giovedì 29 novembre 2018

Francia, stop a 14 reattori entro 2035

Svolta francese sul nucleare. Il presidente Emmanuel Macron annuncia lo stop a 14 reattori entro il 2035. "Questo processo inizierà nell'estate del 2020 con la chiusura definitiva dei due reattori di Fessenheim - ha detto -. Gli altri dodici reattori saranno chiusi tra il 2025 e il 2035: 4 a 6 reattori entro il 2030, gli altri tra il 2030 e il 2035", aggiunge Macron, precisando che il "ritmo delle chiusure varierà secondo l'evoluzione del nostro mix energetico e di quello dei nostri Paesi vicini". "Non sono stato eletto su un programma di uscita dal nucleare, ma su una riduzione del nucleare nel nostro mix energetico" precisa. "Manteniamo l'obiettivo del 50%, ma rinviamo la scadenza al 2035", aggiunge, ammettendo di averlo voluto fare "già nel 2025, ma dopo un'attenta analisi abbiamo valuto che nei fatti questo obiettivo era irraggiungibile".
Il Capo dello Stato francese sottolinea che "non vuole precipitare la chiusura delle centrali se poi questo significherebbe reimportare energia e dipende da altre economie". "Resta un'opzione promettente per un energia affidabile, senza carbone e a basso costo" conclude Macron, spiegando che comunque nell'immediato la Francia non deciderà la costruzione di nuovi Epr, il reattore di nuova generazione.

mercoledì 28 novembre 2018

Italia, fai attenzione: a Bruxelles non importa nulla di te

Il totale tradimento della Brexit da parte del Primo Ministro britannico Theresa “La Signora di Gesso” May sta funzionando da campanello d’allarme per gli Italiani. Gli ultimi sondaggi in Italia mostrano che anche se la coalizione populista in Italia è sgradita a Bruxelles, è ancora molto popolare tra gli italiani.

E questa è una buona cosa perché quando si osservano attentamente i negoziati sulla Brexit è chiaro che tutto ciò che conta è la conservazione del potere della UE sul Regno Unito e non il miglior interesse di tutte le parti coinvolte, britannici o no.

I partner della coalizione italiana hanno ancora il sostegno di quasi il 60% degli italiani, sono cambiate soltanto le preferenze. La Lega adesso sorpassa nei sondaggi il Movimento Cinque Stelle (M5S) col 33% a fronte del 26%, mentre il partito di centro destra, vale a dire Forza Italia di Silvio “Uomo di Paglia” Berlusconi, è collassato (dal 14% delle elezioni di marzo ad appena il 7%).

E grosso modo questa stessa parte dei cittadini ora pensa che la UE stia angariando l’Italia. Questi numeri non potranno che peggiorare se l’Unione europea va fino in fondo a comminare multe all’Italia per un bilancio che non piace a Bruxelles.

Soprattutto, stiamo assistendo anche ad una crescita del sostegno all’uscITA. Un recente sondaggio dmostra una maggioranza di italiani sotto i 45 anni pronta a farlo: lasciare l’Unione europea.

La gente con più di 45 anni è ancora innamorata dell’ideale di un’Unione europea che riesce a tenere insieme un’Europa altrimenti in guerra, piuttosto che confrontarsi con la realtà di quello che è davvero: una distante e tirannica oligarchia guidata da tecnocrati non eletti con forti legami con i ceti altolocati al potere.

La fonte di questo sostegno al governo viene, credo, dal forte contrasto tra l’arrendevolezza della May di fronte alla leadership della UE, irritata per la temerarietà del popolo britannico nel voler uscire dalla loro squallida unione, e il modo in cui il vice primo ministro Matteo Salvini sta attaccando l’ipocrisia di Bruxelles sui vincoli fiscali.

Salvini sta facendo esattamente quello che deve fare per rinforzare i consensi e allontanare l’elettorato italiano da Bruxelles. Presentare un bilancio che soddisfa entrambe le parti della coalizione – tagli fiscali e una minore regolamentazione assieme ad un reddito universale di base – nel contempo ostentando il rispetto dei vincoli di bilancio della UE, è stato un vero colpo di genio politico.

Salvini e Luigi Di Maio, il suo socio nell’insurrezione, hanno creato una perfetta polpetta avvelenata da far ingoiare alla UE. Non c’è nulla di realmente eccepibile nella proposta di bilancio. Non risolverà nessuno dei problemi italiani né sostanzialmente li peggiorerà.

Il bilancio è stato proposto allo scopo di irritare la leadership dell’UE, ormai grassa e pigra per aver sbilanciato tutto a suo favore. E Bruxelles ha reagito in modo eccessivo, nel modo più prevedibile.

Pensate a quel che sta facendo la UE con questo bilancio. Stanno minacciando miliardi di multe ad un governo italiano che è indebitato fino agli occhi.

Questa è la definizione stessa di “dare un’impressione negativa”.

Considerate il modo in cui hanno gestito la Brexit. Hanno richiesto al Regno Unito il pagamento di una cifra enorme per uscire. Questo in aggiunta ai soldi che il Regno Unito già paga ogni anno al bilancio della UE.

E, gente, non dimentichiamo che l’unica ragione per cui la questione del debito sovrano italiano non è nei titoli di testa di tutti i giornali è che la Banca centrale europea è l’unica acquirente marginale del debito italiano. E il Presidente della BCE Mario Draghi non lo fa per la bontà del suo cuore addestrato alla Goldman Sachs.

Lo sta facendo perché, se non lo facesse, l’intero sistema bancario europeo collasserebbe.

Quindi tutta questa faccenda non è niente più che teatro Kabuki. E Salvini lo sa.

Comprende che l’euro è una trappola mortale per l’Italia. Sa anche di avere il coltello dalla parte del manico a causa dell’ammontare del debito.

E tuttavia, la UE oggi si comporta esattamente come quando gestiva i colloqui sul debito greco nel 2015.

Hanno rifiutato di negoziare. Hanno fatto richieste irragionevoli. Nel caso della Grecia c’era un elettorato greco inconsapevole che non avrebbe sostenuto la Grexit e non avrebbe dato al parimenti inconsapevole Primo Ministro Alexis Tsipras il sostengo di cui necessitava per portare la Grecia fuori dall’euro.

Allora la strategia ha funzionato.

La stessa cosa sta avvenendo con la Brexit. L’aristocrazia britannica non vuole lasciare la UE. Theresa May è una Remainer e quindi ovviamente a libro paga, e la cosa non è nemmeno divertente a questo punto. Fin dall’inizio ha avuto il coltello dalla parte del manico e tuttavia si comporta come se non fosse così.

Così adesso la May ha messo insieme l’accordo esatto che Bruxelles voleva fin dall’inizio: il controllo sulle politiche fiscali e commerciali della Gran Bretagna che resta senza più voce al Parlamento europeo. Onestamente, lo status della Gran Bretagna una volta che questo accordo sarà stato firmato sarà quello di poter solo guardare al futuro di tutti i paesi che rimangono nella UE.

Tassazione senza rappresentanza politica.

Quindi, non dovrebbe essere uno shock per nessuno il fatto che l’Unione europea gestisca Salvini e il suo governo con lo stesso disprezzo e la stessa derisione. Ed è esattamente ciò che vuole Salvini. Deve manovrare Bruxelles facendoli apparire come i cattivi.

Perché se vuole liberare l’Italia da Bruxelles, non può essere solo una sua idea. Deve essere un’ondata popolare.

Fortunatamente per lui e gli italiani in generale, gli idioti nelle alte sfere di Bruxelles sono fin troppo felici di accontentarlo. Credo che a loro piaccia essere cretini odiosi, francamente.

Pensano realmente di poter decidere tutto per vie legali. Ma la verità è che non possono.

Perché pensate che il Presidente francese Emmanuel Macron e l’Anatra Zoppa, la Cancelliera Tedesca Angela Merkel, vogliano così tanto il Grande Esercito della UE? Per invadere e occupare gli stati membri ribelli, non per proteggersi dalla Russia.

Più la UE tenta di intimidire e forzare l’Italia a fare quello che vuole la UE, più saranno gli italiani, anche i più anziani, che sosterranno la crociata di Salvini. Il populismo è popolare in tutta Europa.

E le elezioni del Parlamento europeo a maggio probabilmente si dimostreranno un importante punto di svolta nel percorso della UE. Tutti i partiti euroscettici sono largamente sotto-rappresentati rispetto ai numeri odierni dei sondaggi. A maggio, centinaia di seggi sono destinati a passare di mano.

E molti dei nuovi arrivati non saranno a libro paga del Gruppo di Davos.

Allora forse la Ue capirà quanto sia fragile l’intero progetto.

martedì 27 novembre 2018

Informare, non condonare

Se ci sono vincoli idrogeologici, le case di Ischia vanno demolite». Le parole del premier Conte pronunciate durante il question time alla Camera sul dissesto idrogeologico, nelle ore del varo del Decreto Genova e in un malcelato ennesimo condono edilizio, ci rimandano all’ultima tragedia, la villetta sommersa dal fiume Milicia a Casteldaccia (PA). Costruita abusivamente in area di pericolosità elevata, avrebbe già dovuto essere abbattuta dal comune, come ha precisato il Tar, dal 2011: «in questi anni, l’ordinanza di demolizione poteva – e doveva – essere eseguita» ha ribadito il Tribunale della Giustizia Amministrativa.
Se sta alla magistratura accertare le responsabilità nella vicenda, in cui hanno perso la vita 6 adulti e 3 bambini, non resta che constatare che il comune di Casteldaccia, pur sollecitato da maggio, non aveva ancora presentato il piano di allerta e protezione civile, previsto dalla legge. Ma stando al quadro fornito dalla Protezione Civile, in Sicilia solo il 48% dei comuni ha presentato quel piano, a fronte di una media italiana del 88% e del 100% delle amministrazioni di Marche, Molise, Provincia Autonoma di Trento e Val d’Aosta e il 78% dei comuni di Lombardia e Calabria, tra le regioni più soggette a rischio idrogeologico.
 Secondo la mappatura dell’Osservatorio Cittaclima.it, dal 2010 ad oggi sono 256 i comuni dove si sono registrati impatti rilevanti, con 426 fenomeni meteorologici estremi, 133 allagamenti, 59 esondazioni fluviali e 133 i casi di danni a infrastrutture. E si continua a pagare un tributo drammatico in termini vite umane e di feriti, al quale vanno aggiunte le 37 vittime di queste ultime settimane: dal 2010 al 2017 sono, infatti, oltre 157 le vittime di questi fenomeni e oltre 45mila quelle che sono state sgomberate.

Sono, infatti, i sindaci le Autorità territoriali di protezione civile e responsabili dell’attuazione e dell’adozione dei piani di emergenza comunali. Se però, come dimostra anche la campagna “Io non rischio”, l’informazione è la migliore prevenzione, non tutti i comuni si sono ancora adeguati al Piano Nazionale.
«Molto rimane ancora da fare» conferma a Valori Giorgio Zampetti, direttore di Legambiente e responsabile scientifico del rapporto Ecosistema Rischio 2017, l’indagine sulle attività nelle amministrazioni comunali per la riduzione del rischio idrogeologico.

Abusi edilizi, un vizio ancora di moda

«La costruzione scellerata non è un fenomeno solo del passato: nell’ultimo decennio il 9% dei comuni (136) ha edificato in aree a rischio e di questi 110 hanno costruito case, quartieri o strutture sensibili e industriali in aree vincolate». Preoccupanti anche i dati sulla cementificazione dei letti dei fiumi: anche se il 70% dei comuni intervistati (1.025 amministrazioni), svolge regolarmente un’attività di manutenzione ordinaria delle sponde dei corsi d’acqua e delle opere di difesa idraulica, il 9% delle amministrazioni ha dichiarato di aver “tombato” tratti di corsi d’acqua sul proprio territorio, con una conseguente urbanizzazione delle aree sovrastanti.

La fotografia di un paese in dissesto

L’Italia è arrivata in ritardo a legiferare ed intervenire sul dissesto idrogeologico. Ci sono voluti i disastri, come quello di Sarno, per accelerare l’attuazione della legge 183/89 che fino al 1998 non era stata applicata e che è stata poi assorbita nella legge 152/2006.
Norme che prevedono l’istituzione dei PAI, Piani per l’assetto idrogeologico, con la mappatura e l’individuazione delle aree soggette a frane e alluvioni e il loro recepimento nella pianificazione urbanistica, per la salvaguardia del territorio, oggetto di aggiornamento e integrazioni da parte delle Autorità di Bacino Distrettuali e su richiesta degli Enti Locali, con il coordinamento dell’Istituto Superiore per la Protezione dell’Ambiente (ISPRA). Mappe che sono disponibili sul sito di Ispra e delle singole regioni.

lunedì 26 novembre 2018

Parigi. Di nuovo i piazza i gilets jaune, scontri con la polizia

Ad una settimana esatta dalla massiccia giornata di blocchi stradali di sabato scorso, che sono proseguiti nei giorni successivi al 17 novembre la “marea gialla” è a Parigi, come già preannunciato la scorsa domenica.
Sebbene giovedì il governo abbia annunciato la fine dei blocchi o dei filtri di rallentamento del traffico sui maggiori assi viari dell’Esagono, azione mirate dei GJ hanno colpito piattaforme logistiche e centri commerciali.
Questo movimento senza-capi, proteiforme ed eterogeneo ha catalizzato la rabbia popolare, facendo riconoscere quella parte della Francia peri-urbana e rurale nel sentimento in una comune condizione: “siamo tutti nella merda”, come ha testimoniato una partecipante ai blocchi.
Un procedere fermo ed allo stesso tempo incerto, che decide i suoi passi quasi in tempo reale: “è una pseudo-organizzazione” – spiega un manifestante – “si fa di giorno in giorno, ma va avanti”.
Questo movimento, secondo i sondaggi, ha aumentato dopo le azioni compiute il proprio gradimento, nel mentre diminuiva quello del governo. Certamente ci sono stati isolati episodi deprecabili, ma possiamo condividere il giudizio di una GJ “è la prova che è un movimento che è il riflesso della società, si sono dei buoni e dei poco di buono”.
Basterebbe leggere le inchieste degli ultimi anni e ascoltare le parole dei protagonisti per capire come la transizione ecologica sta molto a cuore alla popolazione francese che però vuole condividere dal punto di vista delle decisioni e dei costi questa strategia necessaria e non essere penalizzata da un governo che sta compiendo scelte fiscali a tutto vantaggio dell’establishment.
Sono ormai una parte degli stessi elettori di Macron che la pensa a questo modo, come rivela un sondaggio IPSOS sulla percezione della fiscalità in Francia. E mentre all’Isola della Reunion, territorio oltre-mare francese, il popolo sta resistendo all’esercito lì inviato per sedare la rivolta mai cessata da sabato, a Parigi oggi i GJ hanno rotto i diviete polizieschi e cercano di dirigersi verso l’Eliseo, dando luogo al lancio di lacrimogeni e al getto di idranti da parte dei CRS in una città militarizzata, in cui lo stato ha mobilitato la maggioranza della “celere” francese.
Non si può prevedere che piega prenderanno gli eventi, quel che è chiaro, ormai a tutti è che si è avverato il proposito per cui “A Parigi, faremo sapere che le peuple, quello esiste ancora”, come ha dichiarato un GJ al quotidiano “Le Monde” questa settimana.
E la prossima settimana, studenti medi e pezzi del movimento sindacale, arricchiranno il magma sociale che in Francia ribolle determinando ormai un punto di caduta inedito nel Continente, considerando che la prima “richiesta” è divenuta – tra le file dei GJ – le dimissioni di Macron, stando a ciò che dicono se intervistati e a ciò che circola sui socials. Prima di sabato erano stati recensiti due persone decedute a causa di avvenimenti legati ai blocchi, 600 feriti – di cui 18 gravi -, 850 interrogati e 700 posti in stato di fermo. Dopo le mobilitazioni per l’oxi in Grecia e quelle per l’indipendenza in Catalogna lo scorso autunno, la marea gialla dei GJ – e ciò che sta provocando – è il movimento più importante del vecchio continente. Non accorgersene è di una cecità preoccupante.

giovedì 22 novembre 2018

Nave Aquarius sequestrata per smaltimento di rifiuti. Indagata Msf

Rifiuti pericolosi a rischio infettivo, sanitari e non, scaricati in maniera indifferenziata nei porti italiani come se fossero rifiuti urbani. In 44 sbarchi, negli ultimi due anni e mezzo, sarebbero state smaltite illecitamente 24 tonnellate di rifiuti pericolosi, con un risparmio di costi di 460.000 euro. È questa l’accusa nei confronti della Ong Medici senza frontiere e di due agenti marittimi. E con questa accusa che il gip di Catania Carlo Cannella, su richiesta del procuratore Carmelo Zuccaro, ha disposto il sequestro della nave Aquarius di Msf e Sos Mediterranee ferma da settimane nel porto di Marsiglia dopo il ritiro della bandiera da parte delle autorità panamensi. Sequestrati anche alcuni conti bancari di Msf. Quattordici le persone indagate che “avrebbero avuto la consapevolezza della pericolosità degli indumenti indossati dai migranti in quanto fonte di trasmissione di virus o agenti patogeni contratti durante il viaggio”.
Questi gli indagati: i due agenti marittimi Francesco Gianino e Giovanni Ivan Romeo, i centri operativi di Amsterdam e di Bruxelles di Msf, il comandante e il primo ufficiale dell’Aquarius, il russo Evgenii Talanin e l’ucraio Oleksandr Yurchenko. E gli 8 membri di Msf: il vice capo missione Italia di Msf Belgio Michele Trainiti, il vice coordinatore nazionale nazionale e addetta all’approvvigionamento della missione Italia di Msf Belgio Cristina Lomi, il liaison Officer di Mas Belgio Marco Ottaviano, i coordinatori del progetto Sar Aquarius di Msf Olanda, Aloys Vimard e Marcella Kraaij, il coordinatore logistico di Aquarius Joachim Tisch, il delegato alla logistica a bordo della nave Martinus Taminiau e il coordinatore del progetto a bordo della nave, l’inglese Nicholas Romaniuk.
Secondo Guardia di finanza e polizia, coordinate dalla procura di Catania, tra i rifiuti sversati ci sono “gli indumenti contaminati indossati dagli extracomunitari”, gli scarti alimentari e i rifiuti di quanto utilizzato in navigazione per l’assistenza medica ai migranti soccorsi nel mar Mediterraneo.
La Procura di Catania scrive che, tra gennaio 2017 e maggio 2018, dalle navi Vos Prudence e Aquarius “non è stata mai dichiarata la presenza di rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo” anche in presenza di “numerosi e documentati casi di malattie registrate dai vari Uffici di Sanità Marittima” allo sbarco dei migranti nei porti italiani, duranti i quali sono stati “rilevati 5.088 casi sanitari a rischio infettivo (scabbia, meningite, tubercolosi, Aids e sifilide) su 21.326 migranti sbarcati”.
Secondo l’accusa, i soggetti coinvolti, a vario titolo, avrebbero “sistematicamente condiviso, pianificato ed eseguito un progetto di illegale smaltimento di un ingente quantitativo di rifiuti pericolosi a rischio infettivo”, che sarebbero stati “conferiti in modo indifferenziato, unitamente ai rifiuti solidi urbani, in occasione di scali tecnici e sbarco dei migranti” in 11 porti italiani: Trapani, Pozzallo, Augusta, Catania e Messina in Sicilia; Vibo Valentia, Reggio Calabria e Corigliano Calabro in Calabria; Napoli e Salerno in Campania; Brindisi in Puglia.
“Ogni altro rifiuto della clinica è stato presentato insieme a tutti i rifiuti normali al momento dello sbarco”, si legge in una mail interna di Medici senza frontiere acquisita dalla Procura. Tra le intercettazioni risalta quella tra l’agente marittimo Gianino, titolare della “Mediterranean shipping agency” (Msa) di Augusta (SR) che agiva da intermediario, e un funzionario della Vos Prudence in cui si spiega che i vestiti dei migranti “noi li classifichiamo come rifiuto speciale, come se fossero stracci della sala macchine”. Gianino parla di “equilibri talmente sottili ormai consolidati in 2-3 anni” e dice che si “va a certificare” l’urina di “gente che può avere malattie infettive”. Ecco perché, spiega al suo interlocutore, bisogna comportarsi “come una zanzara in una cristalliera, non come un elefante dentro la cristalliera… si spezza il coso poi non posso aiutarti”.
La Procura ha ricostruito il truffaldino meccanismo di declassificazione: durante la navigazione verso il porto di destinazione, si davano indumenti nuovi e alimenti ai migranti salvati in mare, producendo quelli che per l’accusa erano dei “rifiuti pericolosi a rischio infettivo”. Quest’ultimi, durante le operazioni di certificazione prima di entrare nel porto, venivano presentati come rifiuti solidi indifferenziati con l’assegnazione di codici che li contraddistinguevano come “non pericolosi”. Al termine delle operazioni di sbarco venivano consegnati alla società incaricata di smaltirli che, come emerge da foto segnalazioni fatte a Catania, “li compattava in maniera indiscriminata e li portava in discarica per lo smaltimento finale”.
Msf ha bollato l’inchiesta come “misura sproporzionata e strumentale, tesa a criminalizzare per l’ennesima volta l’azione medico-umanitaria in mare”.
Di tutt’altro avviso Matteo Salvini, ministro dell’Interno: “Ho fatto bene a bloccare le navi delle Ong. Ho fermato non solo il traffico di immigrati ma anche quello di rifiuti”.

mercoledì 21 novembre 2018

Il 60% degli italiani pensa che la UE non vada bene per l’Italia

Sei italiani su dieci si sentono maltrattati dall’Unione europea, riporta un sondaggio scioccante.

Più della metà degli italiani intervistati sta perdendo fiducia nella UE, mentre soltanto il 7% crede ancora che l’istituzione abbia a cuore i loro interessi. Queste rivelazioni esplosive arrivano mentre l’Italia è ancora in rotta di collisione con la UE, dopo aver rifiutato di cambiare il suo bilancio. La coalizione populista ha sfidato la Commissione europea e ha promesso di non modificare la bozza di bilancio.

Il governo italiano insiste che non cambierà il suo obiettivo di deficit del 2,4% nel 2019 in modo da soddisfare le sue promesse elettorali.

L’Italia è stata invischiata in un’aspra lotta con Bruxelles sul suo deficit di bilancio; la Commissione Europea ha fissato la scadenza di giovedì perché Roma risponda alle sue richieste.

L’ultimatum di Bruxelles non ha precedenti nei suoi rapporti con i paesi membri.

Roma ha fatto una piccola concessione alle richieste di Bruxelles sul bilancio, inclusa una clausola di salvaguardia per impedire al deficit di crescere oltre il 2,4% l’anno prossimo.

Il vice-primo ministro Luigi Di Maio ha detto: “Non supereremo il 2,4% di deficit, e crediamo che la crescita economica l’anno prossimo sarà del 1,5%”.

“Se a Bruxelles piace il nostro piano, saremo felici; altrimenti andremo avanti”.

La dichiarazione arriva mentre i sondaggi di Coldiretti e Ixé rivelano anche che il 43% degli italiani pensa che le politiche economiche di Bruxelles siano ideate dai paesi più forti senza molta considerazione per le economie più deboli.

Un’area nella quale gli italiani sono fermamente convinti di questo è quella che riguarda il cibo.

Due terzi degli italiani credono che le politiche della UE sul cibo danneggino i prodotti made in Italy e solo il 10% crede che il settore agroalimentare benefici delle scelte dalla UE.

Un portavoce della Coldiretti ha detto: “La netta maggioranza degli italiani crede che i regolamenti comunitari e le recenti scelte che riguardano i trattati internazionali non siano adeguati a garantire la qualità, la sicurezza ma anche il rispetto della tradizione gastronomica dell’Italia”.

L’istituto Ixé ha intervistato 1000 italiani tra il 28 settembre e il 5 ottobre 2018.

martedì 20 novembre 2018

Gilets gialli in Francia: radiografia della collera

Lo scorso mercoledì Emmanuel Macron ha fatto una dichiarazione con cui è difficile dissentire: “non sono riuscito a riconciliare il popolo francese con i suoi dirigenti”.
A diciotto mesi dalla sue elezione, questa constatazione ha assunto – dopo le mobilitazioni di sabato 17 novembre, promosse dal composito e proteiforme movimento dei “gillets jaunes” – una evidenza empirica incontestabile, confermando i sondaggi d’opinione che hanno registrato un costante calo di consensi nei confronti del leader di En Marche!, soprattutto a partire dallo scoppio dell’Affarie Benalla durante l’estate.
Queste ultime settimane erano state programmate per avviare un rilancio dell’immagine dell’esecutivo, dal recente rimpasto governativo in poi, nel tentativo di costruire la narrazione di una governance più attenta alle collettività territoriali e più incline all’ascolto dei bisogni popolari. Il viaggio a tappe serrate lungo i luoghi di confine teatro degli scontri bellici della Prima Guerra Mondiale – che sono tra l’altro i territori più colpiti dalla de-industrializzazione – aveva proprio questo fine.
Il discorso commemorativo solenne tenuto di fronte agli altri capi di Stato sulla Grande Guerra, alla fine di questa ’”itinérance” in cui aveva ribadito il ruolo geo-politico centrale della UE e della NATO, doveva riaccreditarlo come statista di grande livello, massimo esponente del popolo francese in grado di raccogliere il testimone come maggior rappresentante dell’”europeismo” in vista della ormai prossima uscita di scena di Angela Merkel; e dopo che La Republique en Marche (LREM) si era allineato al gruppo dei liberal-democatici europei (ALDE) a Madrid, appena una settimana prima, decidendo la propria collocazione all’interno dell’arco di forze in vista delle elezioni europee del maggio prossimo.
Infine, le numerose interviste autocritiche dovevano tendere a mitigare quell’“ostilità” radicata “nei rimproveri che i francesi fanno al presidente”. Critiche che innanzitutto sono dovute a due fattori:“arroganza e il fatto che non ascolti []. più che la critica al ‘presidente dei ricchi’, che non è più in testa” alle rilevazioni, come ha dichiarato a “Le Monde” Bernard Sananes, presidente dell’istituto di sondaggi Elabe.
Ma il “mea culpa di Macron”, come l’ha definito “Le Monde” in un articolo dello scorso venerdì, da cui abbiamo tratto la citazione, e le misure “tampone” tese a disinnescare la protesa annunciate dall’esecutivo, sono servite veramente a poco.
Ancora meno sono servite le “minacce repressive” fatte dal governo, quando ha ribadito che “l’ostacolo alla circolazione” è un reato penale punibile con due anni di carcere, 4.500 euro di multa, con la penalizzazione di sei punti sulla patente e l’eventuale sequestro del mezzo.
Il movimento dei gillet gialli è sintomo di una frattura tra la Francia dei piccoli centri abitati e delle zone rurali con l’establishment.
Negli ultimi anni le fasce medio-basse hanno lasciato i grandi agglomerati urbani, a causa di una speculazione edilizia che li ha spinti in zone dove l’automobile è l’unico mezzo di spostamento possibile, e dove si è costretti ad una media di 60 kilometri al giorno per il tragitto casa-lavoro-casa. Questa Francia rurale e dei piccoli centri abitativi ha conosciuto un impoverimento complessivo dei servizi (ospedali, uffici postali, tribunali, ecc.), la desertificazione del piccolo commercio di prossimità, oltre al depauperamento del sistema del trasporto pubblico.
Inoltre le fasce di classi lavoratrici, a causa del “non ritorno” in termini di servizi erogati, hanno cominciato a percepire le tasse come un fardello.
I contribuenti – spiega Alexis Spire, direttore del CNRS, che a settembre ha pubblicato un libro d’inchiesta sul rapporto tra i francesi e le imposte – nella fascia bassa della scala sociale non vedono più la contropartita di ciò che pagano.
Vista la drastica diminuzione dei servizi, prosegue il ricercatore citato da “Le Monde”, in un articolo uscito sabato scorso: “la contropartita dell’imposta non è più tangibile. Hanno l’impressione che siano prelevate per permettere alle élite politiche di intrattenere una vita sontuosa.
In questo contesto l’innalzamento delle accise sul carburante diesel previsto dal primo gennaio – sei centesimi al litro e  tre per la benzina – è servito da detonante per un movimento nato su Facebook, che secondo i sondaggi ha trovato tre francesi su quattro favorevoli, prima dei blocchi, senza che nessun corpo intermedio l’appoggiasse – al di là della partecipazione dei singoli aderenti – e il sostegno di tutte le forze politiche dell’opposizione sia di destra che di sinistra (ad esclusione dei verdi).
L’aumento, va detto, colpisce di più, in proporzione, le fasce a basso reddito, costrette a ricorrere all’auto per gli spostamenti quotidiani.
Questa sorta di austerity “ecologica”, tesa a colpire i singoli cittadini che spesso non hanno altra scelta per la propria mobilità, e non i veri responsabili dell’inquinamento, ha catalizzato il risentimento di fasce ampie di popolazione che, nella discussione sul possibile ampliamento di una ipotetica piattaforma rivendicativa non formalizzata, hanno suggerito la modifica di alcune misure sociali: l’innalzamento del salario minimo intercategoriale, la gratuità dei trasporti, o la soppressione del 1,7% di incremento della contribution social généralisé (CSG) sulle pensioni.
Gli incontri organizzativi, che avevano come strumento di comunicazione Messenger, si sono svolti nei parcheggi dei centri commerciali che costellano la Francia profonda, spesso con una netta sproporzione tra la partecipazione effettiva e l’interesse suscitato sui socials, che però dà la cifra del consenso.
Al blocco di Parigi, prima della riunione preparatoria, circa 50.000 persone hanno annunciato che avrebbero partecipato, e circa 200.000 si sono detti interessati.
Come ricorda Erik Neveu, professore all’istituto politico di Rennes: il primo partito delle classi popolari, è l’astensione. Dunque il sentimento che dietro la mobilitazione non ci sia né un movimento politico, né un movimento sindacale, li rassicura e facilita la loro partecipazione.
E in effetti, al di là del maldestro tentativo della destra, anche quelle estrema, di strumentalizzare la mobilitazione, e l’appoggio della France Insoumise, che si è concretizzato non solo nelle numerose dichiarazioni del suo leader ma nella partecipazione diretta dei suoi aderenti, la mobilitazione si è auto-rappresentata come un “movimento cittadino” allergico alle forze politiche.
Le varie “operazioni lumaca” sparse su tutto il territorio dell’Esagono, sono state l’ennesimo effetto boomerang per un governo che ha azzerato il “dialogo sociale”, marginalizzando il ruolo dei corpi intermedi sindacali, ridotti a soggetti non più chiamati a discutere con l’esecutivo le sue scelte; Macron si è ritrovato con una mobilitazione che non aveva dei portavoce, né una piattaforma ufficiale, né un piano d’azione stimabile e quindi in qualche misura contenibile attraverso precise misure di “ordine pubblico”.
Lo spauracchio della repressione paventato martedì ai microfoni di BFM-TV dal ministro dell’Interno Christophe Castaner, secondo cui “il blocco totale” non sarebbe stato tollerato e che “ovunque ci sarà un blocco e dunque, un rischio per gli interventi di natura securitaria e per la libera circolazione, noi interverremo”, non ha certo intimorito la protesta ma, forse, ha scaldato maggiormente gli animi.
Il palese tentativo di falsare il numero dei blocchi e minimizzare la partecipazione alla protesta, compiuto il giorno stesso della mobilitazione, e l’atteggiamento di totale chiusura teso a proseguire per la propria strada da parte del governo, nonché le dichiarazioni di membri dell’establishment, non fanno che ampliare un solco già profondo tra la popolazione e l’attuale classe dirigente, e concorrere alla messa in crisi della “macronismo”, che non riesce a trovare il modo di rilanciarsi; e dire che non sono certo mancati i tentativi messi in campo… Un insuccesso che alimenta tra l’altro le paure delle oligarchie europee circa questo sempre più fragile esponente dei propri interessi a livello continentale.
Quello “spazio immenso e vuoto” che il filosofo Alexis Tocqueville descriveva nella sua opera sull’Ancien Régime e la Rivoluzione, fustigando i regimi centralizzati tendenti a distruggere tutti i corpi intermedi, è stato riempito da un magma sociale composito che, pur se non riesce a trovare una sintesi organica delle proprie aspirazioni, esprime comunque una crisi di legittimità delle élites politiche, agisce al di fuori della sfera diretta di influenza dei corpi intermedi, catalizza una rabbia che trova nello strumento del “blocco” una modalità per incidere sulla realtà, appoggiandosi ad un consenso che va oltre quello dei protagonisti diretti di queste pratiche.
Nei giorni che seguiranno sapremo quale sarà l’output politico di questa mobilitazione e cosa sedimenterà nella coscienza dei suoi protagonisti, in una battaglia aperta tra i vari soggetti che riusciranno a tradurre meglio questa collera, orientandola in una direzione invece che in un’altra.

lunedì 19 novembre 2018

La Francia in piena rivolta: i Gilet Gialli bloccano il paese

Contro il caro-carburanti in Francia in questi giorni s’è formata spontaneamente la protesta dei cosiddetti “Gilet Gialli”, che ha ben presto dato vita ad un vero e proprio clima rivoluzionario contro il governo attuale ed il presidente Emmanuel Macron, la cui popolarità è precipitata ai minimi storici, pari al 25%.
La giornata di sabato s’è conclusa col drammatico bilancio di un morto e di 409 feriti, di cui 14 gravi, oltre a 282 arresti. Per il ministro Christophe Castaner “siamo di fronte a una disorganizzazione totale, hanno tentato di entrare nelle prefetture, ci sono state azioni di grande violenza”. Almeno 3.500 gilet gialli sono rimasti in azione tutta la notte, e stamani hanno dato vita ad altri nuovi blocchi nelle autostrade, per un totale di 40. I partecipanti in totale sono non meno di 282.000.
A Parigi i manifestanti sono arrivati a cento metri dall’Eliseo, e la polizia antisommossa ha usato contro di loro i gas lacrimogeni. Sono stati così momentaneamente respinti nella vicina Place de la Concorde, dove si temeva per l’altro il tentativo d’infiltrazione dei Black Block.
Anche lungo il Traforo del Monte Bianco la situazione è stata fin da subito molto tesa, e continua ad esserlo tuttora. Anche in questo caso la polizia ha lanciato i gas lacrimogeni contro alcune decine di Gilet Gialli che bloccavano il passaggio, ma ciò non ha impedito il temporaneo blocco del transito dei mezzi pesanti fra Italia e Francia.
Nella Savoia una manifestante è rimasta uccisa, presso Pont-de-Beauvoisin, investita dall’automobile di una donna che ha perso il controllo della guida. Secondo le ricostruzioni, trovandosi in mezzo alla manifestazione, la donna, che stava accompagnando la figlia dal medico, sarebbe andata nel panico, accelerando ed investendo la manifestante che, insieme ad altri Gilet Gialli, circondavano la macchina. E’ stata posta in stato di fermo, ed è ancora in stato di shock.
Nel frattempo, complice anche il clima rivoluzionario interno causato dalle manifestazioni dei Gilet Gialli, la popolarità di Macron a novembre ha perso altri quattro punti, al punto che ormai solo un francese su quattro continua ancora ad apprezzarne l’operato. Secondo una ricerca IFOP, pubblicata proprio stamani dal Journal du Dimanche, Macron avrebbe ormai toccato il suo minimo assoluto dopo 18 mesi di presidenza, mentre il ministro Eduard Philippe perderebbe addirittura sette punti, scendendo al 34%. Solo il 4% degli intervistati si dichiara “molto soddisfatto” dell’operato di Macron, mentre il 21% è “piuttosto soddisfatto”. I “piuttosto scontenti” sono il 34% e i “molto scontenti” sono invece il 39%.
La protesta contro Macron, incarnata dal movimento dei Gilet Gialli, parte soprattutto dalle campagne e dalle province francesi, ma è anche molto radicato nelle grandi città, in particolare nei quartieri più poveri e popolari. Tutte queste realtà si sentono profondamente danneggiate e minacciate dalle politiche sociali di Macron, accusato dai manifestanti di essere “il presidente dei ricchi”.
L’Eliseo, spiazzato da questa rivolta improvvisa, probabilmente neppure capace d’individuare in questo momento una valida via d’uscita, per il momento s’è trincerato nel silenzio, e nel cordone di sicurezza garantitogli dalle forze dell’ordine. Molta è la preoccupazione anche presso i principali alleati e partner europei della Francia, così come presso i vertici europei, che temono l’ipotesi che nel paese continui a prosperare una situazione sempre più fuori controllo, contro la quale Parigi in termini politici può confrontarsi solo con armi spuntate.

venerdì 16 novembre 2018

Imperialismo culturale: perversione linguistica e offuscamento dell’impero

Nel mondo contemporaneo, i propagandisti imperialisti occidentali, in particolare giornalisti ed editorilisti dei mass media, ricorrono alla perversione dei concetti quotidiani e al linguaggio della politica. Uso ed abuso del linguaggio della politica servono ad incolpare le vittime e a giustificare gli aggressori imperiali. Le conseguenze sono molteplici, sia legittimando i crimini di guerra e il saccheggio economico, sia neutralizzando l’opposizione interna. Procederemo identificando la terminologia chiave che promuove l’aggressione imperiale. Descriveremo quindi gli obiettivi economici e politici dell’imperialismo linguistico. Concluderemo esaminando le alternative politico-culturali.
Critica dei concetti: nazionalismo e populismo
Il concetto più abusato e offuscato nel lessico imperiale moderno è “populismo”. Nel suo significato originale, “populismo” si riferiva a movimenti di massa composti da lavoratori sfruttati. I movimenti popolari combatterono banchieri oligarchici e magnati dei media. Tra la fine del XIX e all’inizio del XX secolo, i populisti formarono potenti movimenti politici e partiti elettorali negli Stati Uniti, Canada, Russia ed Europa occidentale. Verso la metà del XX secolo, i partiti e i movimenti populisti si moltiplicarono e, in alcuni casi, arrivarono al potere in Asia e in America Latina. I movimenti populisti ottennero sostegno di massa in Argentina, Brasile, Perù e Messico. Negli Stati Uniti i partiti populisti e il movimento rappresentavano gli agricoltori che combattevano monopoli ferroviari, bancari e i capi politici corrotti. Il loro obiettivo era garantire prezzi di mercato equi per i trasporti, tassi di interesse moderati dalle banche e elezioni oneste, senza corruzione dei capi politici. I populisti elessero diversi governatori, decine di sindaci e diversi legislatori statali. In America Latina, i partiti populisti in Perù (APRA) combatterono per i diritti degli indigeni, opponendosi al dominio neo-coloniale ed oligarchico. In Argentina, Brasile e Messico i partiti populisti guidati da Juan Peron, Getulio Vargas e Lazaro Cardenas combatterono e assicurarono i diritti ai lavoratori e la proprietà nazionale delle risorse essenziali (specialmente i giacimenti petroliferi), lanciarono con successo programmi di industrializzazione nazionale. Sviluppi simili si ebbero in Cina, Filippine, Indocina e India. Nazionalismo e populismo erano i motori gemelli dell’indipendenza e della giustizia sociale. Il nazionalismo era basato sulla fine del dominio imperiale e sul recupero dei valori culturali nazionali liberi dalle imposizioni coloniali. Al volgere del 21° secolo, con l’ascesa e l’avanzata dei regimi post-coloniali, le potenze imperiali occidentali cercarono di denigrare i movimenti e i partiti che ne mettono in dubbio la legittimità. Le potenze imperiali non potevano più contare sull’ideologia degli imperi benevolenti (“il fardello dei bianchi”). Né potevano sostenere che sfruttamento e saccheggio dal capitale straniero servissero alla “costruzione della nazione”. L’ideologia imperialista distorse e capovolse i concetti positivi associati alle lotte di liberazione. Invece associavano il populismo a dottrine oppressive e autoritarie di regimi regressivi. Il populismo fu svuotato del contenuto originale di emancipazione e sostituito ed associato all’ideologia fascista, reazionaria, xenofoba, anti-immigrazione. Tutti i movimenti di massa popolari, indipendentemente dal contenuto socio-economico, venivano dipinti con lo stesso contenuto regressivo. Allo stesso modo, il nazionalismo era collegato ai neofascisti che espellevano minoranze e migranti. Come corollario, le ideologie imperialiste presentato i costruttori di imperi nordamericani ed europei come sostenitori dei valori democratici combattendo contro i “nazionalisti”.
Uso e abuso di populismo e nazionalismo
I principali nemici del “populismo” sono le solide classi dominanti neo-liberali occidentali e i loro velenosi scribi di Financial Times, New York Times; Washington Post e Wall Street Journal. L’anti-populismo in difesa dei “valori democratici occidentali” è propaganda pseudo-progressista a favore dell’imperialismo. La retorica anti-populista amalgama destra e sinistra, sciovinisti e difensori dell’indipendenza nazionale. Lo scopo era giustificare guerre e colpi di stato imperiali di Stati Uniti ed Europa in Asia, Medio Oriente, Africa settentrionale e meridionale e America latina. Mentre i “virtuosi” media cervellotici anti-populisti e anti-nazionalisti condannano i populisti, promuovono e difendono guerre e colpi di Stato in Iraq, Afghanistan, Egitto, Libia, Palestina, Siria, Libano, Honduras, Somalia, Sud Sudan, Venezuela e Ucraina. L'”anti-nazionalismo” serve a disarmare i critici indipendenti dell’imperialismo e a “legittimare” i capi occidentali. Gli ideologi dei media attaccano i “nazionalisti” di destra che attaccavano gli immigrati ma nascondendo il fatto che gli immigrati erano vittime delle invasioni militari imperialiste occidentali. I nazionalisti nazionali di destra e gli imperialisti neoliberisti sono le due facce della stessa medaglia. Uno eccita le passioni nazionaliste delle masse, l’altro procede a soddisfare il vorace appetito dei profitti capitalistici. Anti-populismo e nazionalismo sono la forza trainante delle élite neo-liberali che sfruttano la forza lavoro interna ed attaccano il benessere sociale e la democrazia sul posto di lavoro, ritraendo i movimenti sociali popolari come versioni del “populismo da condannare come nemico del libero mercato e delle libere elezioni. I nazionalisti che si oppongono alle guerre imperialiste sono denigrati come nemici autoritari della sicurezza occidentale, della globalizzazione e dei valori democratici.
Conclusione
L’imperialismo di Stati Uniti ed UE affronta avversari dall’interno e dall’estero. L’opposizione interna si è rivoltata contro guerre costose e speculazioni finanziarie e punta a un maggiore benessere. Nel disperato bisogno di una nuova difesa ideologica, le potenze occidentali fabbricano nuovi nemici, etichettati come “populisti”, travestimento per sostenere gli oligarchi economici. Le élite occidentali cercano di minare gli antiimperialisti confondendoli coi nazionalisti di estrema destra. Gli ideologi dell’imperialismo occidentale hanno altri strumenti di propaganda. I militanti per l’indipendenza nazionale sono equiparati ai “terroristi”. I difensori delle frontiere russe sono descritti come espansionisti autoritari. Le reti economiche internazionali della Cina sono soprannominate “collezionisti di debiti coloniali”. Il rullo di tamburo dei mass media è necessario per offuscare la realtà. Stati Uniti ed UE hanno circa 200 basi militari nel mondo. La Cina una base minuscola in Africa orientale. Gli Stati Uniti hanno una varie basi militari che circondano la Cina. A Pechino ha una sola base militare d’oltremare a circondare gli Stati Uniti. Mentre le élite coloniali e neo-coloniali occidentali saccheggiano Asia, Africa e America Latina, la Cina finanzia infrastrutture, investe in imprese produttive e non gestisce basi militari per intervenire nei Paesi del Terzo Mondo. Stati Uniti ed Europa degradano concetti progressisti come populisti e ne invertono il significato, in movimenti, partiti e personalità reazionari regressivi. Le etichette razziste colonialiste filo-imperialiste vengono attaccate ai “nazionalisti”, molti dei quali difensori della sovranità nazionale e oppositori dell’egemonia imperiale. Il linguaggio politico al servizio dell’impero non è una virtù!

giovedì 15 novembre 2018

Manovra: nessun dietrofront sul deficit, accelerano privatizzazioni

Nessun passo indietro del Governo sul tetto deficit/Pil del 2,4% fissato nella manovra per il 2019 e  considerato “un limite invalicabile”.  È quanto emerge nella lettera all’Ue che accompagna il Documento programmatico di bilancio aggiornato ieri sera dal Cdm.
Secondo quanto si legge nella lettera scritta dal ministro dell’Economia Giovanni Tria, “Il governo ritiene che le ragioni” dell’impostazione della manovra “mantengano tutta la loro validità anche dopo aver attentamente valutato” i rilievi Ue.
“Per accelerare la riduzione del rapporto debito/pil e preservarlo dal rischio di eventuali shock macroeconomici, il governo ha deciso di innalzare all’1% del Pil per il 2019 l’obiettivo di privatizzazione del patrimonio pubblico. Gli incassi costituiscono un margine di sicurezza” e consentiranno di raggiungere una discesa del rapporto debito-pil “più marcata e pari a 0,3 punti quest’anno, 1,7 nel 2019, 1,9 nel 2020, 1,4 nel 2021 portando il rapporto dal 131,2% del 2017 al 126,0 del 2021″.
Secondo fonti della Lega citate dal Sole 24 Ore le dismissioni “anche immobiliari inserite in manovra, in risposta ai rilievi dell’Unione europea, “valgono l’1% del Pil”, ovvero circa 18 miliardi) di euro.
La lettera prosegue:
“L’indebitamento netto sarà sottoposto a costante monitoraggio, verificando sia la coerenza del quadro macroeconomico sottostante le ipotesi di finanza pubblica, sia l’aumento delle entrate e delle spese” assicura Giovanni Tria spiegando che il ministro dell’Economia è tenuto “ad assumere tempestivamente, in caso di deviazione, le conseguenti iniziative correttive nel rispetto dei principi costituzionali”.
Nessun dietrofront sulla crescita:
“Il governo resta fiducioso sulla possibilità di conseguire gli obiettivi di crescita” scrive il ministro spiegando che “la manovra è stata costruita sulla base del quadro tendenziale, e non tiene conto della crescita programmata. Questa impostazione prudenziale introduce nella legge di Bilancio un cuscinetto di salvaguardia, che previene un deterioramento dei saldi di bilancio anche nel caso in cui gli obiettivi di crescita non siano pienamente conseguiti”. “La normativa nazionale prevede una serie di presidi che obbligano il governo a riferire tempestivamente alle Camere qualora si determinino scostamenti rispetto” agli obiettivi di deficit e indebitamento netto “assegnando tra l’altro al ministero dell’Economia e delle finanze, il compito di assicurare il monitoraggio degli andamenti di finanza pubblica”.
Per le spese “per contrastare il dissesto idrogeologico e per la manutenzione straordinaria della rete viaria e di collegamenti, il governo chiede l’applicazione della flessibilità per eventi eccezionali” scrive Tria nella lettera all’Ue sulla manovra, spiegando che “per il prossimo triennio” le spese eccezionali saranno “pari a circa lo 0,2% del Pil”, circa 3,6 miliardi, a seguito dei danni del maltempo e “per il solo 2019″ un miliardo sarà dedicato alla rete viaria dopo il crollo del ponte Morandi a Genova.
“Il governo ha deciso di innalzare all’1% del Pil per il 2019 l’obiettivo di privatizzazione del patrimonio pubblico” precisa il ministro.
Nella Nota di aggiornamento al Def il governo aveva previsto incassi da privatizzazioni per lo 0,3% del Pil l’anno per il 2019 e 2020. Quindi in precedenza si prevedano circa 10 miliardi in due anni, ora 18 miliardi in in anno solo. Anche per il 2018 la Nadef prevedeva lo 0,3% (5,4 miliardi) da privatizzazioni.

mercoledì 14 novembre 2018

DEF: zero lavoro, zero investimenti

Più del cosa conta il come, anche quando si parla di deficit. Il problema più grave dell’Italia è la scarsità di lavoro, soprattutto fra i giovani: su questo punto - banale, ma difficilmente discutibile - sono tutti d’accordo, eppure anche il “governo del cambiamento” non sta facendo nulla per affrontare la questione. La bozza di manovra che emerge dal Documento di economia e finanza approvato giovedì in Consiglio dei ministri non contiene alcun intervento in grado di aumentare la produttività e creare posti di lavoro.

Invece di puntare il dito contro questa voragine, la maggior parte delle critiche ai progetti legastellati - anche da sinistra - si è concentrata sull’aumento del deficit Pil al 2,4% (il triplo rispetto allo 0,8% previsto dall’esecutivo Gentiloni e un terzo in più rispetto all’1,6% voluto dal ministro del Tesoro, Giovanni Tria). Ma in economia fare debito non è sicura fonte di sventura: dipende da cosa si fa con i soldi spesi in deficit.

Diversi esponenti della maggioranza hanno parlato negli ultimi giorni di “investimenti pubblici”, peccato che la loro manovra non ne contenga. Al di là dell’opinione che si può avere sulle singole misure, è indubbio che le risorse impiegate per reddito di cittadinanza, flat tax e quota 100 siano spese correnti. La differenza non è un tecnicismo: gli investimenti pubblici studiati a dovere innescano un meccanismo di crescita (perciò, alzando il denominatore, abbassano i rapporti deficit/Pil e debito/Pil), mentre le spese previste dal Governo porteranno al massimo un modesto ed effimero aumento dei consumi.

Anche se ovviamente non basteranno a parlare di “scomparsa della povertà assoluta”, come ha fatto Di Maio, i soldi del reddito di cittadinanza saranno di sicuro un aiuto per molte persone che vivono in condizioni di estrema difficoltà. Ma giusta o sbagliata che sia, questa è una forma di assistenzialismo che lenirà i sintomi invece di curare la malattia. Non c’è a monte alcun progetto di politica economica, nessuna visione di quale sarà o dovrebbe essere il futuro produttivo e occupazionale del Paese.

Se l’Italia lanciasse un grande programma di investimenti pubblici – ad esempio, con l’obiettivo di ridurre al minimo il rischio idrogeologico – allora indebitarsi avrebbe senso. È il principio base dell’economia keynesiana (che molti stanno riscoprendo di fronte ai disastri dell’austerità): lo Stato interviene per creare lavoro e sostenere la domanda interna, incentivando la risalita di redditi e consumi, che a loro volta producono un aumento delle entrate fiscali, compensando gli effetti negativi dell’indebitamento. L’obiezione principale contro questo modello è che rischia di generare inflazione (il Freddy Kueger che infesta i sogni della Germania dal 1923), sennonché al momento abbiamo il problema opposto: i prezzi non riusciamo a farli salire abbastanza.

Purtroppo, il deficit del governo gialloverde non produrrà nulla di tutto questo. A ben vedere, la manovra che si prospetta non solo non aumenterà la crescita, non garantirà nemmeno una redistribuzione dei redditi, perché eviterà di toccare i grandi patrimoni e le rendite finanziarie.

Quanto al lavoro, sembra proprio che il ministro Di Maio non abbia alcuna idea originale né per creare nuova occupazione né per ridurre i contratti a termine. Il Decreto Dignità doveva essere la “Waterloo del precariato”, ma anziché incentivare le assunzioni sta spingendo molte aziende a non rinnovare i contratti a tempo determinato in essere e a sostituirli con contratti nuovi, sempre a termine. È il turn over del precariato.

Finora il governo del cambiamento ha semplicemente ritoccato ciò che già esisteva. A cominciare dal bonus assunzioni varato dal governo Gentiloni l’anno scorso: sempre il Decreto Dignità stabilisce che l’incentivo - contributi dimezzati per tre anni alle imprese che assumono - varrà per gli under 35 anche nel 2019 e l’asticella non scenderà a 29 anni (com’era previsto in origine e come accadrà dal 2020 in poi, visto che la misura è permanente). Sennonché, il bonus Gentiloni non sta funzionando come previsto, soprattutto perché impone una serie di requisiti rigidi (ad esempio, il giovane non deve aver mai avuto un contratto a tempo indeterminato).

Ci sono poi due strumenti coperti con fondi Ue e in scadenza a dicembre: il bonus occupazione collegato al programma di Garanzia Giovani e il bonus Sud. Dovrebbero essere rifinanziati entrambi, ma quello che sta più a cuore a Di Maio è il secondo, essendo il meridione il primo bacino di voti per i 5 Stelle. Anche in questo caso nessuna visione, nessuna strategia. Solo calcoli elettorali. Fatto così, il deficit serve solo a scaricare i benefici accordati oggi sulle tasse di domani.

lunedì 12 novembre 2018

Pace fiscale, la guida. Tutti gli sconti su cartelle, multe e liti

Al via la prima fase operativa della pace fiscale. E sulla rampa di lancio, tra le varie formule per mettersi in regola con il Fisco, ci sono le sanatorie flash sugli accertamenti. Ma sul sito dell’Agenzia delle Entrate sono disponibili anche i moduli per la cosiddetta rottamazione-ter. Ci vorranno ancora settimane, invece, per far partire anche le altre vie per sistemare la propria posizione. Ma la partita del condono con annessi e connessi è tuttora aperta in Parlamento.
Tant'è che ieri sera si contavano circa 600 emendamenti al provvedimento, con in primo piano novità di rilievo provenienti dalla stessa maggioranza e, nello specifico, dalla Lega: da una tassa ad hoc sui money transfer allo stop alla patente per gli evasori seriali per la Rc auto, fino alle sanatorie per Imu e Tasi. Le modifiche della maggioranza sono in tutto un centinaio e non su tutte le proposte c’è già accordo tra i due azionisti. Entrambi sono a favore di un ampliamento della rottamazione, che dovrebbe diventare extralarge e comprendere anche avvisi bonari ed errori formali, oltre a imbarcare nella pace fiscale vera e propria anche gli omessi versamenti. La Lega va oltre e chiede di specificare la possibilità per gli enti locali di consentire ai cittadini di sanare anche Imu, Tasi, o imposta sulle insegne, pagando solo il dovuto senza le sanzioni.
Sempre la Lega chiede, però, una stretta sugli evasori seriali della Rc auto, che se beccati più volte rischiano non solo il raddoppio delle sanzioni ma anche il fermo dell’auto e la sospensione fino a due mesi della patente.
Altra richiesta targata Lega quella di introdurre una nuova tassa, che vada a rimpinguare il Fondo infrastrutture del Mef, da applicare su tutti i trasferimenti in denaro in Paesi extra Ue, un prelievo dell’1,5% su tutte le operazioni sopra i 10 euro. Si guarda anche alle zone colpite dal maltempo, nelle quali le concessioni potrebbero essere automaticamente prorogate fino al 2045 e al no profit, con l’introduzione di una nuova lotteria filantropica. Non compare invece tra gli emendamenti parlamentari la pace fiscale sulle cartelle per chi si è trovato in difficoltà: potrebbe arrivare come emendamento del governo o del relatore quando sarà ultimata.
Uno dei temi che sarà affrontato invece in sede di manovra sarà quello del Fondo per i risparmiatori vittime delle banche. Ieri hanno incontrato il governo e hanno denunciato una nuova ‘manina’ che avrebbe introdotto nella norma contenuta nella legge di Bilancio uno scudo per istituti di credito e vigilanza: la norma incriminata impone la rinuncia a qualsiasi altro tipo di causa civile o penale nei confronti di Consob, Bankitalia o degli amministratori delle banche agli azionisti che accettino il rimborso del 30%.
TUTTI GLI SCONTI
1) Parte subito la sanatoria flash sugli accertamenti. Gli atti sanabili sono quelli notificati entro il 24 ottobre 2018 e per i quali, alla stessa data, non sia stato già notificato il relativo avviso di accertamento o perfezionato l’accertamento con adesione; gli accertamenti con adesione sottoscritti fino all’entrata in vigore del decreto ma non ancora perfezionati; gli avvisi di accertamento non impugnati; gli atti di recupero dei crediti indebitamente utilizzati, notificati al contribuente fino al 24 ottobre. La sanatoria consente di pagare le sole imposte richieste senza sanzioni, interessi e somme accessorie.
2) Per le sanatorie flash entro il 13 novembre bisognerà versare l’importo dovuto. Il 23 novembre l’appuntamento è invece duplice: bisognerà versare il dovuto per le liti ancora pendenti al 24 ottobre e per l’atto di recupero credito non impugnato. Il versamento può essere effettuato in un’unica soluzione (entro i termini di novembre) oppure in un massimo di venti rate trimestrali. Sull’importo delle rate successive alla prima sono dovuti gli interessi legali, calcolati dal giorno successivo al termine di versamento della prima rata.
3) Tutto pronto per la rottamazione-ter. I moduli per aderire alla nuova definizione agevolata sono a disposizione sul sito e agli sportelli dell’Agenzia delle Entrate. L’operazione consentirà il pagamento dei debiti fiscali pendenti dal gennaio 2000, senza sanzioni e more, dilazionando i versamenti fino al 2024. Potrà usufruire della nuova operazione anche chi ha aderito alla precedente rottamazione. Il primo versamento è previsto per il 31 luglio 2019, e si potrà versare in un’unica soluzione. Il decreto prevede, però, un vero colpo di spugna per le mini-cartelle sotto i mille euro. La cancellazione riguarda i debiti più vecchi, quelli accumulati tra il 2000 e il 2010.
4) C'è più tempo, invece, per chiudere le liti tributarie. Per risolvere la partita con il Fisco si dovrà pagare un importo pari al valore della controversia o, se l’Agenzia delle Entrate ha perso in primo o in secondo grado, un importo pari alla metà o al 30% della contestazione. La nuova versione del condono riguarda la possibilità di dichiarare i redditi non denunciati dal 2013 al 2017 a condizione che il reddito evaso non superi un terzo del dichiarato nell’anno precedente. E che non si vada oltre il tetto dei 100mila euro.

venerdì 9 novembre 2018

Zero salvaguardia e prevenzione del territorio, spreco di denaro pubblico e la gente continua a morire

Porta voti parlare o fare qualcosa in questo senso? No, e allora facciamo passare “la nuttata” e poi avanti tutto come prima. Intanto però la gente continua a morire, si contano già decine di vittime della furia della natura di questi giorni e la stessa Protezione Civile, non i catastrofisti ambientalisti, ha parlato di devastazione apocalittica in merito alla situazione al nord est e nel bellunese in particolare con venti che sono arrivati fino a 180 km orari, cosa mai vista prima e ci sono ancora migliaia di famiglie isolate e al buio.
Ci si accorge che si ha a che fare con qualcosa che travalica ogni nostra possibile immaginazione, come i giapponesi che costruiscono le centrali nucleari in riva al mare e poi si stupiscono se arriva uno tsunami, che gli umani ritenevano impossibile di quelle dimensioni e distrugge tutto.
Non si salva nessuno, nemmeno quel nord est motore della crescita, ricchissimo, preso sempre a modello dagli adoratori del PIL che però nulla può di fronte alla natura che fa esattamente quello che gli pare, come purtroppo tristemente abbiamo già ricordato più volte. Le risposte della natura alla nostra criminale cecità colpiscono ovunque e nemmeno la ricchezza, i soldi la fermano.
E già il fatto che nessuno è e sarà immune alle sue pesanti risposte ai nostri attacchi contro di lei, dovrebbe fare agire immediatamente, perché continuare a pensare che si possa fare dell’ambiente quello che si vuole è idea letteralmente sucida. In Veneto si parla di milioni di alberi distrutti; ma in fondo che sarà mai... gli alberi ci regalano solo ossigeno per farci respirare, mica stiamo parlando di un problema serio come la forfora sui capelli…
E ancora nel Veneto si prevede un miliardo di euro di danni e chissà quanti altri ancora in tutta Italia, ma questi soldi mica vengono conteggiati quando si fanno i famosi calcoli “costi-benefici” per decidere se aumentare di più o di meno l’effetto serra con una qualsiasi grande, inutile e inquinante opera energetica. Eppure sono soldi sonanti quelli che paghiamo noi per rimediare ai danni di chi ragiona solo e unicamente in termini di convenienza. Convenienza per i soliti noti, non certo nostra.
La Sicilia riceve quantità impressionanti di soldi pubblici dallo Stato e dall’unione Europea e per inciso con le sue potenzialità geoclimatiche e la sua spettacolare agricoltura è una delle regioni più ricche al mondo, quindi non avrebbe certo bisogno di valanghe di soldi. I politici della Giunta regionale siciliana sono fra i più pagati della galassia, c’è una quantità di forestali impiegati nella regione che ci si potrebbe monitorare tutta Europa, abbiamo tecnologie sofisticatissime che potrebbero individuare ogni più piccolo movimento di sasso sul territorio ma non si riesce a monitorare, prevenire, proteggere e salvare persone che a casa loro vengono travolte e uccise da un fiume che esce dagli argini.
Si piangeranno i morti, ognuno dirà che la colpa è di qualcun altro e avanti così, sempre peggio. Ma quali stragi devono ancora accadere perché si capisca che la manutenzione, la salvaguardia del territorio è fondamentale? La ricchezza dell’Italia non sono le “fabrichette e fabbricone” che producono troppo spesso cose del tutto superflue e inquinano a più non posso; la ricchezza dell’Italia è costituita dal nostro territorio, il nostro cibo, la nostra bellezza paesaggistica. Da lì bisogna partire, con una formazione a tappeto della popolazione, delle scuole, sulla tutela del territorio che non è una discarica o un posto dove cementificare ovunque anche in posti dove la pericolosità è altissima.
Con tutti i disoccupati che abbiamo, ma perché non puntare sull’ambiente, sulle enormi risorse naturali che abbiamo e che ci darebbero solo vantaggi da ogni punto di vista? Perché non destinare i soldi che ora vanno agli uffici per l’impiego, che attualmente sono soldi buttati, per pagare invece direttamente persone che lavorino nel campo ambientale, della salvaguardia del territorio? E’ così ovvia, banale, semplice e fattibile la cosa che probabilmente non si farà nulla in questo senso. Visto che non sono purtroppo in tanti a dire queste cose che riteniamo fondamentali, noi ci ritorneremo sempre, martelleremo finché potremo perché ne va della nostra vita e di quella delle prossime generazioni che non possono essere ignorate da chi ha soldi, potere per decidere e intervenire e non fa nulla. Figli e nipoti di chi doveva e poteva agire e non lo ha fatto, un giorno diranno ai loro padri o nonni: “Potevi fare e non hai fatto e ora per me non c’è nessun futuro e pago le gravi conseguenze della tua ignavia, del tuo menefreghismo, della tua idiozia.”

giovedì 8 novembre 2018

La NATO è lo strumento di dominazione politico-militare in mano agli Stati Uniti

Perché dedicare una serata al tema della pericolosità ed aggressività della Nato?

Perché ancora oggi, e per certi versi ancora più che nel periodo della guerra fredda, la Nato continua ad essere il principale strumento di dominazione politico-militare globale da parte delle maggiori potenze imperialistiche, sotto l'attenta e spregiudicata leadership degli Stati Uniti. E come tale, di conseguenza, diviene un nemico, probabilmente il principale nemico, che si contrappone ad un effettiva sovranità dei popoli e delle nazioni e ad un processo di pacificazione che ponga fine a tutte le guerre.

La storia della Nato è attraversata da diverse fasi: quella della guerra fredda, quella del dopo guerra fredda, e la parte che riguarda gli ultimi 25-30 anni, che potremmo definire della “Grande Nato”, fase sulla quale proveremo a concentrare il dibattito di stasera, anche perché in quel passaggio si annida, a mio avviso, anche una modifica sostanziale della stessa.
Nelle prime due fasi, attraverso la Nato, gli Stati Uniti hanno mantenuto il loro dominio sugli alleati europei, usando l'Europa come prima linea nel confronto (anche nucleare) col Patto di Varsavia (fondato nel 1955, ovvero 6 anni dopo la Nato). Quando nel 1991 si dissolve il Patto di Varsavia e l’Unione sovietica lo scenario cambia radicalmente: esiste infatti il pericolo che gli alleati europei effettuino scelte divergenti o ritengano la Nato perfino inutile nella nuova situazione geopolitica. In questo nuovo quadro gli Stati Uniti si muovono rapidamente intraprendendo la guerra del Golfo, la prima nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale che Whashington non motiva con la necessità di arginare la minacciosa avanzata del comunismo, giustificazione che era stata alla base di tutti i precedenti interventi militari statunitensi nel cosiddetto terzo mondo (dalla guerra di Corea a quella del Vietnam, dall'invasione di Grenada all'operazione contro il Nicaragua). Con questa guerra gli Stati Uniti rafforzano la loro presenza militare e influenza politica nell'area strategica del Golfo, dove sono concentrati i due terzi delle riserve petrolifere mondiali, e allo stesso tempo lanciano ad avversari vecchi e nuovi, nonché agli alleati, un messaggio inequivocabile contenuto nella National Security Strategy of the United States dell'agosto 1991, che recita “nonostante l'emergere di nuovi centri di potere, gli Stati Uniti rimangono il solo stato con una forza, una portata e un'influenza in ogni dimensione – politica, economica, militare – realmente globali. Negli anni '90, così come per gran parte di questo secolo, non esiste alcun sostituto alla leadership americana”.

Contemporaneamente al cambio della propria strategia, gli Stati Uniti premono affinché anche la Nato faccia altrettanto. Era infatti divenuto reale il pericolo che con la fine della guerra fredda e il dissolvimento del Patto di Varsavia venisse meno la motivazione della “minaccia sovietica” che aveva tenuto coesa la Nato sotto l'indiscussa leadership statunitense. Così il 7 novembre 1991 (dopo la prima guerra del golfo a cui la Nato non ha partecipato ufficialmente in quanto tale ma comunque con le sue forze e strutture) il Consiglio atlantico dei 16 paesi allora appartenenti si riunisce a Roma e vara il “nuovo concetto strategico” in cui si stabilisce che la “sicurezza dell'Alleanza non è circoscritta all'area nord-atlantica.

E' in questo passaggio che si comincia a delineare la fase tutt'ora in corso della “Grande Nato”

Tale nuovo concetto viene applicato qualche anno dopo nei Balcani, quando nel 1994 assistiamo alla prima azione di guerra dalla fondazione dell'Alleanza. Seguirà qualche anno dopo, nel 1999, la guerra contro la Jugoslavia e contemporaneamente (nell'aprile dello stesso anno) si riunisce a Whashington il vertice Nato che ufficializza il nuovo concetto strategico andando a modificare l'art. 5 del trattato del 1949 che passa da un impegno per i paesi membri ad assistere anche con la forza armata il paese membro che sia attaccato nell'area nord-atlantica ad impegnare i paesi membri anche a condurre “operazioni di risposta alle crisi non previste dall'art.5, al di fuori del territorio dell'Alleanza”.

Inizia inoltre in quel periodo l'avanzata della Nato verso est, nel territorio dell'ex Patto di Varsavia e dell'ex – Urss: nel 1999 vengono inglobate Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, nel 2004 Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania, Slovacchia; nel 2009 Albania e Croazia. E si lavora ancora oggi su altri stati quali Macedonia, Georgia, Montenegro.

Gli Stati uniti riescono così nell'intento di sovrapporre a un'Europa basata sull'allargamento dell'UE un Europa basata sull'allargamento della Nato. Infatti con l'ingresso nella Nato i paesi dell'Europa orientale vengono ad essere più direttamente sotto il controllo degli Stati Uniti che nell'Alleanza mantengono un ruolo predominante.

Grazie a questa trasformazione gli Stati Uniti e i loro alleati hanno mostrato il loro vero volto di gendarmi del mondo, disposti a sacrificare per i propri interessi la vita di civili e il destino di interi Paesi. Le politiche neo imperialiste, neo colonialiste sono evidenti, sempre più marcate. Erigendosi a paladini della democrazia e della pace hanno sistematicamente creato campagne “buoniste” dietro cui sono spuntate le sagome di missili e bombe. In questi ultimi due decenni troppi sono stati i conti che non tornano. E' stato così in Jugoslavia (1999), in Afghanistan (2001), in Iraq (2003), in Libia (2011), in Siria (a partire dal 2011 e ancora in corso), in Ucraina (2014). Come dimenticare la recita del Segretario di Stato Usa, l’ineffabile Colin Powell, che andava agitando in pieno Consiglio di Sicurezza dell’Onu una provetta di antrace quale prova del possesso di armi biologiche da parte dell’Iraq di Saddam Hussein, prova rivelatasi fasulla: a seguito di tale macabra recita, con il pretesto di impedire l’uso di “armi di distruzione di massa”, è stato compiuto il genocidio di un popolo (mezzo milione di morti civili iracheni, secondo PLOS Medicine). La stessa tecnica pseudo-propagandistica fu adottata per preparare l’opinione pubblica all’intervento in Libia, un’aggressione che ha letteralmente spianato un Paese lasciandolo preda di miseria e scorribande tribali: si denunciava l’esistenza di fosse comuni (indicate come contenenti a migliaia gli oppositori di Gheddafi), le stesse che si rivelarono poi cimiteri ordinari e vecchie sepolture.
In sette mesi, vennero effettuate circa 10 mila missioni di attacco aereo con decine di migliaia di bombe e missili. A questa guerra ha partecipato l’Italia di Berlusconi, dell’allora Capo di stato Giorgio Napolitano, con cacciabombardieri e basi aeree, stracciando il Trattato di amicizia e cooperazione tra i due Paesi. In realtà Stati Uniti e Francia – come provano le mail della segretaria di stato Hillary Clinton – si accordarono e decisero l’intervento per bloccare anzitutto il piano di Gheddafi di creare una moneta africana in alternativa al dollaro e al franco. Così la Libia è divenuta oggi la principale via di transito di un caotico flusso migratorio verso l’Europa, in mano a trafficanti di esseri umani: un dolente esodo che, nella traversata del Mediterraneo, provoca ogni anno più vittime dei bombardamenti Nato del 2011.

Con il recente attacco bellico alla Siria, la stessa Russia è tornata ad essere pericolosamente un obiettivo più diretto, secondo un orientamento a più riprese manifestato da Hillary Clinton (non a caso sostenuta nella corsa alla Presidenza del 2016 dalle lobby degli armamenti e della difesa). In effetti, con Putin la Russia è tornata a competere sulla scena mondiale in alleanza con la Cina, liberandosi del debito estero, ricompattando l'unità interna e rilanciando l'orgoglio nazionale. Attorno ad essa è stato creato un cordone sanitario di sanzioni e ostilità, con l’obiettivo di marginalizzarla e dividerla dall'Europa (allargamento verso Est della Ue e della Nato, con relativa dislocazione di basi missilistiche a ridosso dei confini, demolizione della Jugoslavia, sostegno al rovesciamento del presidente eletto Janukovich in Ucraina). In questa nuova e ancor più pericolosa fase della escalation Usa/Nato contro la Russia, l’Italia, membro della Nato, è sempre in prima fila. Le navi da guerra pronte ad attaccare la Siria dipendono dal Comando delle forze navali Usa in Europa, il cui quartier generale è a Napoli-Capodichino. L’operazione bellica è appoggiata dalla base aeronavale Usa di Sigonella e dalla stazione Usa di Niscemi del sistema Muos di trasmissioni navali.

Su tale scenario bellico, l’Italia si presenta volente o nolente in prima fila. Lo conferma quanto avvenuto alle Nazioni Unite il 20 settembre 2017, quando si è aperta la firma del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari. Votato da una maggioranza di 122 stati, esso impegna a non produrre né possedere armi nucleari, a non usarle né a minacciare di usarle, a non trasferirle né a riceverle direttamente o indirettamente, con l’obiettivo della loro totale eliminazione. Il primo giorno il Trattato è stato firmato da 50 stati, ma il giorno stesso in cui è stato aperto alla firma la Nato lo ha sonoramente bocciato, determinando così il preciso orientamento degli Stati membri. Questo è il prezzo che la cosiddetta “solidarietà atlantica” impone di pagare. D’altra parte, lo stesso Trattato di non-proliferazione nucleare è violato dalla presenza di bombe nucleari statunitensi B61 in cinque paesi non-nucleari (Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia) e dalla realizzazione, già in fase avanzata, delle nuove bombe nucleari B61-12, che rimpiazzeranno dal 2020 le B61: una volta schierate, potranno essere «trasportate da bombardieri pesanti e da aerei a duplice capacità» non-nucleare e nucleare. Com’è noto, il nostro è il Paese della Nato con più ordigni nucleari americani in Europa, anche se non li gestisce direttamente: oltre 70, di cui 20 nella base di Ghedi e 50 ad Aviano. Tutti i governi che si sono succeduti in Italia, di centrosinistra e di centrodestra si sono ben guardati dal contestare anche solo per una virgola questo stato di cose. Commentando l’attacco alla Siria, anche l'attuale compagine di governo ha tenuto a  precisare che non è affatto in discussione la fedeltà atlantica.

Un altro segnale che la dice lunga sugli attuali crescenti pericoli di guerra è costituito dal continuo incremento delle spese militari. L’escalation della spesa militare statunitense traina quella degli altri membri della Nato. Il senato Usa si è espresso per un aumento del budget del Pentagono persino più sostanzioso di quanto aveva richiesto lo stesso presidente Donald Trump. I senatori democratici, talvolta a parole critici nei confronti dei toni bellicosi del presidente, lo hanno scavalcato quando si è trattato concretamente di decidere le spese per la guerra, votando in modo compatto con i repubblicani. Ma gli Stati Uniti chiedono anche ai loro alleati lo stesso impegno nel destinare risorse ad armamenti e missioni militari: compresa ovviamente l’Italia, sul cui governo si fa pressione perché incrementi la sua spesa militare da 80 a 100 milioni di euro al giorno. Così dovremmo assistere al paradosso in base al quale, mentre sono chiesti ai propri cittadini pesanti sacrifici e si è costituzionalizzato il principio del pareggio di bilancio (con conseguenti tagli alla spesa sociale), si destinano nel contempo sempre più risorse per il riarmo. La ferrea regola dell’imperialismo non cambia: meno pane, più cannoni.

Regola che vale per tutte le maggiori potenze capitaliste che, pur divise da crescenti contrasti di interesse, si ricompattano quando si tratta di difendere la loro supremazia. In tal senso credo sia emblematica  la dichiarazione del segretario generale della Nato Scheffer (in carica dal 2004 al 2009): “la sicurezza non è qualcosa di discrezionale, di cui si può fare a meno quando il denaro scarseggia: è il fondamento su cui è costituita la nostra prosperità”.

L’Italia è di fatto dentro questa strategia di guerra, che viola la nostra Costituzione e che priva la Repubblica Italiana della capacità di effettuare scelte autonome di politica estera e militare, decise democraticamente sulla base dei principi costituzionali. Il nostro paese è complice di coloro che si arrogano il diritto di intervenire con la forza e cambiare il regime interno ( regime change) di Paesi sovrani. Noi comunisti diciamo al contrario: basta con le aggressioni imperialiste, via l’Italia dalla guerra e dalla Nato.

mercoledì 7 novembre 2018

Perché le agenzie di rating non osano definirci spazzatura?

Com’è noto, il rating assegnato all’Italia dalle principali agenzie di rating (Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s) è poco sopra il livello “spazzatura”. Detto più chiaramente, le agenzie che fanno analisi economiche classificano l’Italia tra gli investimenti sicuri, ma – tra questi – siamo ai livelli più bassi, ad un gradino dal definirli come “non sicuri”. Siccome la faccenda continua da anni, e visto che il trend dei declassamenti ci ha costantemente spinto verso il basso, è lecito chiedersi per quale motivo non si è ancora raggiunto il livello spazzatura. Sofismi finanziari? Riparametrazione econometrica con scappellamento a destra? Kulo? Tanto per cominciare smentiamo una bufala economica che gira da tempo online, anche da parte di sedicenti esperti di economia: non è assolutamente vero che se S&P (o un’altra agenzia di rating) declassa l’Italia a spazzatura, allora per statuto i fondi d’investimento, i fondi pensione e la Bce saranno costretti a non comprare più i Btp italiani o addirittura a vendere quelli che hanno in pancia. Ciò è vero se e solo se tutte le quattro principali agenzie ci declassassero a “junk”. Parliamo di S&P, Moody’s, Fitch e la meno nota canadese Dbrs.
In questa fase storica, inutile negarlo, può succedere di tutto, ma almeno per questo autunno quasi tutte le agenzie di rating si sono già espresse (ne manca una) al di sopra del livello “junk”. Dunque, chi si ostina a veicolare il downgrade ed il crollo automatico, fa solo terrorismo politico, oppure ci specula short. Poniamo il caso che però questo quadruplice downgrade si verifichi nel 2019… tutti dicono che sarebbe un disastro. Anche in tal caso sarei prudente ad affrettare le ipotesi. Il Portogallo, ad esempio, che si trova in questa situazione, ha i rendimenti a 10 anni che viaggiano da mesi sotto il 2%, pur essendo stato da anni il suo rating tagliato a “Ba1” per Moody’s e “BB+” per S&P. Ciò è stato possibile perchè non ci sono solo i fondi istituzionali che comprano i bonds, ma anche quelli specualtivi. Dunque, è tutto da dimostrare che anche nel caso, assai improbabile, di un quadruplice declassamento, l’Italia non riesca a finanziarsi.
La domanda da cui siamo partiti, però, non ha ancora una risposta: perchè le 4 agenzie non lo hanno ancora fatto? Perchè, in vista dei puzzoni sovranisti a marzo, le agenzie non hanno declassato l’Italia a spazzatura nei mesi scorsi, ma si sono sempre tenute sopra “quel tantino”? La risposta sta nei conti di Pimco, Jp Morgan, BlackRock, cioè le società più grosse del mondo in quanto a gestione dei capitali. I colossi americani, infatti, rischiano il fallimento a fronte di un crollo dei Btp e di un default dell’Italia: per la serie “troppo grande per fallire”. Come più volte riportato, infatti, il mondo obbligazionario è tutto legato, e gli investitori non possono permettersi un crollo mondiale del sistema. Per non parlare di alcuni fondi, che hanno comprato direttamente Btp, come Jp Morgan. Domanda ai più intelligenti: e se quella dello sprad e dei downgrade fosse tutta una messinscena per costringere Draghi a prolungare il Qe?

martedì 6 novembre 2018

Trucchi disperati. “Quota 100” e reddito di cittadinanza fuori della manovra

Veloci aggiornamenti sulla manovra e brevi riflessioni in merito
Aggiornamenti:
La novità sostanziale è lo scorporamento di quota 100 e reddito di cittadinanza dalla manovra che diventeranno due disegni di legge collegati al ddl bilancio (la vecchia finanziaria).
In pratica nel ddl bilancio vengono stanziati i fondi per entrambi i provvedimenti (16 miliardi per il 2019) ma non è automatica la loro effettiva applicazione per cui serviranno successivamente dei decreti ad hoc.
Sopratutto però nell’articolo 21 del Ddl bilancio è previsto che “le eventuali economie rispetto agli stanziamenti possano essere redistribuite fra i due fondi”.
Cosa vuol dire?
Vuol dire che loro i soldi li hanno stanziati ma se ci dovessero essere problemi, ovvero un impennata dello spread, quei fondi potrebbero essere utilizzati per il contenimento del deficit e quindi addio quota 100 e reddito di cittadinanza.
Con questa modifica il governo spera di evitare la bocciatura da parte di Bruxelles e dei mercati.
È una specie di gioco delle tre carte, una manovra disperata e un po’ patetica di chi si è accorto che la situazione è veramente seria.
Seria perché è iniziato un progressivo rallentamento dell’economia mondiale e già ora in base all’ultima rilevazione trimestrale dell’istat in Italia siamo in fase di stagnazione ovvero crescita zero.
Inoltre bisogna tener presente che il deficit del 2,4% è calcolato su una crescita del Pil stimata per il 2019 all’1,5%, valore difficile da raggiungere se si pensa che il 2018 si sta per chiudere al di sotto delle attese arrivando appena allo 0,8%.
Se non si dovesse raggiungere l’1,5% saltano tutti i conti e il deficit salirebbe ulteriormente.

Ma Lega e 5 Stelle stanno lavorando anche su una limatura degli stessi progetti di legge riguardanti quota 100 e reddito di cittadinanza in modo da ridurne i costi e arrivare a fine anno a un deficit del 2% invece che del 2,4%.
In particolare si prospetta rispetto a quota 100 uno slittamento per gli statali che andrebbero in pensione (rappresentano il 40% della platea) di 9 mesi.

A tal proposito di seguito un breve estratto de Il Sole 24 Ore che ben sintetizza la cosa
«Per “quota l00” il tempo di attesa per gli statali, che coprono il 40% della platea, può allungarsi a 9 mesi, spostando al 2020 una parte di spesa, e anche nel privato i tagli all’assegno imposti dal contributivo e il divieto di cumulo potrebbero dissuadere una parte degli interessati. La spesa, allora, potrebbe attestarsi intorno ai 3 miliardi invece dei 6,7 messi in programma. E anche sul reddito di cittadinanza più lento rispetto all’ambizione targata M5S potrebbe ridurre il conto da 9 a 7 miliardi. Da qui, più che dalla spending timida messa in manovra, potrebbero arrivare risparmi per due decimi di Pii che porterebbero il deficit “effettivo” al 2%»
Riflessioni
Dopo 4 anni di crescita, comunque molto debole, ora siamo a zero.
Da tempo le stime si erano deteriorate, e l’iniziale +0,2% trimestrale era stato rivisto a +0,1% ora invece siamo al nulla.
Se le cose restano così, come detto in precedenza, la crescita per il 2018 sarà di appena lo 0,8%.

Di questo non è ovviamente responsabile il governo.
È in atto una robusta frenata nell’attività manifatturiera globale, causata dalle incertezze protezionistiche ma più in generale è evidente che siamo alla fine di un ciclo di crescita mondiale che andava avanti da quasi 10 anni.
La bolla alimentata dalle politiche monetarie espansive sta esplodendo come dimostrano gli andamenti degli indici azionari Usa. Il protezionismo è solo uno strumento che gli Usa vogliono usare per tutelarsi quando la situazione degenererà.

Il governo si trova quindi a fronteggiare una situazione estremamente difficile e le loro soluzioni sono assolutamente inadeguate. L’unica azione anticiclica possibile è far ripartire i consumi privati e aumentare la spesa pubblica (Sanità, scuola, ambiente etc..). Questo però si potrà fare sempre meno attraverso l’aumento del debito, perché sui mercati i tassi sono destinati a crescere, ma solo attraverso una forte redistribuzione della ricchezza per mezzo di una maggiore tassazione progressiva, lotta all’evasione e patrimoniale. Esattamente l’opposto di quanto propongono Lega e 5 Stelle.