giovedì 27 dicembre 2018

Censis, la società italiana del 2018

“Sono diversi anni che questo Rapporto sottolinea come la società italiana viva una crisi di spessore e di profondità e come gli italiani siano incapsulati in un Paese pieno di rancore e incerto nel programmare il futuro. Ogni spazio lasciato vuoto dalla dialettica politica è riempito dal risentimento di chi non vede riconosciuto l’impegno, il lavoro, la fatica dell’aver compiuto il proprio compito di resistenza e di adattamento alla crisi”. A fotografare la realtà sociale italiana, è il cinquantaduesimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2018 del Censis, in cui la società ne esce delusa, arrabbiata e diffidente.


Per il miracoloso cambiamento post crisi non avvenuto e per l’assenza di prospettive di crescita. Cosicché, il futuro (da attendersi) è “una pura estrapolazione del traballante presente”. Nonostante abbia creduto all’ultimo residuo di quella cultura progettuale che, seppur artefice di tanti danni per ‘Italia, ne ha caratterizzato la sua storia, il rallentamento degli indicatori macroeconomici, l’impoverimento del vigore della crescita, il rinforzarsi di vecchie incertezze hanno volto al negativo il clima di fiducia degli italiani. La provvisorietà e la transizione che, in attesa della svolta si sono rafforzate, hanno condotto gli italiani all’antica consapevolezza che “solo le risoluzioni delle crisi inducono sviluppo”.

Il processo chiave dell’attuale situazione è l’assenza di prospettive di crescita, individuale e collettiva, appunto. Prova ne sia che: il 63 per cento degli italiani è convinto che nessuno ne difende interessi e identità; solo il 45 per cento ritiene di avere le stesse opportunità degli altri di migliorare la propria vita; il 35 per cento è pessimista perché guarda l’orizzonte davanti a sé con paura e inquietudine e il 31 per cento è incerto sulla riuscita del suo futuro. E, però, per effetto della potenza iconoclasta dei media digitali, la metà della popolazione è convinta che oggi chiunque possa diventare famoso (e quindi migliorare la propria vita), ritenendo che “la popolarità sui social network sia un ingrediente fondamentale per poter essere una celebrità, come se si trattasse di talento o di competenze acquisite con lo studio”.

Come se non bastasse, quattro persone su dieci credono di poter trovare su internet le risposte a tutte le domande. Per, poi, ammettere, in una schizofrenica contraddizione, che la rete è piena di bufale, soprattutto in relazione alla politica tanto che per il 53 per cento degli italiani la comunicazione politica dei social network è dannosa o inutile. Anche fuori dalla rete, non riuscendo ad assurgere alla funzione di coesione identitaria che, nella storia, l’ha caratterizzata, finendo per essere percepita come autoreferenziale.

D'altronde basti sfogliarne l’agenda per notare che temi quali l’innovazione e la ricerca, volano e traino per gli altri paesi comunitari (europei), in Italia facciano fatica a imporsi nel dibattito pubblico e perciò a decollare: l’andamento della spesa pubblica destinata alla ricerca è in costante diminuzione. E non se la passa meglio, la spesa dedicata alla formazione sulla quale il Belpaese investe il 3,9 per cento del PIL contro la media europea del 4,7 per cento e la spesa per allievo risulta inferiore alla media citata di duecentotrentadollari nella scuola primaria fino a meno mille e duecentosessanta dollari nella scuola secondaria di secondo grado.

A risentirne, l’occupazione: dal 2007 al 2017, si è passati da duecentotrentasei giovani occupati ogni cento anziani a una sostanziale parità, mentre nel segmento più istruito, i duecentoquarantanove giovani laureati occupati ogni cento lavoratori anziani sono diventati appena centoquarantatre.

L’Italia non ha ancora recuperato i livelli occupazionali pre crisi: è il caso della Liguria, della Puglia, della Sicilia, del Veneto e della Campania. Nonostante la recente ripartenza, sono ancora lontane dai valori precrisi regioni importanti per l’economia nazionale come il Lazio, il Piemonte, la Liguria; in sofferenza ancora le regioni del Centro colpite dalla crisi economica prima e dal sisma poi. Meno sette punti per le Marche e meno dodici per l’Umbria.

“Ignorare il cambiamento sociale è stato l’errore più grave della nostra classe dirigente del trascorso decennio. L’errore attuale rischia di essere quello di dimenticare che lo sviluppo italiano continua ad essere diffuso, diseguale, pieno di singolarità umane e collettive. Se ci si appiattisce al loro presente si finisce per restare prigionieri di impulsi disarticolati e giocati solo sul presente. Meglio prendere coscienza di avere di fronte un ecosistema di attori e processi: governarlo non significa riformare i suoi più visibili comparti, ma ricercarne il senso condiviso”, si legge nel Rapporto.

venerdì 21 dicembre 2018

Il ruolo della Germania in Europa – Siamo noi gli egemoni

Al momento i tedeschi si mostrano esitanti sul loro ruolo in Europa. Eppure, candidati di riserva non ce ne sono. È dunque il momento di affrontare la realtà. 

Né la politica né la società tedesche hanno ambìto a questo ruolo: quello della potenza centrale in Europa, a cui tocca il compito di domare le forze centrifughe che recentemente sono drammaticamente cresciute nell’Unione europea, di far incontrare i diversi interessi degli europei del nord, del sud, dell’ovest e dell’est, cercando nel contempo una linea comune, e infine di far sì che la sfida lanciata da una parte dell’Unione coinvolga anche la parte opposta. Questo è un compito che richiede una grande abilità politica. Bisogna essere pazienti, ma comportarsi con decisione, si devono finanziare dei compromessi per renderli accettabili, e contemporaneamente stare attenti che i patti su cui in definitiva si fonda l’Unione europea vengano effettivamente rispettati.
E per tutto questo è necessario, come se non bastasse, trovare il consenso politico della propria popolazione. I compiti a cui deve assolvere la potenza centrale europea assomigliano alla quadratura di un cerchio.


Efficiente e resistente al populismo

Non meraviglia che la politica tedesca, finché è stato possibile, abbia cercato di evitare di assumersi questo ruolo. Sono state necessarie più sollecitazioni dall’esterno prima che alla fine, almeno nella classe politica, si imponesse l’idea che la Repubblica federale deve assumersi, anche consapevolmente, il ruolo che nei fatti le è toccato, per poterne essere all’altezza e non fallire. Infatti il problema sta nel fatto che, se i tedeschi falliscono, non è pronto nessun candidato di riserva che possa entrare in campo e assumersi questo ruolo. Per dirla in modo drammatico: se la Germania fallisce nella missione di potenza centrale, allora fallisce l’Europa. L’espressione “il fallimento della Germania” – e non ad esempio “il fallimento della politica tedesca” – l’ho scelta con cognizione di causa, poiché la missione di “potenza centrale”, alla lunga, non può essere assolta dalla politica senza il sostegno duraturo da parte della società.

Non sono infatti solamente la potenza economica della Germania, il suo maggiore numero di abitanti, prossimo a quello degli stati immediatamente più popolosi, o la circostanza di essere il paese che nel suo insieme ha tratto il maggior profitto dall’ unificazione europea, ad aver imposto alla Repubblica federale la posizione di potenza centrale, bensì, in pari misura, anche il fatto, tutt’altro che ovvio, che la popolazione tedesca più degli altri stati europei ha dimostrato di resistere alle promesse dei partiti populisti. Questa è la premessa per poter elaborare in modo responsabile i compiti da potenza centrale europea.

Un dibattito all’interno della società, non un progetto elitario

La Francia, che nel progetto europeo, in tandem con la Germania, ha interpretato quel ruolo guida per decenni, ormai ha perso la sua funzione; non solo è alle prese con le mancate riforme economiche e sociali, ma si trova in questa posizione (di retrocessione, ndt) come conseguenza della forte affermazione del Fronte nazionale nella politica francese. Non appena raggiungono una certa forza, anche se non coinvolti nel governo, i partiti populisti di destra e di sinistra limitano la libertà d’azione di un Paese. Nella libertà d’azione si può dunque vedere l’arcano di una potenza centrale. Essere all’altezza delle sfide non è dunque una missione che una potenza centrale possa affrontare se questo rimane il progetto di una élite. Se si vuole veramente essere all’altezza, occorre il sostegno di gran parte dell’elettorato e la sua disponibilità ad affrontare queste sfide e a sopportarne il peso. A tal fine, alla lunga, non basterà certamente essere refrattari al populismo, bensì servirà una discussione nella società, in cui vengano esplicitate e discusse le opportunità e i rischi del ruolo di potenza centrale.

 Assumersi questo compito, prima che sia troppo tardi

Su questo finora c´è un deficit in Germania. E se le cose stanno così dipende non tanto dal fallimento dei politici, quanto piuttosto dal fatto, ben noto, che gli intellettuali, di solito così amanti delle discussioni, evitano di affrontare questo problema. Invero questo dibattito non va condotto lanciando allarmi, richiami preoccupati o moniti, bensì confrontandosi in maniera responsabile con un grande tema, non destinato a scomparire dai titoli dei giornali in poche settimane; un tema che non si deve svolgere esortando la popolazione, o creando aspettative, ma in cui ne va della capacità di convincere, propria degli argomenti politici. Il ruolo di potenza centrale in Europa che ormai spetta alla Germania non si lascia ridurre alla capacità di resistenza dei politici nelle trattative-maratona di Bruxelles, bensì abbraccia un confronto politico e sociale dettagliato sui compiti da assumere. Questo forse non sembra ora così impellente, poiché i dati economici del Paese sono buoni ed è chiaro a chiunque sappia far di conto che la Germania trae vantaggi dall’UE, anche se è di gran lunga il maggior contributore netto dell’Unione. I compiti di una potenza centrale vanno assunti anche quando il quadro congiunturale peggiora. Ergo: discuti delle sfide e dei problemi per tempo, così in tempi difficili avrai almeno la possibilità di venirne a capo.

giovedì 20 dicembre 2018

Euroburocrati, ovvero “la banalità del male

C’era una volta la politica, c’erano una volta i politici. C’è stata un’epoca, ormai lontana, in cui i politici avevano ancora una minima indipendenza dai potentati economici, e lavoravano principalmente in virtù dei rapporti di forza all’interno di una società divisa per ideologie più che per lobby (che peraltro ci sono sempre state). Ma oggi è diverso.
In un’epoca post-ideologica in cui la figura stessa dell’“istituzione stato” è ormai destinata, non per volontà propria ma per volere del transnazionalismo finanziario, a soccombere in nome del globalismo senza confini, non c’è più bisogno dei politici: sono sufficienti dei meri “amministratori di condominio”, nella fattispecie il “condominio Europa”, mantenuto ad hoc nel caos e nella precarietà ontologica. Essi non hanno a cuore le fondamenta dei singoli edifici, anzi, fanno di tutto per farne marcire le fondamenta. E il loro unico scopo è quello di riscuotere la rata mensile dai condomini, cercando di tenerli il più possibile in stato di soggezione.
Cos’è la banalità del male? La definizione di Hannah Arendt è in realtà applicabile a tutti gli euroburocrati, un blocco umano che per caratteristiche esteriori ed interiori è ormai paragonabile alla nomenklatura sovietica, ma ulteriormente trasmutati nella nuova logica di “uomo nuovo” europeo, senza ideologia né morale. Privi di una qualsivoglia identità ideologica e fattuale che non sia quella della finanza e del mercato, essi sono a-morali per definizione. Vanno ben oltre il machiavellismo politico del ventesimo secolo, che si serviva strumentalmente del popolo per consolidare il proprio potere: nella concezione eurocratica, il popolo nemmeno viene preso in considerazione. Anzi, meno ce n’è, meglio è.
Possiamo vedere l’esempio della Grecia, da oltre tre anni scomparsa dalla narrazione mediatica, se non con scarni comunicati del tipo “finalmente fuori dalla recessione”. Ridotta ormai a un lazzaretto, schiacciata dalla ferocia delle “riforme strutturali” da sempre caldeggiate dalla UE, devastata economicamente e socialmente tramite leva economica e immigratoria, rappresenta la cavia da laboratorio su cui il regime UE ha sperimentato con successo le sue tecniche di “disruption” dello Stato e del suo collante sociale.
Milioni di greci, come peraltro milioni di italiani, sono finiti nella miseria più nera, ma questo non coinvolge minimamente i burocrati europei, nascosti come novelli Berja dietro a un paio di occhiali e dietro sguardi sottili e inumani, quelli di un Juncker, di un Dijsselbloem, di un Dombrovskis, di un Monti. Tutti uguali, tutti con lo stesso aspetto gelido e anonimo da spietati contabili, alla cui firma sono appesi i destini di milioni di persone. Del resto, non è stato lo stesso Monti (esempio supremo di politico-burocrate europeo) a dire che “la Grecia è stata la manifestazione più concreta del successo dell’Euro?”
Naturalmente è chiaro a tutti che la Commissione Europea è solo un luogo “fisico” dove vengono deliberate decisioni prese altrove, nei consessi massonici, nelle commissioni trilaterali e in qualsiasi altro posto che non sia riconoscibile entro confini e luoghi precisi. La natura amorfa e anonima del Nuovo Potere transnazionale, si esprime non solo attraverso la fisiognomica eurocrate, ma anche attraverso il “non luogo” e la “non identità”, concetti applicati su scala industriale anche ai cittadini europei.
Tuttavia, è già un punto di partenza riconoscere che c’è un luogo “fisico” dove viene resa ufficiale l’eversione ai danni dei popoli europei, e questo luogo si chiama Unione Europea. Una volta riconosciuto universalmente il male, si può provvedere (sia pure con grandi difficoltà) a circoscriverlo e a stroncare gli altri focolai decentrati. L’importante è che il paziente sia pienamente informato dei rischi in assenza di cura. E la cura non può essere indolore.

mercoledì 19 dicembre 2018

Il governo ha sbagliato manovra, ora cambi la Costituzione”

Ancora nessun accordo tra Italia e Ue. A Roma si ritoccano i saldi della legge di bilancio per ottenere il 2,04% di rapporto deficit/Pil promesso da Conte alla Commissione europea, che chiede una ulteriore riduzione del deficit strutturale e che mercoledì dovrebbe comunicare al governo il suo verdetto. Al momento, dunque, la procedura di infrazione non è scongiurata.
I due vicepremier si affannano a fornire garanzie sul reddito di cittadinanza e quota 100, ma i due provvedimenti hanno già pagato un prezzo molto salato (4 miliardi in tutto) ai vincoli europei. “Mi auguro che a Bruxelles ci sia buonsenso e non figli e figliastri” ha detto Salvini, riferendosi al doppiopesismo applicato verso Francia e Italia. Un auspicio, però, che è destinato a non produrre nulla, perché “con i mezzi della politica contingente” l’Italia rimarrà dov’è, prigioniera della gabbia che si è colpevolmente scelta, spiega il costituzionalista Mario Esposito.
Professore, cosa pensa della situazione cui è giunta la trattativa tra Ue e Italia?
Nessuna sorpresa. Al di là del gioco di specchi in cui finisce per risolversi il confronto tra Commissione e Governo nazionale sulle percentuali di deficit, gli articoli 81, 97 e 119 pongono vincoli costituzionali inderogabili. La conformità — e badi bene: non il semplice rispetto — alle prescrizioni europee in materia di bilancio è ormai un carattere del nostro sistema interno, che le comprende e vi si subordina. In altri termini, la loro violazione contravviene non solo ai Trattati europei, ma alla Costituzione.
Dunque potrebbe essere che il 2,4% di deficit sia stato bocciato, in via preventiva, dagli uffici legislativi del Quirinale?
Non lo sappiamo e del resto non coltivo “dietrologie”. Ma non ci si dovrebbe stupire se si fosse fatto ricorso alla moral suasion da parte delle istanze di “garanzia attiva” della Costituzione.
Insomma dopo ls riforma del 2012 i vincoli di bilancio non dipendono solo dalla volontà della Commissione, come qualcosa che ci è imposto.
E’ questo il punto: fanno ormai parte delle nostre regole fondamentali, condizionando fortemente l’organizzazione costituzionale. Non solo: è sotto questa luce che dovremmo tornare a vedere il “film” della formazione di questo governo, quando il presidente della Repubblica si sentì tenuto a presidiarne strettamente e molto attivamente la composizione per assicurare la lealtà dei suoi singoli componenti all’Unione Europea, ossia a quella struttura organizzativa le cui decisioni esprimono in concreto i parametri cui siamo strutturalmente vincolati con forza di legge costituzionale.
Un suicidio politico. E’ davvero sconfortante.
Un’abdicazione, se vuole. Voluta da una larghissima maggioranza delle forze politiche e in un inquietante silenzio, nonostante la gravità della scelta. Aggiunga poi il contrasto tra questo nostro atteggiamento e quello dei Paesi più forti, che, nello stesso torno di tempo, dal “fronte unionista” ripiegavano su posizioni intergovernamentali e, dunque, più schiettamente internazionalistiche…
La Ue sembra dotata di un fortissimo potere di cooptazione all’interno del proprio establishment. Lo dimostra la svolta centrista di Salvini, a cominciare dalla fascinazione esercitata dal Ppe e dal proposito, testuali parole del vicepremier, di “cambiare l’Europa dall’interno”.
E’ la forza interna del sistema: seguendo l’acuta impostazione di Giuseppe Guarino, le norme giuridiche sono chiasmi di energia. Non sono dettami inerti, ma attivi, condizionano la realtà politica, si potrebbe quasi dire che la producano. E poi ricordiamoci che la Ue è una struttura del tutto atipica, dove accanto alle regole e alle procedure codificate agiscono molte sedi informali.
Dopo un mese di gilet gialli Macron è andato in tv a dire che avrebbe fatto più debito. Più sorprendente è che il nostro governo, davanti a una violazione annunciata del Fiscal compact, non abbia battuto ciglio.
Ma questa è la storia del rapporto di sempre dell’Italia con l’Unione Europea. Lei ricorda una sola volta in cui, nel suo lungo cammino di cosiddetta integrazione, l’Italia abbia fatto una sola volta la voce grossa?
Forse questa era l’ultima possibilità. Perché siamo sempre stati più europeisti degli altri?
Perché pensavamo che fare i virtuosi a Bruxelles potesse servire a risolvere le magagne di casa nostra.
Il principio politico, prima ancora che economico, del “vincolo esterno”.
Sì, e le dirò di più: se è per questo, la genesi stessa della nostra repubblica è caratterizzata da un vincolo esterno (e, risalendo nel tempo, anche la nostra unità nazionale). La nostra posizione internazionale è ancora quella che viene dal trattato di pace del 1947.
Se l’imperativo è quello di “evitare l’infrazione”, come ripetono Mattarella e il governo, vuol dire che nessuna svolta è possibile. Cosa ci resta da fare?
Adeguarci alle richieste. Non siamo formalmente in una posizione di forza. Lo dicono le norme. 
E la politica deve adeguarsi. Non possiamo proprio farci nulla?
Non con i mezzi della politica contingente. L’unica strada sarebbe quella di una riforma costituzionale che cambi direzione.
Nel frattempo, senza poter fare una manovra pesantemente anti-ciclica, saremo stritolati.
Economisti e giuristi molto attenti già molti anni fa avevano lucidamente preconizzato che i vincoli contratti a Maastricht, nelle condizioni in cui versavamo allora, avrebbero comportato un “avvitamento” del nostro sistema, a meno di non cambiarlo radicalmente e magari di rinunciare alla stessa “forma statuale”. E chissà che non sia proprio questo il significato della riforma del 2012, che, se valutata integralmente, stravolge appunto elementi essenziali di tale forma.

martedì 18 dicembre 2018

L’onda di tsunami che cresce dentro Deutsche Bank

Tutti presi dai tweet politici di Tizio Caio – nanerottoli per dimensioni del paese in cui avvengono e per statura da statisti – quasi tutti hanno perso di vista “il sottostante” di ogni politica. Ossia l’economia reale e finanziaria.
Proviamo perciò a tirarci fuori dalla stretta contingenza e guardare un po’ più dall’alto l’andamento delle cose. Come si fa in montagna, quando il sentiero sembra incerto e si consulta la mappa (visione dall’alto) per ristabilire la direzione che con i piedi (visione dal basso) è diventata incerta.
Per non fare discorsi alati e un po’ campati in aria, partiamo dai dati diffusi da Mediobanca (comparto R&S), che hanno allarmato l’imprenditoria italiana, o almeno la parte delegata a pensare. A darne conto è stato un articolo di Antonella Olivieri, apparso su IlSole24Ore qualche giorno fa: Banche, allarme derivati: valgono 33 volte il Pil mondiale.
I non addetti ai lavori non ci troveranno motivi di particolare preoccupazione, quindi è necessario decodificare una terminologia tecnica sconosciuta ai più.
I “prodotti derivati” sono titoli finanziari, al pari dei titoli di Stato o delle obbligazioni emesse da società private di qualsiasi tipo. Hanno anche un padre nobile, visto che sono stati “inventati” per la prima volta da Goldman Sachs, la banca Usa abituata a produrre sfornare “padroni dell’universo”.
Si tratta di titoli teoricamente garantiti da un “sottostante”, che può essere però qualsiasi cosa (denaro, aziende, azioni, altri titoli), impastata con altre della stessa natura o anche differente, in un’orgia di fantasia “creativa” utile a far denaro con i pezzi di carta. Il mercato dei prodotti derivati, insomma, è un luogo dove ci si scambiano pezzi di carta chiamati “titoli” (azionari, obbligazionari, commercial paper, cdo, “veicoli”, “salcicce”, asset backed securities e via inventando) ed è assolutamente irrilevante la provenienza del profitto e il modo in cui sono stati prodotti.
Ma questi titoli si comprano, si scambiano, hanno una scadenza, come qualsiasi altro titolo. Insomma è come se fosse “denaro contante”, fin quando qualcuno lo accetta in cambio di denaro o altri titoli. Quando una fabbrica attiva viene comprata da un “fondo di investimento” finisce in un calderone che spesso ha questa natura da casinò del Nevada.
Il secondo elemento da tener presente è che questa massa di denaro fittizio – proprio secondo la definizione di Marx – ammonta oggi a una cifra “nominale” (2,2 milioni di miliardi di euro) che equivale a 33 volte la produzione mondiale annuale. Cioè, tutto il lavoro umano e gli investimenti di capitale fatti per 33 anni consecutivi, ai livelli attuali.
Praticamente questa massa di cartaccia – in realtà righe di codice scritte in qualche server molto remoto – chiede di essere “valorizzata” (con un tasso di interesse adeguato), come qualsiasi altro capitale. Ma chi può mai accontentare una richiesta di profitto così mostruosa? Numeri alla mano, un interesse minimo del 2% annuo equivarrebbe ai 2/3 del Pil globale di quest’anno… Insomma, tutto il mondo dovrebbe regalare i due terzi di quanto prodotto ai detentori di questa roba. E farlo ogni anno, per un numero praticamente infinito di anni (trent’anni, in economia, non sono un tempo che possa essere preso in considerazione, tranne che per i titoli di Stati molto forti, che presumibilmente non falliranno prima di quella data).
Ovvio che tutto ciò non ha senso economico-produttivo. E dunque che il valore nominale di quei titoli non corrisponde neppure minimamente al valore di scambio reale oggi, sui mitici “mercati”. Detto con parole semplici: non vale neppure la carta o le righe di codice necessarie per scriverli. Anche se magari qualcosa, lì dentro, ha ancora un valore reale, nel mondo reale (una fabbrica funzionante, per esempio).

Carta straccia, quasi come le “obbligazioni secondarie” di Banca Etruria, che hanno gettato sul lastrico tanti piccoli e medi “risparmiatori”.
Chi ha quella roba in cassaforte, per capirci, è un morto che cammina. E cammina fin quando riesce a tener nascosta la propria condizione e ottenere – in qualsiasi modo – una remunerazione dalla propria attività sui “mercati”.
Ma chi ha quella roba in cassaforte? Nessuna sorpresa: le banche.
Bene. A questo punto è importante sapere quali banche sono “esposte” su questo fronte. Anche le banche, in fondo, non sono tutte uguali…

Qui ci facciamo volentieri aiutare dalla Olivieri:
La maggior concentrazione resta appannaggio delle banche europee. Dai dati R&S-Mediobanca risulta infatti che a fine 2017 alle prime 27 banche continentali facevano capo derivati per un valore nozionale di ben 283mila miliardi, pari al 42% dei derivati Ue quantificati dall’Esma. Prese singolarmente, la sola Deutsche Bank (48,26 trilioni) e la sola Barclays (40,48 trilioni) hanno molti più derivati di tutte le principali banche giapponesi messe assieme (32,44 trilioni).
Aggiungendo anche i derivati della terza banca europea più attiva – i 24,53 trilioni del Credit Suisse – si arriva a un importo di 113,3 trilioni, superiore a quello delle prime 14 banche Usa, che, tutte insieme, arrivano a 112,75 trilioni.
La prima banca Usa per ammontare di derivati è JPMorgan con 40,34 trilioni di euro, seguita da Citigroup con 38,4 e Bank of America con 25,57.
Tra le 27 big del credito europeo rientrano anche Intesa (2,94 trilioni di derivati) e UniCredit (2,5 trilioni), che sono però ben lontane dai livelli del top continentale.
A oltre dieci anni dalla “grande crisi” del 2007-2008, innescata proprio da un crollo del mercato dei prodotti derivati (a partire da quelli “garantiti” dai mutui subprime statunitensi, ovvero da prestiti immobiliari concessi a clienti “senza lavoro, senza reddito, senza proprietà”), scopriamo che quel mercato si è triplicato. Allora, infatti, veniva calcolato in circa 660 miliardi di dollari, circa 11 volte il Pil mondiale.
La “cura” escogitata per quella crisi, dopo un primo tentativo statunitense di arginarla iniettando soldi pubblici nelle banche in condizioni peggiori (finito con il mancato salvataggio di Lehmann Brothers e con una settimana di panico universale), fu quello di far stampare moneta alle banche centrali principali (Federal Reserve Usa, Bce, Banca d’Inghilterra e Banca del Giappone), di modo che non venisse a mancare la liquidità indispensabile per far girare la macchina della produzione e circolazione delle merci a livello planetario. La condizione esplicita di questa generosità pubblica era quella di mantenere in vita gli operatori finanziari intimando loro di ridurre l’”azzardo morale”, ovvero la produzione di titoli tossici. Se si è triplicato l’ammontare, l’obbiettivo è sicuramente fallito…
Dieci anni di “iniezioni di liquidità”, quantitative easing, acquisti di titoli da are delle banche centrali, hanno comunque effettivamente impedito l’esplosione del sistema finanziario globale prestando soldi a tasso zero (o addirittura negativo).
Quel gioco è però finito, per quanto riguarda la Fed, da un paio d’anni, e finirà il 31 dicembre per la Bce.
E alcune delle più grandi banche europee sono oggi nelle stesse pessime condizioni di allora. A cominciare dalla più grande e “sistemica”: Deutsche Bank. E nonostante gli immensi finanziamenti pubblici concessi dal Reichstag merkeliano, prima che lo stesso Reichstag imponesse la regola del bail in (pagano azionisti e obbligazionisti, ma anche i correntisti) nelle crisi bancarie. Quelle altrui…
A voi sembra normale che una sola banca abbia in cassaforte – si fa per dire – titoli spazzatura pari a 15 volte il Pil del proprio paese (peraltro la prima economia europea)?
In ogni caso non appare normale ai mercati, che quotano stamattina DB a 7,65 euro per azione, pari a circa 15 miliardi di capitalizzazione a fronte di asset posseduti per 1.500 miliardi. In pratica, “i mercati” dichiarano che questa è una banca tecnicamente fallita, come mostra del resto il tracollo della quotazione azionaria (dal record di 116 euro agli spiccioli di oggi).
Com’è possibile che una banca fallita cammini come uno zombie in cerca di profitto? E’ possibile, secondo le “regole dell’Unione Europea” e in particolare secondo i criteri fissati dalla Bce per gli stress test sulle banche; che curiosamente considerano “pericolosissime” le “sofferenze” (prestiti a imprese e famiglie che faticano a essere restituiti), mentre non considera problematici i titoli tossici (i derivati-carta straccia).
Con questa benedizione alle spalle, per esempio, lo zombie ha partecipato al saccheggio della Grecia orchestrato dalla Troika (Bce,Ue, Fmi), anche se le cifre raccattate con il debito di Atene sono briciole rispetto allo “scoperto”. Ma il semplice fatto di poter registrare degli “attivi” permette di andare avanti, almeno finché uno scossone complessivo dei mercati – una crisi, come quella che si va profilando all’orizzonte e che ha già costretto il Pil tedesco a registrare un -0,2% nel terzo trimestre – non arriva a rimettere in moto la selezione naturale tra gli operatori economici.
Il problema sistemico sembra dunque abbastanza chiaro: in questa Unione Europea il comando effettivo è in mano a gente che dovrebbe portare i libri in tribunale ed essere tombata nelle antiche galere per falliti. Ma che ancora riesce a gestire il peso della Germania (e fino a poco fa anche della Francia) come determinante qualsiasi politica comunitaria. Dunque anche, e soprattutto, la scrittura delle “regole” e dei trattati. E la loro “interpretazione autentica”.
E’ un sistema in cui i morti sopravvivono succhiando il sangue dei vivi (o dei moribondi, visto lo stato dell’economia italiana, ormai priva di soggetti economici di grande spessore internazionale; per non parlare della Grecia). Non è un sistema, in ogni caso, che possa metterci al riparo dalle ondate di tsunami che si vanno addensando nell’oceano primordiale dei “derivati”. Anzi…

lunedì 17 dicembre 2018

Il controllo totalitario dell'informazione

La descrizione del mondo fatta da George Orwell in 1984 serviva a screditare il sistema socialista totalitario dell’Unione Sovietica. In realtà risulta perfetta per il mondo odierno. Partiamo da una constatazione fondamentale: la “libera” informazione è oggi in mano ad un pugno di capitalisti. Il capitalismo e la democrazia liberale propugnano da sempre l’ideale della libertà di stampa, della pluralità di fonti di informazione e della libertà di pensiero. A parole. Nella realtà, sia a livello mondiale sia ai vari livelli locali, dove prospera il capitalismo si verificano concentrazioni di aziende anche nel settore delle telecomunicazioni, che comprendono quindi il vasto mondo delle televisioni, dei giornali, delle riviste, dell’editoria, ecc. Tali concentrazioni, nell’epoca della mercificazione totale e del tripudio dell’ideologia neoliberista, logica conseguenza di un imperialismo che non ha più freni, sono chiaramente detenute da un pugno più o meno ampio di capitalisti.

Vediamone alcuni esempi: nel maggio 2016 Michael Snyder [2] ha calcolato che il 90% del consumo “mediatico” medio (circa dieci ore al giorno) di un normale utente statunitense fosse di fatto proveniente da aziende affiliate o controllate sostanzialmente da sole sei grandi multinazionali: Comcast, The Walt Disney Company, News Corporation, Time Warner, Viacom e CBS Corporation. Queste, a loro volta, controllano altre aziende di varie dimensioni in un enorme gioco di scatole cinesi. Significativo è l’esempio della News Corporation, un vero e proprio impero mediatico che rimane essenzialmente tale nonostante l’azienda sia stata di recente scorporata in due tronconi per ragioni organizzative.

La News Corporation è di proprietà sostanziale di Rupert Murdoch, che ne detiene la quota di maggioranza relativa, facendo di lui uno degli uomini più ricchi e potenti del mondo controllando organi di informazione e/o intrattenimento in Australia, Regno Unito, USA, Fiji, Papua, India, Paesi Bassi, Russia, Bulgaria, Romania, Serbia, Turchia, Georgia, Polonia, Indonesia, Germania, Italia, praticamente tutto il Sud America e non solo. Oltre al controllo di centinaia di piccole riviste locali, questo enorme conglomerato mediatico detiene il controllo delle più importanti aziende mondiali nel settore delle telecomunicazioni e dell’editoria. Ne sono esempi i quotidiani britannici The Sun e The Times; gli statunitensi The Post e Wall Street Journal; la televisione satellitare di Sky in Italia e nel Regno Unito; la Fox Television e la casa cinematografica 20th Century Fox negli Stati Uniti. Si è calcolato che il suo gruppo editoriale raggiunga ogni giorno circa 4,7 miliardi di persone, i tre quarti della popolazione globale. Forbes stima nel 2015 il suo patrimonio in 13,9 miliardi di dollari [3].

Sul potere di Murdoch e sull’intreccio tra potere mediatico e potere politico ha scritto nel 2012 una bella riflessione Vittorio Parsi su Avvenire [4], commentando l’avvio di una commissione d’inchiesta britannica sui rapporti tra la News Corporation e la politica inglese.

«Ciò su cui si cerca di far luce non si limita nemmeno all’influenza – straordinaria secondo alcuni, eccessiva secondo altri – che il magnate australiano dei media avrebbe esercitato sulla politica britannica degli ultimi tre decenni. Lo scandalo in cui è rimasto invischiato il gruppo News Corp, una delle maggiori concentrazioni mediatiche del mondo a cui fa capo anche l’emittente televisiva Sky, ha messo in evidenza infatti una serie di contiguità tra forze di polizia, media e politici che neppure una figura controversa come Murdoch riesce ad esaurire. Ed è, evidentemente, qualcosa che non riguarda il solo Regno Unito. È difficile dire chi sia il mazziere tra media e politica nel distribuire le carte di un gioco che con la democrazia ha davvero poco a che fare. In realtà, sembra di poter dire che questo ruolo può cambiare da Paese a Paese e persino da fase storica a fase storica.

Ciò su cui si possono purtroppo nutrire ben pochi dubbi è il fatto che i sicuri perdenti siano i cittadini, i quali si ritrovano alla mercé di due poteri, con la propria privacy data in pasto a chiunque, senza alcun rispetto sostanziale per la dignità individuale. Non è da ieri che la romantica idea dei media come cani da guardia del potere politico fa acqua. Il giornalismo romantico e indipendente, che si nutre di inchieste e verifiche scrupolose, forse non è mai davvero esistito o esiste solo nei film e nelle lezioni delle scuole di giornalismo. Ma viene da chiedersi quanto il crescente ruolo giocato dai media nelle nostre società non abbia finito con lo snaturare ancora di più una relazione che già in partenza era fin troppo suscettibile di deragliare.

La pervasività e la potenza dei media sembrano aver fagocitato la stessa informazione, imponendo un ritmo e una finalità ben diversa da quella che sarebbero adeguate. La potenza dei media non poteva non allettare il potere della politica e, al contempo, non poteva essa stessa essere tentata dal trasformarsi in potere. La relazione tra media e politica, tra chi controlla i primi e chi vive della seconda, non si è però articolata in quello scontro che alcune anime candide avevano ipotizzato. E neppure ha determinato la sudditanza degli uni agli altri. Troppo forti per essere dominati, troppo deboli per dominare. Ne è emerso un compromesso non scritto, in cui ognuno cerca di trarre il suo vantaggio quando e dove può farlo. Un accordo che produce equilibri contingenti, ma duraturo nell’asservire quel cittadino che pure sarebbe il titolare ultimo del potere: una collusione permanente.

L’espressione Grande Fratello a una parte crescente di giovani (e anche meno giovani, in realtà) evoca ormai un noto (e pessimo) format televisivo globale e sempre meno è associata al grande romanzo di Orwell e alla sua disperata denuncia del totalitarismo e della sua menzogna. Eppure, questa confusione è in realtà una perfetta metafora dello stato delle relazioni tra media e politica, del fatto che non sia necessario determinare un vincitore affinché la democrazia sia sotto scacco […].

Chi si aspetti rivelazioni clamorose sul rapporto tra Murdoch e Margaret Thatcher resterà probabilmente deluso. L’attuale baronessa Thatcher non fu e non potrà mai essere ridotta a una invenzione del suddito di un lontano Dominion. Ma è proprio anche grazie alle politiche thatcheriane, al mantra delle liberalizzazioni e privatizzazioni, che il potere dei tycoon dei media è cresciuto in maniera così preoccupante. Al punto da fare interrogare tutti noi sulla perdurante capacità delle istituzioni democratiche di difendere i cittadini dalle conseguenze negative sul piano politico delle gigantesche concentrazioni di ricchezza. È un tema […] su cui tutte le democrazie si giocano la loro credibilità e, in ultima analisi, il loro e il nostro futuro».

venerdì 14 dicembre 2018

Sui “numerini” Bruxelles impone la sua linea. Il governo cede sul deficit, e non solo

Alla fine tanto tuonò che neanche piovve. Il governo italiano, dopo mesi di rodomontate, ha chinato la testa davanti alla Commissione Europea e ha abbassato dal 2,4 al 2% il rapporto tra deficit e pil e dunque la sua possibilità di spesa per cercare di dare un po’ di ossigeno a un paese economicamente stagnante e ad una popolazione impoverita da anni di austerity e tagli imposti dalla Ue. Non solo. Il  kommissar Moscovici ha anche lasciato intendere che (come hanno fatto per la Grecia) potrebbe non essere finita qui. L’Italia dovrebbe compiere ulteriori sforzi per il Bilancio 2019. “È un passo nella giusta direzione, ma ancora non ci siamo, ci sono ancora dei passi da fare, forse da entrambe le parti”, ha dichiarato Moscovici alla fine della trattativa tra Conte e i commissari di Bruxelles. Nelle stesse ore l’Unione Europea approvava lo sforamento del deficit da parte della Francia per far fronte alle richieste dell’imponente movimento di protesta popolare.
Ieri sera la cena a Palazzo Chigi con cui Conte ha resocontato l’esito del negoziato con la Commissione europea, non ha entusiasmato i due vicepremier. I leader di Lega e M5s non sembrano entusiasti di come siamo andate le cose. Di fronte ai giornalisti che li aspettavano in strada sono stati silenti, come non è certo loro consuetudine. Di Maio si è allontanato senza rispondere alle domande dei cronisti.  Salvini si è limitato a dire che “parla il presidente del Consiglio”, prima di allontanarsi frettolosamente. Si è palesato quindi quello scenario del governo “a tre” in cui ai professori è destinato il compito di metterci la faccia rispettabile a Bruxelles e poi fare da capro espiatorio in Italia.
Ma la riduzione dal 2,4 al 2,04 del deficit, non si tratta di numerini, si tratta di circa 6,5 miliardi di euro in meno da poter spendere nel prossimo anno. Ed infatti la manovra di bilancio (Legge di Stabilità) in discussione al Senato dovrà adesso tenere conto di questo stop alla spesa e, nella migliore delle ipotesi, prevederà “rinvii”, “slittamenti” e qualche retromarcia rispetto a quanto promesso da Lega e M5S (soprattutto) ai milioni di persone che li hanno votati. Vediamo qualche esempio:
Per quanto riguarda la stabilizzazione dei precari nel pubblico impiego si rinvia ancora. Slitta infatti al 31 dicembre del 2019 il termine per procedere alle assunzioni di personale a tempo indeterminato, relative ai contratti di lavoro cessati negli anni 2009, 2010, 2011 e 2012.
Nella manovra c’è inoltre lo slittamento dal 1° gennaio del nuovo anno al prossimo 14 luglio del divieto di sponsorizzazioni di eventi, attività, manifestazioni, programmi, prodotti o servizi relativi al gioco d’azzardo come ad esempio quello delle scommesse sportive.
Nella  Legge di Bilancio è previsto anche nel 2019, in attesa che diventi operativo il promesso reddito di cittadinanza, il versamento del Rei, il reddito di inclusione contro la povertà, pur in assenza della comunicazione dell’avvenuta sottoscrizione del progetto personalizzato. Il decreto istitutivo del reddito di inclusione, infatti, prevede questa possibilità soltanto per l’anno in corso.
Il premier Conte da Bruxelles ha subito rassicurato, nelle dichiarazioni alla stampa, che ci sono i margini per ridurre lo stanziamento senza intaccare gli interventi sulle pensioni e sul reddito di cittadinanza perché altre risorse  verranno dalle privatizzazioni e in particolate dalle dismissioni immobiliari di beni  pubblici e demaniali.
Ma se questa strozzatura è stata imposta sul rapporto tra debito e pil, il problema è che dentro questi parametri sia il numeratore che il denominatore non vanno nella direzione auspicata. Se il debito pubblico non scende, il Pil continua a non salire. E’ di pochi giorni fa la relazione periodica dell’Istat che parla di recessione.
Mancano pochi giorni alla fine dell’anno e lo spettro del “triple dip”, di un nuovo ritorno della recessione dopo le crisi del 2007 e del 2014, la terza caduta nel giro di poco più di dieci anni, rischia di farsi sempre più concreta. L’Istat  il 1 dicembre ha diffuso il suo rapporto sui conti economici trimestrali rivedendo le previsioni per luglio-agosto-settembre e così da una crescita che le stime preliminari indicavano come nulla si è passati ad un Pil negativo (-0,1%).
Inoltre sul piano del lavoro continuano a diminuire soprattutto i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato (-0,7% sul trimestre precedente e -1,5%, pari a un calo di 222.000 unità, rispetto al terzo trimestre 2017), mentre nel terzo trimestre del 2018 gli occupati con contratti a termine erano 3.112.000, il valore più alto dal 1992.

giovedì 13 dicembre 2018

La Francia è profondamente spaccata. I Gilet Gialli sono solo un sintomo

Dagli anni ’80 in poi è risultato chiaro che c’era un prezzo che le società occidentali avrebbero dovuto pagare per adattarsi a un nuovo modello economico e che tale prezzo consisteva nel sacrificio della classe lavoratrice. Nessuno ha pensato che la ricaduta avrebbe colpito anche il grosso della classe medio-bassa. Ora è ovvio, comunque, che il nuovo modello non ha indebolito solo le fasce proletarie ma la società nel suo insieme.
Il paradosso è che questo non è il risultato del fallimento del modello economico globalizzato ma del suo successo. Nelle ultime decadi l’economia francese, come quella dell’Europa e degli Stati Uniti, ha continuato a creare ricchezza. Così siamo mediamente più ricchi. Il problema è che contemporaneamente sono aumentate anche la disoccupazione, l’insicurezza e la povertà. La questione centrale, dunque, non è se un’economia globalizzata sia efficiente ma cosa fare quando questo modello non riesce a creare e sviluppare una società coerente.
In Francia, come in tutti i paesi occidentali, si è passati nel giro di poche decadi da un sistema che economicamente, politicamente e culturalmente integrava la maggioranza a una società disomogenea che, pur creando sempre più ricchezza, avvantaggia solo quelli che sono già ricchi.
Il cambiamento non è dovuto a una cospirazione, a una scelta deliberata di far fuori i poveri, ma a un modello in cui l’occupazione è sempre più polarizzata. Questo si verifica insieme a una nuova geografia: l’occupazione e la ricchezza sono sempre più concentrate nelle grandi città. Le regioni deindustrializzate, le aree rurali, le città di medie e piccole dimensioni sono sempre meno dinamiche. Ma è in questi luoghi – nella Francia periferica (come pure in un’America periferica e in un’Inghilterra periferica) – che vive la maggior parte della classe lavoratrice. Così, per la prima volta, i “lavoratori” non vivono più nelle aree dove si crea l’occupazione, generando uno shock sia sociale che culturale.
I “lavoratori” non vivono più nelle aree dove si crea l’occupazione, generando uno shock sia sociale che culturale.
E’ in questa Francia periferica che è nato il movimento dei gilets jaunes. Come è in queste regioni periferiche che è nato il movimento populista occidentale. L’America periferica ha portato Trump alla casa Bianca. L’Italia periferica – il mezzogiorno, le aree rurali e le piccole città industriali del nord – hanno generato l’ondata populista. Questa protesta è condotta dalle classi che nei tempi passati erano il punto di riferimento fondamentale del mondo politico e intellettuale che le ha dimenticate.
Così se l’aumento del costo del carburante è stata l’occasione per la nascita del movimento dei giubbotti gialli, non ne è stata la causa determinante. La rabbia ha radici più profonde, è il risultato di una recessione economica e culturale che ha avuto inizio negli anni ’80. Nello stesso tempo logiche economiche e territoriali hanno fatto sì che il mondo delle élites si chiudesse in se stesso. Questo isolamento non è solo geografico ma anche intellettuale. Le metropoli globalizzate sono le nuove cittadelle del 21° secolo – ricche e disuguali, dove anche per la vecchia classe media non c’è più posto. Invece, le grandi città globali funzionano su una doppia dinamica: invecchiamento e immigrazione. E’ questo il paradosso: la società aperta si risolve in un mondo sempre più chiuso alla maggioranza dei lavoratori.
Il divario economico tra la Francia periferica e le metropoli corrisponde alla separazione fra una élite e il suo entroterra popolare. Le élites occidentali hanno gradualmente dimenticato un popolo che non vedono più. L’impatto dei gilets jaunes, e il supporto che trovano nell’opinione pubblica (otto su dieci francesi approvano le loro iniziative), hanno sorpreso i politici, i sindacati e gli intellettuali, come se avessero scoperto una nuova tribù amazzonica.
I ‘gilets jaunes’ francesi abbandonano un Macron decisamente incolore
La funzione del giubbotto giallo, si rammenti, è quella di rendere visibile sulla strada chi lo indossa. E qualunque sia l’esito del conflitto, i gilets jaunes lo hanno vinto sul piano di quello che veramente conta: la guerra della rappresentanza culturale. Gli individui appartenenti alla classe lavoratrice e alla classe medio-bassa sono di nuovo visibili e, accanto a loro, i luoghi in cui vivono.
Il loro bisogno è in primo luogo quello di essere rispettati, di non essere più considerati “deplorable”. Michel Sandel è nel giusto quando sottolinea l’incapacità delle élites di prendere in seria considerazione le aspirazioni dei più poveri. Queste aspirazioni in fondo sono semplici: salvaguardia del loro capitale culturale e sociale e salvaguardia del loro lavoro. Perché questo abbia successo bisogna porre fine alla “secessione” delle élites e adattare l’offerta politica della destra e della sinistra alle loro richieste. Questa rivoluzione culturale è un imperativo democratico e sociale – nessun sistema può sopravvivere se non integra la maggioranza dei suoi cittadini più poveri.

mercoledì 12 dicembre 2018

Decreto sicurezza. Ma sicurezza per chi?

Con la pubblicazione della legge di conversione n. 132, sulla Gazzetta Ufficiale del 3 dicembre, è legge il decreto sicurezza voluto da Salvini.

Il testo è rubricato «Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell'interno e l'organizzazione e il funzionamento dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata».

Già dal titolo è chiaro come il provvedimento incida, più che sulla gestione dei beni confiscati alle mafie, soprattutto in materia di immigrazione. C’è di fondo però come un denominatore comune. Questo governo vede nei migranti un problema di ordine pubblico, una questione di sicurezza appunto al pari della mafia. A dirla tutta, proprio alla criminalità organizzata il decreto Salvini finisce per aprire praterie. Sì, perché con il provvedimento si dà facoltà, per la prima volta, anche ai privati di acquistare immobili e aziende confiscate perché di provenienza illecita. La facilità con cui certi meccanismi riporteranno le ricchezze nel circuito della criminalità è una conseguenza davvero preoccupante e sulla quale bisognerebbe riflettere, prima di sbandierare l’antimafia dei proclami.

Per tornare al tema sbarchi, che il Ministro dell’Interno lo abbia usato come perno sul quale far ruotare dapprima l’intera campagna elettorale e successivamente la macchina della propaganda è dato di fatto.

Ma che cosa dice questa legge? Una premessa, seppure schematica, sul quadro normativo in cui il provvedimento appena promulgato interviene, sembra d’obbligo.

A dare uno sguardo al documento, predisposto dal Servizio Studi della Camera a fine novembre, possiamo trarre utili spunti di riflessione.

Apriamo intanto la Costituzione che al terzo comma dell’art. 10 riconosce che «lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge». Dunque, diritto d’asilo intanto, sulla cui centralità interviene anche il Presidente Mattarella con una lettera a Conte proprio all’indomani della firma che dà il via libera a questo decreto.

Lo scacchiere degli strumenti che riguardano più da vicino il fenomeno dell’immigrazione si completa in questi anni con il riconoscimento dello status di rifugiato e con l’istituto della protezione internazionale. In realtà, è proprio in questi due ambiti che le novità del decreto sicurezza si fanno più evidenti.

Consideriamo che rifugiato è per definizione la vittima che subisca atti concreti di violenza e di persecuzione e che chieda di essere accolta in un paese straniero; da lì il diritto a ottenere un permesso di soggiorno di durata quinquennale. La radice risale alla Convenzione di Ginevra del 1951. Nell’impossibilità di dar prova concreta di quei fatti delittuosi e discriminatori, se sussiste però per quell’individuo il pericolo effettivo di subire un grave danno, ciò basta – o meglio bastava, nel quadro precedente - a innescare il meccanismo della protezione internazionale cosiddetta sussidiaria.

Esisteva addirittura nel nostro paese la possibilità di dare accoglienza e protezione in via temporanea, per lo più quando l’afflusso si facesse massiccio.

Trovarsi a pensare, a questo punto, agli sbarchi dell’ultimo decennio è un passaggio automatico. Come lo è ricordarsi che l’accoglienza buona esiste (quello di Riace rimane fotografato nella relazione ispettiva della prefettura di Reggio Calabria come “modello di accoglienza”, malgrado lo smantellamento imposto in seguito) mentre su altre esperienze (come il CARA di Mineo) si indaga ancora su filoni che toccano, in certi punti, addirittura, mafia capitale.

Questo lo scenario che si era consolidato finora, in un’evoluzione normativa che aveva plasmato il diritto interno sulle spinte di quello comunitario e aveva introdotto, ad esempio, il Piano nazionale di integrazione dei titolari di protezione internazionale solo nel settembre 2017.

Ma - dicevamo -il decreto sicurezza cosa modifica, verso dove ci conduce?

Le risposte a queste domande ci sono già tutte. E le ritroviamo nelle riflessioni a caldo dei tecnici del diritto che individuano nella soppressione della protezione per motivi umanitari un profilo di sicuro interesse e di grande ricadute. «È evidente una restrizione discutibile e sproporzionata del diritto di asilo e della libertà personale, con misure che non velocizzano davvero le procedure di rimpatrio in mancanza di accordi bilaterali e che perciò alla fine lasceranno in situazione di soggiorno irregolare un numero crescente di stranieri. Ciò aumenta e non diminuisce certo il senso di insicurezza di tutti».

Il decreto, su cui era stata posta la questione di fiducia, fa un’operazione poco lineare: mentre abroga l’istituto della protezione umanitaria, ne mantiene in vita alcuni riflessi limitandolo a una griglia di singoli casi tipizzati che integrerebbero d’ora in avanti la cosiddetta protezione "speciale" per motivi umanitari.

Come dire, non ci si aspetti più dall’Italia la protezione per motivi umanitari ma unicamente, e caso per caso,dei provvedimenti ad hoc, speciali per l’appunto. Se poi pensiamo che i beneficiari saranno quei richiedenti che si dimostreranno in condizione di dar prova che la loro istanza di protezione poggi su motivi umanitari, sembra di assistere a un tuffo carpiato: è la legge che si avvita su se stessa. L’idea di fondo però è che restringendo così tanto le maglie, dal terreno si faccia sparire del tutto il diritto. Al suo posto – come nella prassi accade, di solito - sacche di privilegio che la discrezionalità della burocrazia declinerà di fatto senza troppo dar conto di come.

Superati gli SPRAR che resteranno aperti ai soli titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati, con quelli sembra saltare anche l’idea che più accoglienza possa essere sinonimo di più sicurezza. Il sistema cambia del tutto e intanto espelle i più deboli.

Come non porsi la questione delle donne migranti che sono poi le vittime più vulnerabili della violenza domestica? Il fenomeno, lo sappiamo tutti ormai, ha connotati mondiali, un carattere strutturale globale, appunto. Dal 2013 le migranti abusate e molte volte vittime di tratta sono peraltro destinatarie di un permesso di soggiorno, introdotto dalla legge sul femmincidio. In realtà, anche su questa norma ci sarebbe da precisare parecchio. E infatti quel permesso scatta solo in caso di pericolo grave e attuale. In assenza del rischio dimostrato e dimostrabile, invece, la donna straniera non matura alcun diritto a ottenere il permesso di soggiorno, pure se vittima di violenza e di maltrattamenti. Diversamente dalla norma calata nel testo unico per l’immigrazione, la Convenzione di Istanbul – cui quella legge vorrebbe dare applicazione - prescrive l’obbligo di «garantire che le vittime, il cui status di residente dipende da quello del coniuge o del partner, conformemente al loro diritto interno, possano ottenere in caso di scioglimento del matrimonio o della relazione, in situazioni particolarmente difficili, un titolo autonomo di soggiorno, indipendentemente dalla durata del matrimonio o della relazione».

La situazione difficile e il pericolo grave e attuale sono strettamente correlati. Farne una questione di requisito significa, però, anche qui restringere l’accesso a uno strumento che si è già dimostrato negli anni di difficile utilizzo.

Per tornare al decreto sicurezza, senza tanti giri di parole gli effetti devastanti sulle vittime ce li spiega la rete antiviolenza, con un comunicato che reagisce alla pubblicazione in Gazzetta di quella legge: «Da qualche giorno chi arriva nel nostro paese come richiedente asilo non ha più il diritto e la possibilità di avere un indirizzo di residenza, nemmeno presso le strutture di accoglienza. Decine di migliaia di persone, uomini, donne, spesso con i loro bambini/e, a cui viene riconosciuto un solo diritto: quello di chiedere asilo. Ma che dovrebbero essere invisibili e disincarnati, così da non “pesare” in alcun modo sul sistema Italia. Questa misura inclusa nel decreto sicurezza è gravissima nei confronti di tutti, in particolare delle donne richiedenti asilo, spesso vittime di tratta, che nei centri antiviolenza hanno finora trovato un sostegno concreto per dare una svolta alla propria vita». «Raccontiamocela giusta», invitano dunque a uno sguardo critico e disincantato le responsabili di D.i.R.e..

martedì 11 dicembre 2018

Gilet gialli: “Macron ha mani e piedi legati dall’Unione europea

Aumenti di SMIC (salario minimo orario, ndt) e pensioni, maggiore tassazione delle grandi società, protezione dell’industria francese, fine della politica di austerità e riorganizzazione dei servizi pubblici: queste sono le richieste dei gilet gialli comunicate la scorsa settimana attraverso la stampa. A ciò spesso si aggiunge anche la richiesta di ripristino di una vera democrazia.

Tra le parole d’ordine e gli slogan è invece assente l’Europa. Eppure nessuna delle richieste formulate è realizzabile nell’attuale Unione europea, con il Mercato unico e l’euro, che sono il confine entro il quale si attuano le politiche nazionali. I governi nazionali sono in ultima analisi solo dei volenterosi intermediari dell’Ue, mediatori di potere soddisfatti della loro impotenza.


Non ci può essere democrazia nell’Unione europea


L’Unione europea è qualcosa di più di un’organizzazione internazionale. Non è intergovernativa, ma sovranazionale. I giuristi affermano che la Corte di Giustizia della Comunità ha “elevato i trattati al rango costituzionale” con due sentenze, nel 1963 e nel 1964. In altre parole, la Corte ha creato un nuovo ordinamento giuridico e gettato le basi di un proto-federalismo senza che i popoli siano stati consultati – o persino avvertiti – sul concepimento di una quasi-Costituzione.


I francesi alla fine l’hanno saputo… ma solo quarant’anni dopo! Il referendum del 2005 sul Trattato costituzionale europeo consisteva in definitiva nel chiedere agli elettori di legittimare ex post una situazione che esisteva già da tempo. È questo uno dei motivi per cui il “no” francese (o il “no” olandese) non è stato preso in considerazione: il testo è stato ripresentato sotto il nome di “Trattato di Lisbona”. Per poter rispettare il verdetto delle urne, si rese necessario ammettere che era stato già deciso un processo di “federalizzazione sottobanco” dell’Europa, e in tal senso indietreggiare temporaneamente lungo il percorso.


Se la mutazione in senso costituzionale dei trattati è iniziata molto presto, il processo di svuotamento democratico è continuato in seguito. Il problema è stato aggravato, ad esempio, dall’abolizione del principio dell’unanimità nel Consiglio europeo. Come spiega il giurista tedesco Dieter Grimm, ciò ha spezzato la “catena di legittimazione” dal popolo al Consiglio, il cui anello essenziale erano i governi nazionali eletti. Con l’abolizione dell’unanimità, uno Stato può essere soggetto a una norma di legge che è stata esplicitamente respinta da uno degli anelli della catena di formazione della propria volontà nazionale, anche se in linea di principio il peso relativo della Francia nel Consiglio la rende immune da ciò.


Per rimediare all’immenso “deficit democratico” della costruzione comunitaria, il trattato di Lisbona ha aumentato i poteri del Parlamento europeo. Problema: questo Parlamento non è un organo unico. Non rappresenta il “popolo europeo” (dato che non esiste), ma si limita semplicemente a far coabitare i rappresentanti nazionali di ventotto stati. Per di più, a parte questo, non è neanche il principale produttore di diritto comunitario. Questo ruolo è di competenza della Corte di Lussemburgo, che emette norme a getto continuo, con valore giuridico e senza consultare nessuno. Infine, il Parlamento europeo non ha la possibilità di modificare i trattati, anche laddove questi contengono elementi di politica economica. Che l’Assemblea di Strasburgo abbia una maggioranza di “sinistra” o di “sovranisti”, ciò non darebbe luogo ad alcun riorientamento. Qualunque cosa accada nelle urne elettorali durante le elezioni europee del 2019, il combinato legislativo composto dai trattati e dalle sentenze della Corte continuerà ad imporre più libero scambio, più austerità, più concorrenza.


Non può esserci alcun cambio di rotta della politica economica nel contesto del mercato unico e dell’euro


I trattati europei sono la “costituzione economica” dell’Europa. La loro posizione predominante spiega perché la politica economica condotta in Francia non è cambiata dalla metà degli anni ’80, benché si siano succeduti alla testa dello Stato uomini di diverse posizioni. È “l’alternanza unica” secondo la definizione di Jean-Claude Michéa, lo stesso che segue il medesimo, dando l’apparenza del cambiamento. Finché si rimane nell’Unione europea, votare non cambia nulla.


Ecco perché l’ex commissario Viviane Reding ha potuto ad esempio affermare: “Diventa inesorabilmente necessario rendersi conto che non esistono più politiche interne nazionali”.

I governi dei paesi membri hanno a disposizione solo un numero molto limitato di strumenti di politica economica. Nessuna politica industriale proattiva è possibile poiché i trattati vietano “distorsioni della concorrenza” attraverso l’intervento dello Stato. Nessuna politica commerciale protezionista è possibile poiché la politica commerciale è una “competenza esclusiva” dell’Unione. Nessuna politica dei cambi è possibile perché nel contesto dell’euro i governi non possono attuali. Nessuna politica monetaria è possibile, dato che è la Banca centrale europea a guidarla. Infine, nessuna politica di bilancio pubblico è possibile, poiché i paesi che hanno adottato la moneta unica sono soggetti a “criteri di convergenza”, tra cui la famosa regola, del tutto arbitraria, del tetto del 3% al deficit pubblico. Inoltre, a partire dal 2010 e nell’ambito di un programma denominato “Semestre europeo”, la Commissione ha iniziato a supervisionare meticolosamente la preparazione dei bilanci nazionali.


In queste condizioni, sono solo due gli strumenti a disposizione dei governi nazionali: la tassazione e l’abbassamento del “costo del lavoro”.


Per quanto riguarda la tassazione, generalmente si decide di diminuire quella che pesa sul capitale suscettibile di delocalizzazione e di aumentare quella che grava sulle classi sociali che non possono sfuggire al fisco. Nel 1986 si è stabilito il principio della “libera circolazione dei capitali” nel mercato unico. Da allora il capitale ha acquisito il potere di esercitare su ciascuno Stato un vero e proprio ricatto, minacciando di fuggire verso gli Stati vicini. I paesi membri sono impegnati in una concorrenza fiscale sfrenata, alcuni (Lussemburgo, Irlanda) si sono persino trasformati in paradisi fiscali e vivono delle opportunità di evasione fiscale che offrono alle multinazionali.


Per quanto riguarda il reddito (e il diritto) al lavoro, sono uno dei bersagli privilegiati dell’organismo sovranazionale. Per rendersene conto basta leggere i documenti di orientamento prodotti dalla Commissione europea, dagli “Orientamenti per l’occupazione” alla “Indagine annuale sulla crescita” e le “Raccomandazioni del Consiglio” elaborate ogni anno durante il semestre europeo. Tutte le riforme del diritto del lavoro attuate nei paesi membri, dal Jobs Act in Italia alla legge di El Khomri in Francia, erano state previste in uno di questi grossi tomi [provenienti dalla Commissione].


Per finire, i principi della “libera circolazione delle persone” e della “libera prestazione di servizi” all’interno del mercato unico favoriscono il livellamento verso il basso. Nonostante l’ampia disparità nei livelli retributivi da un paese all’altro, queste “libertà” mettono in competizione tutti i lavoratori europei l’uno con l’altro. Favoriscono una serie di pratiche di dumping sociale, il più noto dei quali è l’utilizzi di lavoratori distaccati. Per i paesi con l’euro, è ancora più grave: non essendo in grado di svalutare la loro moneta per aumentare la loro competitività, sono costretti a praticare la “svalutazione interna”, ossia abbassare i salari.


Perché tutti i governi francesi che si sono susseguiti hanno contribuito a costruire questa Europa?


Per capire gli eventi attuali tornano utili le categorie tradizionali del marxismo. Se, come afferma Jérôme Sainte-Marie, il movimento dei gilet gialli riporta alla ribalta l’esistenza del conflitto di classe, è anche vero che questo non ha mai cessato di esistere. L’Europa dei mercati e delle valute è sempre stata un’Europa classista. Ha l’obiettivo di erodere incessantemente i redditi da lavoro e distruggere tutti gli strumenti redistributivi, in particolare i servizi pubblici, con il pretesto dell’”apertura alla concorrenza” da un lato, del “controllo della spesa pubblica” e della “riduzione del debito” dall’altro.


Come è già accaduto in passato, questa politica di classe si adatta bene a un “regime di occupazione” che consente alle classi dominanti di disfarsi e/o di affidare a qualcuno più forte di loro l’incombenza di garantire un certo Ordine. Poiché l’occupazione stricto sensu, da parte di una potenza straniera che invada militarmente il territorio, è ovviamente impensabile, le élite francesi cosmopolite hanno elaborato una modalità di occupazione “soft”. L’ex presidente della Commissione José Manuel Barroso ha dichiarato che l’Unione europea è un “impero non imperiale”, una formula che giustamente suggerisce che l’aggregazione dei territori all’impero sia stata fatta tramite l’economia e il diritto, non con la forza. Una volta raggiunta l’unificazione continentale, le regole comunitarie svolgono il loro ruolo: quello del vincolo esterno scelto in un regime di schiavitù volontaria.

Uno dei principali slogan sentiti durante le manifestazioni dei gilet gialli o nelle rotonde è “Macron dimettiti”. Ma nelle condizioni attuali, le dimissioni di un uomo sarebbero qualcosa di ampiamente insufficiente. Per ridiventare padroni del proprio destino, i francesi (e tutti i popoli d’Europa) devono esigere che le mappe europee siano profondamente rielaborate e che venga ripristinata la sovranità nazionale, un altro nome per “diritto dei popoli all’autodeterminazione”.


Infine, rassicuriamoci: la fine dell’Unione europea, che altro non è che un insieme contingente di regole e istituzioni poste al servizio di interessi particolari, non significherà la fine dell’Europa, vecchio continente, né dei paesi che la compongono.

lunedì 10 dicembre 2018

Ma la Ue, come pensa che andrà a finire?

L’Unione europea e l’Italia sono in stallo da settimane sul debito pubblico italiano. Bruxelles – sostenuta dal resto dei governi europei – sembra credere che presto Roma cederà, segnando un’altra vittoria a favore della disciplina dell’Unione europea. Ma non è affatto sicuro. Inoltre, anche se il governo italiano si rimettesse in riga, le conseguenze politiche potrebbero rivelarsi disastrose per l’Europa. Comunque finisca questa tragedia, l’Europa sta giocando un gioco pericoloso.

Il confronto è iniziato a ottobre, quando il governo di Roma ha presentato una bozza di bilancio per il 2019 in cui proponeva un incremento del deficit italiano. Il 23 ottobre la Commissione Europea ha respinto il bilancio – una mossa senza precedenti. Da allora, Bruxelles ha dato il via alle procedure per penalizzare l’Italia, sulla base delle stringenti regole dell’Unione europea sul deficit eccessivo.

Il vero problema finanziario dell’Italia, comunque, non è il deficit annuale di bilancio ma l’eccezionale mole del debito pubblico, pari a un totale di 2600 miliardi di euro, la gran parte del quale è stato accumulato decenni fa da partiti politici che oggi non esistono più. Oggi il debito si mantiene intorno al 133% del Prodotto interno lordo.

Il debito, a questo livello, può facilmente diventare insostenibile, crescendo più velocemente del reddito necessario a ripagarlo. Il debito è detenuto in gran parte da banche, sia nazionali che estere. Uno scenario in cui l’Italia avesse difficoltà a soddisfare le sue necessità di finanziamento assesterebbe un colpo devastante al fragile sistema finanziario europeo. Dato questa delicato equilibrio, c’è poco spazio per gli errori. Deve essere colta ogni opportunità per abbassare il rapporto debito/PIL.

Dato che l’eurozona dal 2013 ha sperimentato una ripresa modesta, e anche l’economia italiana sta riprendendo a crescere, la Commissione europea afferma che l’Italia dovrebbe stringere la cinghia. Roma ha da obiettare.

Naturalmente, nessun governo vuole adottare dei tagli. Ma qua c’è un punto ancora più fondamentale: dichiarare, come fa la Commissione, che l’Italia può permettersi di fare tagli al bilancio perché ha avuto un po’ di crescita è in palese contraddizione con le attuali condizioni economiche e politiche del paese.

Negli ultimi 10 anni, il Prodotto interno lordo pro-capite in Italia è crollato. Il declino è un caso unico tra le grandi economie avanzate (è addirittura peggiore del tristemente noto decennio perduto del Giappone). E la sofferenza economica è distribuita in modo estremamente ineguale: più del 32% di giovani italiani sono senza lavoro. Il pessimismo, la delusione e la frustrazione sono innegabili. Dichiarare, come fa la Commissione, che questo è un buon momento per l’austerità è dare uno schiaffo ad una realtà che, per molti italiani, rasenta una vera emergenza personale e nazionale.

I due partiti che formano l’attuale governo italiano, la Lega e il Movimento Cinque Stelle, sono stati eletti a marzo per rispondere a questa crisi. La Lega è xenofoba; i Cinque Stelle sono imprevedibili e bizzarri. Ma i programmi economici coi quali hanno fatto campagna elettorale difficilmente possono dirsi stravaganti. La Lega vuole tagli alle tasse per il suo elettorato, fatto di piccole imprese. I Cinque Stelle vogliono un reddito minimo garantito per i propri elettori nelle regioni più povere dell’Italia meridionale. Entrambi vogliono andare incontro ai pensionati. Queste proposte aumenteranno il deficit. Ma allo stesso tempo, sostengono da Roma, porteranno uno stimolo davvero necessario.

La questione chiave è quanto grande deve essere questo stimolo.

Le previsioni del governo italiano sul bilancio sono ottimistiche. Ma altri, inclusa la Banca d’Italia e il Peterson Institute of International Economics, avvertono che l’Italia è caduta in una trappola: i timori per la sostenibilità del debito fanno sì che qualsiasi stimolo abbia l’effetto perverso di far salire i tassi d’interesse, dando una stretta ai prestiti bancari e riducendo la crescita.

Durante la crisi dell’eurozona gli economisti dell’Università Bocconi di Milano hanno diffuso l’idea dell'”austerità espansiva”: i tagli alla spesa pubblica stimolano la fiducia e la crescita. Gli anni successivi alla crisi finanziaria hanno mostrato quanto fosse sbagliata questa tesi. Adesso gli economisti sembrano avere un nuovo meme: l’espansione fiscale restrittiva, uno stimolo che si annulla poiché mina la fiducia e fa alzare i tassi d’interesse.

Ad ogni modo, queste argomentazioni non sono determinanti. Anche sulla base degli assunti pessimistici della Commissione europea, il deficit proposto da Roma non manderebbe fuori controllo il debito italiano. Ciò che porterebbe l’Italia ad una crisi vera sarebbe un improvviso rialzo dei rendimenti, non al 3%, ma al 5% o più. Se ciò dovesse accadere, innescato da uno shock della fiducia dei mercati nell’Italia, ci sarebbe un’impennata esplosiva nel costo del servizio del debito. Il governo si troverebbe escluso dai mercati dei capitali. Le banche italiane avrebbero bisogno del sostegno dell’Unione europea. L’aiuto arriverebbe solo dopo un accordo su un pacchetto di tagli del deficit. Ma esclusa questa possibilità, l’Italia potrebbe trovarsi sulla via d’uscita dall’eurozona. Questo è il rischio che rende il confronto tra Roma e la Commissione così preoccupante. Il gioco a chi cede per primo potrebbe facilmente spaventare i mercati.

Al momento, la fiducia dei mercati è ancora sostenuta dal programma di acquisto titoli di stato della Banca centrale europea. Nel 2019 il presidente uscente dalle BCE, Mario Draghi, un sostenitore di lungo corso della disciplina per l’Italia, cesserà l’acquisto di titoli di stato. La tensione è destinata a salire.

La Commissione europea, naturalmente, è vincolata a difendere le proprie regole. Ma l’Unione europea come si aspetta che si svilupperà lo scontro?

Bruxelles ha una gamma limitata di sanzioni a sua disposizione. A differenza della Grecia, che era un beneficiario netto della generosità dell’Unione europea, l’Italia è un contributore netto al bilancio della UE. Non sarà facile applicare multe e penali.

Dovranno essere pertanto i mercati a garantire la disciplina. Ma sarebbe una prospettiva terrificante: non solo il debito italiano è enorme, ma nemmeno le banche italiane sono piccoline. L’Italia è troppo grande sia per fallire che per essere salvata.

Quindi qual è il piano? Se la Commissione sta scommettendo che la crisi di bilancio forzerà il governo italiano a piegarsi, in quale direzione immagina che si piegherà?

L’ultima volta che il debito pubblico italiano è salito alla ribalta nell’eurozona è stato nell’autunno del 2011. Allora la soluzione fu politica: il Primo Ministro Silvio Berlusconi fu rovesciato a favore del tecnocrate non eletto Mario Monti. Monti era il prediletto dei mercati. Ma in Italia l’indignazione pubblica per la sospensione delle normali procedure democratiche ha contribuito a innescare l’impennata del Movimento Cinque Stelle, che è culminata con il 32% dei voti a suo favore a marzo.

Difficilmente la Commissione europea può desiderare che questo ciclo si ripeta.

Sulla scorta della vittoria elettorale, i Cinque Stelle sono il socio di maggioranza della coalizione di governo che si è formata a maggio. Ma l’equilibrio dei poteri si è spostato. Mentre la popolarità dei Cinque Stelle è diminuita, il sostegno alla Lega è raddoppiato, arrivando al 34%. La Lega è il partito delle piccole imprese del nord Italia. È tutt’altro che entusiasta dei piani dei Cinque Stelle per aumentare l’assistenza sociale al sud. Un rimpasto governativo con una prevalenza della Lega che lasciasse cadere il dispendioso reddito minimo garantito dei Cinque Stelle sarebbe sulla buona strada per soddisfare le richieste finanziarie della Commissione europea. Il nuovo governo potrebbe addirittura trovare un terreno comune con Bruxelles sui temi di una “riforma dal lato dell’offerta”. Questo rassicurerebbe senza dubbio gli investitori, ma sarebbe un risultato disastroso per l’Unione europea, poiché consegnerebbe una vittoria politica a Matteo Salvini, il vice primo ministro italiano, che non fa segreto del suo desiderio di ridisegnare l’Europa come un’arena di politici nativisti e neo-nazionalisti.

Se l’intenzione della Commissione non è di rafforzare la Lega, forse Bruxelles spera in una ritirata tattica di Roma. Potrebbe ancora essere trovato un compromesso che salvasse la faccia sulle costose proposte sulle pensioni. Se il governo crolla, forse nuove elezioni potrebbero portare ad una maggioranza più accondiscendente.

Ma questa, per usare un eufemismo, è una strategia ad alto rischio e negativa. Soprattutto, non può risolvere il profondo senso di crisi che c’è in Italia. Se l’Unione europea è determinata a tenere il punto sul debito e deficit, dovrebbe offrire qualcosa di positivo in cambio, come una strategia comune europea per gli investimenti e la crescita, o un approccio più cooperativo al problema dei rifugiati, che ha sostenuto l’ondata della Lega. Se tutto quello che Bruxelles ha da offrire è la disciplina, sta invitando la politica italiana a ricostruirsi su linee ancora più nazionaliste e ancora più ostili all’Europa.

giovedì 29 novembre 2018

Francia, stop a 14 reattori entro 2035

Svolta francese sul nucleare. Il presidente Emmanuel Macron annuncia lo stop a 14 reattori entro il 2035. "Questo processo inizierà nell'estate del 2020 con la chiusura definitiva dei due reattori di Fessenheim - ha detto -. Gli altri dodici reattori saranno chiusi tra il 2025 e il 2035: 4 a 6 reattori entro il 2030, gli altri tra il 2030 e il 2035", aggiunge Macron, precisando che il "ritmo delle chiusure varierà secondo l'evoluzione del nostro mix energetico e di quello dei nostri Paesi vicini". "Non sono stato eletto su un programma di uscita dal nucleare, ma su una riduzione del nucleare nel nostro mix energetico" precisa. "Manteniamo l'obiettivo del 50%, ma rinviamo la scadenza al 2035", aggiunge, ammettendo di averlo voluto fare "già nel 2025, ma dopo un'attenta analisi abbiamo valuto che nei fatti questo obiettivo era irraggiungibile".
Il Capo dello Stato francese sottolinea che "non vuole precipitare la chiusura delle centrali se poi questo significherebbe reimportare energia e dipende da altre economie". "Resta un'opzione promettente per un energia affidabile, senza carbone e a basso costo" conclude Macron, spiegando che comunque nell'immediato la Francia non deciderà la costruzione di nuovi Epr, il reattore di nuova generazione.

mercoledì 28 novembre 2018

Italia, fai attenzione: a Bruxelles non importa nulla di te

Il totale tradimento della Brexit da parte del Primo Ministro britannico Theresa “La Signora di Gesso” May sta funzionando da campanello d’allarme per gli Italiani. Gli ultimi sondaggi in Italia mostrano che anche se la coalizione populista in Italia è sgradita a Bruxelles, è ancora molto popolare tra gli italiani.

E questa è una buona cosa perché quando si osservano attentamente i negoziati sulla Brexit è chiaro che tutto ciò che conta è la conservazione del potere della UE sul Regno Unito e non il miglior interesse di tutte le parti coinvolte, britannici o no.

I partner della coalizione italiana hanno ancora il sostegno di quasi il 60% degli italiani, sono cambiate soltanto le preferenze. La Lega adesso sorpassa nei sondaggi il Movimento Cinque Stelle (M5S) col 33% a fronte del 26%, mentre il partito di centro destra, vale a dire Forza Italia di Silvio “Uomo di Paglia” Berlusconi, è collassato (dal 14% delle elezioni di marzo ad appena il 7%).

E grosso modo questa stessa parte dei cittadini ora pensa che la UE stia angariando l’Italia. Questi numeri non potranno che peggiorare se l’Unione europea va fino in fondo a comminare multe all’Italia per un bilancio che non piace a Bruxelles.

Soprattutto, stiamo assistendo anche ad una crescita del sostegno all’uscITA. Un recente sondaggio dmostra una maggioranza di italiani sotto i 45 anni pronta a farlo: lasciare l’Unione europea.

La gente con più di 45 anni è ancora innamorata dell’ideale di un’Unione europea che riesce a tenere insieme un’Europa altrimenti in guerra, piuttosto che confrontarsi con la realtà di quello che è davvero: una distante e tirannica oligarchia guidata da tecnocrati non eletti con forti legami con i ceti altolocati al potere.

La fonte di questo sostegno al governo viene, credo, dal forte contrasto tra l’arrendevolezza della May di fronte alla leadership della UE, irritata per la temerarietà del popolo britannico nel voler uscire dalla loro squallida unione, e il modo in cui il vice primo ministro Matteo Salvini sta attaccando l’ipocrisia di Bruxelles sui vincoli fiscali.

Salvini sta facendo esattamente quello che deve fare per rinforzare i consensi e allontanare l’elettorato italiano da Bruxelles. Presentare un bilancio che soddisfa entrambe le parti della coalizione – tagli fiscali e una minore regolamentazione assieme ad un reddito universale di base – nel contempo ostentando il rispetto dei vincoli di bilancio della UE, è stato un vero colpo di genio politico.

Salvini e Luigi Di Maio, il suo socio nell’insurrezione, hanno creato una perfetta polpetta avvelenata da far ingoiare alla UE. Non c’è nulla di realmente eccepibile nella proposta di bilancio. Non risolverà nessuno dei problemi italiani né sostanzialmente li peggiorerà.

Il bilancio è stato proposto allo scopo di irritare la leadership dell’UE, ormai grassa e pigra per aver sbilanciato tutto a suo favore. E Bruxelles ha reagito in modo eccessivo, nel modo più prevedibile.

Pensate a quel che sta facendo la UE con questo bilancio. Stanno minacciando miliardi di multe ad un governo italiano che è indebitato fino agli occhi.

Questa è la definizione stessa di “dare un’impressione negativa”.

Considerate il modo in cui hanno gestito la Brexit. Hanno richiesto al Regno Unito il pagamento di una cifra enorme per uscire. Questo in aggiunta ai soldi che il Regno Unito già paga ogni anno al bilancio della UE.

E, gente, non dimentichiamo che l’unica ragione per cui la questione del debito sovrano italiano non è nei titoli di testa di tutti i giornali è che la Banca centrale europea è l’unica acquirente marginale del debito italiano. E il Presidente della BCE Mario Draghi non lo fa per la bontà del suo cuore addestrato alla Goldman Sachs.

Lo sta facendo perché, se non lo facesse, l’intero sistema bancario europeo collasserebbe.

Quindi tutta questa faccenda non è niente più che teatro Kabuki. E Salvini lo sa.

Comprende che l’euro è una trappola mortale per l’Italia. Sa anche di avere il coltello dalla parte del manico a causa dell’ammontare del debito.

E tuttavia, la UE oggi si comporta esattamente come quando gestiva i colloqui sul debito greco nel 2015.

Hanno rifiutato di negoziare. Hanno fatto richieste irragionevoli. Nel caso della Grecia c’era un elettorato greco inconsapevole che non avrebbe sostenuto la Grexit e non avrebbe dato al parimenti inconsapevole Primo Ministro Alexis Tsipras il sostengo di cui necessitava per portare la Grecia fuori dall’euro.

Allora la strategia ha funzionato.

La stessa cosa sta avvenendo con la Brexit. L’aristocrazia britannica non vuole lasciare la UE. Theresa May è una Remainer e quindi ovviamente a libro paga, e la cosa non è nemmeno divertente a questo punto. Fin dall’inizio ha avuto il coltello dalla parte del manico e tuttavia si comporta come se non fosse così.

Così adesso la May ha messo insieme l’accordo esatto che Bruxelles voleva fin dall’inizio: il controllo sulle politiche fiscali e commerciali della Gran Bretagna che resta senza più voce al Parlamento europeo. Onestamente, lo status della Gran Bretagna una volta che questo accordo sarà stato firmato sarà quello di poter solo guardare al futuro di tutti i paesi che rimangono nella UE.

Tassazione senza rappresentanza politica.

Quindi, non dovrebbe essere uno shock per nessuno il fatto che l’Unione europea gestisca Salvini e il suo governo con lo stesso disprezzo e la stessa derisione. Ed è esattamente ciò che vuole Salvini. Deve manovrare Bruxelles facendoli apparire come i cattivi.

Perché se vuole liberare l’Italia da Bruxelles, non può essere solo una sua idea. Deve essere un’ondata popolare.

Fortunatamente per lui e gli italiani in generale, gli idioti nelle alte sfere di Bruxelles sono fin troppo felici di accontentarlo. Credo che a loro piaccia essere cretini odiosi, francamente.

Pensano realmente di poter decidere tutto per vie legali. Ma la verità è che non possono.

Perché pensate che il Presidente francese Emmanuel Macron e l’Anatra Zoppa, la Cancelliera Tedesca Angela Merkel, vogliano così tanto il Grande Esercito della UE? Per invadere e occupare gli stati membri ribelli, non per proteggersi dalla Russia.

Più la UE tenta di intimidire e forzare l’Italia a fare quello che vuole la UE, più saranno gli italiani, anche i più anziani, che sosterranno la crociata di Salvini. Il populismo è popolare in tutta Europa.

E le elezioni del Parlamento europeo a maggio probabilmente si dimostreranno un importante punto di svolta nel percorso della UE. Tutti i partiti euroscettici sono largamente sotto-rappresentati rispetto ai numeri odierni dei sondaggi. A maggio, centinaia di seggi sono destinati a passare di mano.

E molti dei nuovi arrivati non saranno a libro paga del Gruppo di Davos.

Allora forse la Ue capirà quanto sia fragile l’intero progetto.

martedì 27 novembre 2018

Informare, non condonare

Se ci sono vincoli idrogeologici, le case di Ischia vanno demolite». Le parole del premier Conte pronunciate durante il question time alla Camera sul dissesto idrogeologico, nelle ore del varo del Decreto Genova e in un malcelato ennesimo condono edilizio, ci rimandano all’ultima tragedia, la villetta sommersa dal fiume Milicia a Casteldaccia (PA). Costruita abusivamente in area di pericolosità elevata, avrebbe già dovuto essere abbattuta dal comune, come ha precisato il Tar, dal 2011: «in questi anni, l’ordinanza di demolizione poteva – e doveva – essere eseguita» ha ribadito il Tribunale della Giustizia Amministrativa.
Se sta alla magistratura accertare le responsabilità nella vicenda, in cui hanno perso la vita 6 adulti e 3 bambini, non resta che constatare che il comune di Casteldaccia, pur sollecitato da maggio, non aveva ancora presentato il piano di allerta e protezione civile, previsto dalla legge. Ma stando al quadro fornito dalla Protezione Civile, in Sicilia solo il 48% dei comuni ha presentato quel piano, a fronte di una media italiana del 88% e del 100% delle amministrazioni di Marche, Molise, Provincia Autonoma di Trento e Val d’Aosta e il 78% dei comuni di Lombardia e Calabria, tra le regioni più soggette a rischio idrogeologico.
 Secondo la mappatura dell’Osservatorio Cittaclima.it, dal 2010 ad oggi sono 256 i comuni dove si sono registrati impatti rilevanti, con 426 fenomeni meteorologici estremi, 133 allagamenti, 59 esondazioni fluviali e 133 i casi di danni a infrastrutture. E si continua a pagare un tributo drammatico in termini vite umane e di feriti, al quale vanno aggiunte le 37 vittime di queste ultime settimane: dal 2010 al 2017 sono, infatti, oltre 157 le vittime di questi fenomeni e oltre 45mila quelle che sono state sgomberate.

Sono, infatti, i sindaci le Autorità territoriali di protezione civile e responsabili dell’attuazione e dell’adozione dei piani di emergenza comunali. Se però, come dimostra anche la campagna “Io non rischio”, l’informazione è la migliore prevenzione, non tutti i comuni si sono ancora adeguati al Piano Nazionale.
«Molto rimane ancora da fare» conferma a Valori Giorgio Zampetti, direttore di Legambiente e responsabile scientifico del rapporto Ecosistema Rischio 2017, l’indagine sulle attività nelle amministrazioni comunali per la riduzione del rischio idrogeologico.

Abusi edilizi, un vizio ancora di moda

«La costruzione scellerata non è un fenomeno solo del passato: nell’ultimo decennio il 9% dei comuni (136) ha edificato in aree a rischio e di questi 110 hanno costruito case, quartieri o strutture sensibili e industriali in aree vincolate». Preoccupanti anche i dati sulla cementificazione dei letti dei fiumi: anche se il 70% dei comuni intervistati (1.025 amministrazioni), svolge regolarmente un’attività di manutenzione ordinaria delle sponde dei corsi d’acqua e delle opere di difesa idraulica, il 9% delle amministrazioni ha dichiarato di aver “tombato” tratti di corsi d’acqua sul proprio territorio, con una conseguente urbanizzazione delle aree sovrastanti.

La fotografia di un paese in dissesto

L’Italia è arrivata in ritardo a legiferare ed intervenire sul dissesto idrogeologico. Ci sono voluti i disastri, come quello di Sarno, per accelerare l’attuazione della legge 183/89 che fino al 1998 non era stata applicata e che è stata poi assorbita nella legge 152/2006.
Norme che prevedono l’istituzione dei PAI, Piani per l’assetto idrogeologico, con la mappatura e l’individuazione delle aree soggette a frane e alluvioni e il loro recepimento nella pianificazione urbanistica, per la salvaguardia del territorio, oggetto di aggiornamento e integrazioni da parte delle Autorità di Bacino Distrettuali e su richiesta degli Enti Locali, con il coordinamento dell’Istituto Superiore per la Protezione dell’Ambiente (ISPRA). Mappe che sono disponibili sul sito di Ispra e delle singole regioni.