Il 12 dicembre si svolgeranno elezioni politiche in Gran Bretagna.
La sfida tra il partito laburista e quello conservatore ha caratterizzato fin qui la campagna elettorale.
Da un lato Boris Johnson leader dei tories
ed ex primo ministro, succeduto a Theresa May, ha giocato quasi tutto
sulla sua supposta capacità di avere raggiunto un accordo con i 27
dell’UE rispetto alla Brexit prima dell’indizione delle elezioni
anticipate.
Dall’altro, Jeremy Corbyn ha puntato tutto sui contenuti di un programma politico di riforme radicali esposto nel nuovo Manifesto – il nome è in italiano – del Labour.
Tale
documento è forse l’esposizione più organica che una forza politica
continentale abbia fin qui espresso rispetto alle sfide che attendono
chi vuole dare rappresentanza alle classi subalterne, tartassate da –
almeno in Gran Bretagna – quasi 40 anni di politiche neo-liberiste, ed
aspira a governare un Paese del “Primo Mondo” accettando le sfide poste
globalmente.
Luci ed ombre del Manifesto
Il Manifesto non è il libro dei sogni, ma un’organica sistemazione di soluzioni concrete.
Affronta
di petto la necessità della transizione ecologica, anzi ne fa l’asse
principale per la trasformazione della società nel suo insieme a
cominciare dai gangli vitali del sistema economico.
La declina con la questione di classe,
in termini di creazione di posti di lavoro, formazione professionale,
garanzie sindacali e riequilibrio delle storture territoriali del
“vecchio” modello di sviluppo.
L’autonomia e il risparmio energetico all’interno dei criteri di eco-compatibilità sono alla base della ricetta laburista.
C’è una visione complessiva che potremmo sintetizzare con la formula “più pubblico, meno privato”
come risultato del processo di riappropriazione dei settori strategici
dell’economia e dei beni indispensabili per la collettività, a
cominciare dalla settore manifatturiero, altro che
de-industrializzazione!
Si
prevedono per questo grandi investimenti pubblici di lungo periodo.
L’orizzonte è la pianificazione economica di lungo corso, non lagaranzia
dell’aumento dei dividendi per gli azionisti delle oligarchie
economiche su tutto ciò che può essere “mercificato”.
C’è
una radicale messa al centro dei bisogni umani, dalle necessità
basilari: casa, cibo, istruzione, cure sanitarie e sicurezza ambientale
complessiva, ecc. tutto ciò insieme ad un ampliamento dei diritti civili
sostanziali, a cominciare dall’effettiva parità uomo/donna – le donne
prendono in media il 13% meno degli uomini – e la fine della
discriminazioni sessuali e razziali, verso una società che valorizzi le
differenze.
C’è
una attenzione alla comprensione della natura sociale del crimine e a
prospettare soluzioni che mirino alla prevenzione, alla de-carcerazione,
all’inclusione, in assoluto contrasto con quaranta anni di
neo-liberismo che hanno imbarbarito il tessuto sociale collettivo e
favorito la guerra di tutti contro tutti, in cui la “sicurezza” delle classi popolari era l’ultima delle preoccupazioni per l’establishment.
In
generale c’è una attenzione particolare alle fasce più sfavorite dalle
politiche neo-liberiste, che hanno visto azzerate le più elementari
garanzie vitali. In special modo donne, anziani e bambini sono stati i
più colpiti in questo processo di “pauperizzazione” che ha ricacciato la
Gran Bretagna in una situazione simile alla Prima Rivoluzione
Industriale, con una “umanità eccedente” trattata come scarto.
C’è, potremmo definirla, una chiara identificazione del nemico cui fare pagare il prezzo di questa transizione politico-sociale: quella manciata di privilegiati – come viene detto nell’introduzione del Manifesto – a cui i Conservatori hanno lasciato mano-libera in questi anni.
È il laissez-faire ad essere messo radicalmente in discussione.
I grandi inquinatori, gli speculatori finanziari, gli evasori fiscali delle multinazionali, nelle
parole di Corbyn, sono il vero volto della classe dominante e sulle
loro spalle graverà il peso di un cambiamento inderogabile, perché le
contraddizioni accumulate rendono questo sistema in crisi prossimo al
collasso.
Certamente nell’elaborazione del Manifesto
alcune questioni rilevanti – che sarebbe disonesto non sottolineare –
costituiscono per così dire delle “pietre d’inciampo” sulla strada di
una trasformazione complessiva della Gran Bretagna, e soprattutto della
sua possibile collocazione internazionale.
È ribadita infatti la propria fedeltà alla NATO;
le proposte sul dopo Brexit del Labour tendono a perpetuare il legame
con il dispositivo economico-commerciale del Mercato Comune Europeo, non
dando seguito al desiderio di de-connessione rispetto alla UE espresso
inequivocabilmente con il referendum del 2016.
Sarebbe
altrettanto disonesto non sottolineare come le riforme, e anche alcuni
importanti orientamenti di politica internazionale, neghino alla radice
ciò che il processo di integrazione europea è stato per le classi
subalterne, e ciò che ha significato per alcune popolazioni, in specie
del Nord-Africa e del Medio-Oriente (Palestina e Yemen, per esempio);
oltre che alcune responsabilità della NATO, per esempio nel conflitto
libico.
Allo stesso tempo sarebbe miope – a differenza di ciò che emerge dal Manifesto – non considerare come corresponsabili dell’attuale sfacelo della condizione della working class
britannica e della “tendenza alla guerra” portata avanti da Londra,
quella parte del partito laburista – ora marginalizzata e sconfitta
politicamente, ma assolutamente non scomparsa – che si è riconosciuta
nel progetto politico di Tony Blair e del suo New Labour.
Lo
zoccolo duro dell’ex New Labour è la vera “Quinta Colonna” di qualsiasi
progetto di inversione di tendenza nelle politiche del Partito.
Certo
i Conservatori sono il primo nemico da battere, ma il nemico – per così
dire – ha per lungo tempo marciato alla testa della compagine
laburista, fino all’elezione di Corbyn nel 2015, che ha dovuto faticare
non poco per “disinnescare” i tentativi di defenestrarlo o quanto meno
di sbarrargli la strada da parte della destra interna…
Una campagna elettorale inedita
Questa settimana il Manifesto ha avuto l’endorsement di 163 economisti
di fama, che hanno sottoscritto una lettera in cui spiegano
sinteticamente le ragioni della loro scelta in favore del Labour,
partendo dalla constatazione di una decennale stagnazione economica e di
relative condizioni di vita peggiori dei livelli pre-crisi: i salari
britannici sono inferiori a quelli percepiti nel 2008, per esempio.
Una decisa scelta in favore della transizione ecologica, con la “green industrial revolution”.
Una politica di forti investimenti pubblici a lungo termine, in settori
strategici, è considerata positivamente anche per ciò che comporta
l’impatto occupazionale e l’inversione di tendenza nei servizi pubblici.
La lettera indirizzata al Financial Times e ripresa da altre testate si conclude con le seguenti affermazioni:
“A
noi sembra chiaro che il Labour Party ha non solo compreso i profondi
problemi che stiamo affrontando, ha fornito proposte serie per
trattarli. Crediamo che meriti di formare il nuovo governo”.
Sempre questa settimana è stata caratterizzata da un vero e proprio coupe de theatre del leader laburista, che ha mostrato le più di 450 pagine di documenti ora desecretati che provano inconfutabilmente come la privatizzazione completa del sistema sanitario nazionale britannico
– NHS – sia stata uno dei nodi delle trattative sulla Brexit intraprese
tra il governo conservatore e l’amministrazione statunitense.
Boris
Johnson ha ripetutamente e pervicacemente negato che ci fosse stato
questo tipo di trattativa, giurando e spergiurando che le accuse
formulate dal Labour erano pure invenzioni.
Secondo
quando è stato reso pubblico da Corbyn, invece, questa trattativa è
andata avanti per ben due anni – dal luglio 2017 al luglio 2019 – con
sei sessioni di incontri.
Da
ciò che si evince, nessun settore è stato escluso a priori
dall’accessibilità al “mercato” inglese da parte degli Stati Uniti e la
questione dei farmaci viene menzionata come una dei punti nodali della
trattativa.
Il sistema sanitario nazionale britannico, sull’orlo del collasso per i tagli operati dai Conservatori, fa gola ai big della white economy statunitense, in particolare alle grosse case farmaceutiche.
Il differenziale di spesa pro capite
tra Gran Bretagna – che ha un sistema sanitario pubblico – e quello
degli Stati Uniti (totalmente in mano ai privati) rende bene l’idea di
quanto l’ulteriore apertura ai privati possa essere vettore di profitti:
365 sterline in UK contro le 946 in USA.
Vista
la vera censura mediatica, occorre ricordare che proprio una parte
rilevante dell’industria farmaceutica statunitense è al centro di uno
dei più grossi scandali e relativi processi penali della storia
contemporanea, avendo incentivato – con una politica di “marketing
aggressivo” – la prescrizione di oppioidi come gli anti-dolorifici,
sviluppando così una dipendenza su larga scala che ha fatto un vero e
proprio massacro.
Non proprio dei filantropi, quindi…
Secondo
le carte ottenute dal gruppo “Global Justice Now”, grazie al Freedom
of Information Law, il ministro del commercio britannico George
Hollingbery – come ha rivelato The Daily Mirror – ha incontrato
i giganti dell’industria farmaceutica durante il periodo di discussione
degli accordi post-brexit nel quartier generale di Elli Lilly, ad
Indianapolis, nell’agosto del 2018.
Un
clamoroso pugno nello stomaco ai Conservatori, considerando che proprio
la questione del diritto alla salute è diventata nel corso di queste
settimane la prima preoccupazione politica dell’elettorato, secondo
quanto riportano i sondaggi, di fatto superando le polemiche aulla
“Brexit”.
Un’altra inchiesta del Guardian,
pubblicata venerdì 29 novembre, a cura di Denis Campbell – esperto di
politiche sanitarie del quotidiano – ha rivelato alcune cifre della
privatizzazione “strisciante” del comparto.
Dal
2015 vi è stato un aumento dell’89% del valore dei contratti dei
fornitori non NHS del Sistema Sanitario Nazionale, passati da 1,9
miliardi a 3,6 di sterline…
Di
questo processo di esternalizzazione si sono avvantaggiate
particolarmente due aziende: Care UK (una azienda del “privato sociale”)
e la Virgin Care, del miliardario Richard Branson. La prima ha
accumulato 17 contratti di fornitura per il valore di 731 miliardi
sterline dal 2015, mentre nello stesso periodo la seconda si è
aggiudicata 13 contratti del valore di 579 di miliardi.
Un
processo che sembra intensificarsi come ha dimostrato una altra
inchiesta del quotidiano britannico del luglio di quest’anno: per l’anno
2018-19 i privati si sono aggiudicati contratti per 9,2 miliardi!
Un altro punto nodale su cui si è incentrata la campagna elettorale del Labour questa settimana è stato il “cambiamento climatico”,
uno degli aspetti tra l’altro più importanti dell’impalcatura del
Manifesto, che avuto il suo appoggio dalla nota intellettuale ed
attivista statunitense Naomi Klein, con un video di alcuni minuti…
L’impianto
del partito laburista e le affermazioni del capo del Labour sono molto
chiare e sposano l’urgenza nel dovere adottare soluzioni adeguate –
queste elezioni sono the last chance, cioè l’ultima possibilità per porvi rimedio – identificando chiaramente i veri responsabili: “100
aziende sono responsabili del 70% delle emissioni inquinanti a livello
globale e non si deve pagare il prezzo della transizione a net zero economy.”
Il messaggio è chiaro, la soluzione non è l’austerità ecologica
fatta pagare ai più, ma va addebitata ai veri responsabili, cioè
l’esatto contrario delle ricette che oligarchie europee stanno
apparecchiando e di cui Macron è stato il più risoluto interprete (come
per l’aumento delle accise sui carburanti che ha ispirato il movimento
delle “gilet gialli”, dal novembre dell’anno scorso).
La
“marea gialla” e questa radicalizzazione del Labour sono figlie delle
stesse dinamiche – certamente con modalità e sbocchi diversi – ma sono
comunque entrambe espressione del riemergere della lotta di classe e del
processo di politicizzazione della contraddizioni nella convulsa epoca
della fine dell’egemonia neo-liberista.
Andiamo a vedere nel dettaglio, facendo una sintesi ragionata dei maggiori aspetti presenti nelle 107 pagine del Manifesto, mettendo in corsivo le traduzioni di alcuni passaggi salienti.
Per
agevolare la lettura abbiamo diviso l’esposizione in due parti,
riservandoci di pubblicare in un successivo contributo l’analisi
dettagliata della seconda metà del programma laburista di cui abbiamo
qui trattato solo dei primi due capitoli.