domenica 30 novembre 2014

L’Italia alla corte del diabolico Qatar

Per il ministro allo Sviluppo tedesco, Gerd Mueller, il Qatar è il “bancomat dell’Isil”, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante che ha lanciato la guerra santa all’Occidente. Ancora più duro l’ambasciatore israeliano all’Onu, Ron Prosor, che sul New York Times ha definito l’emirato il “Club Med dei terroristi” internazionali. Ciononostante, ministri, militari, industriali e faccendieri italiani fanno a gara per ingraziarsi i favori del piccolo ma potente stato mediorientale. Il 26 novembre, ad esempio, la ministra della Difesa Roberta Pinotti si è recata in visita ufficiale a Doha per incontrare i ministri qatarini generale Hamad Bin Ali Al Attiyah (difesa) e Khalid Bin Mohammed Al Attiyah (esteri). “Al centro dei colloqui, improntati alla massima cordialità, gli scenari di crisi regionali, con particolare riguardo a Iraq, Siria e Libia, e la cooperazione bilaterale in ambito Difesa”, riporta il sito del Ministero. “Italia e Qatar hanno avviato da tempo un dialogo e la visita del Ministro Pinotti ha contribuito a rafforzare e consolidare i rapporti di cooperazione esistenti anche nel settore della formazione e dell'addestramento del personale militare”. Temi centrali degli incontri, la controffensiva internazionale anti-Isis e gli “sviluppi della situazione nei Paesi della sponda sud del Mediterraneo e nel Medio Oriente”. Undici giorni prima, la ministra Pinotti aveva ricevuto a Roma il generale Ghanim Bin Shaheen Al-Ghanim, Capo di Stato Maggiore delle forze armate del Qatar. Durante il breve tour in Italia, il Capo delle forze armate qatarine è stato pure ospite dell’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli (Capo di Stato maggiore della Difesa) e del Centro Sperimentale di Volo dell’Aeronautica militare di Pratica di Mare, l’unico ente di consulenza della Difesa per le prove in volo dei velivoli e dei sistemi d’arma, l’addestramento e la sperimentazione nel settore della medicina aeronautica e spaziale, ecc.

Il 3 novembre era stato il viceministro Lapo Pistelli a raggiungere Doha per incontrare con il ministro degli Esteri Khalid Bin Mohammed Al Attiyah e alcuni imprenditori italiani che operano nella penisola arabica. “Il Qatar non è soltanto un attore fondamentale e imprescindibile per le prospettive di stabilizzazione della regione, ma anche un Paese molto ricco dove è più che opportuno esplorare ogni possibilità di collaborazione nel reciproco interesse”, dichiarava Pistelli. “Sul piano prettamente politico, questa prima sessione delle consultazioni politiche bilaterali è servita anche a comprendere meglio, nell’ottica del Qatar, le ragioni degli attuali conflitti nella regione, dalla Libia alla Siria all’Iraq, premessa necessaria all’individuazione dei meccanismi più appropriati per stemperarli”.

Italia e Qatar sono legate da un accordo di cooperazione militare, ratificato dal Parlamento con voto bipartisan il 29 settembre 2011, che prevede l’organizzazione di attività d’addestramento ed esercitazioni congiunte, la partecipazione ad operazioni di peacekeeping e lo “scambio” di una lunga lista di armi e munizioni, sistemi di telecomunicazione e satellitari, ecc. L’ultima grande esercitazione bilaterale risale alla primavera 2014: gli uomini del Gruppo Operativo Incursori (il reparto d’eccellenza della Marina militare di stanza a La Spezia) hanno realizzato un’intensa campagna addestrativa a favore del team di pronto intervento della guardia dell’Emiro, conducendo “operazioni speciali di assalto ad unità navali e liberazione di ostaggi”. L’attività, pianificata e coordinata dal Comando Interforze per le Operazioni delle Forze Speciali, è stata svolta in alcuni poligoni terrestri e marittimi del Qatar e nelle aree addestrative liguri del Raggruppamento Subacquei ed Incursori “Teseo Tesei”. “A sottolineare l’importanza degli accordi bilaterali italo-qatarini, alle esercitazioni hanno assistito il Capo ufficio generale del Capo di Stato Maggiore della Difesa, ammiraglio Donato Marzano, il Comandante del COFS, generale Maurizio Fioravanti, il Comandante di Comsubin, contrammiraglio Francesco Chionna e una delegazione di autorità militari qatarine”, riporta una nota del Comando della Marina militare italiana.

È soprattutto il complesso militare-industriale-finanziario nazionale a essere interessato al rafforzamento della partnership con il Qatar, uno dei maggiori acquirenti di sistemi di guerra a livello mondiale. Alla mostra internazionale riservata alle aziende del settore bellico “DIMDEX 2014”, svoltasi a marzo a Doha, le forze armate dell’emirato hanno firmato contratti per un valore complessivo di 23 miliardi di dollari, facendo razzia di carri armati “Leopard”, blindati obici semoventi, sistemi antimissile “Patriot”, elicotteri d’attacco “Apache”, cacciabombardieri di ultima generazione, velivoli “Boeing 737” per la sorveglianza aerea, navi veloci per il controllo costiero, missili “Hellfire”. Una delle commesse più rilevanti (2 miliardi di euro) ha riguardato l’acquisto di 22 elicotteri da combattimento NH90 prodotti dal consorzio NHIndustries costituito da Airbus’Eurocopter (62,5%), dall’olandese Stork Fokker (5,5%) e dall’italo-britannica AgustaWestland (32%), gruppo Finmeccanica. Al salone “DIMDEX”, presente il vicesegretario della Direzione nazionale degli armamenti, ammiraglio Valter Girardelli, un’altra azienda partecipata di Finmeccanica, MBDA Missile Systems, ha presentato il nuovo sistema di difesa costiera MCDS (Marte Coastal Defence System) basato sui missili antinave “Marte MK2/N” e “Marte ER”, anch’essi di produzione MBDA, ricevendo favorevole accoglienza da parte dei militari del Qatar e di altri Paesi del Golfo Persico. Il “lancio” del sistema missilistico a Doha era stato preceduto dalla visita in Italia di una delegazione della Marina qatarina, interessata ad acquisire i missili “Marte” per armare gli elicotteri NH-90. Relativamente al business delle armi made in Italy, va pure segnalato che tra il 2012 e il 2013 AgustaWestland aveva consegnato alle forze armate del Qatar 21 elicotteri AW139, assicurando contestualmente l’addestramento degli equipaggi e la fornitura di parti di ricambio (valore complessivo della commessa 260 milioni di euro).

Nulla sembra imbarazzare il governo, le forze armate e gli industriali italiani. Neanche il fatto che il Qatar sia considerato da alcuni nostri alleati Nato ed extra-Nato come il paese che più di tutti ha fornito sostegno finanziario, armi, protezione e copertura internazionale a numerosi gruppi dell’estremismo islamico attivi in Africa e Medio oriente. Diplomatici e studiosi indipendenti hanno rilevato come l’emirato sia un sostenitore della discussa organizzazione della Fratellanza musulmana, particolarmente attiva in Egitto e Gaza. “Pur continuando a presentarsi come un prezioso interlocutore e partner economico per gli Stati Uniti e i Paesi europei, il Qatar ha coltivato rapporti con leader e realtà salafite attive nella regione”, afferma Gianmarco Volpe, autore di uno studio sulle politiche dell’emirato, pubblicato a marzo dal CeSI - Centro Studi Internazionali. “Va sottolineato, inoltre, il forte legame stretto dalla leadership qatariota con i vertici della Fratellanza musulmana. Fondata su solidi rapporti interpersonali (in particolare quelli che legano l’ex Emiro Hamad bin Jassim bin Jaber al‐Thani allo sceicco Yusuf al‐Qaradawi, esponente di spicco della Fratellanza in Qatar, l’alleanza tra Doha ed i Fratelli musulmani si è concretizzata dopo la rottura del movimento con l’Arabia saudita, avvenuta dopo la Prima Guerra del Golfo”. Il Qatar ha utilizzato i Fratelli musulmani per rafforzare il proprio ruolo politico-economico nel mondo arabo; contestualmente i Fratelli musulmani hanno trovato un rifugio sicuro a Doha e nella rete radiotelevisiva al‐Jazeera una voce autorevole per amplificare la propria visione politico-religiosa.

Da più parti il Qatar viene accusato di tenere relazioni sin troppo ambigue con gruppi e fazioni pro-Isis, organizzazione che ha proclamato la rinascita del Califfato nei territori controllati. L’emirato è stato uno dei primi paesi ad invocare l’invio di una forza multinazionale in Siria a sostegno dei “ribelli” in lotta contro il regime di Bashar al-Assad. Attualmente, il Qatar sostiene apertamente il Free Syrian Army, espressione militare dei gruppi vicini alla Fratellanza musulmana, mentre ha messo a disposizione di alcuni diversi gruppi di ribelli una vasta area d’addestramento nel deserto, al confine con l’Arabia saudita. Il “campo”, dove operano formatori e “consiglieri” qatarini e statunitensi, sorge nei pressi della grande base di Al Adeid, utilizzata insieme a quelle di Assaliyah e Doha dalle forze aeree Usa per sferrare gli attacchi contro le postazioni dell’Isis in Iraq e Siria. Contemporaneamente, però, le autorità governative e le forze armate lasciano libertà di movimento in Qatar ai finanziatori di gruppi jihadisti alcuni dei quali apertamente schierati con l’Isis o come il Fronte al-Nusra che dal dicembre 2013 è classificato tra le “organizzazioni terroristiche” dal Dipartimento di Stato.

“L’approccio spregiudicato del Qatar e la sua quantità di relazioni (spesse volte, tra di esse, apparentemente inconciliabili) sono frutto di una politica nella quale è del tutto assente qualunque limitazione ideologica”, aggiunge lo studioso del CeSi, Gianmarco Volpe. “La politica estera qatariota non si fa portatrice di alcuna particolare idea, né di alcun particolare disegno strategico. A essere veicolato è un indefinito messaggio di cambiamento, funzionale alle ambizioni di crescita internazionale dell’Emirato”.

Il diabolico comportamento del Qatar sta avendo effetti indesiderati nel conflitto iracheno e siriano. Missili antiaerei di fabbricazione cinese, fornite dal Qatar ai ribelli siriani, vengono utilizzati dai miliziani del Califfato islamico contro gli elicotteri e gli aerei dell’esercito nazionale dell’Iraq. “Si tratta in particolare dei missili portatili cinesi FN-6, che il Qatar aveva consegnato alle milizie legate ai Fratelli musulmani”, denuncia Analisi difesa. “Queste brigate sono confluite in gran parte nello Stato Islamico o nei qaedisti del Fronte al-Nusra, come hanno fatto la gran parte delle unità combattenti dell’Esercito Siriano Libero”. La rivista specializzata Jane’s Defense Weekly ha documentato come gli FN-6 siano stati utilizzati lo scorso anno per colpire in Siria elicotteri MI-8, aerei da trasporto e almeno un Mig-21, mentre negli ultimi mesi hanno abbattuto in Iraq elicotteri multiruolo MI-17, MI-35 da attacco e Bell 407 “Scout”.

Altrettanto gravi le responsabilità qatarine nei sempre più drammatici scenari di guerra in Libia. A metà settembre, il primo ministro libico Abdullah al-Thinni ha affermato che tre aerei militari del Qatar, pieni di armi pesanti, erano atterrati nell’aeroporto di Tripoli, al momento sotto il controllo di una fazione armata “ribelle”. Nel 2011, prima che la coalizione multinazionale a guida Nato avviasse la campagna di bombardamento in Libia, l’emirato aveva fornito armi e munizioni alle milizie anti-Gheddafi. L’Aeronautica militare del Qatar ha successivamente partecipato ai bombardamenti grazie a 6 cacciabombardieri Mirage 2000 rischierati nella base greca di Souda Bay.

venerdì 28 novembre 2014

Piano Juncker. Promesse, fiducia, speranze, niente soldi

Chiacchiere e distintivo. La funzione “positiva” del governo europeo – la Commissione, affidata alla guida di Jen-Claude Juncker, lussemburghese sotto tiro per aver favorito l'evsione fiscale di ben 550 multinazionali globali – è ridotta a ben poca cosa.

Promesse, speranze, fiducia, futuro, giovani... Parole che avevano un senso e che vengono svuotate giorno dopo giorno da un uso compulsivo, distraente, truffaldino. Non solo dal guitto di Pontassieve o dal suo indiscusso maestro arcoriano, ma persino da questo grigio fiscalista la cui unica capacità riconosciuta si esprime nell'arte del galleggiamento tra navi ben più potenti (Germania e Francia, da sempre).

La promessa con cui si era presentato era a suo modo forte: 300 miliardi per investimenti da effettuare in tutta l'Unione Europea, per rilanciare la crescita economica e assorbire alemno in parte la devastante disoccupazione. Un programma semi-keynesiano, avevano detto molti; una “ocsa di sinistra”, aveva twitteggiato Renzi, dicendo di vole prenotare 40 di quei miliardi.

Col passare dei giorni la bolla delle aspettative salvifiche si è andata sgonfiando. Molte indiscrezioni riducevano a molto meno la cifra disponibile pronta cassa (30 miliardi appena, giuravano le fonti di Bruxelles), il resto da trovare attivando la “leva finanziaria” e incrociando le dita.

Ieri, infine, la presentazione ufficiale del piano di investimenti davanti al Parlamento di Strasburgo. Chiacchiere e distintivo, panna montata e speranze. Persino il confindustriale Sole24Ore ha avuto un moto d'orrore, o comunque di stizza, davanti alla solare presa per i fondelli (al contrario dei media “progressisti”, a partire dal Tg3, gli industriali sanno distinguere tra soldi e parole).

Neanche 30 miliardi, ma appena 21. Anzi. Neanche quelli, solo 5. Ce li mette la Banca Europea degli Investimenti (la Bei, che proprio questo dovrebbe fare, ma non fa, comportandosi come una banca qualsiasi), per “non perdere la tripla A” assegnata fin qui dalle agenzie di rating (tutte statunitensi). Se ne mettesse di più i suoi bilanci andrebbero sotto gli standard.

Gli altri 16 non sono soldi veri, ma “garanzie” fornite dagli stati membri dell'Unione. Questa briciola messa sul piatto davanti a quasi mezzo miliardo di cittadini continentali, alle prese con la crisi più lunga della storia moderna, dovrebbe magicamente mobilitare risorse private e pubbliche levitando così fino a 315 miliardi. E in base a quale meccanismo economico dovrebbe mettersi in moto una leva finanziaria nella proporzione di 15 a 1? La “fiducia”.

È quasi divertente vedere come l'armamentario teorico che supporta le decisioni di politica economica e finanziaria, che viene presentato al pubblico come una “verità scientifica senza alternative”, si riduca alla fin fine in una paroletta da sciamani o da Scientology. Chi dovrebbe emanare questo clima di “fiducia”? Non la Commissione, che non ha soldi da investire e chiede siano altri a farlo; non la Bei, non gli imprenditori privati (l'avrebbero già fatto), non gli stati nazionali obbligati al pareggio di bilancio e alla riduzione del debito pubblico.

Anche questi ultimi, infatti, restano ammanettati alla logica dell'”austerità”. Da un lato la Commissione promette che gli eventuali investimenti produttivi inseriti nel “piano Juncker” non verrano computati ai fini delle manovre correttive; dall'altro la Merkel, ancora ieri, a pochi minuti di distanza e nella stessa aula, pur dicendosi “d'accordo il linea di principio”, fissava paletti invalicabili: «la Commissione e Jean Claude Juncker [devono proseguire] nella verifica severa dei piani di bilancio degli Stati membri». Perché «L'affidabilità delle regole comuni del patto di crescita è di grande significato per la fiducia nell'eurozona». La traduzione è semplice: non cedete soldi a noi, che ne abbiamo, ma tagliate le vostre spese pubbliche e sperate che il mercato vi premi. Punto.

Non è difficile prevedere un futuro gramo per questo piano. Che oltretutto parte mettendo al centro delle “priorità” due settori come energia e trasporti. Certamente strategici, specie il primo, visto che l'Europa dipende per oltre il 60% del suo fabbisogno energetico dalle importazioni. Ma si tratta anche di due settori in cui il fattore occupazionale è quasi marginale.

Anche qui “si spera” in una sorta di effetto leva? E in quanti anni si potrebbe realizzare la magia di trasformare 5 miliardi in 315, sviluppando settori a bassa intensità di lavoro che a loro volta mettono in moto settori meno strategici e competitivi ma ad alta intensità di manodopera? Silenzio, ovviamente. O meglio: chiacchiere. Il distintivo potrebbe venir sostituito dal manganello.

giovedì 27 novembre 2014

L'Europa è ben altro che "UE" e "occidente"

Ha fotocopiato il modello produttivo e sociale di coloro che distrussero dai cieli sessantasei delle sue maggiori città. L'Europa è spenta, non è più centro di elaborazione e irradiazione di criteri normativi adottati nel resto del mondo. Da essa non si irradiano più culture e linee di forza capaci di sedimentare e stabilizzare aree tgeografiche e sociali. E' imitazione, copia sfocata, incapacità di improntarsi alla sua specificità storica. Abiura e rinnega, in nome e per conto d'un universalismo trapiantato e importato, che è solo sudditanza ai neofiti dell'usura riattualizzata.

I tristi saltimbanchi, privi di bussola e mappe genuine della psicogeografia dell'Europa reale, persistono nell'apologetica. accecati su un vagone rimorchiato. Piombato dai nuovi barbari che -mentre saccheggiano senza ritegno- hanno plasmato la mentalità adatta a riprodurre la servitù volontaria. Incassano i benefici di una estesa interiorizzazione del senso di colpa, spinta fino alla negazione di sè stessi e all'imitazione di chiunque altro (“dobbiamo fare come in Germania” o "in america" ecc). E' venuta a galla una identità mimimalista da limes lontano dell'impero.

Impazzano i funzionari neocoloniali, quelli dall'inamovibile "erre-moscia" sempre attualizzata agli odierni centri esterni della dominazione; gli entusiasti d'una Italia ridivenuta “espressione geografica” che spazza via ogni retaggio della storia e del suo divenire nel territorio. Ladri di storia e di geografia al servizio della geopolitica anglosax, arroganti quando occultano il decisivo e storico apporto antinazista della Russia. Infine, è il breve carnevale dei psicolabili che esibiscono la maschera dell'Europa sfumata nella nube di un “occidente” ad estensione variabile.

Dal “modernismo” esibito con pose caricaturali, scaturiscono controfigure plasmate alla temperie morale proprie di una neocolonia. Subordinata, inchiodata ad assorbire “cultura” seriale, stilemi grotteschi, slogan e i diktat apologetici dell'autonomia del denaro. L'introiezione dei caratteri dell'epoca della carestia (per ceti bassi e plebe) si fonda sulla supremazia assoluta dell'individualismo, assunto come unico fattore positivo e lecito. Chi osa resistere ai settari che si compiacciono del ruolo di liberali immaginari, viene scaraventato nella bolgia dei reazionari o populisti. Si auto-rappresentano sempre come progresso ed efficienza in lotta epica contro l'arretratezza; oppure come riformatori e partito del "cambio" contrapposti ai conservatori e biechi difensori del passato.

L'individualismo vorrebbe dissolvere ogni altra identità e valore: classe, famiglia, nazione, popolo, comunità, solidarietà, spiritualità e dignità. Predicano la bontà di una identità sessuale indifferenziata ed equivalente, però con predilezione per l'infecondità e la sterilità. L'atomizzazione sociale deve accelerare la decomposizione e la solitudine più estrema, e troncare radici, rami, foglie e i frutti, per l'avvento definitivo dei grossisti del denaro. Incombe l'incubo del millenarismo mediatico dei nuovi padroni della natura e degli umani. E' l'agguato proditorio di una sopravvivenza -spacciata come destino!- che si nutre di paura e angoscia permanente. Si varano e proteggono regimi para-terroristi, utilizzatori intensivi di droni, committenti di guerre privatizzate appaltate a "mercenari con patologie politiche indotte o criminalità pseudoreligiosa di avariata origine".

E' in corso uno scontro epocale tra le forze stanziali, legate ai vincoli unani, territoriali e affettivi della produzione concreta e l'elite con la sua struttura di potere reale. Fondata sul nomadismo della finanza che impone regole draconiane per istaurare la magia del denaro generato direttamente dal denaro. La necessità, o meno, di passare attraverso il lavoro e la produzione prima che il denaro possa accrescersi, è l'oggetto del contendere attuale su scala mondiale. Nessuno “scontro di civiltà”, piuttosto uno urto “biblico” tra il nuovo auge delle religioni dell'usura e le maggioranze operose, che sono complementari solo con il policentrismo. Sono entrati in collisione la comunità e il dominio reale del capitale, la coperazione come alternativa alla concorrenza, l'iper-individualismo dell'elite totalitaria e la superstite socialità umana.

E' belligeranza asimettrica tra i fabbricanti di valori coniati dai templi liberisti e quanti si battono per mantenerli fuori e separati dal potere politico. Mercato ed economia sono un frammento del sociale, importante ma non preponderante. Sono parte non il tutto. Pertanto la visione dell'economia come cosa integralmente autonoma, svincolata e superiore
ad ogni altro valore e struttura sociale, si rivela un fondamentalismo da contrastare con crescente fermezza. Questi strambi liberali, in realtà, sono nemici giurati di ogni sovranità geopolitica, culturale ed economica, come pure di ogni identità che non deriva o non si subordina al primato dell'economia.

Da un lato c'è l'oligarchia con il suo epansionismoe egemonico e dall'altro l'arco di forze che si richiamano alle tradizioni e alla giustizia, ed hanno bisogno dello Stato come pilota collettivo che stabilisce le mete di fondo del bene comune. Lo scontro reale in atto è quello che oppone elite e società, oligarchia e popoli. Per l'equità è indispensabile la separazione assoluta tra potere politico e potere economico, tra l'egoismo onnivoro dei manipoli oscuri e la minacciata socialità delle maggioranze.

mercoledì 26 novembre 2014

Jobs Act, con un pulsante cancellano decenni di storia di conflitto sociale

Il Jobs Act è pas­sato anche alla Camera. Tor­nerà per l’approvazione defi­ni­tiva al Senato, ma non si atten­dono sor­prese. Renzi può por­tare a Bru­xel­les lo scalpo dell’articolo 18, anzi di tutto l’impianto dello Sta­tuto dei diritti dei lavo­ra­tori, per­ché senza tutela reale ogni altro diritto è di per sé inde­bo­lito se non annul­lato. Hanno votato in 316 a favore del dise­gno di legge del governo. La mag­gio­ranza asso­luta, per un voto, di una camera di nomi­nati già poli­ti­ca­mente dele­git­ti­mata dalla boc­cia­tura del por­cel­lum da parte della Corte Costi­tu­zio­nale. Mal­grado ciò quella mag­gio­ranza si è assunta la respon­sa­bi­lità di can­cel­lare con un pul­sante decenni di sto­ria del con­flitto sociale che ave­vano creato il “caso ita­liano” durante i “trenta anni glo­riosi” del capi­ta­li­smo occidentale.
Eppure que­sta volta per Renzi non è stato un trionfo. E’ forse esa­ge­rato dire che si è trat­tato di una vit­to­ria di Pirro, ma per la prima volta Renzi ha dovuto incas­sare il dis­senso aperto della mino­ranza del suo par­tito.
Civati ha votato no, men­tre Fas­sina e Cuperlo hanno tra­sci­nato fuori dall’Aula una tren­tina di depu­tati, assieme a quelli di Sel, dei Pen­ta­stel­lati e delle oppo­si­zioni di destra. A sua volta Ber­sani ha votato un sì per pura disci­plina e palese nulla con­vin­zione. E così sarà stato pro­ba­bil­mente per diversi altri. La pre­sunta media­zione sul testo non ha tenuto né nel merito né poli­ti­ca­mente. Il dis­senso non è rien­trato, è esploso.

Del resto è dav­vero dif­fi­cile con­si­de­rare un miglio­ra­mento quanto è stato pre­ci­sato alla Camera rispetto al Senato. Per i licen­zia­menti per motivi eco­no­mici non c’è alcun rein­te­gro, solo l’indennizzo rap­por­tato alla anzia­nità di ser­vi­zio. Il rein­te­gro com­pare solo per i licen­zia­menti chia­ra­mente discri­mi­na­tori e per quelli disci­pli­nari risul­tati privi di fon­da­mento alcuno, secondo tipi­ciz­za­zioni ulte­riori riman­date ai decreti dele­gati.
Chi mai volendo licen­ziare potrebbe impe­go­larsi in que­ste tipo­lo­gie potendo ada­giarsi sull’andamento eco­no­mico dell’impresa? Qui si col­pi­sce non solo il diritto al lavoro del licen­ziato, ma anche il ruolo della magi­stra­tura nell’ inter­vento per rein­te­grare tale diritto. Due pic­cioni con una fava. Nean­che il nemico per eccel­lenza dei giu­dici, Ber­lu­sconi, avrebbe potuto tanto.

Nel frat­tempo Squinzi può sognare, si stro­pic­cia gli occhi, ottiene più di quanto pre­ten­deva e spe­rava. Non ha nep­pure avuto biso­gno di chie­derlo. Anzi, Squinzi aveva com­bat­tuto per la pre­si­denza della Con­fin­du­stria con­tro Bom­bas­sei, dichia­rando pro­prio che l’articolo 18 non era una priorità.

Intanto Pier Carlo Padoan aveva già scritto la sua let­tera alla Com­mis­sione affin­ché fosse indul­gente nel valu­tare i conti della legge di sta­bi­lità. Il giu­di­zio defi­ni­tivo sarà a marzo, ma intanto il governo si salva, anche gra­zie alla appro­va­zione del Jobs Act che, secondo il nostro mini­stro dell’economia, garan­tirà una ripresa dell’economia e il soste­gno al sistema pen­sio­ni­stico. Come ciò possa avve­nire a colpi di pre­ca­riato, che il decreto Poletti e il Jobs Act stesso ampliano a dismi­sura, è un mistero da riman­dare al mittente.

La novità tanto sban­die­rata è il famoso con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato a tutele cre­scenti. Le moda­lità della arti­co­la­zione di que­ste tutele sono ancora ignote, per­ché riman­date al testo di decreti dele­gati che even­tual­mente pas­se­ranno solo dalle com­mis­sioni par­la­men­tari — ma non dall’aula — per un parere non vin­co­lante. Tut­ta­via è fin d’ora scar­sa­mente cre­di­bile che un padrone assuma con que­sta forma, quando può uti­liz­zare, gra­zie al decreto Poletti, con­tratti a ter­mine uno in fila all’altro senza doverne moti­vare la ragione. Para­dos­sal­mente, ma non troppo, pro­prio il con­tratto inde­ter­mi­nato a tutele cre­scenti spin­gerà ancora di più l’acceleratore sulla totale pre­ca­riz­za­zione dei rap­porti di lavoro per i nuovi assunti.

Fare sin­da­cato e costruire una nuova coa­li­zione sociale per una nuova sini­stra sarà più dif­fi­cile, ma ancora più neces­sa­rio ed urgente. Una dimen­sione euro­pea è indi­spen­sa­bile poi­ché il sistema non sop­porta legi­sla­zioni nazio­nali pro­tet­tive dei diritti e forme con­trat­tuali che vadano al di là del sin­golo gruppo o azienda. Jobs, più che voler dire lavori, è un acro­nimo: Jump­start Our Busi­nes­ses (come l’omonimo ame­ri­cano del 2012) cioè «met­tiamo in moto le nostre imprese». Di con­tro, quel popolo di sini­stra orfano di una vera sini­stra popo­lare ritro­va­tosi in piazza il 25 otto­bre e nelle occa­sioni suc­ces­sive, si rimette in moto per uno scio­pero gene­rale, dopo tanti anni. Que­sta sarà la risposta.

martedì 25 novembre 2014

Sfruttamento di minori e paghe da fame, scoperto un giro di lavoro nero tra alberghi e ristoranti

Oltre 2.700 studenti, alcuni minorenni, di scuole alberghiere sono stati irregolarmente impiegati in alberghi e ristoranti, grazie alla formula dell'alternanza scuola-lavoro prevista dai programmi di studi. L’ultima inchiesta della Guardia di Finanza ha portato alla luce un giro spaventoso di lavoro nero e sfruttamento nel settore turistico a livello nazionale, ed anche di intermediazione di manodopera. Su richiesta dei ristoratori e albergatori, veniva fatta sottoscrivere agli studenti una "lettera di incarico", nella quale veniva definito l'impiego, per un periodo determinato, di un numero di studenti occorrenti alle strutture di ristorazione e alberghiere, al costo di 60 euro per studente a settimana lavorativa. Ristoratori e albergatori potevano impiegare per le proprie necessità (soprattutto nei periodi di maggiore concentrazione di cerimonie) una forza lavoro a basso costo, senza oneri contributivi, con la conseguente illecita concorrenza a danno degli altri operatori del settore.
A capo della piramide due società fittiziamente residenti a San Marino e in Svizzera, con una evasione fiscale per un milione di euro.Coinvolti decine tra istituti scolastici in Sicilia, Calabria, Puglia, Campania e Lazio, e ristoranti e alberghi di Trentino A.A., Veneto, Puglia, Sicilia, Umbria, Abruzzo, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Toscana e Sardegna. Le due società, secondo le indagini, di fatto hanno svolto attività di intermediazione interponendosi illecitamente tra studenti e alberghi. Per la somministrazione fraudolenta di manodopera è prevista la sanzione pari a 70 euro per giorno d'impiego per studente e, considerato che ciascun studente è stato impiegato in media per quindici giorni, la sanzione potrà arrivare sino ad un massimo di 2,6 milioni.
Ovviamente non è la prima volta che vengono scoperte realtà del genere. Finora i controlli, però, erano stati tutti locali. Questa estate sulla riviera romagnola furono portate alla luce realtà di lavoro con minorenni sfruttati per 16 ore al giorno, lavoratori e lavoratrici costretti a turni estenuanti e fatti dormire nei bagni, cibo scaduto servito ai clienti.
L’Istituto Nazionale di Statistica quantifica il valore aggiunto prodotto dal sommerso economico compreso tra i 217 e i 228 miliardi di euro, tra il 18,2 e il 19,1% del Pil. Ed è proprio nel settore “alberghi, bar, ristoranti e pubblici esercizi che si raggiunge il top. Gli ultimi dati di questo settore, del 2005, annunciano che in questo settore l’economia sommersa è del 56,8%.

lunedì 24 novembre 2014

Più di due miliardi di persone nel mondo non hanno servizi igienici ed acqua

La defecazione all'aperto coinvolge un miliardo di persone al giorno. Storie drammatiche e pericolose di donne e bambini

Più di due miliardi di persone nel mondo non hanno accesso a servizi igienici adeguati. I più colpiti sono donne e bambini che spesso non hanno neanche l'acqua. È difficile da concepire per molti di noi, abituati ad avere diversi bagni a disposizione durante il giorno, a casa, a lavoro, e addirittura alcuni ad avere più servizi nella stessa abitazione.

Nella seconda Giornata Mondiale dei Servizi Igienici (riconosciuta solo l’anno scorso con il supporto delle Nazioni Unite), che si è celebrata il 19 novembre scorso, oltre ad affrontare i temi dell’uguaglianza e della dignità, si è illustrata la campagna UN-Water, per porre fine alla defecazione all'aperto, un argomento in precedenza innominabile, che coinvolge un miliardo di persone al giorno. Ne ha parlato l'Independent. Il World Toilet Day è stato creato dalla World Toilet Organisation nel 2001 con 15 membri e oggi è costituita da 151 organizzazioni in 53 paesi che lavorano per eliminare i tabù che circondano questo argomento e per fornire servizi igienico-sanitari sostenibili.

In India circa 818 milioni di persone defecano in pubblico. In Congo circa il 72% della popolazione non ha accesso a una toilette interna, così come l'80% degli etiopi, circa 71 milioni di persone.

A livello globale, 526 milioni di donne sono costrette ad andare in bagno all’aperto, spesso facendo fronte a minacce fisiche e violenze dal momento che devono aspettare fino a dopo il tramonto prima di lasciare le loro case. Come è stato già crudamente raccontato dalle cronache del maggio scorso, quando due ragazze indiane sono state brutalmente violentate e impiccate dopo essersi allontanate dalle loro case per usare la toilette nei campi vicini.
Accanto alle minacce che molte donne si trovano ad affrontare ogni volta che vanno in bagno, la mancanza di servizi igienici di base significa che le malattie facilmente prevenibili dilagano e possono addirittura uccidere.

Bangladesh
Rubina, 38, ha vissuto a Mollar Bosti nei bassifondi di Dhaka per 3 anni. Si è trasferita dalla campagna quando il marito ha trovato lavoro a Dhaka. Lei usa una toilette in comune che si trova a 20 metri da casa. Dice che una volta, nel bel mezzo della notte, è andata in bagno e qualcuno ha bussato alla porta del bagno così forte che pensava che la stesse buttando giù. Ha avuto paura da allora ad usare il bagno dopo 09:00.

Haiti
Martine ha 27 anni. Vive vicino al fiume a Cayimithe. "Non ho una toilette chiusa. Il mio bagno è un buco nel terreno di casa mia, che ora è pieno ed è diventato veramente pericoloso. Lo uso solo di notte, quando posso avere un po’ di privacy. Durante il giorno, uso un gabinetto condiviso con la comunità che si trova a circa 15 minuti da casa mia.

Belgio
Rosalia, 9, va a scuola a Bruxelles. "Nella mia scuola abbiamo servizi igienici separati per ragazze e ragazzi su ogni piano. La mia classe è al 3 ° piano. Abbiamo 22 servizi igienici, che sono condivisi tra 230 allievi e 20 adulti. Gli insegnanti a scuola vanno in bagno ogni volta che ne hanno bisogno".

India
Saritadevi vive nel villaggio Ittava a Uttar Pradesh. Lei non ha accesso ai servizi igienici a casa sua e quindi utilizza un campo locale. Lei soffre per la mancanza di dignità e privacy. Dice che è umiliata dagli uomini, lanciano pietre contro di lei, urlando insulti, gesti volgari e cantano canzoni offensive.

Australia
Renee è un'artista che ha lasciato la sua ex casa nei sobborghi densamente popolati di Sydney per vivere una vita più tranquilla ad un'ora a nord della città. Ha costruito un capannone su dieci ettari di terreno e ha incluso un bagno esterno e un bagno interno. Ironia della sorte, Renee è in grado di godere di totale privacy all'aperto dal momento che è circondata dalla foresta, lontano dalle altre abitazioni.

Ghana
Ima, 47, è un'assistente di un bagno pubblico di Kumasi, la seconda città più grande del Ghana. Vive in una stanza in affitto con il marito e quattro bambini di età compresa tra i 14 e i 22. Non ha un bagno in casa. Durante il giorno, lei usa il bagno pubblico dove lavora, ma di notte è costretta a utilizzare sacchetti di plastica in quanto non è sicuro camminare lunghe le strade al buio.

Mozambico
Assucena, 14, è una studentessa che ama studiare e giocare a calcio. Vive con la madre, la nonna, la sorella e due cugini. Assucena condivide un bagno con altre 30 persone di diverse famiglie. "Quando piove, la toilette si allaga. C'è davvero una puzza terribile".

Brasile
Lorena, 16, è una studentessa. Si è appena trasferita in una delle favelas di Rio de Janeiro. "Non ho una toilette, ma sto lavorando duramente per cercare di costruirne una. Nel frattempo, devo usare quella di mia madre. Abbiamo acqua solo il giovedì e la domenica, quando i rubinetti sono aperti. Un giorno mi piacerebbe avere un bagno con acqua corrente. Sono molto vanitosa, mi piace curare capelli e unghie e utilizzare il profumo. Alcune persone qui sono in cattive condizioni di salute, a causa della situazione di scarsa igiene nella zona".

Sudafrica
Nombini ha due vasi portatili, che sono utilizzati dalle 12 persone che vivono nella sua casa. La prima volta che si trasferì a Khayelitsha, nel 2005, lei non aveva un bagno, quindi doveva andare nella boscaglia. "È stato terribile nella boscaglia, le auto ci colpivano. Il mio sogno è quello di avere un gabinetto con lo sciacquone".

Zambia
Susan, 46, è la fondatrice di una scuola di comunità per i bambini con disabilità fisiche e mentali. "Mi rende orgogliosa e felice insegnare ai bambini disabili in modo che in futuro possano avere una vita migliore e non solo stare a casa. Usare la toilette è una sfida, soprattutto nella stagione delle piogge, devo strisciare per i servizi igienici con le mie mani".

Romania
Ghita, 48 anni, del villaggio Buzescu, è l'orgogliosa proprietaria di uno dei più grandi bagni del villaggio, di 20 metri quadrati. Nel villaggio non c'è acqua corrente o fognature.

Il Centro per le Malattie degli Stati Uniti stima che circa 2.200 bambini muoiono ogni giorno di diarrea. Più di AIDS, malaria e morbillo messi insieme.
Quasi il 90% dei decessi correlati alla diarrea sono causati da acqua non potabile, igiene insufficiente e inadeguata.
Dove esistono i servizi igienici - ad esempio nelle scuole - sono in numero talvolta così inadeguato da essere quasi inutile.
L'effetto a catena è tale che in Kenya, per esempio, le ragazze che hanno raggiunto la pubertà perde una media di sei settimane di apprendimento, perchè la mancanza di servizi igienici significa che non sono in grado di frequentare la scuola durante i loro periodi.

venerdì 21 novembre 2014

Cancellare le conquiste del popolo: da Pinochet a oggi

Nei momenti di tensione salgono dall’animo parole che non si possono trattenere. Non ci è riuscito neanche un attore consumato come Matteo Renzi. Per reagire al dispetto provato per i ritardi del Senato nell’approvazione del suo Jobs Act, il presidente del consiglio ha dichiarato: «Abbiamo aspettato 20, 30, 40 anni per le riforme, non cambierà con qualche ora in più». Successivamente una velina del suo ufficio stampa ai massmedia di regime li ha indotti a correggere la frase, per cui molti commentatori hanno l’hanno poi riportata fermandosi a venti anni, ma Renzi era arrivato a quraranta. Dunque nel profondo del suo animo il presidente del Consiglio pensa che l’articolo 18 e lo statuto dei diritti dei lavoratori avrebbero dovuto essere aboliti già nel 1974. In quell’anno il no al referendum sull’abrogazione del divorzio aveva travolto la Dc di Amintore Fanfani.

La strage fascista di piazza della Loggia a Brescia aveva ricevuto una risposta popolare enorme che aveva messo in crisi i disegni autoritari di settori degli apparati dello Stato e della eversione nera. Nelle scuole entravano i metalmeccanici che Renziavevano da poco conquistato il diritto a studiare con permessi di 150 ore. Tutta la società italiana, nonostante tensioni e contraddizioni, era in crescita attorno alla crescita dei diritti del lavoro. Chi allora avrebbe potuto aver già in mente che, appena quattro anni dopo il varo della legge 300, si sarebbe dovuto cancellare l’articolo 18? Mi domando davvero come Renzi abbia potuto parlare di quaranta anni di ritardo nelle riforme, e siccome son convinto che non si sia sbagliato, posso arrivare ad una sola conclusione. Che egli faccia proprio lo spirito di vandea capitalista che proprio in quegli anni cominciava a definirsi nelle élites economico finanziarie mondiali.

Nel 1973 il sanguinoso colpo di Stato di Pinochet contro Allende in Cile serviva per la prima volta a sperimentare con la forza di una feroce dittatura le politiche liberiste dei “Chicago boys” di Milton Friedman. Che poi sarebbero dilagate nel mondo. Sempre nel 1973 una organizzazione multinazionale di banchieri e industriali, politici e ricconi guidata dalle élites statunitensi, la Trilaterale, aveva prodotto un manifesto programmatico nel quale si affermava la necessità che il mondo retrocedesse Cremaschidall’eccesso di domanda di democrazia e garanzie sociali che si era diffuso. Quindi è vero che sotto la superficie del progresso generale si annidavano e preparavano le forze che avrebbero avviato quella controriforma liberista che dura da più di trenta anni.

Certo a nessuno nell’Italia del 1974, se non a Licio Gelli, sarebbe venuto in mente di chiedere la cancellazione della reintegra per i licenziamenti ingiusti, e di tornare così alla legge del 1966 che, come l’attuale Jobact, prevedeva solo il risarcimento monetario. Ma nell’Italia di oggi questo invece può essere affermato e presentato come innovazione. Ci sono voluti decenni, ma alla fine lo spirito di rivincita sociale che già elaborava il suo rancore in quegli anni, ha trovato un fiero interprete in Matteo Renzi.

martedì 18 novembre 2014

La Resistenza irachena sgretola il “mito” dell’Isil

Il famigerato gruppo terroristico dell’Isil non è un’entità soprannaturale. Si tratta di un’organizzazione criminale con buone capacità di combattimento e migliaia di mercenari disposti a morire. Ma non è invincibile. Creato come holding del terrore da Stati Uniti ed alleati (Israele e Arabia Saudita), è stato sostenuto da una campagna mediatica senza precedenti, tanto da far apparire l’Isil un’armata invincibile.

Questa tesi è stata smentita circa tre settimane fa in Iraq, nella regione di Jaref al-Sakher. Naturalmente, Stati Uniti e media occidentali non si sono preoccupati di mettere in evidenza l’imponente battaglia avvenuta in questa area, equivalente come importanza strategica a quella avvenuta lo scorso anno nella regione siriana di Qusair ad opera di Hezbollah.

Quello che è successo a Jaref al-Sakher è stato un risultato storico raggiunto dai combattenti delle varie milizie sciite, che in precedenza avevano combattuto l’occupazione americana. Ci riferiamo alle Brigate Hezbollah, alla Lega dei Giusti, alle Brigate al-Badr e Saraya al-Salam (del movimento sadrista). Il Generale Qassem Soleimani, comandante della forza Qods delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, è stato lo stratega che ha coordinato le forze sul campo.

La lezione di Jaref al-Sakher dimostra che il popolo iracheno rappresenta una forza da non sottovalutare quando ben organizzata e attivata. Questa forza – come è in effetti accaduto – è stata in grado di schiacciare le orde dell’Isil. Ciò è in linea con ciò che la Guida Suprema della Repubblica Islamica dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei aveva dichiarato il mese scorso al primo ministro iracheno Haider al-Abadi: “L’Iraq, il suo governo e la sua gente, soprattutto i giovani di questo Paese, hanno la capacità per sconfiggere i terroristi e ripristinare la sicurezza. Non vi è alcuna necessità della presenza straniera nel Paese”.

Jaref al-Sakher si trova a metà strada tra Baghdad e Karbala, è un prolungamento meridionale della provincia di Fallujah, una delle roccaforti di al-Qaeda prima e dell’Isil ora in Iraq. Questa regione dopo il 2003 venne chiamata il triangolo della morte, perchè da qui partivano la maggior parte delle autobombe dirette a Baghdad. Nel 2010 era divenuta la capitale dell’Isil, da qui gli attentatori suicidi partivano per attaccare i civili a Musayyib, Hilla, Karbala e Baghdad. Dopo la caduta di Mosul, l’Isil considerava Jaref al-Sakher “un pugnale nel fianco degli sciiti”. Per questo motivo, il gruppo terroristico ha rafforzato la propria presenza militare nei villaggi e nelle zone rurali di Jaref al-Sakher, massacrando e torturando centinaia di civili sciiti.

Sotto il regime di Saddam Hussein, Jaref al-Sakher era un porto sicuro per le bande criminali, tra cui trafficanti di droga e assassini. Anche Saddam evitò di intervenire per riportare la sicurezza nella regione. Per gli americani il problema di Jaref al-Sakher era di difficile soluzione militare, dato il suo terreno coperto da alberi secolari, palme e per una forte presenza di terroristi dell’Isil.

Ciò che gli americani non potevano o non volevano fare, è stato fatto dalle forze sciite coordinate dal Generale iraniano Soleimani. L’alto ufficiale iraniano ha condotto in prima persona la battaglia, come già accaduto in altre regioni in passato. La speranza è che il popolo iracheno si compatti definitivamente in tutte le sue componenti etniche e religiose, per far fronte al cancro terroristico che lo attanaglia da decenni, liberandosi una volta per tutte da ogni forma di ingerenza e occupazione militare straniera.

lunedì 17 novembre 2014

Dopo i bombardamenti umanitari e i bombardamenti chirurgici, i bombardamenti taumaturgici

Il Middle East Institute dichiara nel suo logo la volontà di fornire analisi geopolitiche non partigiane o faziose sul Medio Oriente (Providing non-partisan, expert information and analysis on Middle East). E chi potrebbe mai dubitarne? Il vice direttore del MEI, Paul Salem, scrive infatti articoli che sono un modello di equilibrio e pacatezza. Possiamo trovarne un esempio in un articolo di pochi mesi fa, dove si faceva appello agli USA, notoriamente troppo restii e riluttanti a bombardare chicchessia, perché mostrassero finalmente un po’ di buona volontà nel caso ISIS. Sappiamo che, un po’ controvoglia, gli USA lo hanno poi accontentato. Ma il raffinato analista ha dovuto utilizzare il meglio della sua capacità argomentativa per spiegare come i bombardamenti non siano soltanto efficaci, ma anche terapeutici e persino taumaturgici, per non parlare dell’ansia delle popolazioni coinvolte che non aspettano altro.
Ecco alcuni passi di questo panegirico del bombardamento:
"-A breve termine un intervento del genere quasi certamente conterrebbe l’organizzazione terroristica;
-Sul medio periodo potrebbe avere un impatto positivo su altre aree in mano ai ribelli;
-Creare nuove opportunità per garantire gli aiuti umanitari;
-Aumentare le possibilità di un ritorno ai negoziati politici."
E ancora, dal panegirico all'apoteosi mistica:
"Gli eventuali bombardamenti aerei dell’ISIS da parte degli Usa non riuscirebbero a sradicarla dalle città che ha già conquistato in Siria, ma potrebbero impedire all’Isis di attaccare altre zone…..
Tutto ciò costituirebbe un notevole passo avanti e infonderebbe sicurezza e fiducia in aree oggi sotto il controllo dei ribelli moderati non jihadisti. Se poi a ciò si aggiungesse una politica di serio sostegno all’Esercito siriano libero (Fsa) in termini di armamenti, finanziamenti e addestramento militare………
Con un solido sostegno internazionale, e con bombardamenti aerei assicurati dagli Usa e da altri alleati, la coalizione guidata dall’FSA potrebbe riconquistare terreno.
E per la popolazione che vive sotto occupazione da parte dell’Isis (questa pioggia di bombe, ndr), se arrivasse, sarebbe gradita.
Un intervento aereo avrebbe oltretutto un impatto diretto sul regime di Assad… potrebbe portare anche alla tacita creazione di una no fly zone."
Pare che, a differenza delle benefiche bombe americane, le bombe di Assad abbiano effetti del tutto indesiderabili: con la no-fly zone invece…
"...l’aviazione di Assad non avrebbe la libertà di organizzarvi bombardamenti aerei e sganciare le cosiddette “bombe barile” sulle città che negli ultimi tre anni hanno sterminato migliaia di persone..."
quindi l’intervento Usa:
"... potrebbe consentire alle piccole città e ai paesini liberati di accedere a un maggiore livello di sicurezza, permetterebbe ai gruppi umanitari di intervenire con più libertà di movimento, e consentirebbe alle aree interessate di iniziare a ricostruire la vita sociale ed economica."
Un vero miracolo! Non sono bombe, è manna dal cielo. C'è da farsi venire l'invidia che non bombardano anche noi.

venerdì 14 novembre 2014

L’Europa di Draghi? ‘Solo attraverso le banche’

Gran parte delle misure intraprese (dalla BCE) può avere effetto sull’economia reale solo attraverso le banche’. Queste le parole con cui il Presidente della BCE Mario Draghi si è rivolto agli studenti. Parole che non potevano non provocare l’indignazione e le repliche degli studenti. E’ accaduto ieri a Roma, presso l’aula magna dell’Università degli studi ‘Roma Tre’, Facoltà di Economia, dove il Presidente si era recato per un breve intervento in occasione della celebrazione del centenario della nascita di Federico Caffè. Applausi a uno studente che alla fine del discorso del Presidente ha chiesto, seppur invano, di poter porre una domanda; solo alcuni minuti per esprimere quelle perplessità e preoccupazioni scaturite da un discorso come quello pronunciato da Draghi e alla luce della degradante situazione in cui versano gli atenei pubblici e la società tutta. Nel frattempo, fuori dell’edificio, un presidio di altri studenti in protesta per la sospensione dell’attività didattica per via dell’assurda chiusura della facoltà, blindata per il solo svolgimento della celebrazione.
L’Europa delle banche, il destino delle famiglie alla mercé dei meccanismi finanziari, il ‘fuggi fuggi’ delle istituzioni alla richiesta di dialogo da parte dei giovani. Questo non è propriamente ciò di cui hanno bisogno i giovani e in cui gli studenti vorrebbero riporre la propria fiducia, ‘quella fiducia che alla vostra età si cerca disperatamente’, come ha detto lo stesso Draghi ieri in aula magna. ‘Capacità di indignarsi per ciò che in questa realtà violava principi etici fondamentali’, ‘perentorio richiamo ad agire e insieme rimprovero per una accettazione passiva della realtà; cosa fare per porre rimedio alle disuguaglianze ma anche alle inefficienze: questa era la politica economica di Federico Caffè’, anche queste sono parole pronunciate ieri dallo stesso Draghi. Parole ‘condivise’ dagli studenti, indignati e non passivi, che si sono mobilitati ieri e che anche domani, 14 Novembre, scenderanno in piazza insieme a precari e lavoratori per lo Sciopero Generale Sociale.
Draghi fu allievo e laureando di Federico Caffè nel ’70, e proprio Caffè fu in quegli anni portatore, almeno in alcuni sui scritti, di una politica economica differente. Scriveva nell’86 a proposito degli obiettivi e punti fermi di chi si occupa di politica economica che si debbano considerare irrinunciabili: ‘gli obiettivi di egualitarismo e di assistenza che si riassumono abitualmente nell’espressione dello Stato garante del benessere sociale’ e ‘l’intervento pubblico (come) una funzione fondamentale nella condotta economica’. Sempre Caffè fu colui che paventò una probabile ‘germanizzazione’ e che in un articolo del ’45 sostenne: ‘mantenere su due piani distinti il problema tecnico della produzione e quello sociale dell’equa distribuzione significa praticamente lasciare insoluto quest’ultimo, come dimostra il fatto che la libertà dal bisogno, l’attenuazione delle disparità economiche individuali, l’uguaglianza nelle possibilità sono ancora oggi mete da raggiungere, pur essendo aspirazioni antichissime’.
La politica monetaria convenzionale sui tassi d’interesse, il famoso programma dell’OMT, le cosiddette misure non convenzionali e l’80% del credito nelle tasche delle banche, forse non sono propriamente frutto della lezione di Caffè che scrisse ‘contro gli incappucciati della finanza’. Una lezione che il suo allievo, ora Presidente della BCE, forse dovrebbe rileggere nei suoi appunti universitari.

giovedì 13 novembre 2014

Uova e manganellate sulle ricette di Draghi

Cresce il malumore contro le banche. E a pagarne le conseguenze nel pomeriggio di ieri è stato il presidente della Bce, Mario Draghi. Che a Roma ha incassato una buona dose di fischi. E pure qualche uova. Momenti di tensione si sono registrati all’università Roma Tre dove un corteo di studenti ha alzato il tiro proprio mentre Draghi partecipava ad un convegno. Un seminario che ha rischiato l’invasione in diretta dei manifestanti bloccati però dalle forze dell’ordine con relativi ed inevitabili scontri. Tanto per ribadire che mentre dentro ai palazzi si provano a studiare le contromosse per rialzare un’economia allo stremo, fuori c’è il popolo, quello che soffre. E che negli ultimi tempi tira fuori la rabbia.

A Roma Tre il presidente della Banca centrale ha voluto illustrare la ricetta per provare a tornare a galla. “La politica monetaria ha fatto e continuerà a fare la sua parte ma da sola non basta”, ha detto Draghi, “si pensi soltanto al fatto che gli investimenti privati nell’area dell’euro dal 2007 sono calati del 15% e quelli pubblici del 12%”. Altro capitolo toccato riguarda la politica e le riforme: “Occorre maggiore concorrenza, completamento del mercato unico europeo, misure che permettono ai lavoratori disoccupati di trovare rapidamente nuovi posti”. Tante le buone intenzioni. Ma il tempo dell’attesa sta davvero per scadere. Con la temperatura che sale sempre di più.

mercoledì 12 novembre 2014

L’EURO È PIÙ IN PERICOLO ORA CHE AL CULMINE DELLA CRISI

’Eurozona non ha mecccanismi di autodifesa contro una depressione prolungata.

Se c’è una cosa su cui i responsabili della politica europea concordano, è che la sopravvivenza dell’euro non è più in dubbio. L’economia non va alla grande, ma almeno la crisi è finita.

Mi permetto di dissentire. I responsabili politici europei tendono a valutare il pericolo sulla base del numero di riunioni fino a tarda notte nell’edificio Justus Lipsius di Bruxelles. Di queste, ce ne sono sicuramente meno. Ma è un metro di giudizio sbagliato.

Non ho la più pallida idea di quale fosse la probabilità di una rottura dell’euro durante la crisi. Ma sono certo che la probabilità oggi è più alta. Due anni fa coloro che fanno le previsioni speravano in una forte ripresa economica. Ora sappiamo che non è avvenuta e che non sta per accadere. Due anni fa, l’eurozona non era preparata a una crisi finanziaria, ma almeno i responsabili politici hanno risposto creando dei meccanismi per affrontare questa grave minaccia.

Oggi l’eurozona non ha alcun meccanismo di autodifesa contro una depressione prolungata. E, a differenza di due anni fa, i responsabili politici non hanno nessuna intenzione di creare un meccanismo del genere.

Come spesso accade nella vita, la vera minaccia può non arrivare da dove la si aspetta – dai mercati obbligazionari. I principali protagonisti oggi non sono gli investitori internazionali, ma gli elettorati insurrezionali che con grande probabilità voteranno per una nuova generazione di leader e sono maggiormente disposti a sostenere dei movimenti indipendentisti regionali.

In Francia Marine Le Pen, la leader del Fronte Nazionale, potrebbe vincere un ballottaggio con il presidente François Hollande. Beppe Grillo, il leader del Movimento Cinque Stelle in Italia, è l’unica alternativa credibile a Matteo Renzi, il presidente del Consiglio in carica. Sia la Le Pen che Grillo vogliono che i loro paesi escano dall’eurozona. In Grecia, Alexis Tsipras e il suo partito Syriza sono in testa ai sondaggi. Così anche Podemos in Spagna, con il suo formidabile giovane leader Pablo Iglesias.

La domanda per gli elettori nei paesi colpiti dalla crisi è: a quale punto diventa razionale uscire dalla zona euro? Potrebbero concludere che non è ora; potrebbero opporsi a una rottura per motivi politici. Ma il loro giudizio è soggetto a cambiare nel tempo, e dubito che stia diventando più favorevole, con l’economia che affonda sempre più nella depressione.

A differenza di due anni fa, ora abbiamo le idee più chiare sulla risposta politica a lungo termine. L’austerità rimarrà. Le politiche fiscali continueranno ad essere restrittive, con gli stati membri che dovranno obbedire alle nuove regole fiscali europee. Il “programma di stimoli” della Germania, annunciato la scorsa settimana, è quanto di meglio si potrà ottenere: lo 0,1% del PIL tedesco di spese addizionali, e non partirà prima del 2016. Godetevelo!

E la politica monetaria? Draghi ha detto che si aspetta di aumentare il bilancio della BCE di 1000 miliardi di euro. Il presidente della BCE non ha considerato questo numero un obiettivo esplicito, ma un’aspettativa – qualunque cosa ciò significhi. L’interpretazione più ottimistica è che ci sarà un piccolo QE con acquisto di titoli di stato. La visione più pessimistica è che non succederà nulla, e la BCE fallirà questo obiettivo così come sta fallendo il suo obiettivo di inflazione. Io mi aspetto che la BCE raggiungerà quell’obiettivo – e che questo non cambierà praticamente nulla.

E le riforme strutturali? Non dovremmo sovrastimare il loro effetto. Le riforme del lavoro e del welfare tedesco – così apprezzate – hanno reso la Germania più competitiva rispetto agli altri stati dell’eurozona. Ma non hanno aumentato la domanda interna. Applicate all’intera eurozona, il loro effetto sarebbe trascurabile, visto che non è possibile per tutti diventare più competitivi gli uni rispetto agli altri nello stesso tempo.

Due mesi fa, Draghi ha suggerito che la zona euro punti in tre direzioni contemporaneamente – politiche monetarie più espansive, un aumento degli investimenti del settore pubblico e le riforme strutturali. L’ho definito l’equivalente economico di bombardamento a tappeto. La reazione sembra più l’equivalente economico della Carica dei Seicento.

Queste delusioni in serie non ci dicono con certezza che l’eurozona andrà in pezzi. Ma ci dicono che una “stagnazione secolare” è molto probabile. Per me, ciò costituisce il vero metro di misura del fallimento.

martedì 11 novembre 2014

Macché patrimoniale, il lavoro rinasce con moneta sovrana

Finanziare la spesa pubblica con le tasse, magari una patrimoniale? Sbagliato due volte.
Primo, perché i grandi patrimoni sono finanziari, dunque volatili e sfuggenti. E soprattutto perché chiedere altre tasse significa rassegnarsi al sistema-truffa dell’emissione privatizzata del denaro: per uscire dalla crisi, infatti, basterebbero iniezioni di valuta sovrana a sostegno dell’economia reale, cioè posti di lavoro. Possibile che la sinistra sindacale non lo capisca? Purtroppo sì. Perché «il sindacato e gran parte della sinistra non hanno le basi culturali o la libertà di azione necessarie per poter imporre al dibattito pubblico, politico, sindacale, parlamentare, di trattare i veri temi nodali». Ovvero: «Come viene creato il denaro, da chi, a vantaggio di chi, con che diritto, con quali profitti, con quale tassazione su questi profitti». L’uscita dal tunnel è una sola: «Creazione di denaro direttamente da parte dello Stato, senza che lo Stato lo debba comperare dando in cambio titoli pubblici, cioè indebitandosi». Questo dovrebbero chiedere, Landini e Camusso, e con loro i quasi 5 milioni di italiani iscritti alla Cgil.

Secondo Della Luna, il pericolo è lo strapotere del capitale finanziario, cresciuto fino a 15 volte l’economia reale. Come? In due modi: autorizzando le banche a compiere azioni di pirateria speculativa e, prima ancora, concedendo ai mercati Marco Della Lunafinanziari di ricattare gli Stati mediante l’acquisto del debito pubblico, nel momento in cui – in Italia dagli anni ‘80 – si è vietato alla banca centrale di continuare a finanziare il governo, cioè i cittadini, emettendo moneta a costo zero. Ora, con l’euro, siamo all’incubo elevato a sistema. A tutto questo siamo giunti con l’inganno: «Celare all’opinione pubblica questi semplici termini del problema, fare in modo che non capisca o fraintenda ciò che si sta facendo, così da prevenire resistenze organizzate e poter continuare in questo processo di accaparramento della ricchezza, è un bisogno primario delle classi dominanti che lo hanno costruito e ne stanno beneficiando». Il nuovo compito della politica? Assicurarsi che le pecore siano tosate all’infinito, senza protestare.

Menzogne, disinformazione, minaccia, psicologia sociale della paura: «I mezzi a disposizione di una classe dominante per far accettare alle classi inferiori le crescenti diseguaglianze di ricchezza e di diritti sono molteplici». Primo: «Nascondere le diseguaglianze o le loro cause», e poi «farle sentire giustificate (dal merito, dalle leggi del mercato, dalla competitività, dalle capacità». Se non basta, si può «reprimere la protesta sociale attraverso strumenti giuridici e polizieschi». E poi «indurre paura, allarme, conflitti (shock economy, divide et impera». Si arriva così a «impiantare un paradigma divide-et-impera, in cui ognuno è imprenditore di se stesso e in competizione con gli altri», un ambiente nel quale «non può nascere consapevolezza di classe e di conflitto». Si tratta di «abituare la gente, gradualmente, a nuove condizioni peggiorative». Il nuovo standard, la diseguaglianza “fisiologica”, «ha già prodotto riforme che la sanciscono e recepiscono anche sul piano formale e giuridico in Christine Lagarde e Mario Draghitermini di sottoposizione, mediante trattati internazionali e riforme interne, dalla sfera politica, pubblica, partecipativa a quella finanziaria, privata, capitalistica».

Estinto l’interesse pubblico, resta solo quello affaristico privato. Un risultato politico epocale, al quale si è arrivati grazie a una poderosa pedagogia della menzogna, attraverso cui depistare l’opinione pubblica dalle vere cause della crisi. L’economia reale soffre per mancanza di credito e liquidità? Anziché emettere l’ossigeno della valuta, le autorità monetarie hanno inculcato la fobia delle bolle finanziarie come alibi per chiudere i rubinetti. I soldi – tanti, a tassi bassissimi – li hanno dati solo alle banche, per le speculazioni finanziarie e l’acquisto di derivati. E’ lo schema del “quantitative easing” angloamericano e della Ltro, “long term refinancing operation”, della Bce. «Il risultato voluto era prevedibile, previsto, ed è puntualmente arrivato: praticamente pochi o nulli benefici per l’economia reale». Tutti colpevoli, dai ministri delle finanze al Fmi, dai banchieri centrali all’Ue: perché si rifiutano di creare moneta destinata all’economia produttiva? «Ovvio: perché quest’operazione da un lato avrebbe successo, farebbe ripartire l’economia, e si capirebbe che tutto gira intorno a chi ha il potere esclusivo di creare moneta». Il sostegno monetario all’economia reale toglierebbe ai banchieri «il loro potere monopolistico sulle società, smascherando al contempo il loro comportamento essenzialmente distorsivo, antisociale e parassitario».

Questo è il disastro da cui discende la cosiddetta crisi. E invece «si è raccontato alla gente che è la spesa pubblica, la spesa per il settore pubblico, ciò che costituisce il problema, il male dell’economia, e che quindi bisogna tagliare servizi pubblici, privatizzare, vendere i beni collettivi, licenziare i pubblici dipendenti, aumentare le tasse cioè fare la cosiddetta austerità, nascondendo così la vera causa del dissesto dei conti pubblici». In realtà sono stati i banchieri che «hanno usato i conti pubblici, cioè i governi, per chiudere i buchi da loro stessi scavati a fini di profitto privato». In Italia è successo col Monte dei Paschi di Siena. Ma la tragedia a monte è la progressiva scarsità di moneta a partire dal 1981, storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia. Da allora, «i detentori del debito pubblico italiano sono principalmente soggetti finanziari». Nuove tasse? Ci provò Camusso e LandiniMonti, tagliando le gambe al settore immobiliare provocandone il crollo, determinante per la cronicizzazione della recessione. E oggi sono i sindacati che chiedono altre tasse per uscire dal tunnel?

L’atteggiamento della sinistra sindacale, benché giustamente motivato dalla rabbia sociale contro le palesi diseguaglianze alimentate dal governo Renzi, non aiuta a risolvere il problema. «Tutto questo insieme di menzogne e di false rappresentazioni della realtà, somministrato in modo martellante al popolo, serve a fargli accettare una politica tributaria e finanziaria che consente di trasferire sempre più denaro dal contribuente e dalla spesa per la società alle tasche di banchieri e finanzieri attraverso sia gli interessi sul debito pubblico, che gli aiuti di Stato alle banche, che gli stanziamenti multimiliardari in favore di organismi di sostegno alle banche come il Mes», conclude Della Luna. «In sostanza, quindi, lo schema politico è il seguente: compiere operazioni che generano profitto e instabilità; alimentare l’instabilità e usarla per creare allarme sociale; dare di questa situazione una falsa spiegazione alla gente, che la disponga ad accettare non solo i peggioramenti avvenuti, ma anche ulteriori sacrifici in termini sia economici che di diritti anche politici, come necessari per evitare il disastro; usare questi sacrifici per arricchirsi ulteriormente». Ecco perché l’oligarchia si oppone all’unica possibile soluzione democratica: libera emissione di moneta pubblica per sostenere il sistema economico, aziende e posti di lavoro.

lunedì 10 novembre 2014

Il sovraindebitamento degli Stati: una strategia della elite finanziaria già attuata in America Latina

Se andiamo ad analizzare la storia degli ultimi 40 anni, possiamo facilmente accorgerci che determinate situazioni , verificatesi in varie parti del mondo, tendono a ripetersi. Non per nulla un grande storico italiano, Gian Battista Vico, storico e filosofo del XVII secolo, aveva esposto una sua teoria dei cicli storici o dei “corsi e ricorsi storici”, che, a nostro modesto parere, si potrebbe ben applicare anche alla storia economica dell’ultimo secolo.

Se consideriamo quello che sta accadendo in Europa in questa fase della sua Storia e paragoniamo questa situazione di grave crisi economica e di forte indebitamento degli Stati europei con quanto accaduto in America Latina nella decade degli anni ’80, sembra inevitabile trovare delle impressionanti analogie.

Qualora si volesse verificare quale sia stata la condotta dei grandi organismi internazionali quali il FMI , la Banca Mondiale, nonchè le grandi banche internazionali, si potrà facilmente comprovare che le strategie, le fasi e persino la terminologia che furono teorizzate in quell’epoca (fine anni ’80) nella crisi economica e finanziaria in cui furono coinvolti quasi tutti i paesi dell’America Latina, coincidono esattamente con quelle che attualmente vengono utilizzate per le nazioni del Sud Europa.

In una prima fase della crisi, in America Latina, esisteva una momentanea carenza di liquidità che spingeva i governi di quei paesi a richiedere nuovi prestiti e finanziamenti per lo sviluppo a detti organismi internazionali dai quali venivano concessi ( con interessi sempre più alti) per rifinanziare i debiti degli stati. Nello stesso tempo i medesimi organismi richiedevano ai governi che accedevano a quei finanziamenti, di ottemperare ad alcune condizioni basilari che essenzialmente consistevano nel procedere a varare riforme ed “aggiustamenti strutturali “delle loro economie, riforme che quasi sempre includevano programmi di riduzione della spesa pubblica e privatizzazioni del patrimonio nazionale (società minerarie, aziende di stato, impianti di raffinazione, ecc.) e dei servizi pubblici.

Trascorsi circa trenta anni da quell’epoca, verifichiamo che la stessa situazione e gli stessi meccanismi, nel contesto europeo, che vengono applicati in Europa ed in particolare in paesi come la Grecia, il Portogallo, la Spagna, l’Irlanda e l’Italia. In questi paesi l’applicazione di queste ricette ha portato all’attuazione di programmi di deflazione e di svalutazione interna dei salari e dei patrimoni (immobiliari) dovuti alle politiche di austerità ed al vincolo della moneta euro che può essere facilmente paragonata al vincolo che i paesi latino americani avevano con il dollaro, trattandosi in entrambi i casi di una moneta straniera che viene ottenuta in prestito dietro interessi dal cartello bancario per finanziare la spesa pubblica degli Stati.

Nel corso degli anni, gli stessi dirigenti dell’FMI, uno dei principali organismi che erogavano i finanziamenti dietro condizioni capestro, hanno fatto autocritica riconoscendo ,dopo molto tempo, che “si erano sbagliati”, nell’individuare il principale problema della mancanza di liquidità quando invece, hanno detto, questo era nella insolvenza dei governi di quei paesi (incapacità di fare fronte al debito). In realtà vari analisti oggi osservano che non si è trattato di un errore ma piuttosto di una strategia ben calcolata che cerca, in una prima fase della crisi, di garantire i creditori, costituiti come il “ cartello bancario”. Questo è successo in America Latina e succede oggi nella periferia europea. Il problema è che, una volta consolidati debiti con i creditori, si deve fare fronte al vero problema che consiste nel sovra indebitamento degli Stati, secondo l’analisi dei principali esperti economici.

Questo sovra indebitamento potrebbe portare in una seconda fase della crisi ad uno scenario di remissione di parte del debito o di un concordato con gli organismi finanziari, quando si accerta la sostanziale impossibilità di procedere al pagamento parziale o totale del debito.

A questo punto il problema, come è accaduto in America Latina, esula dalla sfera esclusivamente economica e finanziaria e diventa un problema politico. La decisione di arrivare ad una remissione o concordato sul debito diventa una pesante arma di ricatto di cui dispongono i governi che dirigono il gioco finanziario ( in pratica il governo USA e della Gran Bretagna) quello della creazione del denaro e delle leve finanziarie, mediante il quale il paese debitore viene assoggettato ad uno status di tipo neocoloniale, con un governo fantoccio pilotato da Washington e dalla elite finanziaria che fa capo agli organismi internazionali, un governo sottoposto alla subordinazione verso gli USA e verso l’elite finanziaria, ottiene i finanziamenti di cui necessita ma si sottopone alle “cure interessate” di una equipe di esperti economisti” che hanno il compito di trascinare il paese fuori dal suo avvitamento finanziario ed omologarlo ai grandi mercati internazionali. Questa fu la storia di paesi come il Perù, l’Argentina, la Bolivia, la Colombia, il Salvador, il Guatemala e molti altri.

Superfluo rilevare che le grandi banche e gli organismi finanziari internazionali lucrano un enorme importo di interessi sull’indebitamento degli Stati e riescono a controllare il sistema finanziario e l’economia di questi paesi che viene collegata con le grandi multinazionali che intervengono nelle acquisizioni del patrimonio pubblico mediante i processi di privatizzazione.

Nella norma l’indebitamento degli Stati si accompagna a situazione di crescente povertà e sfruttamento delle popolazioni che vedono diminuire il loro livello salariale, bruciare i risparmi e crescere la dipendenza economica dalle grandi società straniere presenti nel territorio, in contrasto con la ricchezza ed i privilegi detenuti da una ristretta oligarchia di affaristi e speculatori che fa capo al governo ed ai circoli economici che collaborano con i poteri dominanti.

Le analogie fra la situazione vissuta dai paesi dell’America Latina con quella che vivono attualmente i paesi delle periferia europea sono quindi impressionanti: tutti i paesi sono sottoposti alla stessa egemonia finanziaria e politica in un mondo globalizzato. La differenza sostanziale si può trovare nel fatto che, mentre nel continente latino americano di volta in volta vi è stata necessità di ricorrere a colpi di Stato e rovesciamento di governi per ottenere in un singolo Stato che ci fosse una giunta di governo al potere perfettamente allineata alla volontà della potenza dominante, gli Stati Uniti, in Europa questo non è stato necessario poiché si sono creato una serie di organismi nell’ambito dell’Unione Europea che hanno fatto per conto proprio il “ lavoro sporco” della elite finanziaria dominante, sottraendo agli Stati nazionali le sovranità essenziali (da quella monetaria a quella normativa sulle questioni essenziali) mediante i trattati sottoscritti da governi asserviti agli interessi della elite, creando una uniformità di vincoli che hanno poco a poco svuotato ogni capacità di reazione delle popolazioni, condizionate da una enorme macchina della manipolazione attraverso i media controllati.

Anche in questo caso le politiche di austerità attuate dai governi per conto della UE hanno portato al crollo dei salari , disoccupazione, aumento della fascia di popolazione povera, affossamento della classe media, chiusura di migliaia di piccole e medie imprese a vantaggio delle grandi multinazionali e dei gruppi della grande distribuzione.

Il risultato ,nei paesi del sud Europa, in definitiva è stato lo stesso: indebitamento degli stati grazie al sistema dell’euro, cioè della moneta straniera presa a prestito dietro interessi, interessi da corrispondere su un debito che diventa sempre più impagabile, svuotamento di ogni sovranità e di autonomia dei singoli stati, processi di privatizzazione giù in corso o da attuare a breve, smantellamento della struttura industriale nazionale a favore delle grandi multinazionali (e dell’industria tedesca) a cui vengono aperte le porte del mercato europeo. A questo si deve aggiungere la subordinazione alle politiche egemoniche degli USA ed integrazione con la struttura militare NATO anche per i paesi dell’Est Europa che ne erano riamasti fuori.

La subordinazione agli USA è divenuta ancora più evidente, nel caso delle sanzioni alla Russia per la crisi ucraina, per cui gli stessi paesi europei hanno dovuto, dietro pressioni americane, ottemperare ad una direttiva partita da Washington che risulta lesiva dei propri interessi economici. Salvo qualche singola “resistenza” alle pressioni USA da parte dell’Ungheria, repubblica Ceka e dalla Slovacchia, i paesi più esposti.

Alcuni paesi dell’America Latina, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio della decade del 2000, con un percorso sofferto, sono riusciti ad affrancarsi in parte o in tutto, dalla subordinazione neo coloniale agli interessi dell’impero USA e del sistema finanziario internazionale: vedi il Venezuela, l’Argentina, la Bolivia, l’Ecuador, l’Uruguay, il Nicaragua, ed altri, riuscendo anche a creare degli organismi di cooperazione economica mutua ed appoggiandosi agli investimenti ed al supporto della emergente potenza della Cina, vista come alternativa agli USA.

Nel caso dei paesi europei nulla di tutto questo si vede ancora ma al contrario l’Unione Europea tramite, la BCE, il FMI ed altri organismi, sta studiando nuovi trattati e nuovi sistemi finanziari sofisticati per consolidare e il debito dei paesi più esposti sottraendolo totalmente alla potestà dei governi ed a maggiore garanzia dei creditori.

In definitiva la strategia del sovraindebitamento si rivela sempre più come funzionale agli interessi della Elite finanziaria ed al mantenimento dell’egemonia di Washington sull’Europa. I paesi indebitati sono più facilmente controllati e ricattati.

Il paradosso sta nel fatto che gli europei, con tanti secoli di storia e di cultura, per scrollarsi da dosso il dominio dell’impero americano ed il percorso verso il NWO, dovrebbero avere la capacità di ispirarsi e di fare tesoro dell’esperienza dei latinos, quelli che una volta erano colonie dell’impero spagnolo e portoghese

venerdì 7 novembre 2014

La guerra dell’Ue contro la nostra civiltà democratica

L’attuale guerra condotta con mezzi commerciali e finanziari sta trasformando l’Ue nel più grande esperimento di riduzione dei diritti umani. Il tema più dibattuto e complesso è quello sullo status dei diritti sociali nell’odierna Europa: si è passati lentamente dalla concezione che le esigenze di protezione sociale potessero costituire sviluppo e potenziamento delle libertà individuali, all’ideologia ultraliberista del “s’aiuti dunque chi può”, tipico pensiero spietato delle classi privilegiate nei riguardi delle classi povere. La polarizzazione della ricchezza e lo svuotamento della classe media ha portato con sé una guerra accanita nella quale i più forti schiacciano inesorabilmente i deboli e gl’inesperti. Gli uomini, senza unità di scopo, guidati dal solo dogma della legge di mercato, vengono manipolati verso il progetto europeo e parallelamente verso una progressiva degradazione strutturale del rango e dell’orgoglio delle nazioni aderenti ad esso.

Il dissidio tra democrazia costituzionale italiana e trattati Ue è del tutto evidente, se si analizza il modello sociale ed economico che la Costituzione Nuovi poveriitaliana ha indubbiamente abbracciato nel modello del 1948. Il dovere alla solidarietà, considerato come “base della convivenza democratica”, viene completamente disatteso dall’impianto europeo, in particolar modo in quella che è stata la gestione della crisi economica dal 2008 in poi: comunità nazionali deprivate delle conquiste economico-sociali di oltre un secolo di lotte, con una subdola gradualità che non deve consentirgli di accorgersene in tempo utile (attraverso meccanismi infernali di controllo totalizzante ed anti-democratico come la Troika). La competizione inevitabile e programmatica tra Stati aderenti all’Unione esclude la solidarietà tra i membri: economie di interi Stati si stanno completamente dissolvendo in nome dell’irrazionale equazione Ue = euro, rendendo schiave generazioni di popoli a cui si predicano “i diritti civili”, non consentendo loro di esercitare diritti politici e sociali.

Allo sfaldamento della base economica dello Stato democratico italiano corrisponde dunque un’accelerazione della perdita di diritti in toto, che è pericolosamente derivante dall’originaria incompatibilità del disegno di Maastricht coi principi fondamentali della nostra democrazia costituzionale. Le “riforme” pretese dal “cammino di convergenza”, che si è ormai trasformato in un campo di macerie da Berlino ad Atene, non sono altro che il mezzo per accelerare irreversibilmente la caduta del modello socio-economico costituzionale per l’instaurazione dell’impianto ordoliberista, che esclude totalmente la solidarietà e la centralità della persona umana.

lunedì 3 novembre 2014

Stefano Cucchi. Il "garantismo" dei feroci e le prove sparite

Non c'è limite alla ferocia, è risaputo. Le prese di posizione dopo la sentenza d'appello sull'uccisione di Stefano Cucchi stanno facendo salire a galla i liquami mentali peggiori. Sempre esistiti, naturalmente, ma per alcuni decenni confinati al "foro interno" o alla pelosa omertà tra "colleghi".
Prendiamo quest'altro sindacatino corporativo di polizia, che evidentemente ha temuto di essere scavalcato a destra dal Sap.
 Il suo segretario, Franco Maccari, ha emesso la dichiarazione che segue:

« Basta con questa illogica ed insostenibile ricerca del colpevole ad ogni costo, perché a dire la vera verità le morti realmente violente che oltre tutto non hanno trovato giustizia né responsabili a cui far pagare il conto sono ben altre. Basta con questa non più sopportabile cantilena dell'inspiegabilità di un evento sia pur triste e luttuoso, se si vogliono sondare le ragioni di certe sciagure si guardi prima di tutto altrove, magari in famiglia». «È ora che le persone che normalmente cercano attorno a sé i capri espiatori per spiegare tutto quello che non funziona nella loro vita comincino ad assumersi le proprie responsabilità».

La prosa è scomposta in modo imbarazzante, ma il senso si capisce egualmente. In pratica, dopo un appello al necessario "garantismo" ("Basta con questa illogica ed insostenibile ricerca del colpevole ad ogni costo"), il signore in questione ripete quel che già aveva detto il Sap (Stefano Cucchi sarebbe morto perché tossicodipendente, non perché pestato dalle guardie e mal soccorso dai sanitari), aggiungendovi quel "tocco personale" utile a farsi notare di più: "se si vogliono sondare le ragioni di certe sciagure si guardi prima di tutto altrove, magari in famiglia"

La sequenza logica - riconosciamo che scomodare la logica può sembrare eccessivo - è dunque la seguente: Cucchi è morto perché si drogava, e se si drogava è colpa della famiglia, noi sbirri non c'entriamo niente. Anzi, non ci sono neanche dei "colpevoli da cercare". Punto e basta.

Quindi, quel corpo stracolmo di lividi non starebbe ad indicare - su questo ci sono certezze sia giudiziarie che mediche  un pestaggio selvaggio "ad opera di ignoti" (comunque agenti delle varie polizie che lo hanno avuto in custodia finché era in vita, in quanto detenuto), ma soltanto imprecisati "problemi familiari". Non consiglieremmo a nessuno di rivolgersi a uno psicologo formato in questa scuola di pensiero...

Ma lasciamo da parte la pretesa di esercitare liberamente la ferocia sui prigionieri più deboli (qualcuno ha mai sentito parlare di botte in carcere a Totò Riina?), e ritorniamo per un attimo sulla sentenza d'appello.

Il presidente della Corte d'Appello di Roma, Luciano Panzani, ha chiesto di fermare la "gogna mediatica" dei giudici sotto la sua direzione, responsabili dell'assoluzione generale degli imputati, perché:

«Il giudice penale deve accertare se vi sono prove sufficienti di responsabilità individuali e in caso contrario deve assolvere. È quello che i miei giudici hanno fatto anche questa volta».

Nulla da eccepire in linea di principio. Però. Senza voler mettere alla gogna i giudici d'appello, tutta la vicenda processuale sull'uccisione di Stafano Cucchi è giudiziariamente e amministrativamente uno scandalo.

Vediamo perché. Stefano Cucchi era detenuto. L'amministrazione penitenziaria conosce gli "stati di servizio" di tutti gli agenti entrati in contatto con Stefano in ogni ora della sua detenzione (peraltro breve, nel periodo che ha preceduto la morte; insomma, non è un'indagine troppo complicata da fare). Altrettanto vale per l'amministrazione dell'ospedale Pertini, che oltretutto ha dedicato un piccolissimo reparto isolato proprio al trattamento dei detenuti; pochi medici e pochi infermieri, insomma. E anche qui con orari, date, firme sulle cartelle cliniche, medicinali somministrati, analisi e interventi effettuati, ecc.

Qualcuno potrebbe ricordare l'ipotesi che Stefano sia stato picchiato nelle celle d'attesa del tribunale di Roma. Ma anche in questo caso hanno avuto a che fare con lui soltanto carabinieri e agenti di polizia penitenziaria. Di cui l'Arma e l'amministrazione penitenziaria conoscono nomi, orari di servizio, turni, rapporti.

Cosa vogliamo dire? Che in un "ambiente chiuso" e totalmente controllato come un carcere, comprese le limitate "uscite autorizzate" (tribunale e ospedale), non c'è un solo attimo in cui Stefano - come ogni altro detenuto - non sia stato tenuto sotto osservazione. E non c'è "osservatore" che non sia stato a sua volta registrato in ogni attimo.

Ammettiamo dunque, per ipotesi, che i giudici d'appello abbiano le loro ragioni, e non ci siano negli atti sufficienti prove per condannare quei nomi che dovevano giudicare. Ma se i "nomi giusti" o le prove non vengono fuori è perché le amministrazioni di controllo - Ministero di grazia e giustizia e arma dei carabinieri, in primo luogo - si rifiutano di metterli integralmente a disposizione degli inquirenti. Fin dal giorno in cui è stata aperta l'inchiesta.

E nessuno può dire che queste amministrazioni - per potere e pratica storica - non siano in grado di "inquinare le prove".

E' del resto questa la domanda fondamentale che sta ponendo la famiglia di Stefano: "la Procura di Roma ha fatto davvero tutto per raggiungere la verità? e, se ha trovato ostacoli, da quale parte sono stati posti?

Domani mattina, lunedì, tutta la famiglia Cucchi - padre, madre e sorella - si presenterà davanti alla procura di Roma con maxi-cartelloni raffiguranti Stefano. "Andremo solo noi tre - ha detto Ilaria - senza alcun sit-in, presidio o altro. Vogliamo far vedere come Stefano è morto e le condizioni con le quali ce lo hanno riconsegnato".

Chiederanno anche un incontro col Procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone (arrivato soltanto nel 2012, molto dopo i fatti e la prima inchiesta). "Voglio chiedere al dottor Pignatone - dice Ilaria - se è soddisfatto dell'operato del suo ufficio, se quando mi ha detto che non avrebbe potuto sostituire i due pm che continuavano a fare il processo contro di noi, contro il mio avvocato, e contro mio fratello, ha fatto gli interessi del processo e della verità sulla morte di Stefano".

La famiglia Cucchi, infatti, prepara un'azione legale nei confronti del ministero della Giustizia, presumibilmente per la "scarsa collaborazione" offerta durante le indagini e in ogni caso per "responsabilità oggettiva".

L'avvocato Fabio Anselmo ha spiegato infatti che "intraprenderemo anche un'azione legale nei confronti del ministero affinché si possa riconoscerne la responsabilità rispetto alla morte di Stefano". Secondo la difesa, da entrambi i processi emergerebbe che comunque un pestaggio nelle celle del Tribunale c'è stato e quindi si chiama ora in causa il ministero della Giustizia affinché riconosca la sua responsabilità dal punto di vista di un risarcimento danni.

L'altro passo sarà un ricorso alla Corte Europea dei diritti dell'uomo.