di nazionalità russa, Anna Kurbatova, sia stata espulsa dall’Ucraina, Paese dove esercitava legittimamente il proprio mestiere. Lo scorso 31 agosto l’emittente russa Pervyj Kanal, per la quale la giornalista lavorava, annunciava la sparizione della propria collaboratrice/dipendente in territorio ucraino. La giornalista russa in realtà non era sparita, ma era stata “prelevata” dai servizi di sicurezza ucraini, come confermato poco dopo da Elena Gitlyanskaya, proprio la portavoce degli “007” di Kiev.
 stessa portavoce ribadiva tuttavia che la procedura di fermo si era svolta nel pieno rispetto della legalità e che la giornalista sarebbe stata da lì a poco espulsa dal Paese perché sorpresa a svolgere attività che “ledono gli interessi nazionali ucraini”. Un episodio che va di pari passo con il divieto imposto dall’Estonia alla partecipazione di giornalisti russi dell’emittente Rossiya Segodnya al summit tra i Ministri degli Esteri dell’Ue in programma a Tallin. In questo caso il rifiuto estone non è stato nemmeno accompagnato da una spiegazione. Ora più che sprecare parole per l’evidente unilateralità di provvedimenti liberticidi, è più interessante osservare il meccanismo di “due pesi e due misure” prima citato.

Il silenzio di media e istituzioni sull’accaduto

Vi è stato infatti un imbarazzante silenzio mediatico nell’Europa occidentale circa l’azione repressiva del Governo di Kiev e quello estone. Tra i principali media nostrani solo Il Giornale si è prodigato nel riportare la notizia della Kurbatova, mentre a livello europeo e internazionale è stata solo la Reuters a spenderci qualche parola. Sul divieto dell’Estonia ne ha parlato solo la sezione italiana di Sputnik News.
A livello istituzionale il silenzio si è fatto ancora più assordante. Non una parola è ancora arrivata dai vertici di Bruxelles. Un silenzio molto sospetto, sopratutto se consideriamo la reazione immediata e veemente che gli stessi funzionari Ue riservarono a Mosca dopo l’arresto di Alexei Navalny.

Quando l’Ue difendeva Navalny

Quando, infatti, lo scorso marzo 2017 il noto attivista anti Putin, Navalny, venne arrestato per aver organizzato una manifestazione non autorizzata a Mosca, un portavoce dell’Unione europea così dichiarava: “Le operazioni di polizia nella Federazione Russa, che hanno tentato di disperdere i manifestanti e hanno arrestato centinaia di cittadini, tra i quali il leader dell’opposizione, Alexei Navalny, hanno impedito di esercitare le loro libertà fondamentali, tra i quali la libertà di espressione, associazione e riunione pacifica, che sono iscritte nella Costituzione russa”.
Sorvolando sull’errore, marchiano, di identificare Navalny come “leader dell’opposizione”, quando in realtà non lo è affatto, osserviamo l’attenzione e l’enfasi posta dal portavoce Ue su temi quali “libertà d’espressione”. La stessa che è stata recentemente negata ad Anna Kurbatova e ai giornalisti di Rossiya Segodnya, nell’indifferenza proprio dell’Unione europea.
L’amnesia di Bruxelles non è passata però inosservata. La Federazione Europea dei Giornalisti ha infatti deciso di segnalare l’accaduto al Consiglio d’Europa (organo non facente parte dell’Ue) attraverso la sua piattaforma web. La speranza è che tale organo, fuori dai meri interessi politici di una Bruxelles più russofoba che mai, possa prendersi a carico la questione ed esercitare una pressione politica affinché venga rispettata la libertà di lavoro per qualsiasi giornalista, a prescindere dalla nazione d’appartenenza.

martedì 5 settembre 2017

Sette giorni di sconfitte per Washington e il vecchio ordine mondiale

Sette giorni di sconfitte per Washington e il vecchio ordine mondiale
 

1. Cina e India in vista della riunione dei BRICS hanno messo fine alla disputa sul confine tra i due paesi nei pressi di Donglang Caochang. Un altro sogno dei policy maker americani, un conflitto tra le due nazioni, svanisce.

2. L'obbligo di inviare ulteriori truppe in Afghanistan dopo 16 anni di guerra, senza alcuna possibilità di cambiare il corso degli eventi. Una seconda dimostrazione palese, dopo l'Iraq, della inefficienza bellica americana nel controllare un paese dopo averlo bombardato ed invaso.

3. Il test nucleare Coreano ribadisce il deterrente nucleare di Pyongyang che impedisce aggressioni nordamericane in stile libico. Gli strateghi US sanno di non avere alcuna opzione militare e schiumano di rabbia.

4. La liberazione di Der Ezzur segna la fine simbolica del conflitto Siriano su grande scala e rappresenta l'inizio della fine per tutte le forme di terrorismo nel paese. Il tentativo maldestro e disumano di spezzare l'asse della resistenza è fallito e con esso le ambizioni americane israeliane britanniche e saudite di ridisegnare il Medio Oriente.
 5. La riunione dei BRICS riassume e amplifica tutti questi recenti eventi e capitalizza sulle debolezze di un occidente diviso. La presenza di paesi come il Messico manda un segnale inequivocabile sulle ambizioni dei 5 paesi BRICS di accelerare la transizione pacifica ad un ordine mondiale multipolare.
Mentre negli Stati Uniti prosegue una latente guerra civile, compresi assalti politici inediti alla presidenza, il resto del mondo si evolve tentando, con successo, di risolvere i numerosi conflitti lasciati in eredità da Washington.