venerdì 28 giugno 2019

Per un salario minimo dignitoso, contro lavoro povero e sfruttamento

Al Senato è in discussione un disegno di legge, di iniziativa del Movimento 5 Stelle e a prima firma della senatrice Nunzia Catalfo, che mira ad introdurre un salario minimo orario in Italia, uno dei pochi paesi europei ancora sprovvisti di una legge che fissi una soglia minima alle retribuzioni. Secondo i promotori, il disegno di legge darebbe piena attuazione all’articolo 36 della Costituzione, che stabilisce che ciascun lavoratore ha diritto a una «retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».
Il disegno di legge è suscettibile di essere modificato anche radicalmente attraverso gli emendamenti che già sono stati o saranno proposti dai parlamentari. Nonostante ciò, è interessante analizzare la discussione nata attorno alla proposta Catalfo, i vantaggi che potrebbero derivare dall’introduzione di un simile istituto nel nostro Paese e le eventuali insidie per i lavoratori che questo disegno di legge nasconde.
Ma cosa prevede questa proposta? In estrema sintesi, in base al dettato del disegno di legge (articolo 2), affinché si possa parlare di retribuzione complessiva proporzionata e sufficiente, il trattamento economico complessivo, proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, non deve essere inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni, il cui ambito di applicazione sia maggiormente connesso e obiettivamente vicino in senso qualitativo all’attività svolta dai lavoratori anche in maniera prevalente e comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali.
Questa definizione, così come i rimanenti articoli del disegno di legge, presenta dei punti discutibili. Da un lato, la proposta depositata al Senato sembra offrire preziose sponde che potrebbero rivelarsi utili per conquistare maggiori tutele per i lavoratori, in particolare con riferimento ai cosiddetti ‘lavoratori poveri’, ossia quelli caratterizzati dai salari più bassi.
Tuttavia, la vaghezza di alcuni punti del disegno di legge, unitamente al fatto che in esito al dibattito in corso al Senato la proposta attuale potrebbe essere sostanzialmente modificata, ci porta a guardare con attenzione anche alle possibili insidie del provvedimento: non ci si può fidare ciecamente di un partito, il Movimento 5 Stelle, che ha sistematicamente voltato le spalle ai lavorato risulle questioni fondamentali, dalla Legge Finanziaria, che doveva abolire la povertà e invece ha inflitto ulteriori dosi di austerità all’economia italiana, alle più piccole ma significative battaglie intorno al Decreto Dignità, che ha tradito i riders, esclusi da un provvedimento sorto a partire dalle loro rivendicazioni, e che sembra disegnato in modo tale da poter essere aggirato, come dimostra il recente contratto collettivo nazionale dei lavoratori del cemento.

Il salario minimo orario: un concetto che spaventa il capitale

È interessante, però, in primo luogo, concentrarci sulle reazioni scandalizzate che questo disegno di legge ha suscitato e continua a suscitare tra economisti, giuslavoristi, politici e imprenditori. Naturalmente, i soggetti elencati sostengono tutti di essere preoccupati per le conseguenze negative che la legge sul salario minimo potrebbe avere sul sistema produttivo italiano e per le ricadute che esso comporterebbe sull’occupazione. La realtà, però, è ben diversa.
A preoccuparsi per quel che potrebbe succedere se fosse approvata la legge sul salario minimo è, in primo luogo, un economista del lavoro dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), Andrea Garnero. Durante un’audizione alla Camera, Garnero ha sottolineato che uno dei principali “problemi” del disegno di legge Catalfo risiede nel fatto che il salario minimo orario lordo complessivo fissato a 9 euro sarebbe troppo alto, addirittura «il più elevato tra i Paesi Ocse» e più alto «anche della maggioranza dei contratti collettivi esistenti».
Non poteva mancare, tra le voci critiche, l’economista ed ex presidente dell’INPS, Tito Boeri. Anche per lui, e non poteva essere altrimenti, bisogna stare attenti a non imporre un livello troppo alto del salario minimo. La ragione è presto spiegata: secondo Boeri, «l’elasticità della domanda di lavoro al salario fissato dalla contrattazione è molto elevata: […] con un 10% di aumento del salario, l’occupazione si riduce del 10 per cento. E chi perde il lavoro in questi casi sono i giovani, le donne e i lavoratori precari, le fasce meno protette. Bene quindi che la politica smetta di sparare numeri a caso». In pratica Boeri ci dice che un aumento del salario dei lavoratori più poveri costringerebbe le imprese a licenziarne una parte: i lavoratori poveri, insomma, devono restare tali perché altrimenti diventano troppo costosi per le aziende.
Alle critiche al salario minimo orario si associa anche il centrosinistra. A distinguersi è Cesare Damiano, ex Ministro del lavoro ed ex deputato del PD. Anche per lui, naturalmente, il problema principale sta nel fatto che il salario minimo a 9 euro è decisamente troppo elevato. Le conseguenze, dal suo punto di vista, potrebbero essere disastrose. Non solo potrebbe essere minato il ruolo della contrattazione collettiva, ma, addirittura, si rischia di «indurre i lavoratori delle categorie più alte a rivendicare aumenti salariali tali da ripristinare le distanze parametrali originali». Una corsa al rialzo dei salari: l’apocalisse, in pratica.
Manco a dirlo, a fare eco a Damiano ci pensa Confindustria. L’organizzazione padronale si dice fortemente preoccupata per il «vulnusall’autonomia negoziale collettiva». Certo, ci sarebbe una leggerissima preoccupazione anche per l’aumento dei costi che ne deriverebbe, ma naturalmente questo è un problema residuale. Che interesse avrebbe Confindustria a osteggiare un aumento dei salari?
Ma a schierarsi contro la legge sul salario minimo, nonostante le recenti aperture, che avevano fatto pensare a una rapida approvazione del disegno di legge, è addirittura l’alleato di governo dei Cinque Stelle, ovvero la Lega. E lo fa per bocca del viceministro dell’Economia Massimo Garavaglia, che si dice preoccupato in quanto «l’unica cosa che non si può fare in questo momento è aumentare i costi alleaziende» e invita, in sostanza, a rinunciare a una misura che, ancora sue testuali parole, «è stata bocciata da tutto il mondo economico».
Da questa breve carrellata si trae, dunque, l’impressione che la proposta Catalfo sia osteggiata da un variopinto carosello di personaggi ragionevoli e rispettabili, per ragioni prettamente umanitarie. Eppure, il sospetto che alcuni di questi venerabili pensatori e statisti abbiano interessi diretti affinché i salari restino quelli che sono potrebbe emergere.
È il caso, ad esempio, di Confindustria. È chiaro che l’organizzazione dei padroni ha tutto l’interesse a osteggiare un aumento dei salari reali, per evitare una riduzione dei margini di profitto per i suoi iscritti. Allo stesso modo, non ci può sorprende la posizione di Garavaglia, il quale rappresenta un partito, la Lega, che ha come classe di riferimento l’imprenditoria settentrionale, la quale, per le stesse ragioni di Confindustria, non può non vedere come fumo negli occhi un aumento dei salari reali.
Altrettanto comprensibili diventano, dunque, le lagnanze dell’OCSE, che è una delle tante organizzazioni internazionali che ha sempre raccomandato l’adozione di quelle politiche neoliberiste che hanno comportato la precarizzazione del lavoro, la progressiva riduzione delle tutele e un deciso rallentamento nella crescita dei salari, a tutto vantaggio dei profitti dei capitalisti. Come potremmo, inoltre, non notare la coerenza del PD? Il partito al quale appartiene Cesare Damiano non fa altro che continuare a svolgere il ruolo di solerte esecutore materiale dei provvedimenti imposti dalle istituzioni finanziarie internazionali e dall’Unione Europea.
Va, peraltro, sottolineato che non solo i soggetti che abbiamo elencato lavorano alacremente per garantire che lo sfruttamento dei lavoratori continui senza soluzione di continuità, ma le argomentazioni che i figuri in questione utilizzano sono tutt’altro che scientifiche. L’idea che un aumento dei salari possa portare a una riduzione della quantità di lavoratori che le imprese sono disposte ad assumere poggia sulla credenza che il numero di lavoratori che le imprese assumono sia tanto minore quanto maggiore è il salario reale.
In altri termini, ogni aumento del salario reale comporterebbe una riduzione del numero dei lavoratori impiegati dagli imprenditori, in quanto questi ultimi, ad esempio, preferirebbero utilizzare tecniche di produzione che utilizzano più macchine e meno lavoratori. Che il comportamento delle imprese sia questo non è iscritto nelle tavole della Legge. L’idea che vi sia un’elevata sostituibilità tra lavoratori e macchine è ritenuta, da molti economisti, infondata teoricamente ed empiricamente.
Non viviamo, però, nel mondo degli unicorni. Ci sono certamente dei casi in cui un aumento dei salari reali può provocare una riduzione nel numero di occupati. Uno di questi casi è quello in cui gli imprenditori sono liberi di spostare i capitali laddove i salari sono più bassi. È il caso in cui, in breve, le imprese sono libere di delocalizzare: nessuna sostituzione tra lavoratori costosi e macchine convenienti, ma una semplice sostituzione tra lavoratori pagati degnamente e lavoratori pagati indegnamente. In questo caso, è certamente vero che un aumento dei salari può portare a una fuga di capitali. Esistono, però, diverse alternative alla resa delle classi subalterne al ricatto occupazionale, che impone ai lavoratori di accettare condizioni di lavoro sempre peggiori se vogliono mantenere il proprio posto di lavoro.
Una di queste alternative consiste nel lottare contro le politiche di liberalizzazione dei movimenti di capitale e contro le politiche neoliberiste che hanno reso i lavoratori sempre più ricattabili, in quanto eternamente precari. Ancora, l’alternativa è quella di perseguire la piena occupazione attraverso la spesa pubblica finanziata in deficit. Per farlo, però, è necessario liberarsi dell’austerità e dei vincoli iscritti in maniera indelebile nei trattati che regolano il funzionamento dell’Unione Europea e della zona euro.
Non è l’aumento del salario in sé, quindi, a causare una riduzione dell’occupazione. Sono le regole istituzionali, alle quali molti stati europei hanno felicemente aderito, a creare le condizioni affinché i lavoratori debbano scegliere se essere lavoratori poveri o semplicemente disoccupati. Se vogliamo davverorimettere al centro la dignità e il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, dobbiamo liberarci di queste regole per perseguire la piena occupazione e l’aumento dei salari.

Verso una legge sul salario minimo: le possibili insidie

L’idea di fissare un salario minimo, dunque, è tutt’altro che sbagliata. Sono tante però le insidie che si nascondono nel lungo percorso che ci separa dall’attuale formulazione della proposta Catalfo, vaga su molti punti chiave, alla sua concreta realizzazione.
In primo luogo, la legge non può limitarsi a fissare il salario minimo a 9 euro lordi. Se l’obiettivo è quello di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori non si può, ad esempio, non prevedere un meccanismo di indicizzazione del salario minimo all’andamento dei prezzi. In altri termini, bisogna prevedere che se ogni anno i prezzi aumentano (ad esempio) del 2 per cento, anche il salario minimo deve aumentare del 2 per cento, per mantenere costante il potere d’acquisto che con il salario minimo orario si sostiene di voler garantire. Attualmente, il disegno di legge M5S all’esame del Senato prevede una forma di indicizzazione soltanto nel caso previsto dall’articolo 4, nel quale si regolamentano i casi in cui manchino i contratti collettivi applicabili previsti nella definizione di salario minimo dell’articolo 2.
Altro argomento delicato è quello dei cosiddetti minimi tabellari. Il minimo tabellare (detto anche “paga base”) rappresenta il compenso minimo spettante al lavoratore dipendente in base al contratto collettivo di categoria applicabile e all’inquadramento del lavoratore. I minimi tabellari sono aggiornati periodicamente e vengono riconosciuti a tutti i lavoratori ai quali viene applicato un certo contratto collettivo nazionale.
La paga base, come suggerisce la locuzione, costituisce, però, soltanto una parte della retribuzione del lavoratore. Vi sono altri elementi, detti accessori ed integrativi, come i cosiddetti superminimi (una parte ulteriore della retribuzione, che può essere stabilita dai contratti collettivi aziendali oppure erogato alla singola persona, anche tramite i contratti individuali, in considerazione di particolari meriti del lavoratore) e gli scatti di anzianità (aumenti periodici della retribuzione stabiliti nel contratto applicabile). Tra gli elementi accessori vi sono anche gli straordinari, i bonus aziendali, le gratifiche ordinarie (come la tredicesima) e straordinarie (come la quattordicesima), le indennità (quali quella di rischio o di reperibilità), il compenso previsto per le ferie e le festività non godute. La retribuzione lorda base e quella accessoria formano la retribuzione lorda complessiva.
Da questa breve elencazione degli elementi del salario, emerge dunque che una cosa è far riferimento a un minimo tabellare pari a 9 euro lordi l’ora, un’altra cosa (ben diversa) è parlare di una retribuzione complessiva lorda pari a 9 euro l’ora. Dev’essere dunque ben chiaro che i 9 euro lordi orari devono essere riferiti alla paga base. Se il salario minimo orario fosse riferito alla retribuzione complessiva (come effettivamente è nella formulazione attuale), in molti casi esso sarebbe quantomeno inefficace, perché sarebbe al di sotto della retribuzione complessiva oraria lorda già percepita da molti lavoratori.
Si sta inoltre discutendo del perimetro di applicazione del salario minimo orario, ed in particolare dell’ipotesi di escludere dall’applicazione di quella soglia determinate categorie di lavoratori, dai collaboratori domestici ai lavoratori agricoli, da giovani under 30 ai dipendenti degli artigiani. È evidente che maggiori sono le categorie escluse dall’applicazione del salario minimo, minore sarà l’effetto positivo che questa misura ha sulla condizione di vita dei lavoratori poveri, una condizione che caratterizza in particolare proprio il settore agricolo e i lavoratori più giovani.

In difesa di un argine contro lo sfruttamento

Gli ultimi quarant’anni hanno visto il potere contrattuale dei lavoratori ridursi sempre di più. A demolirlo pezzo per pezzo ci hanno pensato, negli anni ’80, i governi dei Paesi occidentali che hanno applicato alla lettera quelle politiche neoliberiste particolarmente gradite al capitale, come la neutralizzazione dei sindacati, la precarizzazione del mercato del lavoro, la riduzione della spesa pubblica, la demolizione del welfare: tutti elementi che hanno reso i lavoratori sempre più ricattabili dagli imprenditori e, dunque, sempre meno forti in sede di contrattazione delle condizioni di lavoro.
Ad accelerare il progressivo sgretolamento delle politiche keynesiane a sostegno della piena occupazione e a sancire l’istituzionalizzazione della visione economica neoliberista è intervenuto, nel Vecchio Continente, il processo di integrazione europea. Libertà di movimento dei capitali, tagli alla spesa pubblica, cessione della politica monetaria a un’autorità ‘indipendente’, rinuncia allo strumento di politica economica rappresentato dalla fissazione del tasso di cambioe deregolamentazione del mercato del lavoro sono entrate non solo nei trattati costitutivi delle istituzioni europee, ma, in alcuni Paesi e sotto alcuni aspetti, anche nelle stesse costituzioni dei Paesi membri.
Accade, però, che in un processo storico apparentemente inesorabile ci siano dei momenti in cui, per le ragioni più varie, si insinuino degli elementi che vanno in direzione contraria. Il disegno di legge sul salario minimo, pur caratterizzato, l’abbiamo visto, da molte possibili insidie, costituisce un esempio di quanto appena detto. Le ragioni per le quali, in questo periodo storico, un partito per molti aspetti complice delle politiche di austerità spinge per un salario minimo sono svariate: una su tutte consiste nel tentativo di alimentare lo scontro con gli alleati di governo per recuperare terreno dopo le ultime batoste elettorali. Quali che siano le cause, però, il nostro compito è quello di insinuarci nello scontro politico in atto con l’obiettivo di far emergere quei punti della proposta Catalfo che, se ulteriormente migliorati, potrebbero produrre un miglioramento nelle condizioni di vita di milioni di lavoratori.
In questo senso, una volta che si siano evidenziate tutte le insidie nascoste nel percorso verso una seria legge sul salario minimo, dobbiamo chiaramente affermare che un salario minimo orario base (e non complessivo) pari almeno a 9 euro lordi, applicabile a tutti coloro che attualmente guadagnano di meno, è una misura che va difesa con le unghie e con i denti, perché costituisce una crepa, anche se piccola, momentanea e per certi aspetti probabilmente strumentale, nell’altrimenti monolitica difesa a oltranza dell’austerità. Una crepa nella quale abbiamo il dovere di scavare con tutte le nostre forze.
Questo ragionamento avrebbe dovuto unire tutte le forze sindacali, messe all’angolo da oltre trent’anni di sconfitte e arretramenti, che potrebbero trovare nell’introduzione di un salario minimo dignitoso nuova linfa per difendere la condizioni di vita di milioni di lavoratori, a partire dai più svantaggiati. Purtroppo, le principali forze sindacali si sono schierate in blocco contro il disegno di legge Catalfo, cioè dalla stessa parte della Confidustria e di tutte le forze politiche e istituzionali che sono espressione degli interessi del profitto, contro il lavoro.
Questa ostilità dei sindacati confederali, in primis della CGIL, verso una legge che finalmente potrebbe porre un piccolo argine allo sfruttamento nel nostro Paese è solo l’ultimo capitolo di una lunga storia di tradimenti delle organizzazioni dei lavoratori nei confronti del loro popolo, tradimenti che giustificano la crescente sfiducia dei lavoratori nei sindacati e, più in generale, nelle forze della sinistra.
In difesa di un salario minimo dignitoso, contro il lavoro povero e lo sfruttamento, aderiamo alla campagna lanciata dall’unico sindacato che si è schierato dalla parte giusta della barricata, l’Unione Sindacale di Base (USB), a partire dalla giornata di protesta nazionale “Chi ha paura del salario minimo” prevista per il 28 giugno.

giovedì 27 giugno 2019

Sea Watch ancora davanti a Lampedusa. Domenica mobilitazione nei porti

Questa notte a Lampedusa sono arrivate autonomamente dal mare 10 persone tra cui una donna ed un bambino, e questa mattina davanti alla Chiesa di Lampedusa gli attivisti del Forum Lampedusa Solidale ( che dormono sulle scalinate in solidarietà con la Sea Watch ) hanno fatto colazione con alcuni ragazzi tunisini.
Morale della favola? Il blocco della Sea Watch è solo propaganda elettorale giocato sulla pelle degli innocenti.

In questo quadretto raccontatoci da Francesco Piobbichi, c’è gran parte della enorme contraddizione dimostrata dalla vicenda della nave Sea Watch 3 che ha deciso di forzare il blocco imposto dal governo italiano cercando di attraccare a Lampedusa con il suo dolente carico umano di migranti raccolti in mare.
La nave Sea Watch 3 ha trascorso la notte ormeggiata di fronte al porto di Lampedusa con a bordo 42 migranti salvati nel Canale di Sicilia due settimane fa.
A fronte della situazione creatasi, il solito Salvini non ha perso occasione per rilanciare la sua dottrina: “La legge prevede che bisogna essere autorizzati per poter attraccare, non possiamo far arrivare in Italia chiunque, le regole di un Paese sono una cosa seria. Le persone sulla Sea Watch non sono naufraghi, ma uomini e donne che pagano 3.000 dollari per andar via dal proprio Paese. Spero che nelle ultime ore ci sia un giudice che affermi che all’interno di quella nave ci sono dei fuorilegge, prima fra tutti la Capitana. Se la nave viene sequestrata e l’equipaggio arrestato io sono contento. Non permetto che siano Ong straniere a dettare le leggi sui confini nazionali di un Paese come l’Italia”. Poi con un tracimante senso del ridicolo ha affermato che: “In Italia stanno arrivando, in aereo, migliaia di migranti certificate che scappano dalla guerra”, a conferma che il Ministro degli interni e Vicepremier ha serissime difficoltà a capire come va il mondo reale e come funzionano le cose al di fuori della pianura Padana.
Su un dato occorre ammettere che il governo italiano si trova di fronte non solo all’emergenza sbarchi ma anche al “fuoco amico” che viene dai partner europei. Il 25 giugno scorso infatti, la Corte europea dei Diritti dell’uomo ha respinto la richiesta di misure provvisorie avanzata dalla capitana della nave Sea Watch 3 e da una quarantina di migranti presenti a bordo provenienti da Paesi dell’Africa occidentale e subsahariana. Invocando gli articoli 2 (diritto alla vita) e 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) della Convenzione, i ricorrenti avevano chiesto alla Corte europea di invitare il Governo italiano ad autorizzare l’ingresso della nave nelle acque territoriali ed il successivo sbarco.
La posizione espressa dalla Corte, si è limitata a ritenere che la situazione a bordo della Sea Watch non fosse tale da creare un rischio di danni irreparabili per la salute delle persone. Ma non ha fatto alcun riferimento al contrasto all’immigrazione irregolare, né tanto meno all’attività di coloro che vengono talvolta definiti “aiutanti dei trafficanti”, e che anzi dal comunicato stampa risultano chiaramente individuati come soccorritori di naufraghi in pericolo di vita.
Pochi giorni fa la Commissaria per i Diritti umani Dunja Mikatovic aveva espressamente condannato le campagne denigratorie in corso nei confronti delle Ong impegnate nei soccorsi lungo la rotta del Mediterraneo centrale, l’avvio di indagini penali e la previsione di sanzioni amministrative suscettibili di ostacolarne l’attività, che mettono a rischio la vita di moltissime persone per mere esigenze di contenimento dei flussi migratori.
Una posizione, quella delle istituzioni europee, fortemente contraddittoria: lineare sui principi ma negativa sulle scelte concrete. Una posizione aggravata poi dalle decisioni unilaterali degli stati membri della Ue come la Germania che ha deciso di rispedire in Italia un migliaio di migranti che erano sbarcati in Italia, vi erano transitati e poi erano arrivati sul territorio tedesco dove volevano effettivamente andare. Insomma la perversione del Trattato di Dublino agisce ancora pesantemente e vergognosamente, soprattutto sui paesi europei mediterranei che sono di fatto la prima linea per l’arrivo degli sbarchi.
Sottovalutando forse un po’ troppo questo secondo aspetto e concentrando il fuoco di fila solo contro Salvini, stanno intanto crescendo iniziative di protesta nel paese contro. In molti casi spontanee e all’insegna di quel “restiamo umani” che sta diventando presupposto e dirimente, in altre, come nel caso della calata dei parlamentari del Pd a Lampedusa, del tutto strumentali.
Per domenica prossima in diverse città portuali si stanno organizzando manifestazioni contro la chiusura dei porti. Intorno a questo obiettivo è nata la campagna “Occupy ports” che si è attivata per mettere in comunicazione le varie iniziative. In un comunicato “Occupy Ports” spiega che non sarà un cartello con egemonie o gerarchie ma “una massa critica, l’equipaggio di terra delle ong che nel Mediterraneo salvano vite umane. Su quelle navi vorremmo esserci tutti ma non ci possono contenere e allora noi saremo l’equipaggio di terra pronti a dare battaglia nei porti quando bloccano le navi cariche di umanità. Iniziamo il 30 giugno alle 10.00 nei porti, senza alcun preavviso autorizzazione occuperemo i porti ogni volta sarà necessario per costringere ad aprirli a chi scappa dalle barbarie”.

mercoledì 26 giugno 2019

Olimpiadi invernali e Modello Milano, un altro passo verso disuguaglianza e devastazione del territorio

Le Olimpiadi Invernali nel 2026 si terranno a Milano e Cortina. Il sindaco Sala e il governatore Fontana esultano, ed esultano anche molti cittadini sui social a quanto ci viene raccontato.
Noi invece  ci chiediamo cosa vorranno dire queste Olimpiadi nella città del Modello Milano, nella città dei progetti urbanistici faraonici e di impatto, nella città del benessere, il capoluogo di provincia più ricco di Italia, la città che con la sua provincia produce un valore aggiunto che sostanzialmente doppia quello delle altre provincie del Nord Italia, anche di quelle che costituiscono le zone del paese dove si gode di maggior benessere, come mostra una recente ricerca di Pap.
Che cosa significhino queste Olimpiadi in una città dove per vivere bene è necessario guadagnare circa il doppio di quello che i dati ci dicono essere lo stipendio minimo nazionale (1.570 euro al mese, secondo i dati dell’osservatorio Jobpricing).
In molti altri contesti abbiamo denunciato come dietro il cosiddetto Modello Milano ci sia in realtà un intreccio di interessi economici che hanno a che fare con le aree dismesse (ex scali ferroviari, ippodromi, patrimonio pubblico dismesso o in dismissione, ultimo caso è quello dell’accorpamento degli ospedali San Paolo e San Carlo), con un’urbanistica preda di interessi privati spacciati per interessi pubblici, con gli investimenti di multinazionali e fondi di investimento internazionali. Interessi che coinvolgono, peraltro, le organizzazioni criminali e la ‘ndrangheta in particolare, infiltrata nello smaltimento rifiuti, nel movimento terra e soprattutto nell’edilizia.
Le Olimpiadi invernali sono, a nostro parere, solo un tassello della trasformazione di Milano in città per ricchi e dei ricchi. In linea coi progetti City Life e Porta Nuova, queste olimpiadi produrranno nuove colate di cemento, nuove strutture faraoniche, la cui ricollocazione dopo il grande evento, sarà tutta da vedere, come l’esperienza di Expo insegna.
Il che è sostanzialmente in linea con un altro progetto molto discusso, quello del nuovo stadio, che dovrebbe rimpiazzare il vecchio Meazza, a pochi metri di distanza, caratterizzandosi come luogo di consumo e scambio di merci prima che come luogo di sport.
Nella Milano che vuole darsi un’immagine ricca e solidale queste Olimpiadi saranno un altro modo per nascondere le contraddizioni, perché il processo di gentrificazione prosegue, con il suo portato di smantellamento delle reti sociali e di solidarietà, l’espulsione dei ceti popolari dalla città e la trasformazione dei bisogni essenziali e dei servizi in merce.
In una città che sta mettendo i suoi atenei e i suoi centri di ricerca sempre più al servizio del privato, che investe nelle scienze della vita e nelle biotecnologie soprattutto in un’ottica di profitto, si pensi al recente progetto VITAE, un nuovo polo in via Serio, che mescolerà ricerca oncologica, uffici all’avanguardia, ricerca pubblica e privata, in un mix difficile da districare, quest’ennesimo evento vetrina che muoverà soldi e investimenti non supportati da una logica amministrativa realmente al servizio della cittadinanza, non porterà ricchezza e benessere per tutti, ma profitti astronomici per i soliti noti e lavoro precario per molti: non è un caso che il Sindaco abbia già annunciato : “20mila volontari sono già pronti e nessuna città ha il nostro stesso consenso popolare“, nel solco di quella prima esperienza di lavoro gratuito (“ma fa curriculum”!) che è stato Expo e che ha aperto la strada a molte distorsioni, non ultima quella Alternanza Scuola Lavoro che nelle nostre scuole troppo spesso si traduce in lavoro nero minorile.
Quello cui siamo davanti è un intreccio di interessi economici, che vorrebbe concretizzare uno degli obiettivi centrali dell’Unione Europea da Lisbona 2000 in poi: la costruzione di una società della conoscenza competitiva e inclusiva. Ma sappiamo bene che questo obiettivo non è raggiungibile, perché la competitività, la prevalenza delle logiche economiche sue quelle politiche e sociali, la messa a profitto delle dimensioni essenziali della vita umana (la casa, la salute, il lavoro) non possono andare a braccetto con una logica di reale inclusione sociale.
Coloro che solo cinque anni fa si dicevano contrari alle Olimpiadi, in una logica meramente elettoralistica, come la Lega e Salvini stesso, o come i Cinque Stelle che a Roma hanno, a nostro parere correttamente, bloccato la candidatura per le olimpiadi, oggi invece si dicono entusiasti di questa “occasione per Milano e per gli italiani”, in un’ottica che li svela per quello che sono: non amministratori pubblici, non politici al servizio di uno Stato, ma meri gestori di interessi e decisioni che si prendono altrove, nei centri del potere economico e, dal punto di vista politico, fuori dai confini nazionali.
Avremmo voluto che a Milano come a Calgary si ragionasse nei termini di ciò che è meglio per la cittadinanza tutta e infatti la città ha scelto di ritirare la propria candidatura per queste Olimpiadi dopo un referendum popolare, invece rischiamo di trovarci a fare la stessa esperienza di Montreal 2010, dove le Olimpiadi Invernali hanno provocato una devastazione urbanistica e tasse aggiuntive per i cittadini per i 16 anni successivi.
E’ chiaro infatti alle comunità montane quale è l’impatto della costruzione di enormi strutture in alta quota, utilizzate solo in concomitanza dell’evento, e poi abbandonate, insieme a distese di parcheggi e strade in ecosistemi sempre più fragili e compromessi.

L’amministrazione cittadina e regionale vogliono fare queste Olimpiadi una vetrina, la conferma del Milano come metropoli globale, che della globalizzazione capitalistica sposa tutte le scelte, noi crediamo invece che sarà necessario vigilare e denunciare quanto questa ultima operazione accrescerà ancora le disuguaglianze e le disparità che già governano questa città e questa regione.

martedì 25 giugno 2019

Mini-Bot per uscire dall’euro? Quante sciocchezze

Quando la Grecia fu sull’orlo dell’uscita dall’euro, l’allora ministro delle finanze Yanis Varoufakis cercò con scarso successo di istituire un sistema parallelo di pagamenti per gestire l’eventuale transizione. Analogamente, la recente proposta di alcuni membri del Parlamento italiano di emettere i cosiddetti “Mini-BOT” è stata da molti interpretata come un tentativo surrettizio di introdurre una “moneta di transizione” per predisporre una via d’uscita dalla moneta unica.
Con gli ultras anti-euro compiaciuti per la “furba” trovata e i pasdaran pro-euro pronti ad agitare il nuovo, minaccioso spauracchio.
In realtà, e al di là del folclore, chiunque abbia studiato i lavori preparatori dell’Unione Monetaria Europea sa che il Sistema Europeo delle Banche Centrali è già organizzato in modo tale da permettere un eventuale abbandono della moneta unica senza bisogno di ricorrere a monete di “transizione”.
Basti notare, a questo riguardo, che la materiale emissione degli euro è rimasta di competenza delle banche centrali nazionali e che nel numero di serie di ciascuna banconota c’è una lettera che identifica la nazione emittente: S per l’Italia, U per la Francia, X per la Germania, e così via.
Non tutti i padri fondatori dell’euro condivisero la scelta di lasciare l’emissione materiale di moneta alle banche centrali nazionali, né appoggiarono la decisione di esplicitare i paesi emittenti su ciascuna banconota. Tuttavia quelle scelte furono compiute, il che oggi indubbiamente facilita eventuali transizioni da una valuta all’altra.
L’unica banale condizione è che un governo che decida o si veda costretto ad abbandonare l’euro sia almeno in grado di controllare la banca centrale nazionale (Varoufakis, come è noto, non era nemmeno in grado di far questo).
Questa evidenza rende l’attuale dibattito sull’opportunità di dotarsi di una “moneta di transizione” piuttosto sterile e fuorviante. I governi che fossero un giorno sospinti verso l’abbandono della moneta unica europea dovrebbero affrontare notevoli difficoltà, specialmente se lasciassero piena libertà agli scambi e ai movimenti di capitale sui mercati finanziari.
Le leadership attualmente in carica in Europa, siano esse pro o contro l’euro, non sembrano avere adeguata consapevolezza di queste grandi questioni. Ma i meri aspetti operativi della transizione verso una nuova moneta sono un falso problema: che ci piaccia o meno, gli strumenti per affrontarli esistono già.

giovedì 20 giugno 2019

Flat tax: tagliare le tasse ai ricchi per tagliare i servizi a tutti

Mentre cerca di dissimulare la propria fedeltà all’austerità e al rigore fiscale imposti dall’Europa con le chiacchere sui Minibot e qualche fasullo scontro politico con le alte sfere di Bruxelles, il governo gialloverde, a conduzione sempre più leghista, mostra senza remore la propria natura liberista e reazionaria. Per di più, proprio su quelle sfere della decisione politica che restano, almeno in parte, fuori dal perimetro della direzione sovranazionale di matrice europea: le politiche tributarie (flat tax), le politiche di regolamentazione dei lavori pubblici (Decreto ‘sblocca cantieri’) e le politiche di sicurezza (Decreto ‘sicurezza bis’). Ecco il triplice pacchetto pronto per favorire ricchi e padroni del cemento e per affinare la macchina repressiva a presidio dell’ordine socio-economico costituito.
Di questa triade micidiale, approfondiamo il ricorrente tema della tassa piatta, ormai utilizzato a corrente alterna come strumento di consenso da parte della Lega, nella sua non nuova posa antistatalista di partito della protesta fiscale. Eravamo rimasti pochi mesi fa alla flat tax per le partite Iva. Salvini ora rilancia una riforma generale dell’Irpef, che assumerebbe le sembianze di una flat tax per le famiglie.
Quella in discussione costituisce tuttavia una versione ibrida della flat tax: la proposta più recente si configura come una ristrutturazione del sistema impositivo sulla base di tre aliquote che non consentono di parlare di vera e propria flat tax, la quale implica necessariamente un’aliquota unica/piatta. Con poco spazio fiscale a disposizione, il governo gialloverde ha deciso di muoversi nel perimetro dell’austerità europea e al riparo da accuse di incostituzionalità. L’unico ostacolo all’implementazione della versione originale, quella socialmente più odiosa, pare dunque la genuflessione dei partiti di governo al rigore fiscale.
Niente aliquota unica, quindi, ma un’ipotesi, sempre più probabile a giudicare dalle notizie recenti, di un sistema di tre aliquote così calibrato: 15% fino a 50.000€, 20% fino a 100.000€ e 40% oltre i 100.000€. Un sistema che sostituirebbe l’attuale Irpef a cinque aliquote, calibrate dal 23% al 43%, rimpiazzando l’insieme di detrazioni esistenti con una deduzione forfettaria di 3.000€ per ogni componente, applicabile fino alla soglia dei 35.000€ di reddito familiare, che limiterebbe solo lievemente la perdita complessiva di progressività, inevitabile con l’introduzione di una aliquota unica sotto i 50.000€.
Nell’ideologia che sostiene questa proposta di riforma fiscale, uno dei cavalli di battaglia insiste sul fatto che questa andrebbe a favore del ceto medio, come se fosse una misura pensata per dare respiro ad una vasta categoria di soggetti, intesi come grande maggioranza della popolazione, asfissiata da un eccessivo carico fiscale. In questa proposizione vi è un elemento di verità e una grande menzogna. La verità è che senza ombra di dubbio esiste in Italia un ceto medio oberato iniquamente di imposte. La menzogna è che la flat tax abbia come bersaglio questo eccessivo fardello fiscale.
Prima di tutto, occorre chiarire che cosa sia il ceto medio. Si può approssimativamente definire come quell’insieme di individui o famiglie il cui reddito e patrimonio si colloca intorno al livello mediano nella scala sociale. Secondo la definizione dell’economista Lester Thurow, questo è composto da coloro con un reddito tra il 75% e il 125% del livello mediano; per altri, che considerano anche individui più ricchi, l’incerta categoria includerebbe coloro il cui livello di reddito si colloca tra il 75% e il 200%. Evidentemente un criterio unico non esiste e il termine è soggetto a interpretazioni molto diversificate.
Non è dunque casuale il ricorso continuo del governo giallo-verde al termine ‘ceto medio’, volendovi includere in modo generico quella maggioranza che non si percepisce né ricca né povera. Un termine che, proprio per la sua elasticità, si adatta facilmente ad essere piegato per mascherare regali fiscali ai veri ricchi, spacciati furbescamente come riduzioni generalizzate delle imposte.
È proprio il caso della flat tax proposta dal governo, coadiuvato in questo aspetto da una ‘opposizione’ liberista compiacente e più realista del re. La proposta rappresenta un arretramento in termini di progressività rispetto al sistema vigente e pare dunque improbabile che si tratti di una riforma vantaggiosa per la tanto corteggiata maggioranza della popolazione, come i suoi sostenitori sbandierano ai quattro venti. In ogni caso, vale la pena fugare ogni dubbio, numeri alla mano.
Stando al sistema attuale, un reddito di 15.000€ lordi annui corrisponde a circa 1.100€ netti al mese, mentre 50.000€ corrispondono a circa 2.900€ netti: non proprio lo stesso reddito! Secondo il regime di imposte vigente, il primo soggetto paga circa il 14% come aliquota media, mentre il secondo circa il 30%; con la flat tax, il primo soggetto pagherebbe il 12% (una riduzione di 2 punti percentuali), il secondo il 14% (un’aliquota media più che dimezzata).
Per capire fino a che livello della scala di reddito la possibile riforma garantirebbe vantaggi fiscali, proviamo a osservare il reddito mediano individuale, che in Italia è stimato intorno a 16.500€ lordi nel 2018. Anche volendo dare un’interpretazione di ceto medio assai allargata verso l’alto (dal 75% al 200%), potremmo immaginare che la cosiddetta classe media italiana sia costituita da quella vasta platea i cui redditi lordi si collocano tra i 12.500€ e i 33.000€ annui. I dati delle dichiarazioni Irpef peraltro ci informano che l’80% degli italiani (dunque la stragrande maggioranza) al 2018 dichiara un reddito inferiore ai 30.000€ lordi annui.
Prendiamo allora un soggetto che percepisce proprio 30.000€ lordi annui (circa 1.930€ netti al mese) e che si colloca quindi nel bel mezzo della parte relativamente più benestante del ceto medio tanto corteggiato dai politici. Allo stato attuale tale soggetto, senza figli o coniugi a carico, paga circa il 23% di Irpef come aliquota media. Con la riforma proposta la sua aliquota scenderebbe a circa il 14%: una riduzione di quasi 10 punti dell’aliquota media.
Per fare un altro esempio, un soggetto che attualmente percepisce 25.000€ lordi (circa 1.650€ netti al mese), passerebbe da un attuale aliquota intorno al 20% ad una del 13%. Anche qui circa 7 punti di sconto al lordo delle detrazioni specifiche, qui non considerate. Vantaggi molto meno importanti rispetto a quelli conseguiti da chi guadagna il triplo o il quintuplo degli importi qui considerati.
Tornando ai redditi più elevati, un soggetto che percepisce 100.000€ annui, che equivalgono a circa 5.500 netti al mese, ad oggi paga un’aliquota media del 36%. Con la riforma annunciata pagherebbe il 17,5%: un’aliquota media dimezzata!
Risulta evidente allora come il risparmio fiscale aumenti esponenzialmente al crescere del reddito. Una simile riforma non va quindi a vantaggio del ceto medio, ma piuttosto dei percettori di redditi alti o molto alti. Se la riforma da un lato abbassa, almeno in parte, il carico fiscale su una vasta platea di contribuenti, questa avvantaggia in modo ben più marcato i ricchi, senza peraltro sostenere significativamente i redditi più bassi. Esattamente l’opposto di una misura popolare.
Come se non bastasse, i vincoli di bilancio – ritenuti inviolabili dal governo attuale, al netto delle chiacchiere – impongono che una simile manovra sia necessariamente finanziata tramite tagli di spesa e l’ennesimo e già annunciato condono. Le voci che si susseguono ad oggi fanno ipotizzare che per il finanziamento si farà ricorso alle risorse stanziate e non spese per quota 100 e reddito di cittadinanza, la cancellazione degli 80 euro di Renzi e tagli alla sanità e alle spese sociali.
Insomma, per ridurre le tasse ai ricchi il governo giallo-verde attacca ancora lo Stato sociale e la spesa pubblica diretta a favore delle classi svantaggiate. Un Robin Hood al rovescio, un fenomeno che tutti i governi degli ultimi decenni hanno tristemente riproposto: meno servizi per i lavoratori per ridurre le imposte dei più ricchi.
Questa disamina impietosa della flat tax naturalmente non implica che la pressione fiscale in Italia sia equa ed accettabile. Dopo anni di stravolgimenti, l’Irpef è ormai un’imposta scarsamente progressiva, che colpisce in modo esagerato il ceto medio, mentre favorisce fortemente i redditi alti e altissimi, non individuando ulteriori scaglioni oltre la soglia dei 75.000€. Un’imposta che equipara, nella sostanza, un reddito medio-alto ad un reddito milionario e che grava come un fardello su chi percepisce un reddito ordinario di 1.500/1.800€ netti al mese, prevedendo salti di aliquota marginale clamorosi, come quello dal 27% al 38% oltre la soglia del reddito non certo elevato di 28.000€ lordi annui.
Ma non è tutto: l’Irpef, come ribadito qui più volte, ricomprende solo una parte dei redditi distribuiti, escludendo la gran parte dei redditi da capitale e la totalità dei redditi finanziari e da rendita immobiliare. Senza considerare l’evasione fiscale o i giganteschi fenomeni di elusione conseguita tramite la delocalizzazione delle sedi fiscali in altri paesi. Questi fenomeni sono oggi aspetti cruciali della battaglia distributiva, fenomeni che si perpetuano nel silenzio colpevole di tutti i partiti di maggioranza e opposizione.
Il sistema fiscale italiano, in definitiva, richiederebbe una riforma radicale, proprio nella direzione opposta a quella perseguita dal disegno della flat tax. Una riforma popolare che difenda i lavoratori e i soggetti più poveri dovrebbe prevedere: un innalzamento della no tax area; un drastico abbassamento delle aliquote su redditi bassi e medi; una maggiore gradualità e progressività, con un maggior numero di aliquote; una più ampia forbice di reddito interessata, ben oltre l’inadeguata soglia dei 75.000€ prevista oggi, per permettere di tassare in modo pesante i redditi milionari; la ricomprensione nel disegno della progressività di tutti i redditi, ad oggi volutamente sottratti all’Irpef tramite una giungla di regimi paralleli che favorisce i veri milionari e i redditi da capitale.
Un percorso diametralmente opposto rispetto a quello sancito da anni di controriforme condivise da tutte le forze politiche, e coronate dall’odierno progetto di legge leghista appoggiato dai 5stelle.

mercoledì 19 giugno 2019

Casa Pound inguaia un sacco di burocrati “distratti

Per un verso sembra una situazione alla “Al Capone”, per un altro una sorta di legge del contrappasso.
L’occupazione da parte di CasaPound dell’immobile di via Napoleone III 8, all’Esquilino, secondo la Corte dei Conti del Lazio, ha generato un danno erariale da 4 milioni e 600 mila euro. I magistrati contabili intendono chiedere il risarcimento del danno a nove dirigenti dell’Agenzia del Demanio e del Ministero dell’Istruzione per la mancata riscossione del canone sul palazzone diventato sede di uno dei gruppi neofascisti più attivi e “ricchi”.
Fra gli indagati della Corte dei Conti, risulta esserci anche il direttore dell’Agenzia del Demanio di Roma, Antonio Ficchì. La cifra del risarcimento è stata stabilita “in particolare in base al canone aggiornato alla media Omi (Osservatorio Mercato Immobiliare) per la destinazione d’uso residenziale nella zona Esquilino”, dove si trova il palazzo occupato. Nella vicenda, per ora tutta contabile, non è coinvolta Casapound in quanto soggetto privato su cui la Corte dei Conti non può intervenire. Per i magistrati contabili, il permissivismo di cui però hanno goduto i fascisti di Casa Pound è una “Gravissima negligenza della pubblica amministrazione” Una vicenda che “manifesta, con tutta l’evidenza della semplice narrazione dei fatti, la gravissima negligenza e la scarsissima cura (mala gestio) che l’amministrazione pubblica ha mostrato nei confronti di un intero edificio di proprietà pubblica di ben sei piani che per oltre 15 anni è stato sottratto allo Stato ed alle finalità pubbliche in palese violazione delle più elementari regole della (sana) gestione della cosa pubblica e in contrasto con il particolare regime vincolato cui sono soggetti i beni del patrimonio indisponibile dello Stato”. “Non è tollerabile in uno Stato di diritto – si legge ancora nell’atto dei giudici contabili – una sorta di “espropriazione al contrario”, che ha finito per sottrarre per oltre tre lustri un immobile di ben sei piani, sede storica di uffici pubblici, al patrimonio (indisponibile) dello Stato, causando in tal modo un danno certo e cospicuo all’erario”. Ancora, si ricorda, “i beni immobili del patrimonio indisponibile (quale quello in discorso) ‘non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano’ (art. 828, co. 2, del codice civile), sottrazione invece palesemente avvenuta per oltre 15 anni, nell’inerzia più totale delle amministrazioni competenti”.
La Corte dei Conti “ritiene che l’occupazione sine titulo dell’immobile da parte di CasaPound e degli altri occupanti abbia determinato una perdita economica per le finanze pubbliche – e comunque una lesione al patrimonio immobiliare pubblico, dato che il cespite non è stato proficuamente utilizzato per oltre 15 anni (e non lo è tuttora) – da calcolarsi, in base al criterio reddituale, in via equitativa ex art. 1226 c.c., ricorrendo al parametro costituito dall’indennità di occupazione sine titulo che si sarebbe dovuto richiedere agli occupanti, ovvero, in alternativa, al risarcimento dei danni che, in via autonoma o nell’ambito di azioni penali o civili mai intentate o mai coltivate, sarebbero state liquidate in sede giudiziaria (in entrambi i casi si tratta di importi commisurati al canone di locazione non percepito)”. “Poiché le iniziative di natura amministrativa in autotutela patrimoniale e/o le azioni, civili e penali, comunque finalizzate al rilascio dell’immobile ed eventualmente al risarcimento dei connessi danni, non sono state attivate né proposte dal MIUR e dall’Agenzia del demanio, pur avendo prospettive di successo certe”, per i giudici “quanto meno si doveva procedere alla richiesta, dapprima in via amministrativa, successivamente ed eventualmente in via contenziosa, del pagamento dell’indennità di occupazione”.
Insomma una requisitoria in piena regola che potrebbe mettere spalle al muro “materialmente” i fascisti di Casa Pound, un po’ come accadde al gangster di Chicago Al Capone, il quale finì in carcere non per i molti crimini commessi ma per evasione fiscale. D’altro canto il j’accuse della Corte dei Conti va a colpire una occupazione abitativa che sembrava poter usufruire di un regime particolare di agibilità rispetto ad altre occupazioni, o già sgomberate o sotto minaccia di sgombero, sulla base delle indicazioni date dal ministero degli Interni ai prefetti in materia di sgomberi delle occupazioni.
Su Roma, e in particolare su una ventina di occupazioni, incombe dall’aprile 2016 (fase del commissariamento Tronca sul Comune di Roma) la minaccia dello sgombero. Poi nell’estate del 2017 era stata l’ordinanza Minniti ai prefetti a sollecitare gli sgomberi, ma il maldestro e brutale sgombero del palazzone occupato in via Curtatone in pieno agosto, aveva messo il ministro degli Interni sulla graticola interrompendo una escalation appena cominciata.
Adesso tocca a Salvini. Da un lato sponsor, ospite conviviale e protettore di Casa Pound, dall’altro invocatore, con una ordinanza ai prefetti, degli sgomberi di occupazioni abitative e centri sociali che pare ispirata più da sentimenti vendicativi contro la sinistra che da esigenze effettive. Quelle semmai sono l’urgenza di dare soluzioni credibili e dignitose all’emergenza abitativa, non quella di buttare ancora più gente in mezzo ad una strada. Ma questo terreno, di competenza della politica, non traspare mai dalle righe della Corte dei Conti e non è un bel segnale, anzi potrebbe essere un precedente da rovesciare contro altre occupazioni abitative assai meno protette e tutelate rispetto a quella di Casa Pound.
Sabato a Roma è stata convocata una manifestazione cittadina proprio conto la minaccia degli sgomberi. Ci saranno le famiglie occupanti e i giovani dei centri sociali, attivisti dei sindacati di base e operatori dell’associazionismo. Appare decisamente improbabile che gli occupanti del palazzone di Casa Pound si sentano parte dello stesso problema. I fatti dicono che loro, almeno fino a ieri, sono parte dell’elite.

martedì 18 giugno 2019

Debito pubblico, l’acchiappafantasmi

Cosa hanno in comune Alberto Bagnai, Paolo Savona e Luis de Guindos Jurado? In generale sono tre apprezzati economisti, politicamente assolutamente non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro. I primi due, oltre a far parte della maggioranza o del governo gialloverde (Savona la lascito il posto di ministro per guidare la Consob), sono considerati degli euroscettici piuttosto decisi, il terzo è vicepresidente della Bce, e quindi parte integrante dell’establishment “europeista”.
E naturalmente nessuno dei tre riscuote le nostre simpatie.
Eppure nelle ultime 48 ore questi tre signori hanno detto tutti la stessa identica cosa su un punto decisivo che sia la “classe politica” (scusateci il termine) sia il sistema dei media mainstream si è ben guardata dal cogliere. Meglio nasconderla, sennò si vedrebbe troppo bene di che impasto fangoso siano fatti i trattati europei ed anche le velleità “trattativiste” di questo governo.
Come abbiamo scritto spesso, la contrapposizione tra “europeisti” e “sovranisti” è una recita a soggetto. Ed entrambi rispettano con precisione il ruolo che è stato loro dato, per non rompere questa sceneggiata che immobilizza la possibile consapevolezza del “popolo”.
Qual’è questo segreto inconfessabile?
Una quisquilia: il livello del debito pubblico è l’unico parametro negativo tra i fondamentali economici di questo paese. Ma quando “i mercati” debbono considerare la solidità dei conti pubblici e la solvibilità di uno Stato, sono soliti considerare diversi altri fattori altrettanto – se non più – importanti del debito pubblico.
Quali? Li indichiamo con le parole del vicepresidente Bce, intervistato dal Corriere della Sera, nientepopodimeno che da Federico Fubini: «l’Italia ha anche dei vantaggi che dobbiamo riconoscere. Il primo è che ha un surplus di partite correnti, nel complesso degli scambi con il resto del mondo. La posizione finanziaria netta sull’estero è buona e questo riduce la vulnerabilità dell’economia. E quando si guarda alla situazione di bilancio nel tempo, non è stata male: quasi tutti gli anni l’Italia ha avuto un avanzo prima di pagare gli interessi sul debito. Non è molto facile riuscirci, dunque è un precedente molto buono, soprattutto in confronto ad altri Paesi».
Riassumiamo per i non addetti ai lavori economici: a) l’Italia esporta più di quanto non importi (partite correnti in attivo); b) l’Italia è un paese così ricco da spostare una parte crescente della propria ricchezza all’estero (ha una posizione finanziaria con l’estero molto buona); c) da oltre venti anni lo Stato spende meno di quanto incassa con le tasse (saldo primario positivo, prima del pagamento degli interessi sul debito).
Un paese che sta molto bene, insomma, e semmai dovrebbe lamentarsi con i “propri” riccastri che spostano soldi all’estero invece di investirli “in patria” (come usano dire dalle parti del governo).
Un paese che in fondo dovrebbe maledire la memoria di Nino Andreatta, l’economista democristiano che si inventò il “divorzio” tra il ministero del Tesoro e la Banca d’Italia, legiferando una trappola che da allora in poi ha fatto crescere senza freni il debito pubblico pure in presenza di un avanzo primario pluridecennale. Ossia il mostruoso paradosso di un paese che si indebita sempre di più proprio perché risparmia sempre di più…
Ovvio che se si dovesse cominciare a parlare in pubblico di questa situazione, completamente diversa da quella narrata dalla “classe politica” e dal sistema mediatico, sarebbe più complicato chiedere alla popolazione altri “sacrifici” (come l’aumento dell’Iva e il taglio di pensioni, servizi sociali, sanità, istruzione).
Dunque solo il debito pubblico deve essere indicato come il parametro da usare come stella polare (per imporre austerità), usato come un acchiappafantasmi hollywoodiano; mentre gli altri vanno trattati come “dati economici neutrali”. Così i ricatti riescono meglio…
Si capisce che “europeisti” e “sovranisti” sono d’accordo nel “non creare panico” (tra le loro fila, ossia tra chi li elegge).
Quello su cui contrastano – tra loro – è sul tipo di “trattativa” da condurre per i prossimi anni, perché ogni trattato che si fa adesso, esattamente come quelli precedenti, segnerà la vita di tutti i paesi dell’Unione per i prossimi decenni.
Il meccanismo interno di questi trattati, peraltro, non è sostanzialmente da quello – chiamato Aleca – che la Ue sta cercando imporre alla Tunisia e altri paesi della costa sud mediterranea. Un piccolo paese del Maghreb ha certamente ha certamente meno forza e peso economico, dunque è saccheggiabile più facilmente. Ma non è che tra partner europei le cose stiano in altro modo.
La “competizione” interna è a carte truccate, insomma. L’esempio più noto e citato è il surplus tedesco (il contrario del deficit), da quasi 20 anni costantemente al di sopra (anche del doppio) rispetto al 3% indicato dai trattati. Ma nessuno ha mai alzato il ditino nei confronti di Berlino per minacciare una “procedura di infrazione”, nonostante ogni economista al primo anno di università apprenda che in un sistema monetario chiuso chi ha surplus sta mangiando sul deficit altrui. In concreto: la Germania finanzia il suo debito pubblico a costo zero o addirittura guadagnandoci qualcosa (è lo spread, bellezza). Mentre grandi quantitativi di capitali italici – dell’imprenditoria, mica solo dei mafiosi! – va a cercare “rifugio” nei Bund tedeschi, magari rimettendoci qualcosa e finanziando a gratis il debito di Berlino.
E ti credo che Weidmann, Schaeuble e Merkel non intendono toccare neanche una virgola!
Viene insomma fuori che non c’è alcun “meccanismo economico oggettivo”, “basato su dati scirntifici”, ma solo una serie di contratti firmati da imbecilli (per parte italica) che hanno consegnato ad altri il potere di decidere su come si governa qui.
Il che è un fatto che riguarda sia le classi (lavoratori dipendenti, pensionati, giovani dei ceti popolari, precari con ogni tipo di contratto, ecc, da un lato, imprenditori e rentier dall’altro), sia i paesi. Lo stesso processo che impoverisce i ceti popolari contribuisce a smantellare la capacità produttiva del paese (molte aziende di prima fascia sono diventate “straniere”, e quindi ancor più indifferenti al destino della popolazione), a devastare il nostro territorio (spopolando il Sud), a costringere a emigrare, a demolire il tessuto sociale delle nostre città (la gentrificazione causa turismo segue quella “produttiva” degli anni ‘80 e ‘90).
Affrontare questo intreccio con l’ideologia del nemico è un suicidio. Farsi arruolare tra gli “europeisti” è da venduti, fiancheggiare i presunti “sovranisti” (banali “nazionalisti piccolo-borghesi vecchio stampo) idem.
Bisognerà lavorarci sopra meglio, ma il gioco sta diventando scoperto…