venerdì 29 giugno 2018

La povertà cresce, la mistificazione molto di più

Innanzitutto i numeri sono inferiori alla realtà o sono costruiti in modo da far apparire meno grave la situazione.
Dal 2005 l’Istat suddivide i poveri in assoluti e relativi con due diverse classificazioni di reddito. Così oggi ci sono 5 milioni di poveri assoluti e tanti altri milioni di poveri relativi. Ma è una distinzione che serve solo ad attenuare l’impatto della catastrofe sociale che ha colpito il nostro paese. Tra l’altro i mass media hanno tutti diffuso la notizia che i 5 milioni di poveri assoluti sarebbero il numero più alto dal 2005, come se prima fossero stati di più. No naturalmente, il 2005 è solo l’anno di avvio della classificazione e allora i più poveri dei poveri erano solo 1,5 milioni. In tredici anni sono triplicati.
Eurostat, l’istituto europeo di statistica, usa piuttosto dei criteri sociali per contare i poveri, partendo da ciò di essenziale a cui essi debbono rinunciare. Sono considerati poveri i cittadini che, tra l’altro, hanno difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a riscaldare a sufficienza la casa, a pagare in tempo l’affitto e a comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi.
Sulla base di questi e altri criteri nel 2017 l’Italia risulta il paese europeo con più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni. Un numero enorme, quasi pari agli abitanti di tutta la Germania. Ma i vertici europei si fanno sulla finta emergenza migranti, che permette a tutti i governi di fare i feroci contro le decine di migliaia di poveri che vorrebbero venire sul continente, mentre nulla si fa per le decine di milioni che nella UE già ci stanno.
I poveri si contano e poi vengono cancellati dall’agenda politica. Essi sono lavoratori, pensionati, precari e disoccupati, donne e giovani. Sono la parte più sfruttata ed oppressa del mondo del lavoro, sono le prime vittime della lotta di classe dall’alto dei ricchi, che più i poveri aumentano, più vedono accrescere i propri patrimoni.
I 14 italiani più ricchi, Ferrero Del Vecchio, Berlusconi, Armani e gli altri, possiedono beni per un ammontare di 107 miliardi di dollari, come ciò che riescono a mettere assieme milioni di poveri. Il 5% più ricco del paese detiene il 40% della ricchezza nazionale, cioè 4000 miliardi.
I poveri aumentano perché i ricchi sono sempre più ricchi, perché la ricchezza si concentra sempre di più in alto e viene espropriata e rapinata in basso. La diseguaglianza sociale che dilaga senza freni nel nome del libero mercato è la causa dell’enorme incremento della povertà in Italia e in tutta Europa.
Le misure di austerità e di rigore di bilancio, le privatizzazioni, la flessibilità e la precarietà del lavoro, le politiche fiscali di agevolazioni alle imprese e di riduzione delle tasse ai ricchi, i Jobsact e le flat tax che dilagano in tutta Europa, impoveriscono sempre più persone ed arricchiscono sempre di più una piccola minoranza.
Se non si combatte la concentrazione della ricchezza non si può ridurre la povertà, ma tutti i governi europei, tecnocratici o populisti che siano, di fronte alla sola ipotesi di contrastare la diseguaglianza redistribuendo ricchezza si fermano atterriti. Anche chi ha preso i voti nel nome della lotta contro le élites, alla fine fa proprio l’imbroglio liberista secondo il quale per redistribuire ricchezza prima bisogna produrla. Cioè per dare soldi ai poveri, prima bisogna darne ai ricchi.
Per questo vertici europei per la lotta alla povertà non se ne sono mai fatti, mentre i governanti UE si riuniscono e si accapigliano sul modo migliore di fermare i barconi dei migranti. Contro i ricchi nulla si può, nulla si deve fare, questo è il primo articolo della costituzione reale della UE, perciò oggi una delle figure più rappresentative dell’europeismo è Matteo Salvini.

giovedì 28 giugno 2018

Pensioni più magre con i nuovi coefficienti biennio 2019-2020

L'aumento della speranza di vita non solo allontana la pensione, ma la rende più povera.

L'8 giugno 2018 è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il decreto del 15 maggio 2018 del ministero del Lavoro di concerto con quello dell'Economia, che ha disposto la revisione triennale dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo da applicare alla parte contributiva degli assegni che verranno liquidati nel 2019 e nel 2020.

I moltiplicatori sono più ridotti di quelli del triennio 2016-2018.

Come funzionano le regole di questo sistema

Il coefficiente trasforma in pensione il montante previdenziale accumulato dal lavoratore conveniente solo per chi si ritira dal lavoro con un'età maggiore.

Dall'anno prossimo, per esempio, il valore applicato a un 60enne sarà pari al 4,532%, mentre per un 67enne si sale al 5,604 per cento.

Questo significa che un montante di 100mila € genererà una quota di pensione contributiva pari a 348 € lordi mensili per il più giovane e 431 € per il più anziano.

Questo meccanismo viene applicato solo alla parte contributiva della pensione per chi ha maturato 18 anni di contributi versati alla fine del 1995, la quota contributiva si applica agli anni lavorati dal 2012, mentre per tutti gli altri si applica agli anni di contributi dal 1996 in poi.

Gli effetti dell' aggiornamento dei coefficienti

Questo aggiornamento dei coefficienti serve per "calmierare" l'effetto economico dell'incremento dei requisiti anagrafici per andare in pensione. Quale conseguenza dell'aumento della speranza di vita, nel 2019 la pensione di vecchiaia, ad esempio, si raggiungerà a 67 anni (con applicazione del coefficiente 5,604%), mentre oggi sono sufficienti 66 anni e 7 mesi (coefficiente 5,169%).

Quindi il primo assegno previdenziale si otterrà più tardi e con un coefficiente più basso.

Tuttavia, ci dicono... sic!!, che visto che si lavorerà 5 mesi in più il montante contributivo accumulato sarà un po' più elevato e questo, tranquillizzatevi, più o meno compenserà il meccanismo di trasformazione meno favorevole.

Nell'ipotesi, invece, che età e contributi accumulati non cambino, nel 2019 a 67 anni si maturerà una pensione più bassa rispetto al 2018, perché il coefficiente di trasformazione passerà dall'attuale 5,700% a 5,604% e di conseguenza un montante di 200mila euro, integralmente convertito con il sistema contributivo, produrrà un assegno mensile lordo di 862 euro invece di 876 circa 12 € in meno al mese che moltiplicati per 13 mesi fanno solo 156 € ….. di che ci dobbiamo lagnare?!?!

mercoledì 27 giugno 2018

Auto e bici condivise: cresce il ricorso alla sharing mobility

La mobilità condivisa (sharing mobility) sta passando da scelta di nicchia a pratica diffusa, soprattutto per biciclette (bikesharing) e automobili (carsharing, microtransit).
Secondo i dati forniti dal Secondo Rapporto Nazionale sulla Sharing Mobiity, il carsharing in Italia ha superato la soglia del milione di iscritti, con 7.679 veicoli e 35 città interessate. Nel 2016 sono stati effettuati complessivamente circa 8 milioni di noleggi per una percorrenza complessiva di 62 milioni di chilometri.
Il servizio è però ancora sostanzialmente concentrato in alcune aree urbane: dei 7.679 veicoli in car sharing censiti al 31/12/2017, il 43% è a Milano, segue Roma con il 24% dei veicoli, Torino con 15% e Firenze con l’8%. In ogni caso, il numero di veicoli condivisi globalmente in Italia tra il 2013 e il 2017 è quintuplicato, mentre il numero degli iscritti e dei noleggi è cresciuto rispettivamente di diciotto e trentasette volte. In particolare, negli ultimi 12 mesi sono aumentate sia le auto condivise che i noleggi giornalieri. A Milano, una delle città in cui la pratica è più diffusa, un’auto in car sharing viene noleggiata in media 5 volte al giorno, il doppio dei valori medi registrati nel 2013.
Significativa anche l’introduzione dell’elettrico destinato a diventare sempre più performante, grazie alla maggiore autonomia delle nuove batterie.
I 62 milioni di chilometri in carsharing percorsi nel 2016 hanno segnato un più 27% circa rispetto all’anno precedente. Il numero di noleggi è rimasto sostanzialmente stabile rispetto al 2015, mentre il carsharing station based (punto di riconsegna in postazione fissa) nazionale fa segnare nel biennio considerato una discreta crescita delle percorrenze (+18%), quello free floating (punto di riconsegna alla destinazione) è invece cresciuto in maniera più importante nello stesso biennio, nel quale gli utenti hanno percorso 11 milioni di chilometri in più.
La percorrenza media di un viaggio è chiaramente molto diversa tra le due tipologie di servizi: nel 2016 un viaggio medio fatto con carsharing free floating ha percorso la distanza di 6,8 km, contro i 39,8 km di uno station based.
Tra le quattro maggiori città in termini di diffusione dei servizi, Roma, con 8 km/noleggio, è la città in cui si percorrono più chilometri per noleggio, segue Milano con 7,2, Firenze con 6,2 e Torino con 5,3.
Il bikesharing nell’ultimo anno è cresciuto del 147%, favorito essenzialmente dall’aumento dei mezzi a disposizione e delle strutture dedicate: un dato che rende evidente la necessità improrogabile di ampliare gli spazi ciclabili nelle città.
Con 265 comuni ed altri enti territoriali in cui è attivo il bikesharing e con 39.500 bici condivise, l’Italia è il paese europeo in cui la diffusione di servizi attivi è più alta.
Il primato è sostanzialmente stabile al Nord, che si conferma l’area geografica del paese con più Comuni in cui sono presenti biciclette in condivisione. Il Sud ha invece ridotto la sua quota rispetto all’anno precedente, compensata dagli incrementi registrati nel Centro Italia.
Come nel caso del carsharing free floating, anche i sistemi di bikesharing a flusso libero lanciati negli ultimi mesi del 2017 e censiti in questo Rapporto, si sono concentrati nei Comuni del Nord e del Centro, in particolare nelle grandi città. Alla fine del 2017 più di due terzi del totale delle biciclette in condivisione circola sulle strade di sole 4 città: Milano, 44%, Torino, 13% , Firenze, 8%, e Roma, 5%.
Nelle grandi città il rapporto medio tra biciclette in free floating e biciclette station based è di 3 a 1, nelle medie città analizzate di 2 biciclette free floating contro 1 bicicletta station based.
Per quanto riguarda l’offerta, il bikesharing station based ha una densità più o meno di 5 volte superiore nelle grandi città, mentre più ampia è la forbice nel caso del free floating: le città con più di 250 mila abitanti hanno 7 biciclette per kmq in più rispetto ai Comuni più piccoli.
Lo scooter sharing è un servizio di condivisione nato da pochi anni e attualmente presente solo a Roma e a Milano. Una novità importante dell’ultimo anno è rappresentata dalla rapida diffusione dell’elettrico. Nuovi operatori hanno iniziato il servizio nel 2017 con la motorizzazione elettrica a due ruote.
Totalmente assenti nel 2016, a dicembre 2017 gli scooter elettrici sono arrivati a coprire il 68% della flotta complessiva. Segue lo stesso trend di crescita anche il numero di noleggi che nel 2017 sono stati circa 250 mila, più 11% rispetto all’anno precedente nonostante la diminuzione delle flotte, e il numero degli iscritti che sono raddoppiati negli ultimi due anni arrivando a 52mila circa.
Il Carpooling, che consente di condividere con altre persone uno spostamento in automobile, continua a crescere e ha raggiunto nel 2017 quota 2,5 milioni di iscritti che essenzialmente lo usano per gli spostamenti casa-lavoro e altri spostamenti urbani.
Il numero di iscritti, in forte crescita nel triennio 2015-2017, è passato dai 72 mila circa del 2015 ai 265 mila registrati alla fine dello scorso anno (più 350%).
In incremento anche i servizi di ridesharing, cioè quelli in cui i passeggeri di un mezzo condividono uno spostamento.
Contribuiscono in modo analogo a questo trend di crescita sia i carpooling urbani istantanei sia i carpooling concepiti per lo spostamento dei lavoratori che hanno rispettivamente quintuplicato e triplicato i propri utenti in tre anni. Il dato non include il servizio di carpooling extraurbano che solo nel 2017 ammontava a 2,5 milioni di utenti che mediamente condividono tragitti di circa 300 km.
Il bus-sharing, un servizio di trasporto extraurbano a domanda nato nel 2016, propone collegamenti con bus da oltre 250 località ai più importanti eventi e luoghi di divertimento dei paesi in cui opera: Italia, Austria, Slovenia e Croazia.
Nel 2017 gli utenti trasportati sono stati il 60% in più rispetto all’anno precedente con 90 mila km percorsi rispetto ai 25 mila del 2016. Si ritiene che questo tipo di servizio sia destinato a diventare molto importante nel prossimo futuro, all’interno di una crescita complessiva di tutti i trasporti a domanda.
Un apporto significativo allo sviluppo del settore è dato da nuove e più complete Applicazioni di aggregazione dei servizi di sharing mobility e dalle piattaforme di journey planning, in crescita negli ultimi due anni in linea con il settore della mobilità condivisa nel suo insieme.
I principali operatori in 3 anni hanno aumentato del 65% il numero di servizi arrivando a quota 43, diffusi in 35 diverse città o ambiti territoriali.
Alcune App permettono agli utenti di trovare e prenotare la miglior soluzione per raggiungere la propria destinazione confrontando diverse opzioni: car, scooter e bike sharing, taxi e ride sharing e trasporto pubblico in alcune grandi città. Altre forniscono invece servizi di ottimizzazione degli spostamenti in ambito urbano utilizzando le reti di trasporto pubblico, attivo a oggi in 34 città o ambiti territoriali.

martedì 26 giugno 2018

Auto e bici condivise: cresce il ricorso alla sharing mobility

La mobilità condivisa (sharing mobility) sta passando da scelta di nicchia a pratica diffusa, soprattutto per biciclette (bikesharing) e automobili (carsharing, microtransit).
Secondo i dati forniti dal Secondo Rapporto Nazionale sulla Sharing Mobiity, il carsharing in Italia ha superato la soglia del milione di iscritti, con 7.679 veicoli e 35 città interessate. Nel 2016 sono stati effettuati complessivamente circa 8 milioni di noleggi per una percorrenza complessiva di 62 milioni di chilometri.
Il servizio è però ancora sostanzialmente concentrato in alcune aree urbane: dei 7.679 veicoli in car sharing censiti al 31/12/2017, il 43% è a Milano, segue Roma con il 24% dei veicoli, Torino con 15% e Firenze con l’8%. In ogni caso, il numero di veicoli condivisi globalmente in Italia tra il 2013 e il 2017 è quintuplicato, mentre il numero degli iscritti e dei noleggi è cresciuto rispettivamente di diciotto e trentasette volte. In particolare, negli ultimi 12 mesi sono aumentate sia le auto condivise che i noleggi giornalieri. A Milano, una delle città in cui la pratica è più diffusa, un’auto in car sharing viene noleggiata in media 5 volte al giorno, il doppio dei valori medi registrati nel 2013.
Significativa anche l’introduzione dell’elettrico destinato a diventare sempre più performante, grazie alla maggiore autonomia delle nuove batterie.
I 62 milioni di chilometri in carsharing percorsi nel 2016 hanno segnato un più 27% circa rispetto all’anno precedente. Il numero di noleggi è rimasto sostanzialmente stabile rispetto al 2015, mentre il carsharing station based (punto di riconsegna in postazione fissa) nazionale fa segnare nel biennio considerato una discreta crescita delle percorrenze (+18%), quello free floating (punto di riconsegna alla destinazione) è invece cresciuto in maniera più importante nello stesso biennio, nel quale gli utenti hanno percorso 11 milioni di chilometri in più.
La percorrenza media di un viaggio è chiaramente molto diversa tra le due tipologie di servizi: nel 2016 un viaggio medio fatto con carsharing free floating ha percorso la distanza di 6,8 km, contro i 39,8 km di uno station based.
Tra le quattro maggiori città in termini di diffusione dei servizi, Roma, con 8 km/noleggio, è la città in cui si percorrono più chilometri per noleggio, segue Milano con 7,2, Firenze con 6,2 e Torino con 5,3.
Il bikesharing nell’ultimo anno è cresciuto del 147%, favorito essenzialmente dall’aumento dei mezzi a disposizione e delle strutture dedicate: un dato che rende evidente la necessità improrogabile di ampliare gli spazi ciclabili nelle città.
Con 265 comuni ed altri enti territoriali in cui è attivo il bikesharing e con 39.500 bici condivise, l’Italia è il paese europeo in cui la diffusione di servizi attivi è più alta.
Il primato è sostanzialmente stabile al Nord, che si conferma l’area geografica del paese con più Comuni in cui sono presenti biciclette in condivisione. Il Sud ha invece ridotto la sua quota rispetto all’anno precedente, compensata dagli incrementi registrati nel Centro Italia.
Come nel caso del carsharing free floating, anche i sistemi di bikesharing a flusso libero lanciati negli ultimi mesi del 2017 e censiti in questo Rapporto, si sono concentrati nei Comuni del Nord e del Centro, in particolare nelle grandi città. Alla fine del 2017 più di due terzi del totale delle biciclette in condivisione circola sulle strade di sole 4 città: Milano, 44%, Torino, 13% , Firenze, 8%, e Roma, 5%.
Nelle grandi città il rapporto medio tra biciclette in free floating e biciclette station based è di 3 a 1, nelle medie città analizzate di 2 biciclette free floating contro 1 bicicletta station based.
Per quanto riguarda l’offerta, il bikesharing station based ha una densità più o meno di 5 volte superiore nelle grandi città, mentre più ampia è la forbice nel caso del free floating: le città con più di 250 mila abitanti hanno 7 biciclette per kmq in più rispetto ai Comuni più piccoli.
Lo scooter sharing è un servizio di condivisione nato da pochi anni e attualmente presente solo a Roma e a Milano. Una novità importante dell’ultimo anno è rappresentata dalla rapida diffusione dell’elettrico. Nuovi operatori hanno iniziato il servizio nel 2017 con la motorizzazione elettrica a due ruote.
Totalmente assenti nel 2016, a dicembre 2017 gli scooter elettrici sono arrivati a coprire il 68% della flotta complessiva. Segue lo stesso trend di crescita anche il numero di noleggi che nel 2017 sono stati circa 250 mila, più 11% rispetto all’anno precedente nonostante la diminuzione delle flotte, e il numero degli iscritti che sono raddoppiati negli ultimi due anni arrivando a 52mila circa.
Il Carpooling, che consente di condividere con altre persone uno spostamento in automobile, continua a crescere e ha raggiunto nel 2017 quota 2,5 milioni di iscritti che essenzialmente lo usano per gli spostamenti casa-lavoro e altri spostamenti urbani.
Il numero di iscritti, in forte crescita nel triennio 2015-2017, è passato dai 72 mila circa del 2015 ai 265 mila registrati alla fine dello scorso anno (più 350%).
In incremento anche i servizi di ridesharing, cioè quelli in cui i passeggeri di un mezzo condividono uno spostamento.
Contribuiscono in modo analogo a questo trend di crescita sia i carpooling urbani istantanei sia i carpooling concepiti per lo spostamento dei lavoratori che hanno rispettivamente quintuplicato e triplicato i propri utenti in tre anni. Il dato non include il servizio di carpooling extraurbano che solo nel 2017 ammontava a 2,5 milioni di utenti che mediamente condividono tragitti di circa 300 km.
Il bus-sharing, un servizio di trasporto extraurbano a domanda nato nel 2016, propone collegamenti con bus da oltre 250 località ai più importanti eventi e luoghi di divertimento dei paesi in cui opera: Italia, Austria, Slovenia e Croazia.
Nel 2017 gli utenti trasportati sono stati il 60% in più rispetto all’anno precedente con 90 mila km percorsi rispetto ai 25 mila del 2016. Si ritiene che questo tipo di servizio sia destinato a diventare molto importante nel prossimo futuro, all’interno di una crescita complessiva di tutti i trasporti a domanda.
Un apporto significativo allo sviluppo del settore è dato da nuove e più complete Applicazioni di aggregazione dei servizi di sharing mobility e dalle piattaforme di journey planning, in crescita negli ultimi due anni in linea con il settore della mobilità condivisa nel suo insieme.
I principali operatori in 3 anni hanno aumentato del 65% il numero di servizi arrivando a quota 43, diffusi in 35 diverse città o ambiti territoriali.
Alcune App permettono agli utenti di trovare e prenotare la miglior soluzione per raggiungere la propria destinazione confrontando diverse opzioni: car, scooter e bike sharing, taxi e ride sharing e trasporto pubblico in alcune grandi città. Altre forniscono invece servizi di ottimizzazione degli spostamenti in ambito urbano utilizzando le reti di trasporto pubblico, attivo a oggi in 34 città o ambiti territoriali.

lunedì 25 giugno 2018

Le amministrative le vince il centrodestra, male il Pd anche nelle regioni 'rosse

Vince Matteo Salvini, gli italiani premiano comunque l'asse Lega-M5s che dal primo giugno sta governando il Paese. Il centrodestra ha vinto le elezioni comunali 2018, conquistando 11 sindaci (alle precedenti elezioni ne aveva 3). Crolla invece il centrosinistra - che vince solo in 5 comuni (ne aveva 17) e perde le roccaforti di Siena, Pisa, Massa, Terni (città storicamente 'sue') e Avellino, malgrado dopo il primo turno di due settimane fa era rimasto in corsa al ballottaggio.
È questo in sintesi il verdetto di questo turno di elezioni amministrative, per molti un primo 'referendum' sul governo Conte a nemmeno un mese dal suo debutto. Gli italiani che sono andati alle urne (pochi, circa il 47,61 degli aventi diritto, con un calo del 12,81% rispetto al primo turno) hanno confermato il loro consenso ai partiti usciti vittoriosi dalle urne delle politiche del 4 marzo. Sia pure in maniera molto diversa: netta l'affermazione del centrodestra, meno convinta quella del Movimento guidato da Luigi Di Maio. Che vince ad Avellino ma perde il sindaco di Ragusa e si dimostra non competitivo in ampie aeree del Paese.
Le liste civiche vincono a Barletta, Messina, Siracusa e Imperia (in quest'ultima città con l'ex ministro Scajola). Il centrodestra strappa al centrosinistra i sindaci di Udine, Treviso, Catania, Vicenza, Terni, Sondrio, Viterbo, Pisa, Siena, Massa. A Ragusa vince un sindaco sostenuto da FdI e liste civiche (il comune era governato dai Cinquestelle).
Il centrosinistra conferma i sindaci di Ancona (unico capoluogo di regione) e Brescia e strappa al centrodestra i comuni di Trapani, Brindisi e Teramo. Il Movimento 5 Stelle strappa al centrosinistra il sindaco di Avellino. Le liste civiche tolgono al centrosinistra i sindaci di Barletta, Messina, Imperia e Siracusa (in quest'ultimo comune il sindaco Italia è però considerato vicino al centrosinistra).
"A Pisa la sinistra, e il Pd in particolare, non ce la fanno a Pisa dove segnano una delle sconfitte più significative. Il candidato Andrea Serforgli, poco dopo mezzanotte, in diretta sull’emittente Tv pisana 50Canale, ha riconosciuto la vittoria dell’avversario Michele Conti: “Paghiamo il vento nazionale – ha detto – ma rendo merito a Conti e possiamo considerarlo il nuovo sindaco di Pisa”. Il candidato democratico era sostenuto anche da sei liste civiche, tre delle quali hanno deciso di sostenerlo al secondo turno con l’apparentamento. Il candidato di centrodestra aveva invece il sostegno di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, ma ha incassato apertamente per il secondo turno, anche senza apparentamento formale, il sostegno di una lista civica che al primo turno aveva raccolto il 6,6 % dei voti. Prima del turno di ballottaggio i due candidati erano separati da una manciata di voti: 13.795 (ovvero il 33,36%) per Conti in vantaggio rispetto a Serfogli che il 10 giugno aveva raccolto 13.338 (il 32,26%)".
Siena, la città dello scandalo Monte Paschi di Siena, ma anche la città dove i 5 stelle non sono riusciti a trovare un candidato da far correre alle elezioni comunali, viene conquistata dalla destra, aggiunge ancora Il Fatto. "Luigi De Mossi ha infatti battuto il sindaco uscente Pd Bruno Valentini. “Sono ancora sotto l’effetto di questa notizia”, ha commentato De Mossi. “E’ come nel Palio dove conta arrivare primi. Una vittoria storica, abbiamo cambiato la storia di questa città. Il mio gruppo, il gruppo di persone che mi ha appoggiato, ha questo merito. Non abbiamo voluto fare apparentamenti, mantenendo la nostra coalizione tutta unita e questo ci ha consentito di dialogare con tutti”. A favore di De Mossi potrebbe aver giocato, sia la scelta degli elettori dei 5 stelle di dare fiducia “al cambiamento, ma anche la decisione di non apparentarsi con altre liste civiche. Valentini aveva invece ottenuto l’endorsement di un altro ex amministratore di sinistra, Piccinini, anche lui in corsa al primo turno con una lista personale. Non è bastato ad evitare il crollo".

venerdì 22 giugno 2018

Gli USA continueranno a proteggere l'arsenale nucleare israeliano

Un'inchiesta del quotidiano nordamericano 'The New Yorker' ha rivelato, lunedì scorso, come gli Stati Uniti si siano impegnati a proteggere l'arsenale nucleare israeliano. Trump, si legge, è il quarto presidente a firmare una lettera segreta in cui si impegna a non fare pressioni su Israele per abbandonare il suo arsenale nucleare in cambio il regime di Tel Aviv non deve testarlo o minacciare di usarlo.

Israele, che non ha firmato il Trattato di non proliferazione (TNP), smentisce il suo programma di armi nucleari al mondo sotto la sua politica di "ambiguità nucleare", con il silenzio del suo alleato, gli Stati Uniti. Gli esperti stimano che Israele abbia un arsenale di centinaia di armi nucleari.

L'attuale presidente degli Stati Uniti, si spiega nell'articolo, ha firmato una lettera segreta dopo che l'ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Ron Dermer, ha presumibilmente messo sotto pressione l'amministrazione Trump nel febbraio dell'anno scorso, provocando la rabbia, urla e imprecazioni dei funzionari degli Stati Uniti .

Dermer, cercava, che la nuova amministrazione di Trump firmasse un accordo tra l'ex primo ministro israeliano Golda Meir (1969-1974) e Richard Nixon presidente degli Stati Uniti (1969-1974), con cui Israele non avrebbe dichiarato, dimostrato o minacciato di usare le armi nucleari in cambio degli Stati Uniti non facessero pressioni su Israele per aderire al TNP.

Sebbene questo accordo verbale continuasse ad essere onorato dai tempi dell'amministrazione di Ronald Reagan (1981-1989), Israele era preoccupato che l'accordo non scritto sarebbe stato mantenuto durante la presidenza di George H.
W. Bush, dopo che le richieste per il Medio Oriente sono state liberate dalle armi di distruzione di massa sulla scia dell'invasione dell'Iraq nel 2003.

Dopo l'elezione di Bill Clinton come presidente nel 1993, gli USA hanno firmato la prima lettera che prometteva che qualsiasi sforzo di non proliferazione guidato dagli Stati Uniti non avrebbe "danneggiato" la "forza deterrente" di Israele, in riferimento al programma nucleare israeliano.

In seguito, anche i presidenti degli Stati Uniti, George W. Bush e Barack Obama, hanno firmato lettere simili,si sottolinea nell'articolo.

Poco dopo l'insediamento di Trump, l'ambasciatore israeliano arrivò alla Casa Bianca per discutere della possibilità di aggiungere la firma di Trump alla lettera nei colloqui con l'ex consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, che si dimise lo stesso giorno.

Gli assistenti di Trump furono sorpresi dalla richiesta di Dermer e gli dissero che avevano bisogno di un po' di tempo per studiare la faccenda. Le richieste degli israeliani irritarono i funzionari americani, che consideravano Dermer comportarsi come se fosse al comando.

"Questa è la nostra dannata casa", disse un furioso funzionario americano, non identificato, in risposta alle richieste dell'ambasciatore israeliano.
 

giovedì 21 giugno 2018

L'Iran chiede di affrontare "la vera minaccia": 80 testate nucleari di Israele

Il capo della diplomazia persiana ha citato lunedì un recente studio dell'Istituto internazionale di ricerca per la pace di Stoccolma SIPRI, per mettere in guardia contro la minaccia per il Medio Oriente e il tutto il mondo rappresentato dall'arsenale nucleare del regime israeliano.

"Ci sono almeno 80 testate nucleari di stanza in Medio Oriente. Nessuno è in Iran, piuttosto, sono alla portata di un guerrafondaio che urla costantemente sulle "ambizioni" iraniane inventate. È tempo di iniziare un dibattito sulla reale minaccia per la regione e oltre", ha scritto Zarif nel suo account Twitter ufficiale.

Lo studio ha messo in guardia contro una corsa agli armamenti nucleari nel mondo e ha denunciato che le potenze nucleari, tra cui il regime israeliano, continuano a modernizzare il loro arsenale atomico.
 

Secondo i dati pubblicati dal SIPRI, ci sono un totale di 17.300 armi nucleari nel mondo, di cui si stima che 80 appartengano ad Israele, e che il regime abbia materiale sufficiente per produrre fino a 190 in più, come indica un rapporto pubblicato dal Bulletin of Atomic Scientists a Chicago (USA) nel 2015.

Israele, unico detentore della bomba atomica in Medio Oriente, rifiuta di firmare il Trattato di non proliferazione nucleare (NPT) e non consente agli ispettori dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA) di entrare nele sue strutture atomiche.

La cosa più sorprendente è che l'unico detentore di armi nucleari in Medio Oriente accusa la Repubblica islamica dell'Iran "senza fondamento" di sviluppare un programma nucleare "ambizioso".

 

mercoledì 20 giugno 2018

Ocse contro governo Conte: populismo mette a rischio crescita Eurozona

Occhio ai populisti. L’allarme lo lancia l’Ocse nel suo ultimo rapporto sulla zona euro in merito ai rischi che pesano sulle prospettive di crescita.

Grande attenzionata proprio l’Italia i cui livelli di crediti deteriorati sono più alti che in Irlanda dice l’istituto parigino guidato da Angel Gurria.
“Una più rapida soluzione sull’alto livello di crediti deteriorati in diversi Paesi sarebbe cruciale per facilitare lo sviluppo del credito e la trasmissione della politica monetaria. Anche se in discesa, sono sempre alti in alcuni Paesi colpiti dalla crisi. In Italia al momento sono più alti che in Irlanda. Un’accelerazione della soluzione agli npl è la chiave per espandere il credito bancario, visto che l’alto livello è ancora un problema per la stabilità finanziaria”.
LOcse lancia poi un consiglio ai paesi dell’eurozona che dovrebbero approfittare dell’espansione al fine di migliorare la loro posizione di bilancio.
“In particolare, quelli ad alto debito dovrebbero assicurarne una discesa significativa consapevoli che “il consolidamento di bilancio è desiderabile quando i tempi sono buoni (…) occorre anche semplificare le regole del Patto, mantenendo la necessaria flessibilità per tenere in considerazione la situazione economica”.
L’Italia comunque rimane fanalino di coda per quanto riguarda le prospettive di crescita nel biennio in corso visto che per la zona euro è previsto un aumento complessivo del Pil del 2,2% nel 2018 e del 2,1% nel 2019, mentre il dato italiano si ferma all’1,4% per l’anno in corso e all’1,1% per il successivo.

martedì 19 giugno 2018

Salvini: presto censimento o anagrafe dei Rom

Presto un censimento o un'anagrafe dei Rom. Lo ha annunciato oggi il vicepremier e ministro dell'interno Matteo Salvini intervistato da Telelombardia, spiegando di aver già affidato al Viminale la preparazione di "un dossier sulla situazione rom in Italia perché, dopo l'intervento di Maroni che però risale ormai a 5,6,7 anni fa, nessuno ha fatto più nulla e quindi siamo tornati, temo, al caos'.

Censimento o anagrafe dei Rom

Bisogna capire "come intervenire – ha spiegato Salvini – rifacendo quello che all'epoca fu chiamato censimento e 'apriti cielo', allora chiamiamola 'anagrafe' o 'fotografia' per capire di chosa stiamo parlando" ma serve "una ricognizione sulla situazione rom in giro per l'Italia per vedere chi come e quanti'. "Stiamo lavorando anche sull'espulsione dei detenuti stranieri che sono in Italia me serve l'accordo con il paese che se li deve riprendere. Quindi bisogna lavorare con Romania, Albania e Tunisia, che sono ahimè tra i principali paesi per presenze in galera" ha concluso Salvini, evidenziando che "purtroppo i rom italiani te li devi tenere in Italia".

Le polemiche

L'annuncio ovviamente ha scatenato polemiche e ire da più parti, politiche e non solo. Dura la replica dell'associazione Nomadi che tramite il suo presidente Carlo Stasolla ricorda che "un censimento su base etnica è vietato dalla legge". Inoltre precisa "esistono già dati e numeri su chi vive negli insediamenti formali e informali e i pochi rom irregolari sono apolidi di fatto, quindi inespellibili". Infine, conclude, "i rom italiani sono presenti nel nostro Paese dal almeno mezzo secolo e a volte sono 'più italiani' di tanti nostri concittadini".
Sulla stessa linea l'attivista di origine serba Dijana Pavlovic, portavoce dell'Alleanza Romanì, che all'Adnkronos commenta così la dichiarazione del leader leghista: "La gente pensa che siamo un milione, in realtà le stime parlano di 130.000 rom e sinti che vivono in Italia. Più della metà, circa 80.000, sono cittadini italiani. E comunque se Salvini e il suo governo ci vogliono riconoscere come minoranza storico-linguistica, visto che siamo l'unica minoranza non riconosciuta in Italia, allora d'accordo: al momento del censimento della popolazione, possiamo autodichiararci rom e sinti e lui potrebbe sapere quanti siamo e dove viviamo. Ma che ci sia la Polizia che vada in giro a fare un censimento su base etnica, è illegittimo. Un'operazione, del resto, già tentata da Maroni, su cui si espresse il Consiglio di Stato e che la proclamò appunto 'illegittima'. Quindi non ci pensi nemmeno Salvini".
Dal canto suo, la presidente di Fdi, Giorgia Meloni, oggi a Napoli, apprezza invece l'idea, come "primo passo, perchè il problema è molto più ampio che ha bisogno di soluzioni decise". La proposta di Fdi è sempre la stessa, incalza, "bene censirli per capire di cosa stiamo parlando, dopodichè, se sei nomade, devi 'nomadare', non puoi essere stanziale. Quindi per i nomadi la nostra proposta è allestire piazzole di sosta temporanee dove ci si può trattenere per un massimo di sei mesi, dopodichè, essendo nomadi, bisogna spostarsi".

lunedì 18 giugno 2018

Le due Italie

In un vecchio libro del plumbeo 1977, Alberto Asor Rosa racchiudeva nella spaccatura tra due società l’insieme delle tensioni e dei problemi dell’Italia di fine anni Settanta. Nel volume, l’intellettuale operaista poneva da un lato i “garantiti”, i salariati con contratto e posto fisso, e dall’altro gli “operai sociali”, i nuovi proletari prodotti dalla ristrutturazione industriale e dalla fine del sicuro modello fordista-keynesiano di fabbrica e stato.
Senza ritornare a quattro decenni fa, la riflessione di Asor Rosa può senza dubbio risultare ancora valida nell’Italia di metà 2018. In effetti, esistono due società antitetiche a sud delle Alpi: qui e ora, però, non si tratta più e soltanto di divisioni sociali, di classe e tra classi utilizzando il sempreverde vocabolario marxiano. La scissione, riflettendo l’imbarbarimento dei tempi e la cancrena maleodorante della nostra intellighenzia, appare invece estremamente semplicistica, manichea nel senso deteriore del termine. D’altro canto, quando ci si affida ai Saviano, agli Zerocalcare e agli Zoro per costruirsi una weltanschauung, non si può  certo ottenere altro che questo. Una riduzione brutale, espressione di un coacervo di classismo, intellettualismo da tre soldi, cupidigia di servire e conformismo che consegna un ritratto drammaticamente infimo del progressismo italiano.
Beninteso, chi scrive non vuol certo fare l’elogio della reazione. Risulta però acclarato che la divisione tra acculturati in quanto tali e analfabeti funzionali (sic), laureati e operai, “chi-ha-fatto-l’erasmus” e chi vive in provincia, pasadaran dell’unione europea e sovranisti assume ogni giorno che passa i connotati di un vero e proprio stato d’accusa permanente unilaterale: gli ottimati secondo sé stessi, i “vincenti” della globalizzazione sconfitti senza appello il 4 marzo dal voto popolare e populista, vivendo l’incubo di un governo di Maio-Salvini hanno smesso ogni freno inibitorio e hanno portato l’attacco alla maggioranza dei propri concittadini ad un livello così meschino da risultare grottesco, oltreché vigliacco.
Incapaci di comprendere i problemi di chi gli sta vicino, idiotizzati da una narrazione fallace e profondamente sballata, i nostri piccoli Pasolini da aperitivo e risvoltino costituiscono la massa di manovra “culturale” con cui sbarrare il passo all’esecutivo gialloverde e ai suoi primi provvedimenti. Il caso Aquarius, così come il problema di fondo dei rapporti della Repubblica con l’ue, non è che l’assaggio di ciò che ci aspetta nel futuro prossimo. Gli italiani (leggi le classi subalterne che vivono ogni giorno i guasti di un’immigrazione incontrollata e criminale) vogliono chiudere i porti a navi di ong non autorizzate e fuori da ogni accordo internazionale? Tutti razzisti. Gli italiani (come sopra) sono stanchi di vivere da venticinque anni in un paese che li vuole sottoproletarizzare? Tutti scansafatiche e in fondo untermenschen non in grado di reggere il confronto con gli ariani del Nord. Il M5S e la Lega intercettano le tematiche-chiave dell’elettorato? Tutti fascisti, ignoranti, beceri e volgari.
La maggioranza delle classi dominanti in Italia non ha mai voluto davvero comprendere le ragioni del popolo, condannandolo alla subalternità.
Questo è il livello dello scontro, sostenuto da falsificazioni continue sugli organi di stampa e da trasmissioni 24/7 che rimpallano sempre lo stesso spin. Un’Italia, quella che legge Repubblica e il Corsera e vota PD dall’alto dei suoi loft in centro, che odia l’altra, la dileggia, la deride, la affama. Un’Italia che non vorrebbe essere tale, in fondo convinta di meritare altre latitudini e altri connazionali, fino al punto da aver consegnato ad ubriaconi e tipi lombrosiani in Bruxelles la sovranità e l’indipendenza del paese. Un’Italia, infine, stracciona e miserabile, incapace di esprimere una classe dirigente diversa da quella meschina e totalmente inetta che dal 1992 è stata al potere per svendere ai potentati esteri e pasteggiare sulle briciole. Questa Italia, che certo non può dare lezioni e dovrebbe nascondersi nel buio più fitto della vergogna, è quella che vuol dare patenti di moralità e certificati di moralismo alle forze che oggi, con mille difficoltà e altrettanti punti oscuri, tentano dopo lustri di dare forma al mandato popolare democraticamente formatosi nelle urne.
Naturalmente, quasi nessuno di questi numerosi imbecilli si rende conto d’esser pedina d’un gioco ben più grosso, cioè di svolgere il ruolo del kindersoldat nella Berlino in fiamme dell’aprile 1945. Il mondo liberale, unipolare e liberoscambista nato nel 1989 si avvia a morte certa. Mentre qualcuno pare averlo capito, i nostri cervelloni dei Parioli balbettano ancora la stessa solfa di metà anni Novanta risultando scaduti e ridicoli. In tal senso, la difesa del dogma europeista e del suo frutto monetario, costituisce lo spartiacque decisivo tra le due società, e lo s’è visto nei giorni drammatici e ridicoli di fine maggio quando il moloch dello spread era risorto per punire ancora una volta noi pelandroni meridionali.
Si immagini una copertina in senso inverso: non è forse razzismo?
Stare con l’ue significa infatti stare con frau Merkel e bonbon Macron, con un sistema economico fallito e criminale, con una conventicola di burocrati imbelli incapace di gestire il fenomeno migratorio ma sempre pronta a succhiare sangue e sudore da sessanta milioni di italiani, con la teoria reazionaria e nazista del vincolo esterno come dogma di (non)governo. A questa setta, espressione delle più perverse tare del nostro padronato, si contrappone l’Italia immiserita e stanca, dignitosa nel suo sempiterno tirare a campare nonostante tutto, provinciale e perciò profondamente originale, viva di una forza che il cosmopolitismo borghese non capisce e perciò infama. Con tali masse, che sono il popolo italiano nella sua più genuina espressione, noi staremo sempre, perché ne facciamo parte e ne vogliamo essere espressione cosciente. Chi sta contro il proprio popolo per servire un padrone straniero, di norma, consegna il proprio paese al rango di colonia: e questa, a nostro avviso, è forse la responsabilità più grave e il segno distintivo che ci separa da chi ciarla di umanità e compassione. Alla schiavitù e al servaggio si contrappone la dignità di uomini liberi, cittadini e lavoratori di uno stato diretta espressione delle aspirazioni di massa: Uomini e no.

venerdì 15 giugno 2018

Savona confema: “Nessun piano B per uscire dall’euro

Dopo le rassicurazioni del ministro dell’economia Giovanni Tria, anche Paolo Savona, ministro per gli Affari europei, conferma che non esiste nessun piano B per uscire dall’euro. Le dichiarazioni, che spazzano via i dubbi sulle intenzioni del governo Conte, sono arrivate ieri in occasione della presentazione della sua autobiografia nella sede dell’associazione della stampa estera a Roma.
Non esiste piano B, mai chiesto di uscire dall’euro afferma il ministro per gli Affari europei, aggiungendo che. “Se vuoi un mercato unico devi avere una moneta unica”. Tuttavia “la costruzione della moneta unica è limitata e una costruzione va perfezionata”.
Il ministro si sofferma poi sul mandato della Bce e sulla necessità di “avere uno statuto come le altre grandi banche centrali come la Federal Reserve”. Oggi l’euro è “una moneta forte, però mandiamo Draghi zoppo perché non può incidere sui cambi”, invece “poter intervenire sui cambi è fondamentale”. “Io – aggiunge – sono un tecnico e il tecnico deve indicare soluzioni tecniche alla politica”.
Savona osserva inoltre:
C’è un vincolo europeo (tetto 3% deficit/Pil) che dobbiamo rispettare ma abbiamo anche un mandato dagli elettori e quindi dobbiamo trovare una conciliazione. La mia idea è che sia l’Europa a trovare una soluzione se non vuole incappare in un problema al voto del 2019″.
Savona ha poi confermato di essere d’accordo con il collega dell’Economia Giovannni Tria e che il punto “sono gli investimenti”.
Infine sul tema dell’Europa, ai cronisti che gli chiedono se deve rassicurare i partner, risponde: “È la stampa che deve rassicurare l’Europa, non io. Il problema lo avete creato voi…“.
Savona ha infine chiarito che “al momento opportuno risponderà punto per punto alle questioni” sollevate nelle scorse settimane circa le sue idee e di aderire alla posizione del governo cui appartiene.
Positiva la reazione dei mercati. Lo spread tra Btp e Bund è in lieve calo in avvio di giornata a 232 punti base rispetto ai 235 di ieri. Il rendimento del titolo decennale italiano scende al 2,79%.

giovedì 14 giugno 2018

Aquarius, Salvini: “Aspetto le scuse dalla Francia”.

Il Ministro degli interni ha riferito in Senato sulla vicenda della nave Aquarius: “ringrazio l’ex procuratore di Venezia Carlo Nordio – esordisce Salvini – che ha scritto un articolo che mi ha confortato dal titolo ‘Diritto e diritti le lezioni che nessuno può dare al nostro paese'”.
“Questo mi fa dire – ha continuato Salvini che intervengo in nome di un governo e di una maggioranza, ma ho l’ambizione di parlare in nome popolo che non ha niente da imparare in termini di accoglienza, volontariato, generosità, e solidarietà da nessuno – stigmatizza Salvini con riferimento alle accuse di Macron e del governo francese”. “Il problema non è il derby con la Francia, il problema è che la nostra storia non merita di essere apostrofata con alcuni termini che ha usato il governo francese nelle ultime ore, spero che dia le scuse nel più breve tempo possibile” avverte Salvini.
L’intervento di Salvini continua citando Carlo Nordio, che scrive oggi che il diritto internazionale non sarebbe una scienza esatta e che “l’immigrazione da problema moderato è diventato un’invasione gestita da criminali” cita Salvini. “Il nuovo governo – riferisce ancora Salvini citando Nordio – avrà tanti difetti, ma in questo momento su questo tema si sta comportando con coerenza e dignità”.
“Coerenza e dignità a cui aggiungo l’Umanità – chiarisce il Ministro degli Interni – perché il primo intervento che ho chiesto da padre di famiglia è stato quello di comunicare con  la nave Aquarius per mettere subito in sicurezza le donne e i bambini. Non abbiamo avuto risposta – ha raccontato Salvini – evidentemente l’emergenza non era così emergenziale”.
“La Francia che ci dice che siamo cinici dal primo gnnaio di quest’anno al 31 maggio i respingimenti alla frontiera Italia-Francia hanno visto rispedire a casa nostra 10249 esseri umani compresi bambini, donne e disabili. La Francia in base agli accordi di ricollocamento del 2015 Macron mantenga i suoi impegni: la Francia aveva promesso di accogliere 9816 migranti, ne ha accolti in 3 anni solo 640. Quindi chiedo al presidente Macron di passare dalle parole ai fatti e di caccogliere domani mattina i 9000 immigrati che si erano impegnati ad accogliere e dare un segnale di solidarietà concreta e non solo a parole – ha detto Salvini provocando più volte il governo francese e il presidente Macron.
In seguito Salvini ha ricordato che l’Italia è il secondo paese per accoglienza, poi ha parlato nuovamente dei costi come da alcuni giorni a questa parte. Inoltre il Ministero degli Interni si è soffermato sui tempi di identificazioni, evidenziando che tra riconoscimento e richiesta di asilo passano tre anni, ritenuti troppi dal leader del Carroccio ora al Viminale. Si vogliono accelerare nelle intenzioni di Salvini i tempi di distinzione tra rifugiati e immigrati economici: “la maggior parte delle richieste sono respinte per mancanza assoluta dei criteri necessari, il problema è che c’è un business – denuncia Salvini in aula – fatto di avvocati e cooperative che guadagnano milioni su dei disgraziati”.
Poi risponde alle proteste delle opposizioni PD: “Da padre di due figli non posso accettare che si mettano i propri bambini su un gommone, in condizione di morire come bestie nel Mar Mediterraneo. Io sono stufo dei bambini che muoiono nel Mar mediterraneo, perché qualcuno li illude che in Europa ci sia casa e lavoro per tutti. Sono stufo di questi morti di Stato – tuona Salvini – chi vuole il business è invitato a entrare in una Cooperativa, non in un’aula del Senato” ha stigmatizzato così il ministro Salvini le polemiche delle ultime ore.
Poi Salvini ha sottolineato che la Libia nonostante abbia la responsabilità di ciò che accade nella propria area,non abbia voluto prendersi la responsabilità di sei eventi distinti capitati il 9 di giugno e segnalati dal centro di coordinamento delle capitanerie di porto: “andrò presto in Libia per garantire stessi doveri e stessi diritti per entrambe le sponde del Mediterraneo”. Dopo il rifiuto della Libia ha spiegato Salvini, sarebbe stata contatta l’autorità maltese, che “come sono abituati da anni non si sono presi alcuna responsabilità, il fatto che abbiamo alzato la voce metterà i maltesi davanti alle loro responsabilità” attacca il ministro.
Il report presentato in aula da Salvini narra che la nave Aquarius è rimasta nell’area di competenza maltese lamentando problemi umanitari e tecnici, senza ricevere alcun soccorso da Malta. La nave Aquarius sarebbe stata fornita di aiuti umanitari e di derrate alimentari dalla Guardia Costiera. Salvini ha poi ricordato di nuovo che il governo italiano aveva offerto al Comandante della nave Aquarius di ospitare coloro che avessero urgenza sanitaria, come le cinque donne incinta presenti a bordo. Ma “evidentemente l’emergenza non era così grave” dice Salvini sottolineando il rifiuto del Comandante della Aquarius ad accettare l’aiuto del governo: “Questa è la differenza tra la realtà vera e la realtà virtuale” ha attaccato ancora Salvini.
Salvini si è anche soffermato sulla solidarietà spagnola, ricordando che i numeri di Madrid sono di molto inferiori a quelli italiani. Ha ringraziato i colleghi ministri Toninelli e Trenta, oltre che alla Marina Militare, che si sarebbe presa la briga di mettere a disposizione due navi per prendere a bordo 250 persone sulla Orione e 273 sulla Dattilo. Sul fenomeno immigrazione Salvini ha tuttavia riconosciuto anche il lavoro del suo predecessore Minniti, che ha diminuito gli sbarchi, ma anche sottolineato alcune anomalie come la forte presenza di tunisini tra coloro che entrano in Italia.
Salvini si rivolge poi all’Europa: “con il collega tedesco abbiamo ragionato sul fatto che dobbiamo tornare a considerare le frontiere italiane come frontiere esterne dell’Europa. L’Unione Europa se c’è batta un colpo o taccia per sempre” minaccia il titolare del Viminale. Sul regolamento di Dublino il governo ha le idee chiare: “Va superato, nonostante abbiano provato a fare una norma che avrebbe peggiorato le condizioni dell’Italia. L’Italia non è isolata, non è mai stata così al centro dell’attenzione, con gli austriaci (che saranno di turno nei prossimi sei mesi alla presidenza Ue, ndr) faremo in modo di trovare una nuova soluzione, sta a noi giocarsi bene questa occasione”.
Reprimenda anche alle ong: “Gli Stati devono tornare a fare gli stati, non possono essere le organizzazioni private, finanziate chissà chi a imporre tempi e modi dell’immigrazione. Basta guardare da chi vengono poi certi finanziamenti. Io sono fautore del volontariato e sono donatore. Va bene la generosità, ma quando leggo che dietro a qualche organismo che c’è la Open Society di Soros qualche dubbio comincia a venirmi su quanto sia spontanea questa generosità”.
“Chiudo con una riflessione: ‘ama il prossimo tuo come te stesso’. Penso ai bambini che scappano dalla guerra che hanno bisogno del nostro aiuto e non possono essere mischiati con il business dei clandestini. Il prossimo mio però sono anche quegli italiani che hanno perso: casa, lavoro, speranza. Con tutti i miei limiti e i miei difetti farò tutto ciò che è umanamente possibile per dare voce ai rifugiati veri, agli immigrati regolari, e spero che agli italiani che hanno perso la speranza, la speranza possa tornare, e a questo obiettivo dedicherò i miei prossimi anni da ministro e i miei prossimi anni di vita. Onorato di poterlo fare in nome del popolo italiano” ha dichiarato Salvini in conclusione del suo intervento.

mercoledì 13 giugno 2018

Bilderberg 2018: la guerra per l’intelligenza artificiale

Si è concluso da qualche giorno il consueto summit segreto del gruppo Bilderberg, un ciclo di incontri fondato nel 1954 dal miliardario americano David Rockefeller  per “favorire il dialogo tra Europa e Nord America”  e a cui partecipano politici, banchieri, industriali e accademici di fama internazionale per discutere delle principali problematiche globali del momento.
Quest’anno teatro del Bilderberg 2018 è stata la città di Torino che dal 7 al 10 giugno ha ospitato 130 persone influenti da tutto il mondo per un ciclo di incontri rigorosamente a porte chiuse. I temi trattati sono stati pubblicati sul sito ufficiale del gruppo Bilderberg e tra questi ampio spazio è stato dato alla guerra.
Il vertice di quest’anno infatti è stato un summit “sulla guerra” visto che tra gli ordini del giorno vi sono state le questioni Russia e Iran. Nella sala conferenze hanno partecipato il segretario generale della NATO, il ministro della Difesa tedesco e il direttore dei servizi segreti francesi, DGSE a cui si sono uniti una serie di strateghi accademici e teorici militari. Di cosa hanno parlato nello specifico e cosa si sono detti non è dato saperlo visto che delle riunioni del Bilderberg non vengono tratti verbali o comunicati ufficiali ma l’indicazione più chiara emersa è che sulla carta c’è una sorta di conflitto guidato dagli Stati Uniti.
Al summit ha partecipato tale James H Baker. Chi è? E’ un esperto di tendenze militari e al momento il trend seguito nel mondo della strategiae militari è l’uso dell’Intelligenza artificiale.
Il gruppo Bilderberg ha dedicato un’intera sessione all’AI quest’anno -e ha invitato il teorico militare Michael C Horowitz, che ha scritto a lungo sul suo probabile impatto dellintelligenza artificiale sul futuro della guerra. In un articolo pubblicato poche settimane fa sulla rivista Texas National Security Review, Horowitz ha citato l’osservazione di Putin del 2017:
“L’intelligenza artificiale è il futuro, non solo per la Russia, ma per tutta l’umanità. Chiunque diventi il leader in questo campo diventerà il sovrano del mondo”.
Da qui Horowitz ha sostenuto che “Cina, Russia e altri stanno investendo in modo significativo in AI per aumentare le loro capacità militari“, avendo così “la capacità di interrompere la superiorità militare degli Stati Uniti”.
Il gruppo Bilderberg tenta così di stare al passo coi tempi e il vertice di quest’anno è stato incentrato tutto sulla guerra ma è emerso che ciò che tutti vogliono conquistare è l’intelligenza artificiale.

martedì 12 giugno 2018

Fornero: “Età pensionabile va alzata, mia riforma è incancellabile

A pagare il conto dello stop alla riforma Fornero sulle pensioni saranno i nostri figli e nipoti. Non usa mezzi termini l’ex ministro del lavoro del governo Monti, artefice della più importante riforma previdenziale italiana degli ultimi anni nel corso di una lunga intervista a Panorama.
 Sono tutti d’accordo che adesso bisogna “aggiustarla”. Quando si parla di coperture si preferisce omettere che il denaro verrà preso in altri settori della spesa pubblica o aumentando il debito e dunque l’instabilità finanziaria. A pagare il conto saranno i nostri figli e nipoti.
Da sempre nel mirino dei politici e delle loro promesse elettorali, ora la Fornero dice la sua sull’abolizione della sua riforma parlando di velleità.
“Modificarla è possibile ma cancellarla sarebbe velleitario. Da quello che annunciano, quota 100, sarà realizzabile con una riduzione volontaria della pensione. È quanto prevedeva anche la nostra riforma per età di pensionamento inferiori a 63 anni.
Eppure quella stessa riforma che oggi è nel contratto del governo gialloverde è stata sostenuta all’epoca dai partiti come sottolinea lo stesso ex ministro e che al’epoca sempre la nostra età di pensionamento era la più bassa d’Europa e come tale andava alzata.
“Avevamo l’età di pensionamento più bassa d’Europa e non è vero che oggi è la più alta. Bisognava allungare l’età pensionabile perché sono cambiate le aspettative di vita. Ho inoltre parificato l’età per le donne e gli uomini perché la pensione anticipata non poteva essere un contentino a posteriori da dare a una madre o nonna. Ci vuole la parità anche nel lavoro (…) Tutti dimenticano – o fanno finta di dimenticare – che la mia riforma è nata in un momento drammatico per l’Italia quando si temeva l’apocalisse. Era necessaria per dare un segnale e non tanto ai mercati finanziari ma al mondo (…) Ma abbiamo salvato l’Italia. Era un problema di credibilità. Bisognava dimostrare che potevamo farcela. Che il futuro cambiava da domani e non tra vent’anni (…) Ci vorrebbe il coraggio della verità. Quando ero ministro, i politici del Pd mi mostravano solidarietà ma a bassa voce. Mentre quelli del Pdl mi dicevano: «Elsa, hai fatto la cosa giusta»”.
La professoressa poi analizza in poche semplici parole tutto il sistema previdenziale italiano, vaso dei malumori per tanto tempo, quando la ricetta per risolvere la crisi è un’altra: il lavoro.
“Il sistema pensionistico è stato per troppo tempo lo strumento per cercare di risolvere quasi tutti i problemi della nostra economia. La pensione è vista come la fine di ogni responsabilità. Si prova a risolvere con la pensione ciò che andrebbe risolto con il lavoro”.

lunedì 11 giugno 2018

Russia e Cina: addio al dollaro

Russia e Cina hanno concordato di aumentare la quota degli scambi commerciali effettuati usando le rispettive monete nazionali, cioè il rublo e lo yuan, bypassando così il dollaro americano.
Questo è quanto stabilito in un accordo congiunto firmato dal presidente russo Vladimir Putin e da quello cinese Xi Jinping.
Il documento prevede “un ulteriore rafforzamento della cooperazione russo-cinese nel settore finanziario, promuovendo l’aumento della quota delle monete nazionali nei pagamenti commerciali, investimenti e finanziamenti, espandendo la collaborazione in settori come i sistemi di pagamento e l’assicurazione”.
I due leader hanno concordato di migliorare e incrementare i rapporti commerciali e la cooperazione economica, puntando alla crescita e alla collaborazione. Il presidente Putin ha detto che il giro d’affari della sinorusso potrebbe toccare i 100 miliardi di dollari entro la fine di quest’anno.
“La Cina è e continuerà ad essere il principale partner commerciale della Russia” afferma Putin, che aggiunge: “il commercio tra Russia e Cina è cresciuto e accelerato costantemente nei primi mesi di quest’anno.
I due leader hanno anche dichiarato di voler “creare un ambiente favorevole per le imprese russe e cinesi e ampliare in modo sostenibile la portata il livello della collaborazione degli investimenti sinorussi.
Sono inoltre all’ordine del giorno le questioni relative all’approfondimento della cooperazione nel settore del petrolio e del gas, del carbone, dell’elettricità, nonché nei settori delle risorse energetiche rinnovabili, delle attrezzature energetiche e dell’efficienza energetica.
La Cina è il più grande partner commerciale della Russia, rappresentando il 15% del commercio internazionale russo lo scorso anno. Il commercio bilaterale è aumentato del 31,5% nel 2017, raggiungendo gli 87 miliardi di dollari.
Secondo Putin, il commercio tra Russia e Cina raggiungerà quota 100 miliardi di dollari entro la fine dell’anno, poiché gli accordi tra i due Paesi aumentano in tutti i settori.
Il commercio tra Mosca e Pechino è cresciuto del 31% quest’anno e si prevede raggiunga l’obiettivo di 100 miliardi. L’ha dichiarato il presidente russo durante l’incontro col presidente cinese Xi Jinping. Con la crescita del commercio, i due paesi stanno promuovendo il pagamento in rubli e yuan, bypassando così il dollaro americano e le altre valute occidentali.
Secondo la Banca centrale russa, sia le società russe che quelle cinesi sono disposte a pagare in rubli che in yuan, e ciò può essere dimostrato da numeri reali. L’anno scorso, il 9% dei pagamenti per le forniture dalla Russia alla Cina sono stati effettuati in rubli. Le società russe hanno pagato il 15% delle importazioni cinesi yuan. Solo tre anni fa, i numeri erano, rispettivamente, del 2 e del 9%.

venerdì 8 giugno 2018

La banalità dell'orribile

Che l’umanità sia probabilmente arrivata al capolinea ce lo potrebbero dimostrare fatti e immagini di una gravità inaudita in un mondo dove la sofferenza, la disperazione e la miseria sono pane quotidiano per milioni di persone. Un mondo in cui con la fantastica tecnologia che abbiamo potremmo vivere tutti  in pace, sereni, in maniera dignitosa, avendo il giusto da mangiare, un riparo.
Invece, stranamente, tutta questa fantastica tecnologia non ci aiuta in questo senso. Non fa quello che sarebbe il primo compito delle invenzioni, migliorare le condizioni di vita di tutti, nessuno escluso. Si usa la tecnologia per cose contrarie a questi proponimenti e la si spreca in cose banali, assurde, spesso orribili, l’importante è guadagnarci, non importa come. Siamo bombardati di immagini tragiche che decretano la crisi dell’umanità,  tanto è strapieno il mondo di testimonianze di follia assoluta, eppure ce ne sono alcune che nella loro orribile semplicità indicano che si è perso qualsiasi senso e pietà.
Nell’irreale dove  conta solo mostrare e mostrarsi, ogni cosa diventa pretesto per apparire, per documentare qualcosa di singolare, di particolare e aumentare i consensi, le amicizie e così di fronte al dramma di una donna investita da un treno un giovane si ritrae con un selfie con lo sfondo della tragedia. È la virtualità, dove la percezione della realtà non è più tale e anestetizza tutto; questa, mista alla stupidità, sta facendo ottundere ogni senso, ogni pietà, ogni ragione. Come dice giustamente l’amico Valerio Pignatta, la nostra società non è più nemmeno quella liquida di Baumann, che in fondo qualche forma ce l’aveva; la nostra società è vaporizzata, non è più nulla, è zero, niente, stramorta, disintegrata in un selfie di una dramma, così come  chi va a fare turismo nei luoghi di tragedia. Siamo arrivati al limite, oltre questo non c’è più niente.
Forse la natura ci sta spazzando via anche per questo motivo; che senso ha l’esistenza laddove non c’è nessuna pietà, nessuna percezione, nessuna umanità. E probabilmente anche cercando di spiegare al ragazzo l’abisso del suo gesto, non capirebbe, si difenderebbe, penserebbe che non ha fatto nulla di male. Del resto ha ragione lui: la rete ospita cose ben peggiori, in tanti gioiscono e sorridono delle disgrazie altrui, insultano, distruggono esistenze, portano addirittura al suicidio le persone. Persone vittime della ferocia dell’uomo, l’unica vera bestia nel mondo animale.
Povero ragazzo.

giovedì 7 giugno 2018

L’Italia ha ordinato almeno altri 8 cacciabombardieri F-35

Lo scorso 25 aprile, mentre nel nostro Paese si festeggiava la Liberazione in un clima di incertezza politica e stallo sul nuovo Governo, il Pentagono ha siglato con Lockheed Martin un nuovo contratto contenente l’ordine italiano per un nuovo pacchetto di cacciabombardieri F-35. Si tratta di un piccolo acconto da 10 milioni di dollari relativo ai velivoli dei Lotti produttivi a basso rateo (LRIP) 13 e 14, cioè almeno altri ottonuovi aerei (6 nella versione convenzionale e 2 a decollo corto e atterraggio verticale), se si fa riferimento al più recente profilo di acquisizione reso noto l’anno scorso dalla Corte dei Conti – in cui compaiono dettagli per il Lotto 13 ma non per il 14 (che potrebbe essere composto da un numeropari o maggiore di velivoli).
L’acconto – relativamente contenuto – di dieci milioni versato poche settimane fa dà avvio al percorso di acquisizione di otto aerei che complessivamente dovrebbero costare 730 milioni di dollari se confida nelle previsioni, contestate da molti esperti del settore, della casa produttrice Lockheed Martin (85 milioni di dollari per la versione convenzionale e 110 per quella imbarcata); cifra che sale invece a circa 1,3 miliardi di dollari secondo stime più realistiche (150 milioni di dollari per la versione convenzionale e 180 per quella imbarcata tenendo conto dei costi del motore e degli interventi correttivi di retrofit).
Se l’acquisizione verrà portata a termine con i passi successivi a questo primo versamento, gli otto nuovi esemplari di JSF andranno a sommarsi ai tre velivoli del Lotto 12 ordinati un anno fa (contratto N00019-17-C-0001 del 28 aprile 2017) portando il totale degli F-35 finora acquistati dall’Italia ad almeno 26 macchine, di cui dieci già consegnate (nove all’Aeronautica e uno alla Marina).
Il costo medio reale di ogni aereo è stato finora di circa 150 milioni di euro, ma per rendere pienamente operativi i velivoli pre-serie già consegnati (e quelli in prossima consegna) sarà necessario aggiornarne il software (elemento fondamentale per ottenere livelli operativi da battaglia, e dal costo rilevante) allo standard ‘Block 4’ spendendo all’incirca 40 milioni di dollari in più per ciascun aereo.
Il costo complessivo dei novanta cacciabombardieri F-35 che l’Italia prevede di comprare è di almeno 14 miliardi di euro (di cui 4 già pagati), cui vanno aggiunti almeno 35 miliardi di euro di costi operativi e di supporto logistico per i trent’anni di vita di questi novanta aerei. Si stima che complessivamente il Programma, secondo i calcoli dall’ultima relazione disponibile redatta dalla Corte dei Conti, produca ricavi per l’industria (non per lo Stato) nell’ordine del 57% dei costi sostenuti (la metà di quanto previsto inizialmente) con una ricaduta occupazionale totale di circa 1.500 posti di lavoro, 900 nella FACO di Cameri, di cui almeno 600 precari, elemento che ha recentemente causato proteste e prime minacce di sciopero. Siamo ben lontani dai 6.400 posti di lavoro promessi inizialmente da Difesa e industria (oltre che da diverse forze politiche), numero già ridotto rispetto alla stima iniziale di 10.000 lavoratori.

mercoledì 6 giugno 2018

Tu chiamali, se vuoi, condoni

“Una rosa, con un altro nome, avrebbe lo stesso dolce profumo”, diceva Giulietta. Con meno poesia, il concetto vale anche per i condoni: li puoi chiamare in altro modo, ma conservano sempre la stessa puzza. Ed è proprio l’odore che si sente a pagina 21 del contratto Lega-5 Stelle, dove si parla di “pace fiscale”.

Vale la pena di leggere l’intero passaggio: «Il miglioramento delle procedure di riscossione passa inevitabilmente dal preventivo e definitivo smaltimento della mole di debiti iscritti a ruolo, datati e difficilmente riscuotibili per insolvenza dei contribuenti. È opportuno instaurare una “pace fiscale” con i contribuenti per rimuovere lo squilibrio economico delle obbligazioni assunte e favorire l’estinzione del debito mediante un saldo e stralcio dell’importo dovuto, in tutte quelle situazioni eccezionali e involontarie di dimostrata difficoltà economica. Esclusa ogni finalità condonistica, la misura può diventare un efficace aiuto ai cittadini in difficoltà ed il primo passo verso una “riscossione amica” dei contribuenti».

Domanda: come si può suggerire di stralciare parte degli importi dovuti dai contribuenti all’Erario e allo stesso tempo negare che si tratti di un condono fiscale? La formulazione vaga del programma non aiuta a capire.

Per fortuna, viene in nostro soccorso un’intervista ad Armando Siri pubblicata su La Repubblica lo scorso 11 maggio: «Famiglie, commercianti e imprese che hanno pendenze con Equitalia fino al 2015 - spiega il senatore leghista - potranno mettersi in regola versando in modo agevolato il 25%, il 10% o il 6% del dovuto, a seconda delle difficoltà economiche in cui si trovano».

Stop. La Treccani, alla voce “condono fiscale”, dà questa definizione: «Provvedimento legislativo che prevede un’amnistia fiscale e ha lo scopo di agevolare i contribuenti che vogliano risolvere pendenze in materia tributaria». È evidente che la “pace fiscale” dei penta-leghisti, che nella versione più estrema annullerà fino al 94% del debito del contribuente, non esclude affatto “ogni finalità condonistica”. Perché è un condono.

Purtroppo però non è finita qui. Al di là delle valutazioni sul merito del provvedimento, ci sono alcuni problemi tecnici da valutare.

Il primo ha a che vedere con il gettito atteso: «Nel 2019 contiamo di recuperare 35 miliardi - continua Siri - nel 2020 altri 25 miliardi». Entrate una tantum da utilizzare a copertura parziale della flat tax, che è strutturale e costa 50 miliardi l’anno (in teoria, una volta esaurito il tesoretto della “pace fiscale”, la tassa piatta dovrebbe autofinanziarsi grazie alla crescita innescata proprio dall’abbattimento delle tasse).

Il problema è che questi numeri si fondano su un calcolo discutibile. Come rileva LaVoce.info, la vecchia Equitalia (oggi Agenzia delle Entrate-Riscossioni) vanta crediti per 1.058 miliardi di euro: di questi, la Lega considera ancora esigibili almeno 650 miliardi, mentre Ernesto Maria Ruffini, ex amministratore delegato di Equitalia e ora direttore dell’Agenzia delle Entrate, in un’audizione parlamentare del febbraio 2016 aveva parlato di “posizioni effettivamente lavorabili” per soli 51 miliardi.

Anche se entrambi avessero torto e la verità fosse da qualche parte nel mezzo, i conti di questo condono rischiano di essere pesantemente sbagliati. Di conseguenza la flat tax, oltre a essere un’aberrazione sociale e costituzionale per la sua iniquità, sarebbe impossibile da finanziare, a meno di non trascinare a picco i conti dello Stato.

Per quanto riguarda il piano ideologico, è curioso che grillini e leghisti, dopo aver passato anni a scagliarsi contro voluntary disclosure e rottamazione delle cartelle gridando al condono, ora si producano in un condono vero e proprio. A loro difesa, probabilmente, diranno che la “pace fiscale” non è accessibile agli evasori ed è riservata soltanto a chi ha difficoltà economiche. I leghisti spiegano infatti che, per beneficiare dello sconto, il contribuente deve aver presentato la denuncia dei redditi ma non trovarsi nelle condizioni materiali di pagare il dovuto all’Erario.

Anche queste precisazioni, tuttavia, sollevano dei dubbi. «Quali sarebbero le “difficoltà economiche” meritevoli di tutela? - si chiede Giuliano Cazzola su FIRSTonline.info - magari anche un investimento sbagliato oppure una vicenda giudiziaria molto onerosa? Ci saranno delle Commissioni che giudicano caso per caso in modo inappellabile o sarà consentito il ricorso per via amministrativa o addirittura al giudice ordinario?».

Fino ad ora, l’unica vera certezza è l’espressione “pace fiscale” non è altro che un eufemismo politichese. E che questo condono non profuma di rosa.

martedì 5 giugno 2018

Cosa ci dobbiamo aspettare dal nuovo governo?

Per rispondere a questa domanda non bisogna andare a leggere il famigerato “contratto” ma piuttosto quelle che sono le dichiarazioni del neo-ministro dell’economia Tria che sarà colui che effettivamente dirà cosa si può fare e soprattutto come.
In questo senso sono emblematiche le cose che ha detto negli ultimi giorni che svelano in pieno il carattere anti-popolare di questo esecutivo.
«[…] ritengo che in Italia si debba riequilibrare il peso relativo delle imposte dirette e di quelle indirette spostando gettito dalle prime alle seconde. Si tratta di una scelta di policy sostenuta da molto tempo anche dalle raccomandazioni europee e dell’Ocse perché favorevole alla crescita e non si capisce perché non si possa approfittare dell’introduzione di un sistema di flat tax per attuare un’operazione vantaggiosa nel suo complesso»
In pratica afferma che per diminuire le tasse e dare applicazione alla Flat-Tax bisogna aumentare l’IVA. Ciò vuol dire che per coloro che hanno un reddito come il mio, che si aggira sui 1.400,00 euro mensili, il danno è doppio. Il primo danno è che non pagherò meno tasse perché grazie a detrazioni e bonus il mio reddito già rientra in quella che nei programmi del governo è l’aliquota più bassa. Il secondo e più consistente sta nel fatto che il mio reddito, ad esclusione delle spese per il fitto di casa, va tutto in consumi ed è quindi soggetto ad Iva. Nello specifico parliamo dell’80% di ciò che guadagno.
Al contrario per i ricchi una riforma di questo tipo è doppiamente vantaggiosa. Andranno a pagare molto meno tasse e contemporaneamente, poiché spendono una percentuale bassa del loro reddito in consumi, l’aumento dell’Iva inciderà molto poco.
Coloro che hanno redditi alti, infatti, per quanto conducano una vita lussuosa a differenza di quelli che appartengono alle classi popolari, non spendono tutto ciò che guadagnano, ma accumulano le loro ricchezze. Queste ricchezze raramente vengono impiegate in attività produttive, ma quasi sempre sempre vengono investite in ambito finanziario, dove già godono di una fiscalità di vantaggio.
I ricchi saranno sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
L’aumento delle disuguaglianze che è il fenomeno caratteristico di quest’epoca è che è alla base della crisi che stiamo vivendo non solo non viene intaccato, ma addirittura aggravato.
Ma in questa dichiarazione implicitamente è descritto anche il modello economico e produttivo che hanno in mente e come pensano di ottenere la famigerata crescita.
La crescita la puoi ottenere solo in due modi: aumentando i consumi e/o aumentando le esportazioni.
Ora è evidente che se si alza l’IVA i consumi diminuiscono e quindi non è su questo versante che pensano di agire. Se merci e servizi costano di più, uno come me è costretto a comprarne di meno, si abbassa la domanda interna e la produzione cala.
Di conseguenza ciò significa che loro immaginano di aumentare l’export; ma per aumentare le esportazioni l’unico modo è essere competitivi sui mercati internazionali. Per essere competitivi, bisogna diminuire i prezzi di merci e servizi e per farlo c’è un solo modo: ovvero abbassare i salari, sia nella loro componente diretta che in quella indiretta. In pratica le aziende devono poter pagare meno i propri dipendenti e/o pagare meno tasse, ma per pagare meno tasse non c’è altra strada che tagliare la spesa sociale.
Nei loro piani, per ottenere la crescita, le nostre condizioni di vita e di lavoro devono necessariamente peggiorare rispetto al presente .
Probabilmente è per questo che si sono definiti il governo del cambiamento.

lunedì 4 giugno 2018

Hans-Olaf Henkel: la Merkel non è stata eletta dagli italiani, e l’Italia starebbe meglio fuori dall’euro


Qualunque sia la sfida a cui la UE si trova di fronte, la risposta che sentiamo ripetere piuttosto spesso è “più Europa”. Sempre la stessa ricetta per le malattie più diverse e gravi. Tuttavia, prima di prescrivere un trattamento, un medico dovrebbe fornire una diagnosi e una prognosi, ma niente di tutto questo sta avvenendo.

Temo che in molti casi il rimedio che si continua a raccomandare, il “più Europa”, non funzioni. In tutta Europa stiamo assistendo a un marcato incremento del populismo di destra, e questo è la conseguenza di “troppa Europa”. Cosa significa “più Europa”? Significa che 27, ma presto saranno 26, paesi membri diversi dal tuo hanno voce in capitolo su quanti immigrati il tuo paese debba accogliere. Significa che 17 paesi membri hanno voce in capitolo sulle tue politiche monetarie e, perciò, su quanto potete spendere per le politiche sociali e del lavoro, e altro.

La Brexit secondo me è la più grande catastrofe degli anni recenti, ed è il risultato indiretto di “troppa Europa”. Bruxelles ha violato troppo spesso i principi di sussidiarietà (in base al quale le decisioni dovrebbero essere prese il più possibile vicino alla gente [che ne subisce le conseguenze, NdT]), responsabilità e competitività, così come erano stati definiti nel Trattato di Lisbona. Questo è ciò che ha in primo luogo contribuito a gettare le basi del referendum britannico. Bruxelles ha contribuito a questo esito rifiutando di offrire la flessibilità necessaria affinché la Gran Bretagna controllasse la propria immigrazione. Questa è una tragedia, perché il Regno Unito da solo ha un’economia equivalente all’insieme dei 19 paesi più piccoli della UE. È il secondo maggiore contribuente netto al bilancio europeo, nonostante le riduzioni già attuate. Continuo a credere che ci sia una via d’uscita a questo caos. La UE dovrebbe fare al Regno Unito una nuova proposta (un New Deal per la Gran Bretagna: www.new-deal-for-britain.eu) offrendo al paese la flessibilità e l’autonomia che esso ha sempre richiesto, assieme a un chiaro impegno per la sussidiarietà, la competitività e la responsabilità sul debito del paese stesso, così come concordato col Trattato di Lisbona.

Anche la crisi in Italia è dovuta a “troppa Europa”, e specialmente all’euro. Molte persone sostengono che per un mercato unico abbiamo bisogno dell’euro. Tuttavia 9 paesi membri sono parte del mercato unico, ma non dell’eurozona. Di fatto quelli che hanno la propria moneta stanno crescendo più velocemente della maggior parte dei paesi dell’eurozona. È la sola performance dell’economia esportatrice tedesca a tenere alta la crescita media dell’eurozona.

Purtroppo non c’è paese in Europa che soffra di questa “taglia unica” più dell’Italia. Prima di entrare nell’euro l’Italia copriva una quota del mercato globale pari al 6%. Ora si è ridotta al 3%. Il paese è sovra-indebitato. Il tasso di disoccupazione giovanile è un disastro totale. L’Italia sta iniziando a rendersi conto di soffrire di una moneta troppo forte, mentre l’industria tedesca beneficia slealmente di un euro troppo debole, che la porta a enormi surplus commerciali.

Ho molto a cuore la pace in Europa, ma non credo che abbia niente a che fare con l’euro. La Germania non è in guerra con alcun paese esterno all’eurozona. Tuttavia ciò a cui assistiamo in Italia è un’atmosfera avvelenata da sentimenti anti-tedeschi, utilizzata per raccogliere voti. Il motivo è molto chiaro. È che l’euro costringe il maggior paese creditore – la Germania – a prendersela col maggior paese debitore – l’Italia.

La Merkel non è stata eletta dagli italiani. Abbiamo già visto cosa sia accaduto in Grecia. Credo che la moneta debba rispecchiare le diverse culture fiscali ed economiche, e non che altri paesi cerchino continuamente di imporre agli italiani come mantenersi competitivi sui mercati globali. Penso che dovremmo lasciar decidere a loro se fare delle riforme del mercato del lavoro o svalutare, o una combinazione delle due cose. Le recenti elezioni in Italia hanno mostrato che questa è anche l’opinione della maggior parte degli italiani.

Marco Valli e Marco Zanni, membri italiani del Parlamento Europeo, hanno chiesto al presidente della BCE cosa l’Italia debba fare per uscire dall’euro, e lui ha risposto che “in caso di uscita dall’unione monetaria, l’Italia deve per prima cosa ripagare tutti i suoi impegni finanziari verso la BCE“. Draghi ha indicato la via di uscita al problema italiano: uscire dall’unione monetaria.

Nel caso di uscita, l’Italia dovrebbe comunque essere sostenuta finanziariamente. Questo peraltro rimetterebbe in equilibrio i nostri libri contabili, cosa necessaria già da molto tempo. Per concludere, un’Italia malata dentro l’Unione monetaria sarebbe certamente peggio di un’Italia sana con la sua moneta nazionale. Questo è il motivo per cui credo che l’Italia starebbe economicamente meglio se fosse fuori dall’eurozona.





venerdì 1 giugno 2018

Nasce governo M5s-Lega.

Il premier Giuseppe Conte è uscito dalla sua abitazione, nel centro di Roma, per andare a Montecitorio. E' salito su un taxi e ai cronisti che l'aspettavano ha detto: "Emozionato? Beh sì, un po' emozionato lo sono".

"Grande forza, grande entusiasmo e determinazione vogliamo lavorare nell'interesse del paese degli italiani cercheremo di fare il nostro massimo. Il Paese ha bisogno di fiducia, ha bisogno che si creino i presupposti per poter andare tutti fieri e orgogliosi di questo paese". Così il neo presidente del Consiglio Conte ha risposto ieri sera all'uscita da una pizzeria romana. Ai cronisti che gli hanno chiesto se il governo nasce debole Conte ha risposto: "Dimostreremo coi fatti che non lo è".

Il neo presidente del Consiglio sarà ricevuto questa mattina alle 10,30 a Montecitorio dal Presidente della Camera, Roberto Fico. Conte aveva visto ieri sera a Palazzo Madama la Presidente del Senato, Elisabetta Casellati.

Con Giuseppe Conte presidente del Consiglio e Giovanni Tria ministro dell'Economia, nasce il governo di Movimento Cinque Stelle e Lega. A quasi tre mesi dalle elezioni e a un passo dal ritorno alle urne. Luigi Di Maio e Matteo Salvini, che saranno ministri e vicepremier, siglano l'accordo al termine di un lungo faccia a faccia alla Camera. A sbloccare l'impasse è soprattutto un cambio di ruolo di Paolo Savona, il professore anti-euro cui Sergio Mattarella aveva negato l'Economia: avrà la delega alle Politiche europee. "E' stato raggiunto l'accordo per un governo politico M5s-Lega", recita una nota di Di Maio e Salvini alle sette di sera. "Lavoreremo intensamente per realizzare gli obiettivi del contratto, lavoreremo con determinazione per migliorare la qualità di vita di tutti gli italiani", sono le prime parole di Conte da premier, dopo aver letto al Quirinale, tre ore più tardi, la lista dei suoi ministri.

"Si è concluso un complesso itinerario", chiosa il capo dello Stato, che alle 16 riceverà al Colle il nuovo presidente del Consiglio e la squadra dei diciotto ministri, tra cui cinque donne, per il giuramento. Nasce un governo politico, dunque. Un governo giallo-verde. Con Di Maio e Salvini vicepremier. E due professori, Conte e Tria, a Palazzo Chigi e via XX Settembre. Nascerà ufficialmente, all'inizio della prossima settimana, con il voto di fiducia in Parlamento di M5s e Lega. Dice "No" Forza Italia, che annuncia "battaglia per i cittadini". E annunciano un'opposizione dura Partito democratico e Liberi e uguali: "Costruiremo l'alternativa - dice Maurizio Martina - al governo populista e di destra che ha un programma pericoloso, antieuropeo e iniquo". Fratelli d'Italia, che era disponibile al "Sì" alla fiducia, sceglie la linea dell'astensione. "Per patriottismo - dichiara Giorgia Meloni - diamo una mano perché l'Italia è sotto attacco e non ci possiamo permettere il voto a luglio". E' questo un passaggio chiave per la nascita del governo: M5s era infatti contrario a dare ministeri al partito di Meloni e solo lo stop di Salvini all'alleata sblocca l'intesa, nella lunga trattativa finale tra M5s e Lega.