giovedì 30 aprile 2015

Geopolitica dell’acqua

La cinematografia è stata in grado molto spesso di descrivere problematiche socio-politiche in modo assai più accurato della saggistica o dei manuali universitari. Nel film della saga di James Bond Quantum of Solace, uscito nel 2008, l’imprenditore Dominc Greene cerca di ottenere il controllo dei bacini di approvvigionamento idrico della Bolivia, al fine di imporre un monopolio di mercato su questa importante risorsa. Per buona parte del film, si è portati a credere che il vero piano sia il controllo di un giacimento petrolifero. L’oro nero è stato infatti per decenni la principale risorsa energetica da controllare, al punto da provocare crisi economiche, instabilità socio-politiche, colpi di Stato e conflitti militari. Da qui a qualche anno il quadro di riferimento potrebbe mutare radicalmente e, proprio come descritto nel film di James Bond, l’acqua diventerà la nuova risorsa su cui nazioni, società, imprenditori e trafficanti tenteranno di imporre il proprio monopolio.
L’importanza dell’approvvigionamento idrico non è infatti sentita unicamente da associazioni ambientaliste o attivisti no-global, ma anche da autorevoli esponenti dei governi e studiosi di relazioni internazionali. Il generale Colin Powell, comandante in capo dell’Esercito statunitense durante la Guerra del Golfo e Segretario di Stato nell’amministrazione Bush Jr., spiegò infatti che: “Lo sviluppo sostenibile è un obbligo morale e umanitario, ma è anche un imperativo per la sicurezza. Povertà, degrado ambientale e diseguaglianze portano alla distruzione di popolazioni, società, nazioni. Questa triade nefasta può destabilizzare stati e persino intere aree geografiche”. Un duro richiamo all’importanza delle risorse ambientali è stato fatto anche dal Segretario Generale dell’Onu Ban Ki Moon, il quale, congiuntamente alla crisi ucraina e siriana, ha ricordato i rischi che una sottovalutazione delle conseguenze di una crisi dell’acqua può avere per la sicurezza internazionale.
Di “guerre dell’acqua” si parla infatti già da qualche decennio e nel 1989, l’ex Segretario UN Boutros-Ghali, all’epoca Ministro degli esteri egiziano, denunciò che la sicurezza nazionale dell’Egitto era nelle mani di almeno altri otto Paesi africani. L’appello chiarisce bene che il controllo della risorsa idrica non ha valore unicamente come fattore ambientale, ma influisce pesantemente sul piano economico, politico e strategico di una Nazione; il potere di pressione che possiedono i paesi a monte dei fiumi è chiaramente maggiore di coloro che si trovano a valle. La minaccia di una guerra per il controllo del petrolio è cosa data per acquisita, ma in un futuro di medio-termine l’acqua rischia di accendere molti più conflitti politico-militari dell’oro nero. In alcune aree del mondo, corrispondenti a quasi il 40% della popolazione mondiale, la scarsità di acqua potrebbe avere gli stessi effetti della crisi dei prezzi del petrolio nel 1973.
L’India e il Bangladesh sono in competizione da anni per il controllo del Gange, il Messico e gli Stati Uniti per il Colorado, la Repubblica Ceca e l’Ungheria per Danubio e nell’Asia centrale cinque repubbliche ex sovietiche si contendono i già risibili bacini dell’Amu Darja e del Sjr Darja. Ma è sopratutto nel Medio Oriente che i conflitti per il controllo idrico potrebbero modellare fortemente gli scenari geopolitici ed economici. Tornando all’Egitto, nel Paese oltre 60 milioni di abitanti dipendono per lo più interamente dalle acque del Nilo, sebbene le origini del fiume si trovino in altre regioni. L’85% delle acque sono infatti generate dalla piovisità dell’Etiopia dove scorrono come Nilo azzurro verso il Sudan e soltanto dopo raggiungono il paese dei Faraoni. Il restante 15% dipende dal cosi detto Nilo bianco, ossia il sistema fluviale che nasce dal lago Vittoria in Tanzania e raggiunge la controparte azzurra nei pressi di Khartoum, capitale sudanese.
In base ad accordi del 1959 con il Sudan, l’Egitto ha diritto a 55,5 miliardi di metri cubi di acqua (su 84) mentre a Khartoum ne spettano 18,5. Per completare il fabbisogno idrico, l’Egitto integra con modesti metri cubi di acque freatiche, drenaggio agricolo e acque di scolo municipali trattate. Ma la richiesta di acqua non è costante nel tempo e, secondo le stime, entro un decennio il paese potrebbe aver bisogno di oltre 70 miliardi di metri cubi di acqua. I nuovi accordi tra i paesi africani che beneficiano delle acque del Nilo hanno invece già portato il Cairo a rivolgersi al Consiglio di Sicurezza dell’Onu ritenendo violati i propri diritti di approvvigionamento idrico. La problematica affrontata dall’Egitto è però, come detto, comune a decine di paesi: Botswana, Bulgaria, Cambogia, Ungheria, Congo, Lussemburgo, Mauritania, Paesi Bassi, Romania, Siria, Israele, tutti ricevono più del 75% delle loro risorse idriche da paesi vicini che si trovano a monte.
Una soluzione politica al conflitto israelo-palestinese si è arenata negli anni ’50 anche per via di inconciliabili posizioni sulle acque del Giordano, che servono da fonte idrica tanto per i territori palestinesi quanto per Israele. L’avvenire dello sfruttamento di questo fiume è motivo di discussione tra i paesi della regione e si somma alle preoccupazioni per la scarsità generale di acqua in tutto il quadrante mediorientale. Calcoli relativi agli sviluppi demografici, all’evoluzione climatica e idrologica, sembrano anticipare forti gap nel rapporto domanda-offerta delle risorse idriche negli anni che verranno, con conseguenti tensioni politiche. Il 70% delle acque mediorientali è infatti destinato alle colture irrigue, sebbene esse siano in una fase di forte declino; questo perché, agli occhi dei governanti arabi, l’autarchia alimentare, l’esigenza di contenere fenomeni di inurbamento incontrollabili e le pressioni esercitate dalle lobby degli agricoltori, sono fattori molto più importanti nella scelta di allocazione delle risorse.
Il controllo delle acque è evidente sarà sempre più importante e strategico, forse perfino più del petrolio. L’accendersi o lo scongiurarsi di conflitti militari e di crisi economico-sociali potrebbero rapidamente dipendere da un bene che si è troppo spesso dato per scontato. Ormai, come insegna la Libia e la Siria, anche un conflitto regionale può avere conseguenze di portata geopolitica ampie e pericolose. Sfortunamente, James Bond potrà disinnescare le speculazioni di avidi imprenditori soltanto nella celluloide.

mercoledì 29 aprile 2015

Renzi e la “Legge Truffa” 2.0

La vicenda della Legge Elettorale sta scatenando continue polemiche, ed è anche ben comprensibile dal momento che il Parlamento ne approverà una che si configura come anticostituzionale ma incontra il gusto di Matteo Renzi. Molti analisti parlano di “rischio” per la democrazia, e i paragoni con i precedenti della Legge Acerbo del 1924 e la “Legge Truffa” del 1953 si sprecano.
Alcuni analisti come Aldo Giannuli arrivano persino a parlare di una legge elettorale “ai limiti del Colpo di Stato“; sicuramente una presa di posizione forte, forse eccessiva, ma che ben fa capire la complessità del passaggio sulla legge elettorale in Parlamento. A Renzi, questo lo si sa, piace fare le cose da solo, di conseguenza il premier fiorentino è la persona che potrebbe realizzare degli strappi senza colpo ferire. E infatti nei prossimi giorni verrà quasi certamente varata una legge elettorale che si configura come minimo come anticostituzionale, e il fatto ancor più grave è che nessuno sembra preoccuparsene più di tanto. La tensione però è fortissima, anche dentro il Pd dove negli ultimi giorni Roberto Speranza si è dimesso da capogruppo proprio per protestare sull’ Italicum, il cavallo di battaglia di Renzi. E mentre si parla se mettere o meno la fiducia, qualcuno fa notare che il Pd è riuscito nella magia assoluta di trasformare il proprio 25% dei voti in una maggioranza di seggi, questo nonostante una parte dei deputati del Pd si sia detta contraria e nonostante molti elettori abbiano votato per esponenti che oggi sono stati inseriti nella riserva indiana della “minoranza Pd“. Insomma si respira un clima autoritario, reso ancora più pesante dal fatto che Renzi non è stato eletto dal popolo ma si è ritagliato il ruolo di premier con una vera e propria manovra di palazzo. Non solo, la nostra Costituzione all’articolo numero 72 indica che le leggi elettorali dovrebbero essere di competenza parlamentare e non governativa, l’esatto contrario di quello che si sta realizzando con l’Italicum. Renzi invece da premier ha imposto un altro percorso alla legge elettorale e minaccia persino il voto di fiducia per tarpare le ali ai dissidenti e impedire il voto segreto. E proprio sul voto di fiducia sembra essersi accesa una nuova polemica. L’ultimo ad aver utilizzato la fiducia fu De Gasperi nel 1953, ma allora il contesto era completamente differente. All’epoca De Gasperi pose la fiducia per accelerare l’approvazione della “Legge Truffa”, ma a differenza di oggi, all’epoca De Gasperi aveva la necessità che si facesse in fretta dal momento che le elezioni si sarebbero tenute a giugno. Nell’Italia di oggi invece le prossime elezioni sono previste tra circa tre anni, salvo sorprese, quindi sfugge il bisogno di urgenza evocato da Pd e Renzi. Preoccupano inoltre le resistenze sul voto segreto, eventualità prevista dall’art.49 della Camera qualora ne facesse richiesta il numero prescritto di deputati. Insomma una delle leggi più importanti, quella elettorale, rischia di venire approvata in patente violazione delle leggi democratiche grazie all’imposizione di un solo partito e contro la volontà di tutti gli altri, una spirale autoritaria che forse diventa ancor più preoccupante proprio perchè tutti gli organi di stampa non la evidenziano in modo appropriato. Insomma secondo la Costituzione la legge elettorale dovrebbe essere condivisa, ma così non è, e del resto è anche un pò ipocrita prendersela proprio ora perchè lo spirito stesso della Costituzione è stato ormai violentato e sospeso da troppo tempo. In passato nel 1924 la legge Acerbo servì per dischiudere le porte del potere al fascismo di Mussolini, un precedente che speriamo davvero con tutto il cuore essere completamente fuori luogo. E il Presidente della Repubblica Mattarella, che sul 25 aprile ha avuto parole più coraggiose di Napolitano rifiutando l’improponibile equiparazione tra partigiani e repubblichini, cosa ne pensa di tutto questo?

martedì 28 aprile 2015

Sciacalli a “venti euro”

Per “venti euro” le ragazzine rom che hanno fatto gridare allo scandalo avrebbero accettato di dire che guadagnano 1000 euro al giorno grazie a furti e rapine. Salvini e soci hanno ottenuto migliaia di “likes” utilizzando tale video come propaganda, ma Servizio Pubblico ha incontrato una delle ragazzine che ha ammesso di essere stata pagata dalla giornalista.
Il video delle due ragazzine rom che annunciavano alle telecamere di vivere rubando e facendo rapine fino a racimolare mille euro al giorno ci aveva da subito lasciato perplessi. Era l’8 aprile e Matteo Salvini era ospite di Mattino 5, importante programma di Mediaset condotto da Federico Novella e Federica Panicucci. E’ proprio in questo contesto che è stato trasmesso il video dell’intervista a una ragazzina rom minorenne del campo di Castel Romano. La ragazzina di fronte alle telecamere ammetteva candidamente di rubare senza remore: “Chissenefrega se rubiamo a una vecchietta, tanto lei puoi muore. Io mi prendo i soldi e sto a posto”. In tanti sentendo le parole della ragazzina le hanno prese per vere anche se si vedeva lontano un miglio che si trattava di frasi artefatte, ancor più che sono state pronunciate da una minore. Nessuno poi ovviamente si è preso la briga di verificare che tali frasi fossero vere, eppure sono state date in pasto all’opinione pubblica e Salvini, ovviamente, ha messo la maschera migliore da sciacallo cogliendo la palla al balzo per scrivere su Facebook a commento di quel video: “Bisognerebbe radere al suolo i campi rom” . Ovviamente sono poi arrivati i “keyboard’s lions”, ovvero i leoni da tastiera che seguono Salvini su Facebook per commentare ogni suo post con foto del Duce, inviti ai forni e quant’altro, che vedendo il video dei rom hanno evocato soluzioni innominabili. Ora però, esattamente come previsto dalle persone di buonsenso, Servizio Pubblico ha smascherato questa ennesima farsa incontrando la ragazza protagonista di quel servizio: “Siamo uscite dalla scuola a San Paolo, ci ha visto la giornalista e ci ha dato 20 euro per dire queste cose: che noi rubiamo 1000 euro al giorno, che la vecchietta deve morire. Perché l’ho fatto? Ero fumata e lei mi ha dato 20 euro”. Insomma per venti euro offerte da una mirabile giornalista la ragazzina rom ha pensato bene di dire quello che Salvini e soci vorrebbero sentirsi dire. Insomma, piccoli Goebbels crescono, e laddove non è possibile trovare prove reali per supportare le proprie teorie, tantovale inventarle.

lunedì 27 aprile 2015

Prelievo forzoso, Bankitalia shock: “I clienti devono contribuire al risanamento di una banca”

Se c’erano ancora dei dubbi sulla vera natura e finalità perseguite da questa governance di Unione Europea, ieri la Banca d’Italia ha chiarito ulteriormente come stanno realmente le cose con un tweet sull’account ufficiale dell’Ufficio Stampa.
È notizia infatti che proprio il Governatore Ignazio Visco abbia esortato il sistema bancario italiano a mettere al corrente i clienti che potrebbero dover contribuire al risanamento di una banca in occasione dell’audizione del 22 aprile scorso alla VI Commissione permanente Finanze e Tesoro del Senato.
Il numero uno di Via Nazionale ha fatto questa considerazione in ottemperanza a quanto disposto dai Meccanismi di vigilanza e di risoluzione che costituiscono i veri pilastri su cui si basa l’Unione Bancaria e che entreranno a regime dal gennaio del 2016.
In poche parole ha iniziato a mettere in guardia che potrebbero esserci delle insolvenze a carico di qualche banca italiana e per le nuove regole europee i clienti potrebbero essere chiamati direttamente a contribuire a farne fronte. Praticamente come dire che d’ora in poi chi affida la propria automobile a un parcheggio privato per la custodia, nel caso di fallimento del garagista, se la vede venduta coercitivamente.
La gravità dell’affermazione è duplice perché non solo è formulata dalla massima autorità istituzionale nazionale in materia, ma anche perché la Banca d’Italia esercita la funzione di vigilanza del sistema bancario e potrebbe pertanto già mettere le mani avanti su situazioni di default che nel breve potrebbero verificarsi. O peggio ancora, proprio per la sua funzione ispettiva e di vigilanza, è già a conoscenza che a breve i clienti di qualche istituto bancario saranno letteralmente rapinati per far fronte a default societari.
Inutile ricordare che in Europa si continua indisturbati e in modo arrogante a sfornare sempre più meccanismi automatici vincolanti in totale sfregio delle rispettive Costituzioni ad iniziare dalla nostra.
Nessuno a livello istituzionale ha mai sollevato problemi di palese illegittimità fra il Meccanismo di Risoluzione e l’art.47 della Costituzione che prevede in modo inequivocabile che “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme…”.
Comunque grazie Governatore Visco per averci ricordato quale sia il vero lato oscuro dell’Europa, forte di chi è ancora disponibile a morire per Maastricht per un ideale che è stato scippato a chi era in buona fede da chi invece vuole portare avanti un disegno sempre più ad appannaggio di pochi interessi e a discapito di molti.
Se inizieremo a vedere anche in Italia le file agli sportelli o ai bancomat per ritirare quel poco che è rimasto dei risparmi accumulati con sacrifici da noi e dai nostri padri in omaggio al “modello Cipro”, si sappia almeno che è per merito di questo sistema a cui ci siamo affidati senza capire nulla mentre una classe politica complice ci faceva strillare e battere la mani in nome del “più Europa”!

domenica 26 aprile 2015

Un 1° maggio col lutto al braccio per i morti sul lavoro"

Il 1°maggio del 2015, Festa dei Lavoratori e giornata di inaugurazione dell’EXPO. l'Osservatorio indipendente di Bologna morti sul lavoro vi invita a portare il lutto al braccio in memoria dei decessi sul lavoro, ben 179 dall'inizio dell'anno di cui 30 di agricoltori schiacciati dal trattore.
Come ben sappiamo l'Expo è incentrata su alimentazione e agricoltura e ci preme ricordare ancora una volta che un terzo dei lavoratori morti sui luoghi di lavoro in Italia sono proprio nel comparto agricolo e solo nel 2014 sono 152 quelli morti schiacciati dal trattore.
Ricordiamo ancora che nonostante i numerosi appelli alle istituzioni, in particolare a Renzi, Poletti e Martina, in cui si allertava dell'imminente strage di agricoltori che sarebbe ricominciata in base all'elaborazione dei dati raccolti e in cui si chiedeva di fare una campagna d’informazione sulla pericolosità del trattore, non ottenevamo nessun tipo di risposta.
Non possiamo che essere indignati da tanta indifferenza nei confronti di queste carneficine e di un fenomeno in generale, quello delle morti sul lavoro, che non accenna a diminuire nonostante le congiunture economiche e la disoccupazione dilagante.

venerdì 24 aprile 2015

Una enorme respon­sa­bi­lità grava sulla mino­ranza dei depu­tati del Pd alla Camera. È quella di impe­dire o con­sen­tire, con le altre mino­ranze, la tran­si­zione dell’Italia dalla Repub­blica demo­cra­tica ad un regime auto­ri­ta­rio, quello del “governo del primo mini­stro“. Fu que­sta la deno­mi­na­zione che iden­ti­ficò la forma di governo vigente in Ita­lia dal 3 gen­naio 1925 al set­tem­bre 1943. Va ricor­data non per­ché si pro­fili una qual­che pos­si­bi­lità di restau­ra­zione del fasci­smo in Italia.
(Ipo­tiz­zarla anche come la più remota delle eve­nienze è da idioti).
Ma per far rile­vare che l’irripetibilità di quella forma spe­ci­fica di auto­ri­ta­ri­smo non auto­rizza affatto a rite­nere che non se ne pos­sano rea­liz­zare altre ver­sioni, sce­glierne altri modelli, i più dispa­rati, avvolti magari nelle vesti più seducenti.
Anche con pro­ce­di­menti nor­ma­tivi non for­mal­mente ille­gali si può infatti instau­rare un regime auto­ri­ta­rio. Si può addi­rit­tura rite­nere che l’uso ille­gale di poteri legali sia lo stru­mento più ade­guato per la con­tor­sione delle isti­tu­zioni, per il capo­vol­gi­mento di una forma di governo. Lo dimo­stra la con­giun­tura isti­tu­zio­nale che stiamo vivendo.
Infatti. È attra­verso pro­ce­di­menti legi­sla­tivi for­zati sì, anche troppo, anche con atti non coperti dalla insin­da­ca­bi­lità degli interna cor­po­ris, ma sicu­ra­mente rien­tranti tra quelli pre­vi­sti in Costi­tu­zione, che le riforme di Mat­teo Renzi, se saranno appro­vate, tra­vol­ge­ranno la stessa Costi­tu­zione usata per appro­varle. Vanno fer­mate ora, nel corso del pro­ce­di­mento di formazione.
Delle due è quella elet­to­rale che con­tiene il dispo­si­tivo distrut­tivo della demo­cra­zia. Renzi dice la verità quando afferma che l’italicum defi­ni­sce governo, mag­gio­ranza, il “suo” Pd, se stesso, la sua riforma dello stato, lo stato … ren­ziano che vuole fon­dare. È infatti lo stru­mento che accu­mula il potere sta­tale in una per­sona sola ed esclude ogni con­tro­po­tere. Lo abbiamo dimo­strato più volte ed in molti su que­sto gior­nale, trin­cea ine­spu­gna­bile della demo­cra­zia costituzionale.
Ce lo con­ferma lo stesso testo dell’italicum come modi­fi­cato dal Senato (nuovo art. 14-bis) ed ora all’esame della Camera che rein­tro­duce la figura di «capo della forza poli­tica» per i par­titi «che si can­di­dano a gover­nare». Con il che, sur­ret­ti­zia­mente, con un solo colpo, prima si tra­sforma l’elezione della rap­pre­sen­tanza par­la­men­tare in ele­zione del governo, poi si riduce il governo da organo col­le­giale con un pri­mus inter pares in organo sot­to­po­sto ad un capo, al «capo del governo», qua­li­fi­ca­zione che com­ple­tava quella di «primo mini­stro» nel regime che vigeva in Ita­lia negli anni venti e trenta del secolo scorso.
Come se non bastasse, il sud­detto testo dell’italicum degrada la posi­zione e il ruolo del Pre­si­dente della Repub­blica. Per­ché muta la strut­tura del suo potere di nomina del Pre­si­dente del con­si­glio, che, da potere con­di­zio­nato che è, secondo Costi­tu­zione, dai rap­porti di forza in Par­la­mento, diver­rebbe potere vin­co­lato. Il capo del governo eletto con l’italicum al Pre­si­dente della Repub­blica, garante della Costi­tu­zione, potrebbe così opporre sem­pre la deri­va­zione diretta che egli solo ha otte­nuto dal corpo elet­to­rale. Si trat­te­rebbe, in ogni caso, di deri­va­zione espressa dal voto di una mino­ranza, quella che, col «pre­mio» — accrocco esclu­si­va­mente ita­lico — sot­trae seggi alla somma delle mino­ranze, pro­prio a quella somma che esat­ta­mente cor­ri­sponde alla mag­gio­ranza reale dei votanti. Ma sono scru­poli incon­ce­pi­bili per Renzi che coe­rente con se stesso non vuole alcun con­trap­peso, vuole tutto il potere. Non indie­treg­gia a fronte della straor­di­na­ria oppo­si­zione dell’italicum ai prin­cipi della democrazia.
Diventa per­ciò dovere inde­ro­ga­bile sbar­rare la strada all’approvazione dell’italicum. E l’approvazione anche di uno solo degli emen­da­menti che i depu­tati di Sel, Cin­que Stelle e mino­ranza del Pd hanno pre­sen­tato o inten­dono pre­sen­tare, può pre­ser­vare, per ora, la demo­cra­zia italiana

giovedì 23 aprile 2015

La grande ipocrisia

L’ipocrisia del cosiddetto mondo civilizzato è assoluta, le ‘buone coscienze’ si dicono dispiaciute oppure propongono soluzioni – vedi sparare sui barconi, combattere gli scafisti (come?) – che sono peggiori del dramma in atto. Quello che viene nascosto e non viene detto all’opinione pubblica europea e italiana è quali sono le cause di questa fuga dall’Africa e dal Medio-Oriente.
Basta vedere da dove provengono i profughi che tentano di arrivare sulle coste italiane e greche: Corno dell’Africa (Somalia, Eritrea e Etiopia), Sudan, Nigeria, Mali , Iraq, Siria, Palestina. Stupisce il fatto che nessuno giornalista italiano si ponga la domanda: ma in Somalia, Eritrea e Etiopia non ci siamo stati noi per quasi un secolo? E poi con il dittatore Siad Barre e i militari Etiopi non abbiamo fatto affari, e quali risultati ha avuto l’intervento militare americano in Somalia bel 1991/1992? Gli shabaab somali sono nati in quel caos provocato dall’intervento italo-americano! In Nigeria sappiamo che la questione della guerra civile e interetnica e di Boko Haram nasce anche dalla presenza del petrolio nel più grande paese dell’Africa nera, petrolio sfruttato dalle multinazionali euro-americane, eppure la popolazione vive in una povertà assoluta. In Mali c’è una guerra civile e la rivolta armata dei tuareg e dei gruppi islamisti provengono dalla Libia dopo la distruzione dello Stato libico in seguito ai bombardamenti francesi, inglesi e statunitensi. L’Iraq è stato distrutto dalle guerre Usa, la Siria è al collasso con milioni di profughi perché gli Stai uniti con i loro alleati sauditi hanno armato e finanziato i gruppi di opposizione armata, compreso l’Isis; per abbattere Assad e accerchiare ai suoi confini il ‘nemico’ russo.
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Poi se a questo aggiungiamo i paesi dell’Africa centrale e centro-occidentale (dal Congo al Camerun, Costa d’Avorio e il Ghana) piegati, sfruttati e strangolati dalle politiche del Fondo monetario internazionale nonché da chi sfrutta l’oro, l’argento, il rame e il coltan – quello che fa funzionare le batterie dei nostri cellulari e computer (leggi anche Benvenuto coltan nell’Europa vigliacca ndr) – che si trovano soprattutto nella zona dei Grandi laghi della Repubblica democratica del Congo e in repubblica centrafricana, se vediamo il Sud del Sudan con le sue ricchezze in petrolio sfruttato dalle multinazionali euro-americane: se partiamo da questa analisi ci rendiamo conto che i veri responsabili di questo disastro umanitario, di questo vero genocidio si trovano nei governi Occidentali, nei consigli di amministrazione delle multinazionali e delle grandi società finanziarie euro-americane.
Con freddezza e in nome del profitto stanno uccidendo popoli interi. Questo con la complicità delle classi dirigenti corrotte di quei paesi dall’Europa all’Africa.
Se non si mette in discussione radicalmente il modello capitalistico di sviluppo umano il disastro continuerà e non potrà che produrre intolleranza, odio e violenza, cioè disumanità

mercoledì 22 aprile 2015

Renzi piace oltreoceano: è il perfetto vassallo europeo

Il viaggio del presidente del Consiglio a Washington è la cronaca di un idillio: Renzi e Obama si sono incontrati, scambiati reciproci attestati di stima e messi in posa per le foto; mancava solo il rito del selfie per celebrare la comunione di vedute e l’abilità comunicativa. L’uno di fronte all’altro hanno potuto specchiarsi e scoprire finalmente le tante doti che li accomunano. Entrambi sono giovani, ambiziosi e dalla veloce carriera politica; entrambi adorano il soliloquio davanti alle telecamere, usare i social media e twittare messaggi d’impatto di poche righe; ma, soprattutto, entrambi si sono presentati all’elettorato in un periodo di profonda crisi economica con meravigliosi spot elettorali e mirabolanti promesse mai mantenute. Sapevano che la gente aveva un disperato bisogno di speranza e gliel’hanno data; il “yes we can” è la versione a stelle e strisce dell’ “Italia riparte”; l’Obamacare è l’equivalente degli 80 euro ai dipendenti statali. Un’immagine fresca che ispiri una ventata di “nuovo”, di una rottamazione del vecchio – la “dinastia” Bush per uno; la storica dirigenza Pd per l’altro – porta voti sicuri, razzolati tra gli strati sociali più colpiti dalla crisi.
Certo Obama, il presidente della prima economia del pianeta, è avvantaggiato: è riuscito a farsi dare un Nobel per la pace bombardando più persone del suo predecessore; a promettere il disimpegno delle truppe americane dall’Afghanistan, la chiusura di Guantanamo e ad “aprire all’Islam” con il suo discorso al Cairo. Quello che ne seguito è sotto gli occhi di tutti: nessun ritiro anzi espansione Nato, perenne guerra di droni, proliferazione dell’ISIS, “primavere arabe” sfuggite di mano, nuova guerra fredda con la Russia; eppure riuscendo sempre a far passare il messaggio di avere compiuto riforme fondamentali e accordi storici dal nessun risultato concreto. Anche il recente annuncio dell’intesa con Cuba e del riavvicinamento all’Iran non sono altro che sparate ad effetto da prendere con le pinze e difficilmente ratificabili dal Congresso. Come Obama anche Renzi è amico dei potenti circoli finanziari, ha fatto fuori la vecchia guardia del proprio partito – la Clinton uno, Bersani l’altro -, ha truccato i conti sull’economia reale ed è affetto dall’ “annuncite”. Entrambi devono difendersi dagli attacchi dei gufi e dei menagrami – i repubblicani, la minoranza pd riottosa – che non vogliono farli lavorare serenamente. Un feeling così profondo non poteva che generare una profusione di complimenti autoreferenziali e di chiare indicazioni sul percorso da seguire assieme per assicurare il benessere dei due Paesi.
“Matteo è sulla strada giusta” dice il presidente americano “impressionato dall’energia e dal senso di visione” del premier italiano; Renzi incassa e sottolinea come gli USA siano il modello da seguire. La crescita – è il mantra che ripetono – avverrà solo attraverso le riforme e la flessibilità; l’austerità è dannosa per l’economia. Peccato poi i dati li smentiscano, certificando come la ripresa americana e l’aumento del PIL non abbiano neppure lontanamente rimpiazzato i posti di lavoro persi dal 2008 e di come queste ricette neoliberiste impoveriscano i cittadini, precarizzando la loro intera esistenza e deprimendo la domanda interna. Eppure Renzi è un modello indiscutibile da sponsorizzare: è riuscito a demolire la sinistra dal suo interno, è a capo del governo senza neppure essere passato dalle urne, ha fornito la maggioranza all’Europarlamento – unico partito di governo ad avere trionfato alle elezioni europee – senza ottenere nessuna carica importante (ma il contentino della Lady Pesc), ha appoggiato incondizionatamente le sanzioni suicide per la nostra economia contro la Russia e ora è il principale sponsor pubblico del TTIP. L’accordo di libero scambio è “un grande obiettivo” verso cui l’Italia “sta spingendo con grande determinazione” e peccato che sabato scorso migliaia di cittadini in 704 piazze del mondo abbiano protestato contro questo ennesimo “cavallo di Troia” che smantellerà l’ultimo barlume di sovranità rimasta. Il 2015 è l’“anno della svolta” per il Partenariato e bisogna farsene una ragione.
Renzi piace oltreoceano perché è un vassallo affidabile: è bastata una telefonata per approvare l’acquisto degli F35, rinnovare la missione in Afghanistan, inviare “aiuti” contro l’ISIS, aprire l’Expo alle multinazionali, spalancare le Casse di Risparmio al Mercato; è abile a vendere promesse irrealizzabili e a sminuire gli avversari; è “l’uomo solo al comando” che riforma leggi elettorali, Costituzione, diritti dei lavoratori senza che nessuno batta ciglio; ha un alto indice di gradimento; insomma è il collaborazionista perfetto per il regime che verrà. E, a differenza del suo omologo di colore, non deve ritirarsi dopo solo due mandati: è giusto all’inizio.

martedì 21 aprile 2015

Un miliardo e mezzo di persone vive con meno di 1,25 dollari al giorno

«Un quarto di persone in più rispetto a quanto stimato» affermano i ricercatori. Ma pare che i numeri siano comunque ancora sottostimati e c’è chi pensa che a essere costretti a vivere con meno di 2 dollari al giorno siano 2,5 miliardi di persone sul pianeta. Le classi sociali più povere (i senza casa o chi vive in situazioni di guerra e di grande pericolo cui i ricercatori non hanno avuto accesso) non rientrano nel calcolo. Elizabeth Stuart, la prima firmataria del rapporto, ha dichiarato al sito web World Socialist che la non totale aderenza alla realtà dei dati su povertà e mortalità infantile e materna è già di per sé un elemento significativo. Se si definisse povertà vivere al di sotto dei 5 dollari al giorno, allora quattro miliardi di persone nel mondo, cioè due terzi della popolazione planetaria,vi ricadrebbe. Eppure, come commenta la giornalista Zaida Green, i multimiliardari intramontabili continuano a guidare auto di superlusso, ad avere lo yacht e un numero record di appartamenti costosissimi. La Banca Mondiale ha fatto la sua scelta e cioè di praticare continuamente iniezioni di enormi quantità di denaro nei forzieri dell’aristocrazia finanziaria mentre il grosso dell’umanità lotta per la sopravvivenza tra povertà, austerità e guerre.
In marzo Forbes ha riportato che il patrimonio netto dei miliardari nel mondo ha raggiunto nel 2015 un nuovo record: 7,05 trilioni di dollari. Dal 2000 il loro “benessere” è aumentato di otto volte. La rivista ha raccontato che malgrado la caduta dei prezzi del petrolio e la debolezza dell’euro, l’indice della ricchezza in mano a pochi nel mondo continua ad aumentare. La quantità di ricchezza controllata dall’1% della popolazione è maggiore di quanto posseduto dal 99%, stando ai dati Oxfam.
Nei giorni scorsi il Fondo Monetario Internazionale ha diffuso il suo World Economic Outlook, secondo cui non si farà più ritorno, per un periodo indefinito, agli indici di crescita economica registrati prima della crisi finanziaria del 2008. Cioè, chiariamoci e definitivamente, la crescita di prima NON TORNERA’ MAI PIU’.
Malgrado le multinazionali abbiano un sacco di soldi, gli investimenti privati sono crollati e il rapporto dice chiaramente come governi, banche centrali e decisori politici pensino, in generale, soltanto all’arricchimento della elite finanziaria globale, a spese delle forze del mondo produttivo e delle popolazioni.
Ad inibire studi che mostrino la faccia sconvolgente della povertà sono gli abissali livelli di disuguaglianza, lo spreco di risorse in infrastrutture, l’erosione degli standard di vita di lavoratori e giovani. Perché non c’è l’interesse a che tutto ciò si sappia.
Lo studio ODI sottolinea anche come oltre 100 paesi non abbiano un sistema funzionante di egistrazione delle nascite o delle morti, non calcolino cn accuratezza i dati sulla mortalità infantile e materna. Ventisei nazioni non raccolgono i dati sulla mortalità infantile dal 2009. Le stime della povertà sono poi ulteriormente inficiate dal disaccordo che c’è sulla definizione stessa di povertà. Acune organizzazioni non governative hanno fissato la loro soglia. In Thailandia la soglia ufficiale è di 1,75 dollari al giorno,mentre comunità urbane l’hanno fissata a 4,74: ovviamente questo porta a percentuali di povertò che variano dall’1,81% al 41,64%. Le guerre e altri conflitti violenti hanno un effetto devastante, creano zone impenetrabili dove accade di tutto. I soldi spesi per le guerre potrebbero servire ad alleviare la miseria. Gli Stati Uniti hanno speso 496 miliardi di dollari per la difesa l’anno scorso; secondo la United Nations Food and Agriculture organization «il mondo avrebbe bisogno di 30 miliardi di dollari all’anno per eradicare la fame».
Diciamo quindi "grazie" al sistema capitalistico, il cui solo obiettivo è di arricchire l’oligarchia finanziaria che domina la società a spese della stragrande maggioranza dell’umanità.

lunedì 20 aprile 2015

La corruzione e l’inefficienza ad alta velocità

Un altro scandalo in quella che molti definirebbero “Repubblica delle Banane”, altra intercettazione, altro “big” che cade: Maurizio Lupi. Sembra proprio che il governo abbia sempre più somiglianze con una giostra del lunapark; a salire ora è Graziano Delrio. Il renziano di ferro è pronto a impegnarsi in una delle poltrone più importanti, il Ministero delle Infrastrutture, Delrio inoltre ha prontamente dichiarato alle telecamere che agirà sinergicamente con Raffaele Cantone. L’arresto di Ercole Incalza, trentennale “boss” del sistema, sottolinea ancora come le oligarchie partitiche, le tecnostrutture burocratiche e le plutocrazie finanziarie/imprenditoriali lavorino insieme nella spartizione dei lavori pubblici, quindi dei soldi a loro collegati. I grandi discorsi, i papiri e gli elogi alle democrazie moderne per la loro funzione di inclusione politica del cittadino vengono annientate dalla realtà dei fatti: c’è un mondo dove i comuni mortali (i cittadini italiani) non possono accedervi. Le grandi opere come la TAV, il MOSE, la Salerno – Reggio Calabria, l’alta velocità a Firenze (la lista continua giuro) tutte sotto indagine.
Esiste ancora gente che vuole aumentare ulteriormente la spesa pubblica al fine di far ripartire l’economia, ma purtroppo in Italia maggiore spesa pubblica non vuol dire maggiori servizi, vuol dire che lo Stato sprecherebbe il doppio. Lo spreco di territorio divorato dalle grandi opere a danno poi dell’ambiente è immane. La visione delle grandi opere è in balia ancora della concezione post rivoluzione industriale, ovvero, grandi opere per un Paese in lenta trasformazione e crescita. Oggi non può continuare a fare discorsi del genere, occorre avere fluidità e molteplicità di potenzialità nelle scelte politico/economiche, la dinamicità della società attuale può rendere obsoleta un infrastruttura in pochi anni. Prendiamo la TAV, ci vorrà molto tempo prima che l’opera sia completata, i flussi economici rimarranno immutati? Bisogna dunque cambiare schemi e parametri, rivalutare molto il criterio di giudizio dell’utenza in base al quale vengono emarginate intere aree del Paese.
Come (disgraziatamente) ben sappiamo in Italia abbiamo due aree differenti economicamente e non solo: il Sud e il Nord. Attraverso il principio dell’utenza e del guadagno a breve termine si è investito in infrastrutture e grandi opere in una sola parte del Paese, quella più industrializzata. I collegamenti in Italia sono pensati in un’unica maniera: da Sud a Nord. Prendendo una cartina delle linee ferroviarie prontamente notiamo l’intreccio assai fitto nella Pianura Padana e dintorni, mentre nel Sud continentale da Bari a Napoli occorrono circa 6-7 ore. Per non parlare di Calabria e Basilicata completamente al di fuori del mondo, basti pensare che Matera candidata italiana come capitale europea della cultura è impossibile da raggiungere in treno. In Sicilia è bastato il crollo di uno snodo principale per dividere in due un’intera isola. Lo Stato non può investire perché non ci guadagnerebbe? Vogliamo veramente soffermarci sull’autostrada “Brebemi” percorsa da ben 11 macchine al giorno , dove inoltre lo Stato (che ha già finanziato l’opera) dovrà sborsare 300 milioni di euro nell’arco 2017-2031? Continuando così non facciamo che ricalcare e rimarcare flussi già potenziati condannando un’intera parte dell’Italia all’isolamento. Le potenzialità di collegare diverse zone meridionali tra loro sono infinte, i diversi focolai di innovazione e produzione uniti tra di loro potrebbero far decollare l’intero Sud, facendo crescere esponenzialmente il Paese.
La classe dirigente italiana non ha quella grinta imprenditoriale che vorrebbe far credere di avere, non vogliamo rischiare cercando di aprire da noi stessi nuovi varchi pieni di possibilità, ma se non c’è rischio non c’è guadagno, questa la regola aurea dell’imprenditoria. Principalmente il Ministero delle Infrastrutture è fermo dal boom economico degli anni ’60, chiunque si siede su quella poltrona ha davanti a sé dei sempiterni problemi: corruzione, inefficienza e carenza di progetti veramente innovativi.

domenica 19 aprile 2015

Il fantasma Grecia tra G20, G7 ed Ecofin. La crescita non c'è e Atene viene abbandonata a se stessa

La volatilità dei cambi e la crescita incerta sono i due temi al centro del G20 finanziario che si è aperto a Washington con la cena ufficiale di ministri e governatori. Il rapporto tra euro e dollaro e la necessita' di aumentare il prodotto potenziale hanno occupato le riunioni preparatorie, dove invece non si e' discusso di Grecia. Eppure quello della Grecia è il tema-fantasma che agita i paesi occidentali. Non caso Varoufakis ha scelto propro questo contesto per dichiarara la crisi di liquidità di Atene. Per il momento l’approccio da parte di Fmi e Usa è soft. Nessuno intende assumersi responsabilità. E la palla viene direttamente rimandata al summit Ecofin in programma il 24 aprile in Lettonia.
Le Borse ieri hanno chiuso negativamente: i rendimenti dei titoli greci a tre anni volano a 26,18%, il massimo dal 2012, e lo spread italiano sale a 130 punti base, segnando i massimi da due mesi.
Sul piano delle trattative tra Atene e Bruxelles, le divergenze che ancora esistono sarebbero ampie e difficili da colmare a livello tecnico perché‚ riguardano gli ambiti 'sociali', cioè pensioni, licenziamenti e misure a sostegno della popolazione, su cui Syriza ha una posizione considerata 'ideologica', che intende ammorbidire. La strategia di Varoufakis e Tsipras sembra essere arrivata al momento della verità. E sembra nche di capire che l’Europa non ha intenzione di rischiare più di tanto. Anche perché, come ha messo in evidenza proprio ieri il direttore del Fmi, Christine Lagarde, la ripresa economica mondiale è in corso ma non è sufficiente per un calo della disoccupazione: è necessario fare di più per evitare un 'nuovo mediocre', ovvero un periodo di crescita bassa per un periodo lungo. Introdurre un altro elemento di forte instabilità come il default della Grecia. il ministro delle Finanze di Berlino, Wofgang Schaeuble, ha voluto precisare che "l'Europa non correra' il rischio di mettere in pericolo l'economia mondiale", anche se, ha aggiunto, "la solidarieta' non è una strada a senso unico".
La Grecia ha bisogno di altri 7,2 miliardi di euro per restare a galla e onorare il debito con l’Europa. L'ultima scadenza possibile entro cui Atene potra' finalmente rendere note le sue vere intenzioni sulle riforme resta il summit dei ministro delle Finanza del 24 aprile in Lettonia. Pierre Moscovici, commissario europeo agli affari economici, intanto sottoline che a Bruxelles non si stia lavorando o sia gia' pronto "un 'piano B'...la posizione della commissione europea è ancora che la Grecia ha il suo posto nell'Eurozona. Lavoriamo su questa base". Questo può lasciar pensare a una conferma delle voci uscite nei giorni scorsi, che parlavano di una “uscita tecnica” ma non politica, una sorta di cordone sanitario che servirebbe a gestire la stabilità dei mercati attraverso un intervento della Bce.

venerdì 17 aprile 2015

E se parlassimo dell’arsenale nucleare israeliano?

I media israeliani hanno ripreso un documento, declassificato e reso pubblico dal Pentagono, che descrive il programma nucleare segreto di Israele. Bombardamenti israeliani su Gaza, luglio 2014. Non solo l’esercito israeliano massacra i civili, tra cui molti bambini, con armi “convenzionali”, ma tiene di riserva più di 200 testate nucleari, vera spada di Damocle che incombe su tutta la regione e il resto del pianeta.
Il rapporto, datato 1987 e intitolato “Esame tecnologico critico, in Israele, e nelle nazioni della NATO”, descrive lo sviluppo delle infrastrutture e delle ricerca nucleare in Israele, lungo tutti gli anni 1970 e 1980. Secondo gli Israel National News, lo Stato (sionista) ha mantenuto segreto il proprio programma nucleare, “per evitare una corsa regionale all’armamento nucleare”, e ritiene che gli Stati Uniti (con la pubblicazione del documento) abbiano “violato l’accordo tacito di non parlare della potenza militare di Israele”.
Tuttavia non è la prima volta che gli Stati Uniti fanno rivelazioni del genere. Il 27 ottobre 1989 il New York Times pubblicò un articolo sulla cooperazione tra Israele e il regime di apartheid dell’Africa del Sud, per la realizzazione di un missile (con testata nucleare) di media portata. L’articolo faceva anche degli accenni al rapporto del 1987, di cui si parla oggi come se fosse una novità – cosa che non è.
Nonostante tutto, il documento (del 1987) è il solo fino ad oggi conosciuto che afferma lo statuto di Israele come potenza nucleare, ed è attualmente fonte di molte discussioni. Esso afferma che i laboratori israeliani di ricerca nucleare, negli anni 1970 e 1980, svolgevano un’attività “equivalente ai (nostri) laboratori nazionali di Los Alamos, Lawrwnce Livermore e Oak Ridge”.
La discussione attuale verte principalmente sul momento scelto per la pubblicazione del rapporto, e i media israeliani criticano l’iniziativa considerandola una risposta al discorso tenuto dal primo ministro Benjamin Netanyahu davanti al Congresso degli Stati Uniti, quando ha criticato l’accordo sul nucleare iraniano in corso di negoziazione.
I media giudicano poi scandaloso che siano passate inosservate le parti (del rapporto) che riguardano l’Italia, la Repubblica Federale Tedesca, la Francia e altri paesi della NATO, preoccupandosi solo di Israele.
Ora che l’ambiguità di cui Israele ha voluto circondare le proprie capacità nucleari sta venendo meno, grazie alla pubblicità data a questo rapporto che è stato attualmente declassificato, bisognerebbe rivedere il Trattato di Non Proliferazione nucleare e anche l’esagerata attenzione fino ad oggi attribuita dai media dominanti al programma nucleare iraniano.
Il preteso timore occidentale per “la bomba iraniana” ha provocato l’imposizione di sanzioni contro l’Iran e una serie di iniziative diplomatiche finalizzate a bloccare la sua ricerca e il suo sviluppo, nel campo nucleare, nonostante l’insistenza con cui Teheran ha sempre affermato che il suo programma ha scopi esclusivamente pacifici.
E invece l’Occidente non ha mostrato una analoga paranoia verso Israele, nonostante le prove evidenti e conosciute del fatto che l’essenza di questo Stato coloniale è di seminare la discordia nella regione, di preparare una guerra con l’Iran e di continuare ad allargare le proprie frontiere – mai definite – a spese della terra palestinese.
Il rapporto pubblicato negli Stati Uniti ha avuto, come minimo, l’effetto di evidenziare questa paranoia e il sistema dei due pesi e delle due misure che caratterizza l’Occidente in questo campo.
Secondo Netanyahu, citato da “Times of Israel”, “l’accordo che si va concludendo (tra Stati Uniti e Iran) … trasmette il messaggio che non vi sono prezzi (da pagare) per l’aggressione e, al contrario, che l’aggressione dell’Iran debba essere ricompensata”.
A differenza di Israele, l’Iran, fino ad ora, non ha mai manifestato alcuna ambizione aggressiva. Ma il rifiuto di Teheran a riconoscere lo Stato israeliano – una posizione che anche altri Stati dovrebbero imitare – è sufficiente perché Netanyahu parli di ipotetiche minacce. Nella sua analisi capovolta della situazione in Medio oriente, il Primo Ministro israeliano parla di Israele, come di “uno dei paesi moderati e responsabili”, che dovranno fronteggiare le ripercussioni di un eventuale accordo con l’Iran. Tuttavia, anche se le menzioni fatte nel passato alla potenza nucleare israeliana sono state cancellate dalla memoria collettiva grazie alla propaganda ufficiale, tutte le menzogne e le arringhe che si moltiplicano oggi contro l’Iran, non potranno più nascondere le ambizioni, intenzioni e capacità nucleari di Israele.

giovedì 16 aprile 2015

"Lo rifarei mille volte". La banalità del torturatore autorizzato

Un universo in un solo tweet. E' difficile trovare un concentrato così illuminante sulla "cultura" che pervade le forze di polizia di questo paese - tutte le polizie, nessuna esclusa - dall'ultima recluta al capo assoluto.
Bisogna dunque ammettere che Fabio Tortosa, l'agente che ha rivendicato con quelle parole "l'opera" compiuta alla Diaz, è un vero talento della comunicazione. Peccato che quel che c'è da comunicare sia orrore puro. E forse c'è un legame stretto tra la pochezza della "cultura" sottostante e la sinteticità del messaggio.
Il tentativo di limitare le conseguenze . affidando al sindacatino Consap il compito di diffondere l'autodifesa - è assolutamente in linea. «Le mie parole su Facebook sono state travisate», esattamente come si vede fare a tutti i politici colti in flagrante per una battuta infame o un'intercettazione imbarazzante.
Così come lo è la chiamata di correo per tutta la struttura gerarchica della polizia e la classe politica - tutti, nessuno escluso - che ha governato il paese dal dopoguerra ad oggi: «il VII nucleo a Genova nell’irruzione alla scuola Diaz ha rispettato tutte le norme, le leggi e le prassi. Quella dell’irruzione alla scuola Diaz rimarrà una pagina nera per questo Paese ma chi c’era sa che è venuta fuori solo una parte della verità. Crediamo che questa voglia di verità debba albergare anche nelle alte sfere, non solo in me, nei miei colleghi che erano con me e nelle vittime, alle quali va tutta la mia solidarietà».
C'è infatti la rivendicazione della legalità della tortura in queso paese ("l’irruzione alla scuola Diaz ha rispettato tutte le norme, le leggi e le prassi"), praticata nella piena consapevolezza che la struttura gerarchica e la politica difenderanno gli uomini eventualmente denunciati per un "eccesso di rispetto di norme, leggi e prassi".
Si potrebbe obiettare che non esiste nessuna legge che ammetta la tortura, così come manca quella che la definisce reato. Ma quasi in nessun luogo e tempo della storia recente c'è una legislazione positiva della tortura. Dovunque è semmai prassi comune, come rivendica Tortosa, affidata alla fantasia creatrice dei singoli o alla codificazione specialistica di gruppi professionali creati ad hoc. Una legalità di fatto, non di diritto, ma legalità. L'esercito israeliano, per esempio, qualifica pudicamente i medici inseriti nelle squadre di torturatori come addetti alla fitness for interrogation.
Non male neanche l'accenno alla “verità che non è venuta fuori”, che strizza l'occhio ai dietrologi che campano – economicamente parlando – sulla creazione di misteri. Sorvoliamo sulla “solidarietà alle vittime”, consigliata probabilmente dall'avvocato o dal sindacato, perché il resto del post Facebook di Tortosa va al di là di ogni commento.
«Quello che volevamo era contrapporci con forza, con giovane vigoria, con entusiasmo cameratesco a chi aveva, impunemente, dichiarato guerra all’Italia, il mio paese, un paese che mi ha tradito ma che non tradirò». Non serve essere dei giuristi professionisti per vedere che in questo poliziotto non esiste alcuna idea di far parte di un corpo dello Stato, vincolato dalla legge nell'esercizio di una funzione “terza” rispetto al conflitto sociale e politico. Il signor Tortosa dice apertamente di sentirsi “parte” del conflitto politico, apertamente contrapposto a quanti esercitavano il diritto di manifestare e – nel momento in cui stavano dormendo all'interno della Diaz – neanche imputabili di aver fatto alcunché di illegale. Per lui i manifestanti sono il nemico, che lui e i suoi colleghi si prendono volontariamente il compito di punire, realizzando quell'obiettivo che “i capi” e “la politica” pretendono ma senza poterlo ammettere, per motivi che al poliziotto semplice sfuggono.
Ancor peggio andrà quando la Corte di giustizia europea si occuperà della tortura nella caserma di Bolzaneto, perché lì i manifestanti erano tecnicamente in stato di fermo, quindi affidati “in custodia” agli agenti di polizia penitenziaria. A Bolzaneto, insomma, la tortura sarebbe contestabile persino secondo il pessimo disegno di legge in (frettolosa) discussione in Parlamento, resuscitato improvvisamente dopo la condanna europea.
Ma come è possibile che le polizie italiane siano così fortemente imprintate dall'ideologia fascista? Non è difficile capirlo. Basta ricordare la continuità che si volle stabilire, nel dopoguerra, tra l'apparato statale creato sotto il fascismo e il “nuovo” apparato statale che avrebbe dovuto incorporare, metabolizzare e difendere la Repubblica nata dalla resistenza. Una continuità per alcuni versi obbligata – ogni rivoluzione o liberazione nazionale deve evitare di smarrire competenze costruibili solo in periodi medio-lunghi – ma perversa se riguarda anche gli organi repressivi.
Non c'è nulla di strano, stiamo dicendo, nel mantenere al proprio posto ambasciatori o tecnici dell'agricoltura, esperti di pianificazione industriale o delle tecnolgie più diverse (anche Lenin e i bolscevichi fecero lo stesso). Altro è prendere il capo dei servizi segreti interni fascisti – Guido Leto, inventore e costruttore dell'Ovra – e farlo diventare capo delle scuole di polizia. I "programmi di studio", fatalmente, ne hanno risentito molto...
Tutto nasce di lì, tutto peggiora col passare del tempo, con le migliaia di casi di “tortura spontanea” nelle caserme e nelle questure o nelle prigioni, sempre coperte dai superiori, sempre benevolmente tollerate da una magistratura non innocente, sempre condannate solo a parole da una classe politica a sua volta sempre più transitoria, ignorante, volgare.
Il signor Tortosa forse ignora tutta la complessità del mondo che ha sinteticamente rappresentato nel suo “commentino”, ma sa perfettamente che il suo modo di pensare è quello che gli hanno insegnato fin dal giorno dell'arruolamento. Una cultura da "mondo di mezzo", incaricato di spezzare le gambe al "mondo di sotto" per conto del "mondo di sopra". E che pretende, all'occorrenza, impunità certa. Come è sempre stato. Il suo errore? Scrivere pubblicamente, su un social network, quello che i suoi capi condividono in pieno (basta guardare gli autori dei like) ma sanno di non poter dire in pubblico.
Un vero problema, per una Unione Europea che vorrebbe passare per tempio dei "diritti umani".

mercoledì 15 aprile 2015

Mattarella impedirà il "colpo di stato morbido" chiamato Italicum?

Con il passaggio alla Commissione Affari costituzionali, l’iter dell'Italicum attraversa la sua fase più delicata vista la forte presenza di “dissidenti” Pd. Cosa può accadere? Sono tre gli “scenari” che Paolo Becchi evidenzia in un articolo sul Fatto Quotidiano:
(1) laddove la Commissione non riuscisse a raggiungere una maggioranza nella votazione, Renzi potrebbe imporre, in nome della necessità di evitare che i lavori parlamentari siano “bloccati” dalle Commissioni, la votazione della legge direttamente in Aula. Si tratta di una pratica che è già stata utilizzata in passato, ma sempre e soltanto con riferimento a singoli articoli, e mai per il testo complessivo di una legge;
(2) Renzi potrebbe anche decidere di imporre le dimissioni ai “dissidenti”, in nome della disciplina di partito. Dal momento che sono i gruppi parlamentari a provvedere alle nomine dei componenti delle Commissioni permanenti, Renzi potrebbe – senza incorrere in nessuna violazione del Regolamento della Camera – sostituire interamente i componenti con altri. Certo, anche in questo caso, si tratterebbe di una decisione senza precedenti, in quanto non si avrebbe la semplice sostituzione di un singolo componente, ma della maggioranza di essi, tra cui figurano alcuni degli esponenti principali del Partito (Bersani e Bindi, in particolare);
(3) La terza ipotesi è il ricorso all’art. 19 del Regolamento della Camera, il quale prevede che un deputato che non possa intervenire ad una seduta della propria Commissione può essere sostituito per l’intero corso della seduta da un collega del suo stesso Gruppo appartenente ad altra Commissione ovvero facente parte del Governo in carica. In questo caso, Renzi potrebbe imporre la sostituzione di alcuni componenti unicamente per la seduta relativa all’Italicum, mitigando così l’ipotesi di cui al numero precedente.
Paolo Becchi scrive di essere certo che Renzi sarà disposto a “forzare” il Regolamento della Camera pur di vedere l’Italicum portato in aula. E, come se non bastasse, a quel punto imporrà anche il voto di fiducia, per evitare i franchi tiratori ed i timidi tentativi di reazione da parte dell’opposizione Pd. Altra “forzatura”, che ricorda il voto della legge-truffa del 1953.
Senza dimenticare che, come si è detto da più parti, l'Italicum continua a presentare gli stessi profili di incostituzionalità già presenti nel Porcellum ed accertati dalla Corte Costituzionale. Ma, anche di questo, Renzi appare del tutto disinteressato. Resterà dunque, alla fine, un’unica possibilità: l’opposizione del Presidente della Repubblica, che potrà rifiutarsi di firmare la legge e rinviarla alle Camere: spetterà soltanto a lui fermare l’arroganza ed il disprezzo del Premier per le istituzioni democratiche del Paese. Ma Mattarella impedirà questo colpo di stato morbido?

martedì 14 aprile 2015

Dittatura europea: la Bce contro la legge greca che blocca gli sfratti dalle prime case

La Banca Centrale Europea – facendosi portavoce delle altre istituzioni che formano il cosiddetto ‘Brussels Group, l’ex troika – sabato scorso ha fatto sapere di non gradire affatto il progetto di legge presentato nei giorni scorsi dall’esecutivo ellenico che impedisce i pignoramenti e gli sfratti delle prime case in quanto supporrebbe un ‘rischio morale’ e minerebbe “la cultura della responsabilità di fronte a un debito”. “L’ampiezza dei criteri ai quali far riferimento per essere coperti dalla legge va assai al di là della protezione dei debitori vulnerabili o con bassi redditi il che può generare un rischio morale e condurre a bancarotte di tipo strategico, minando la cultura del pagamento dei debiti e quindi la possibilità di un aumento dei prestiti nel prossimo futuro” recita la Bce in un giudizio legale reso noto sabato scorso.
Il Ministero dell’Economia di Atene aveva sollecitato l’opinione giuridica della Bce sul progetto di legge antisfratti, uno dei provvedimenti promessi nel corso della campagna elettorale che a fine gennaio ha portato alla vittoria di Syriza e alla formazione del governo Tsipras. Il provvedimento impedisce l’esecuzione degli sfratti in caso di mancato pagamento di un mutuo per le prime case valutate al di sotto dei 300.000 euro i cui proprietari non godano di introiti annui superiori ai 50 mila euro. Inoltre la legge prevede che i proprietari, per essere coperti dalla legge presentata in parlamento, debbano possedere un patrimonio complessivo inferiore ai 500 mila euro. Si tratta di criteri assai più ampi rispetto a quelli previsti dalla legge che regola gli sgomberi già in vigore e che infatti ha consentito un’ondata di sfratti in questi anni in tutta la Grecia. Criteri che non piacciono però alla Banca Centrale Europea: “questo progetto di legge allarga significativamente i criteri per quanto riguarda il valore della proprietà protetta, il reddito annuale e la quantità di denaro depositata in un conto corrente bancaria” ha fatto notare, stizzita, l’istituzione finanziaria dell’Ue che considera la soluzione proposta dal governo greco non sostenibile tenendo conto anche dell’alto indice di non pagamento dei debiti nei confronti delle banche da parte dei greci. “E’ probabile che i criteri troppo larghi previsti dagli estensori della legge incentivino i debitori che non necessitano veramente della protezione contro gli sfratti a non rispettare i propri obblighi o a ridurli considerevolmente pur avendo le risorse economiche necessari” prevede la Bce. Il tasso di insolvenza dei greci ammontava al 34.2% del totale dei prestiti e dei mutui a fine 2014, anche più elevato di quello registrato nel dicembre del 2013, secondo i dati diffusi dalla Banca Centrale Greca. Circa il 28.1% dei prestiti emessi dalle banche greche – per un valore complessivo di circa 69 miliardi di euro – registrano un ritardo nel pagamento di più di 90 giorni. Segno che la situazione sta peggiorando e che non si assiste a nessuna inversione di tendenza.
La Bce può anche pensare che i greci stiano facendo i furbi e che pur avendo le risorse per pagare le rate si rifiutino di farlo sperando nell’indulgenza del nuovo governo. Ma basta farsi un giro per le strade di Atene e Salonicco per accorgersi che la povertà in Grecia è tornata in maniera prepotente, grazie anche alla cura imposta dalla troika che ha salvato le banche dei paesi creditori e affossato l’economia di un intero paese che vorrebbe oggi continuare a controllare fin nei minimi particolari.
Resta ora da capire se il governo ellenico proseguirà per la propria strada e insisterà sull'implementazione della nuova legge nonostante le 'critiche' della Bce alle quali potrebbero far seguito delle verie e proprie stroncature da parte degli altri organi del direttorio dell'Ue. Oppure se Tsipras e i suoi ministri modificheranno il testo per venire incontro ad alcune delle segnalazioni dell'Eurotower - alla quale del resto il Ministero dell'Economia ellenico ha chiesto un parere legale - deludendo però le aspettative dei settori popolari del proprio paese.

lunedì 13 aprile 2015

Altro che bonus, Def scontentatutti

E' tutto un taglio. Dopo l’accordo con i Comuni si apre il capitolo Regioni: il documento del governo preannuncia forti decurtazioni alla sanità. Il premier le chiama «razionalizzazioni», ma i governatori non si convincono. E intanto il Jobs Act scarica l’incentivo assunzioni su imprese e autonomi
Fino alla cam­pa­gna sul «teso­retto», il plu­rit­wit­tato ‪#‎bonu‬­sdef, tutto sem­brava più o meno fun­zio­nare: 1,6 miliardi da devol­vere muni­fi­ca­mente (in vista delle pros­sime ele­zioni regio­nali), un ok di mas­sima incas­sato dai Comuni, i dati dell’economia che più o meno tor­nano, anche se l’occupazione ancora tra­balla. Ma ieri per il pre­mier Mat­teo Renzi e per il suo Def, varato venerdì sera, sono emersi i primi grat­ta­capi: in par­ti­co­lare dalle Regioni, che chie­dono un con­fronto al più pre­sto e temono per i pro­pri bilanci, soprat­tutto per­ché la gran parte della spen­ding review calerà come un’accetta sulla sanità. Senza con­tare le imprese, bef­fate da un codi­cillo del Jobs Act, sco­vato dal Sole 24 Ore, che ieri gli ha dedi­cato la prima pagina, con tanto di aci­dis­simo cor­sivo anti-governo.
L’incontro della Con­fe­renza Stato-Regioni è fis­sato per mer­co­ledì pros­simo, e non sarà per niente sem­plice per il governo: ese­cu­tivo e gover­na­tori dovranno infatti defi­nire dove e come tagliare i circa 2,3 miliardi che, alla voce sanità, con­tri­bui­ranno per oltre la metà al sacri­fi­cio da 4 miliardi impo­sto alle Regioni dalla legge di Sta­bi­lità 2015. Il grosso dei risparmi — circa 1,5 miliardi — arri­verà dai tagli sull’acquisto di beni e ser­vizi, anche attra­verso lo stru­mento della rine­go­zia­zione dei con­tratti. Altre risorse arri­ve­ranno invece dalla rior­ga­niz­za­zione della rete ospe­da­liera. Ma è pos­si­bile pure un inter­vento sulla spesa far­ma­ceu­tica. E si vagliano altre ipo­tesi, anche se Renzi, pre­sen­tando il Def, venerdì aveva escluso ancora una volta tagli alle regioni e ai comuni. «Sem­mai — aveva spie­gato — ci saranno delle razio­na­liz­za­zioni nella spesa sani­ta­ria. Vi pare pos­si­bile — aveva poi chie­sto — che ci siano regioni con 7 pro­vince e 22 Asl?».
Leg­gendo il Def, comun­que, si fa via via più chiaro il qua­dro dei tagli, anche se per il momento i det­ta­gli restano oscuri: ad esem­pio i tagli alla sanità, rien­tre­reb­bero tra i 7,2 miliardi di ridu­zione della spesa chie­sta più in gene­rale a tutto il sistema pub­blico, inclusi quindi i mini­steri. Altri 2,4 miliardi, invece, ver­ranno rica­vati da una revi­sione delle age­vo­la­zioni fiscali: ver­ranno col­pite anche alcune fasce di cit­ta­dini pri­vati, cioè le fami­glie, o si riu­scirà a recu­pe­rare tutto dal rior­dino del sistema che riguarda le imprese?
La pro­messa, comun­que, è che la pres­sione fiscale dovrebbe scen­dere sotto il 43% del Pil: al 42,9% nel 2015 e al 42,6% nel 2016. C’è da spe­ci­fi­care che il cal­colo è al netto degli 80 euro: «Nel trien­nio 2015–2017 -. recita la pre­messa al Def — si riduce la pres­sione fiscale, al netto della clas­si­fi­ca­zione con­ta­bile del bonus Irpef 80 euro». Inol­tre, «viene scon­giu­rata l’attivazione delle clau­sole di sal­va­guar­dia per il 2016, che avreb­bero pro­dotto aumenti del pre­lievo pari all’1% del Pil».
Ieri è con­ti­nuato comun­que il coro di sug­ge­ri­menti per l’utilizzo del bonus da 1,6 miliardi rica­vato dall’aggiustamento (in defi­cit) del rap­porto deficit/Pil (dal 2,5% al 2,6%): Renzi ha già spie­gato che la desti­na­zione verrà decisa «nelle pros­sime set­ti­mane», e si pro­fila sem­pre più la pos­si­bi­lità — gra­dita anche ai sin­da­cati — che la cifra possa essere spesa per allar­gare la pla­tea degli 80 euro. Ieri Anna­ma­ria Fur­lan, lea­der della Cisl, invi­tava a desti­nare il bonus a «inca­pienti, pen­sio­nati, ai gio­vani col­la­bo­ra­tori e agli autonomi».
Per Susanna Camusso, lea­der Cgil, il «teso­retto» deve andare «a inve­sti­menti e occu­pa­zione», come pure «è una nostra richie­sta l’allargamento degli 80 euro a inca­pienti e pen­sioni basse».
Infine, al governo è arri­vato l’attacco della Con­fin­du­stria: le imprese hanno sco­perto che nei decreti di attua­zione del Jobs Act è stata inse­rita una clau­sola di sal­va­guar­dia rispetto alla pos­si­bi­lità che venga esau­rito il pla­fond desti­nato agli incen­tivi alle assun­zioni. I 24 mila euro in tre anni fanno gola, ma il fondo cassa non è infi­nito: e quindi, se doves­sero fare richie­sta più impren­di­tori del pre­vi­sto, le risorse ver­reb­bero recu­pe­rate da uno spe­ciale “con­tri­buto di soli­da­rietà”, a carico delle imprese e dei lavo­ra­tori autonomi.
Una vera beffa, una “pugna­lata” che Con­fin­du­stria non si aspet­tava, dopo le ripe­tute lodi elar­gite ai prov­ve­di­menti del governo. Addi­rit­tura un cor­sivo in prima pagina del Sole 24 Ore ieri pre­ten­deva «il nome di cotanto genio» che ha ideato la clau­sola. E il mini­stro del Lavoro Giu­liano Poletti corre ai ripari: «La clau­sola verrà supe­rata prima dell’ok defi­ni­tivo al

domenica 12 aprile 2015

G8 2001, due occasioni per rovesciare il tavolo

Cosa sia acca­duto a Genova nel 2001 è chiaro a tutti: pezzi di stato e di forze dell’ordine hanno agito fuori dalla lega­lità in modo rei­te­rato e vio­len­tis­simo. A par­tire da quell’attacco alla testa del cor­teo, la rap­pre­sen­ta­zione dello Stato nella piazza e nelle caserme è da dit­ta­tura mili­tare. Carlo muore in que­sto sce­na­rio di aggres­sione e sospen­sione dello stato di diritto.
Que­sta è la verità dei fatti nella loro sem­plice e inne­ga­bile con­ca­te­na­zione, e die­tro le respon­sa­bi­lità imme­diate si cela la parte meno evi­dente di quei fatti, la catena di comando che con­duce a respon­sa­bi­lità isti­tu­zio­nali e poli­ti­che altis­sime. Ed è una verità che le isti­tu­zioni ita­liane con­ti­nuano a negare. Non la rico­no­scono i tri­bu­nali, che finora hanno con­dan­nato soprat­tutto mani­fe­stanti, e non la vuole rico­no­scere il Par­la­mento, che non ha mai accet­tato di isti­tuire una com­mis­sione d’inchiesta.
Ora però sono occorsi due fatti che indu­cono chi non si ras­se­gna a que­sta opa­cità tutta ita­liana a rove­sciare il tavolo, a imporre che si rico­minci dac­capo nella ricerca ed enun­cia­zione pub­blica di que­sta verità. Da un lato il rico­no­sci­mento, sep­pur par­ziale, del reato di tor­tura, su sol­le­ci­ta­zione dell’Europa, dovrebbe indurre a spun­tare una delle armi più effi­caci di ogni abuso di potere, la pre­scri­zione. Dall’altro per la prima volta un uomo dello Stato, un magi­strato come Alfonso Sabella, che ha avuto alte respon­sa­bi­lità pro­prio in quel G8, fa allu­sioni rispetto al livello nasco­sto dei fatti di Genova. Egli ha par­lato di un com­ples­sivo «dise­gno» politico-istituzionale, della pre­senza attiva dei ser­vizi segreti, che sareb­bero arri­vati a can­cel­lare prove a poste­riori, della volontà da parte di appa­rati dello stato di pro­vo­care vit­time. Sabella deli­nea un qua­dro inquie­tante. Io ho vis­suto in prima per­sona la vicenda del G8, e ho vis­suto sulla mia pelle que­sta tor­bida volontà di cri­mi­na­liz­zare tutto un movi­mento dalle varie­gate anime, di spo­stare il piano dia­let­tico dalla poli­tica allo scon­tro mili­tare, e come tutti gli altri mi sono per­ce­pito vit­tima di una vio­lenza indi­scri­mi­nata e ine­so­ra­bile. Il pro­blema non rimane sol­tanto quello di con­dan­nare i respon­sa­bili mate­riali, ma è capire di cosa e di chi quella gene­ra­zione sia stata vit­tima, e le dichia­ra­zioni di Sabella aprono uno spi­ra­glio in que­sto senso.
Le vicende di omi­cidi e stragi che hanno coin­volto pezzi di Stato sono pur­troppo un lugu­bre leit­mo­tiv della sto­ria ita­liana, e per ognuna di esse la dif­fi­cile, a volte impos­si­bile sfida è quella di cono­scere la fonte degli ordini e la catena di comando, così come le stra­te­gie di fondo. Ma ciò di cui dovremmo pren­dere coscienza è che que­sta realtà di sot­to­go­verno del Paese non deve più essere pre­sen­tata come uno stato «paral­lelo» o «deviato» che si mani­fe­sta in cir­co­stanze ecce­zio­nali. Si deve comin­ciare a pen­sare a una moda­lità di orga­niz­za­zione sta­bile dei poteri che, in deter­mi­nate cir­co­stanze, pro­muo­vono azioni ille­gali su man­dati non pre­sen­ta­bili formalmente.
Ora per­ciò chie­diamo a Sabella di cir­co­stan­ziare le sue dichia­ra­zioni affin­ché si pos­sano ria­prire le inda­gini per indi­vi­duare i respon­sa­bili più alti di reati dai con­torni ever­sivi, e chie­diamo che sia aperta final­mente quella com­mis­sione d’inchiesta par­la­men­tare che già nel 2001 e nel 2007 le forze di governo non sono riu­scite ad avviare. Solo in que­sto modo potremo con­tri­buire a far risa­lire la china della demo­cra­zia a que­sto paese, ripar­tendo da Genova.

sabato 11 aprile 2015

Via il fiscal compact per sostenere l’occupazione

L’esigenza primaria è quella di sostituire il fiscal compact e l’ossessione del raggiungimento del, peraltro mal definito, pareggio di bilancio strutturale con una politica fiscale focalizzata sul conseguimento di livelli di occupazione elevati e sostenibili; a tal fine va costruito un accordo tra gli stati membri dell’Unione Economica e Monetaria, che potrebbe, come accaduto nel caso del fiscal compact , coinvolgere anche altri stati membri della UE. Tuttavia, se la politica fiscale può aiutare il raggiungimento di elevati livelli di occupazione, essa deve comunque essere accompagnata da una serie di altre politiche. In primo luogo, servono politiche occupazionali e del mercato del lavoro che sostengano l’occupazione, che sostituiscano quelle “riforme strutturali” finalizzate a ridurre i salari, che aumentano la disuguaglianza e sono spesso dannose anche per l’occupazione. Assieme alla politica fiscale, sono anche necessarie politiche industriali e regionali indirizzate alla costruzione della capacità produttiva e all’assorbimento dei disavanzi delle partite correnti.
È della massima urgenza sostituire all’obiettivo del pareggio strutturale di bilancio, e all’associato impatto deflazionistico, politiche fiscali coordinate, costruite per aumentare la domanda e l’occupazione. La politica fiscale dovrebbe essere riorientata per rispondere alla mancanza di posti di lavoro attraverso una spesa pubblica di migliore qualità, che comprenda la promozione di investimenti “verdi” ecocompatibili, la fine dell’attacco alla spesa sociale, e il re-indirizzamento della tassazione in senso più progressivo (la qual cosa, da sola, tenderebbe a ridurre i deficit di bilancio). La politica economica deve indirizzarsi verso una coordinata reflazione, piuttosto che verso l’attuale coordinata austerità. E’ importante che la BCE (insieme alle banche centrali dei paesi fuori dall’area euro) conceda il pieno sostegno a politiche fiscali per la prosperità e non persista in pressanti richieste di consolidamento fiscale.
A lungo si è sostenuto che una moneta unica necessita di una politica fiscale a livello federale dotata di significativa capacità di prelievo, di un adeguato livello di spesa pubblica e della possibilità di incorrere in deficit o surplus di bilancio. Una politica fiscale federale (se correttamente applicata e non soggetta a disposizioni per il pareggio di bilancio) agirebbe da ammortizzatore in caso di contrazioni dell’attività economica sia a livello federale, che nazionale o regionale, e offrirebbe la possibilità di effettuare trasferimenti fiscali tra le regioni più ricche e quelle più povere. La tassazione federale sostituirebbe parzialmente quella nazionale e dovrebbe essere strutturata in maniera progressiva, così da aumentare le sua efficacia di stabilizzazione. È difficile calcolare con precisione la scala di tassazione a livello federale necessaria per scopi di stabilizzazione ma, per essere veramente efficace, può valutarsi un ordine di grandezza più vicino al 10% del Pil della UE che all’attuale 1%. La costruzione di una politica fiscale federale è un progetto molto a lungo termine, ma indispensabile al corretto funzionamento della moneta unica. Lo sviluppo di un bilancio federale, in ogni caso, non è da perseguire esclusivamente sulla base del fatto che tale bilancio e i trasferimenti sociali ad esso associati sono necessari per completare l’Unione Monetaria. Infatti, un appropriato design del prelievo fiscale e dei programmi di spesa del bilancio federale, che, come detto, dovrebbero rispondere a generali criteri di progressività, avrebbe anche effetti di stabilizzazione economica e di riduzione delle disuguaglianze.

venerdì 10 aprile 2015

La “libertà di espressione” in Occidente. Vergognosa censura in Canada

La virtuosa pianista Valentina Lisitsa, di origine ucraina, è stata sostituita presso l’Orchestra Sinfonica di Toronto (dove lavorava) ed è stata accusata di incitamento pubblico all’odio per aver espresso le sue opinioni politiche molto critiche rispetto alla linea del governo dell’Ucraina, durante la guerra civile che ha martoriato il paese.
Lisitsa, che è nata a Kiev, è una pianista di fama mondiale, con alcuni dei suoi concerti che hanno ottenuto milioni di visite su You Tube.
L’Orchestra Sinfonica di Toronto ha cancellato i concerti di Lisitsa dopo che la pianista aveva richiamato l’attenzione sulla difficile situazione dei cittadini dell’Est dell’Ucraina, i quali sono rimasti vittime dei bombardamenti portati a compimento dall’Esercito ucraino.
Lisitsa aveva appoggiato nel suo inizio l’insurrezione di Maidan, tuttavia in seguito si è resa conto di come era stata sequestrata questa rivolta nell’interesse dei corrotti.
“Mi sono messa su Twitter con di ricercare l’altra faccia della storia che ci avevano raccontato ufficialmente e che non vedi mai nella linea principale dei grandi media, volevo conoscere le cose buone e quelle cattive che stavano accadendo in Ucraina. Ho tradotto le notizie dal sito web in lingua ucraina, ho tradotto i racconti dei testimoni delle atrocità…..mi sono trasformata in una esperta nello smascherare le falsità pubblicate sui media ufficiali”.
In una lettera aperta pubblicata sulla sua pagina Facebook, Lisitsa spiega di aver realizzato un titolo per il suo profilo su Twitter che denomina “NedoUkraïnka”, il cui significato corrisponde a “sub ucraniana” in ricordo delle dichiarazioni del primo ministro ucraino Arseni Yatseniuk il quale aveva definito gli ucraini di etnia russa dell’Est come “sub umani”.
Valentina censurata
Dopo aver ricevuto un numero non specificato di lamentele del pubblico circa le sue “dichiarazioni politiche”, l’Orchestra Sinfonica di Toronto ha annullato le sue apparizioni nel Roy Thomson Hall di Toronto ed ha cercato anche di annullare anche il suo contratto con la pianista.
Il TSO ha anche accusato Valentina di niente meno che incitamento pubblico all’odio a norma dell’art.319 del Codice Penale del Canada e sono arrivati tanto lontano dall’insinuare che a Valentina, cittadina USA, le autorità di immigrazione avrebbero potuto impedirle l’ingresso in Canada”, lo scrive Olga Luzanova.
Alla fine l’Orchestra si è vista obbligata ad adempiere ai propri obblighi contrattuali con la Lisitsa ed a pagare le sue spettanze. Vedi concerto di Valentina: Youtube.com/watch
“Si è vero, la Sinfonica mi va a pagare per non suonare per il semplice fatto che ho esercitato il diritto alla libertà di espressione. Si, procedono a liquidarmi le mie competenze, tuttavia vanno ad annunciare che non posso svolgere il mio lavoro e hanno già trovato un sostituto. Incluso mi hanno minacciato se fossi arrivata a dire qualche cosa circa la causa del mio licenziamento”, scrive Lisitsa, aggiungendo che : “Se lo fanno una volta, andranno a farlo una e un’altra volta, fino a quando i musicisti e gli artisti si sentano intimiditi ed applichino a se stessi una censura volontaria. Il nostro futuro sarà molto cupo se permetteremo che questo accada”.
Nota: questo episodio, naturalmente oscurato dai media ufficiali, dimostra l’ipocrisia dei governi occidentali che proclamano ad alta voce la “libertà di espressione” ed i sacri principi della “libertà di pensiero e di opinione, con tanto di marce propagandistiche al motto di “siamo tutti Charlie” ma in questo caso la libertà di espressione non vale. Ma non soltanto in questo caso. Non vale neppure per i Diudonnè in Francia, l’artista sottoposto a persecuzione giudiziaria per aver manifestato con la satira le critiche ad Israele ed alla lobby ebraica, non vale per chi esprime opinioni storiche in dissenso con la Storia ufficiale, vedi Robert Faurisson, vedi l’avvocato austriaco Sylvia Stoltz, come non vale per altri intellettuali, artisti o scrittori non allineati al “pensiero unico”, politicamente corretto, liberista, atlantista e fiducioso nei sacri principi della “democrazia” intesa all’Occidentale (quella che massacra i popoli che non si allineano dal Donbass alla Siria, alla Libia, all’Iraq e si tappa gli occhi di fronte al genocidio dei palestinesi).
I sacri principi valgono solo se fai parte del gioco, non se te ne tiri fuori. Chi non si allinea viene messo al bando.

giovedì 9 aprile 2015

In Europa c'è il pericolo che si crei un divario permanente tra un Nord ricco e un Sud povero.

In Europa c'è il pericolo che si crei un divario permanente tra un Nord ricco e un Sud povero. Bruegel
Le conseguenze di cinque anni di crisi sulla Grecia sono ormai evidenti. I negozi sono vuoti, le mense sono piene e il numero di persone senza fissa dimora è quasi raddoppiato. Così scrive l'economista Zsolt Darvas al quale è stato commissionato dal Parlamento europeo uno studio su come la vita delle persone in Grecia e in altri paesi è cambiata dalla crisi del debito. "Non solo in Grecia, in diversi paesi della zona euro è ormai una vera e propria crisi di povertà", afferma Darvas, che lavora presso il think tank con sede a Bruxelles, Bruegel.
Insieme al suo collega Olga Tschekassin, Darvas ha calcolato i cosiddetti tassi di povertà per i paesi dell'Unione europea. Per questo, i ricercatori hanno utilizzato i dati Eurostat che calcola ogni anno il numero di persone in Europa che vive in condizioni di povertà. Secondo la definizione di Eurostat qualcuno è considerato povero se soddisfa almeno quattro dei nove criteri di povertà: pagare l'affitto, riscaldare la propria abitazione, mangiare abbastanza, fare una settimana all'anno di vacanza, avere un telefono.
Secondo questa definizione, circa il 9% della popolazione europea vive sotto la soglia di povertà. Esaminando i singoli paesi, lo studio rileva che la povertà è cresciuta soprattutto nei paesi che dopo il 2008 sono stati colpiti dalla crisi dei debiti o che hanno ricevuto aiuti finanziari da parte dei loro partner comunitari.
In Spagna attualmente sono 2,8 milioni le persone considerate povere, 1 milione in più rispetto al 2008. In Italia il numero dei poveri è salito addirittura di tre milioni e in Grecia, durante i sette anni di crisi, è quasi raddoppiato: più del 20 per cento dei greci è considerato povero.
Ben diversa, invece, la situazione negli Stati del Nord Europa come Germania o Finlandia. Qui negli ultimi anni il reddito medio è rimasto costante o è cresciuto e il numero dei poveri è diminuito. "Sussiste il pericolo che in Europa si crei un divario permanente tra un Nord ricco e un Sud povero",

mercoledì 8 aprile 2015

Grecia schiava del common law. E l’Italia rischia la sua fine

La Grecia alla fine ha ceduto. Il ministro delle Finanze del Governo Tsipras, Yanis Varoufakis, lo ha detto a Washington durante una visita con il Ministero del Tesoro Usa. Varoufakis ha promesso che il 9 aprile lo stato greco pagherà il suo debito con il Fondo Monetario Internazionale. Il che significa, semplicemente, ancora più lacrime, ancora più sangue, ancora più povertà. L’alternativa per Tsipras è quella di accettare la mano tesa da Russia e Cina, ribaltando così il posizionamento geopolitico di Atene. Ma per ora rimane un “piano b”. La domanda che però sorge spontanea tra gli osservatori è una: come mai la Grecia, nonostante Syriza sembrasse orientata a stravolgere lo status quo, non si pone minimamente il problema di una possibile uscita dall’Euro? Del resto questo è un quesito che, nell’ambito del dibattito politico, si sta ponendo in Paesi meno malmessi sul versante economico, come Francia o Italia. La risposta è semplice e va ricercata nella composizione del debito pubblico greco. O, per meglio dire, nei titolari del debito greco. Secondo un recente articolo de “Il Sole 24 Ore”, dei 330 miliardi di euro complessivi del debito greco (dato di dicembre 2014, ndr) il 72% sono da considerarsi “officials loans”, cioè crediti in mano a istituzioni sovranazionali (60% della Ue attraverso i suoi fondi Efsf e Esm, e 12% dell’Fmi); 5% sono altri prestiti; l’8% è detenuto dalla Bce eil restante 15% sono titoli di debito trattabili sul mercato secondario.
Questa composizione comporta una significativa differenza con, ad esempio, il debito pubblico italiano, che è per il 70% in mano a creditori nazionali. Il perché è da ricercarsi nella legislazione internazionale o, più precisamente, nella legislazione afferente i cambi e la sovranità monetaria degli stati. Si sta parlando della cosidetta Lex monetae, che regola i cambiamenti valutari in seno alle nazioni. Secondo questo principio, in caso di un cambio di valuta, in questo caso ad esempio da Euro a Dracma, il Paese sarà libero di convertire al tasso di cambio deciso per la nuova valuta anche il valore dei titoli di debito in possesso di istituzioni o realtà nazionali o estere. In breve, qualora la Grecia tornasse alla Dracma e la svalutasse, potrebbe convertire il proprio debito pubblico al tasso di cambio deciso per la quantità posseduta da creditori nazionali, ma anche esteri. Un miliardo di euro diventerebbe semplicemente un miliardo di dracme. Diverso è invece il caso in cui i titoli di debito sono in possesso di entità sovranazionali, come appunto la Banca Centrale Europea o il Fondo Monetario Internazionale. In questo caso il diritto internazionale adotta per convenzione una contrattualistica basata sul diritto di un Paese terzo, prevalentemente il “Common law” del Regno Unito o l’”Admiralty law” del commercio marittimo internazionale. In questo caso i titoli del debito, sempre nell’ipotesi di un ritorno alla Dracma, dovrebbero essere pagati in base al loro valore in Euro, quindi in caso di una svalutazione della nuova moneta il loro prezzo schizzerebbe alle stelle.
Ecco che allora per la Grecia, con un 72% di debito in mano a istituzioni sovranazionali, sarebbe impossibile tornare con facilità a una moneta sovrana. L’Argentina ne sa qualcosa. Ma il caso greco rappresenta una lezione importante anche per l’Italia. Con il Quantitative Easing varato da Mario Draghi e dalla Bceinfatti, che si risolve con un’acquisizione di titoli sul mercato secondario e non su quello primario (cioè non all’emissione dei titoli), il rischio è che la grande quota di debito pubblico in mano a creditori nazionali passi in parte alla stessa Bce, riducendo così allo zero o quasi le possibilità per l’Italia di tornare a cuor leggero alla Lira. Il “bazooka” di Draghi insomma è davvero un’arma. Puntata contro i popoli.

martedì 7 aprile 2015

Obama mette il bavaglio “democratico” al giornalismo Usa

È finita la luna di miele tra il giornalismo “democratico” e Barack Obama? Da noi no, stiamo ancora all’assioma “nero=buono”, ma negli Usa l’insofferenza della stampa verso il presidente si fa ogni giorno più palpabile.
L’ultimo a protestare è il Washington Post, il giornale che scatenò il Watergate (che fu uno scandalo pilotato, ma che nell’immaginario democratico resta una medaglia al valore nella lotta per il controllo della politica da parte della società civile).
In un lungo articolo, il quotidiano della capitale ricostruisce episodio dopo episodio il percorso a ostacoli di alcuni reporter che, nella ricerca di informazioni su temi anche cruciali, hanno trovato chiuse le porte delle agenzie federali.
Questa la prassi usuale: “Il portavoce di un’agenzia – scrive il Wp – spesso di nomina politica, respinge le richieste di intervista, risponde in maniera parziale o quando è ormai troppo tardi per il giornalista”. Oppure, se l’intervista viene concessa, viene strettamente monitorata, con la presenza di un addetto stampa oppure chiedendo di avere in anticipo le domande via mail.
Si ricorda poi un sondaggio del 2012 secondo cui l’85% dei reporter concordava che “il pubblico non riceve tutta l’informazione di cui ha bisogno per via delle barriere imposte ai giornalisti” e si sottolinea come la stretta si sia fatta sempre più evidente proprio durante l’amministrazione Obama, a dispetto delle promesse -nel 2009- per un “livello di apertura senza precedenti”.

lunedì 6 aprile 2015

I primi effetti del Jobs Act sui call center: è iniziato il ricambio

La denuncia della Slc Cgil: la mancanza della clausola sociale e gli incentivi per le assunzioni stanno producendo una sistematica sostituzione dell’occupazione esistente. Le aziende che si presentano ex novo alle gare hanno un vantaggio enorme
I primi effetti del jobs act sui call center (autore foto: Alan Clark, rkdesign) (immagini di autore foto: Alan Clark, rkdesign)
“Il combinato disposto dell’assenza delle clausole sociali, presenti in tutti gli altri Paesi Europei, e degli incentivi per la nuova occupazione stanno producendo una sistematica sostituzione dell’occupazione esistente con cambi di appalto sui servizi in essere che hanno generato già migliaia di esuberi”. Così dichiara Michele Azzola, segretario nazionale Slc Cgil, dopo la presentazione dell'indagine conoscitiva sui rapporti di lavoro nei call center svolta dalla Commissione Lavoro della Camera.

“Aver deciso di incentivare le assunzioni ha avuto come conseguenza, nello specifico del settore, che le aziende che si presentano ex novo alle gare, con personale che costa oltre il 30% in meno rispetto a chi già gestisce il servizio, vincono gli appalti escludendo il personale che garantisce il servizio stesso. Le gare del comune di Roma e Milano, Fastweb, Poste Italiane, Enel hanno già prodotto migliaia di esuberi – prosegue il sindacalista.
“E’ evidente che in assenza di un intervento legislativo in questa direzione, nei prossimi mesi assisteremo alla sostituzione di tutto il personale che opera nei call center generando drammi sociali in tutta la penisola. Il Governo non può restare insensibile a questa situazione e l’annuncio fatto dal Ministro Poletti nell’audizione al Senato alcuni giorni or sono e l’impegno del Sottosegretario Teresa Bellanova a inserire clausole sociali nel settore deve tradursi nel più breve tempo possibile in una norma di legge.”
“Un intervento che, da solo, sarebbe in grado di modificare il modello industriale su cui oggi è fondato il mondo dei call center, garantendo un migliore livello di qualità del servizio ai clienti, una ripresa degli investimenti sulle nuove tecnologie la garanzia della continuità occupazionale del personale occupato – conclude Azzola. Decidere di non intervenire condannerebbe i lavoratori ad un futuro già scritto e il Paese ad avere servizi di scarsissima qualità. Insieme al rispetto della legge sulle delocalizzazioni, che assegna al clienti la facoltà di scelta sulla localizzazione dell’operatore che interviene sui propri dati, tali interventi collocherebbero finalmente l’Italia al pari degli altri Paesi europei.”

sabato 4 aprile 2015

L'uscita della Grecia dall'euro non sarebbe una cattiva cosa".

E ora per Atene manca solo l'epitaffio di Soros per uscire dalla moneta unica
Il tycoon dei tycoon, Warren Buffett, ha dichiarato che la zona euro potrebbe sopravvivere ad una uscita della Grecia dall'area valutaria. “Se alla fine la Grecia dovesse uscire, non sarebbe una cattiva cosa per l'euro”, ha dichiarato in un'intervista a Cnbc martedì e oggi lo riporta Bloomberg. “Se tutti dovessero poi apprendere che le regole servono a qualosa e se c'è un consenso generale sulla politica fiscale tra gli altri membri, sarebbe una buona cosa”, ha proseguito.
“Ho sempre pensato che l'euro avesse problemi strutturali fin dal momento della sua introduzione, ma questo non significa che deve fallire per forza”, ha proseguito. “Ti puoi adattare a questi problemi strutturali, ma forse alcuni paesi non si adatteranno e usciranno. Non è necessario che l'euro debba avere per sempre i membri che ha oggi”.
Queste dichiarazioni seguono, riporta sempre Bloomberg, quelle di Charles Munger, vice presidente della Berkshire Hathaway Inc. di Buffett, che ha criticato la scorsa settimana i cittadini greci per il loro voto di gennaio, che è stato un duro colpo all'austerità imposta e al tentativo di negoziare un alleggerimento del suo debito. “Non può continure con persone che vanno in direzioni così diverse. I tedeschi non possono continuare a finanziare i greci per sempre”, ha concluso Buffett.
“Ti puoi adattare ai problemi strutturali dell'euro”, il sunto del discorso di Buffett quindi. Più facile per un miliardario proprietario di hedge fund che specula su quei problemi strutturali che per le decine di milioni di cittadini dell'Europa del sud che fanno le spese della svalutazione interne e delle “necessarie riforme strutturali”.

venerdì 3 aprile 2015

Lo spirito nuovo del ceto medio

Gli studi sui movimenti sociali hanno sviluppato un insieme di strumenti utile ad affrontare l’azione collettiva durante periodi normali – ovvero periodi ordinati. I sistemi a cui si sono principalmente rivolti sono le cosiddette democrazie avanzate, aventi forme di welfare sviluppate. Le teorie proposte si sono principalmente orientate verso la spiegazione dell’impatto di queste strutture sui movimenti collettivi. La principale aspettativa è che le proteste coinvolgano opportunità e risorse.
In realtà, sappiamo molto meno delle questioni che sono di fondamentale importanza per analizzare il tardo neoliberalismo ed il relativo malcontento, come:
· Movimenti in periodi di crisi, i.e. quando la protesta è scatenata più da minacce che da opportunità
· Movimenti in periodi straordinari, ovvero movimentati, quando l’azione cambia le relazioni
· Movimenti come processi, i.e. come produttori delle proprie risorse e fonte di empowerment
L’attività di ricerca in economia politica ha indicato alcune caratteristiche generali del neoliberalismo: l’emergenza di un libero mercato come ideologia, che indirizza le politiche non verso il ritiro dello stato dal mercato, bensì verso la riduzione degli investimenti nei servizi sociali che diminuiscono le disuguaglianze, e porta protezione al posto del capitalismo finanziario; la privatizzazione dei beni pubblici ed il salvataggio delle banche; la flessibilizzazione del mercato del lavoro, affiancato però a forti attività di regolamentazione, che aumentano le opportunità di trarre vantaggi speculativi.
Questi sviluppi hanno chiare conseguenze sulle basi sociali della politica del conflitto contemporanea. Entrambe le ondate di protesta del 2011 e del 2013 hanno infatti causato nuove tensioni nelle basi sociali della politica del conflitto. Nel 2011, i manifestanti sono stati generalmente considerati, per la maggior parte, come membri di una nuova classe precaria, che era stata fortemente colpita dalle politiche di austerità. Diversamente da quelli del 2011, le proteste del 2013 sono state interpretate come fenomeni del “ceto medio”.
Le informazioni collezionate sul background sociale dei manifestanti non hanno confermato in modo inequivocabile ne’ la tesi della mobilitazione di un nuovo precariato, ne’ quella di un movimento della classe media. In tutte le manifestazioni sono rappresentati una vasta gamma di background sociali: dagli studenti ai lavoratori precari, dai lavoratori manuali e non manuali alla piccola borghesia e ai professionisti. Maggiormente popolate da giovani e figure di elevata istruzione, le manifestazioni hanno anche osservato la partecipazione di altre coorti di età.
Le varie proteste coinvolgono diverse classi sociali, ma non sono un fenomeno tra classi. Tendono piuttosto a riflettere alcuni cambiamenti nella struttura delle classi sociali che hanno caratterizzato il neoliberalismo e la sua crisi: in particolare, la proletarizzazione delle classi medie e la precarizzazione dei lavoratori. Quanto al primo fenomeno, molti studi indicano il declino del potere della classe media, con le tendenze alla proletarizzazione di a) la piccola borghesia indipendente (come ad esempio la trasformazione delle strutture commerciali che portano all’eliminazione dei negozianti indipendenti a favore delle multinazionali); b) i liberi professionisti (attraverso processi di privatizzazione dei servizi, creazione di aziende oligopolistiche e de-professionalizzazione attraverso la Taylorizzazione dei compiti); c) i dipendenti pubblici (attraverso la riduzione dello status e del salario, e attraverso la flessibilizzazione del contratto, etc.).
Per quanto riguarda quest’ultima, la precarizzazione colpisce i dipendenti privati nei settori industriali (attraverso la chiusura dei tradizionali settori fordisti, oltre alla flessibilizzazione delle condizioni lavorative), come nel settore terziario, con l’aumento del lavoro informale, di lavori scarsamente retribuiti, e di condizioni di lavoro precarie.
In sintesi, anziché mobilitare una singola classe sociale, le manifestazioni hanno mobilitato cittadini con diversi background sociali. I movimenti degli anni 2000 sono stati infatti visti come segni di comune opposizione alla mercificazione degli spazi pubblici, in un tentativo di costituzione comunitaria.
Nella mobilitazione di queste vaste e variegate basi sociali, i movimenti sociali in tempi di crisi devono far fronte a specifiche sfide, tra cui la simbolica sfida della costruzione di un nuovo soggetto; la sfida materiale di mobilitare risorse limitate; la sfida strategica di influenzare un sistema politico estremamente chiuso.
Anche se non totalmente limitate da esse, le risposte del movimento alla crisi sono infatti strutturate sulla base delle risorse materiali esistenti (come succede nelle reti di movimento), e anche da risorse simboliche (espresse come cultura del movimento). Questo implica una limitazione delle opzioni disponibili, ma scatena un processo di apprendimento in termini di lezioni dal passato.
Anche se certamente limitati dalle strutture esistenti, una caratteristica dei movimenti nei periodi di crisi è la loro capacità di creare risorse attraverso l’invenzione di nuove strutture, nuovi sistemi organizzativi e nuove forme di azione. In questo senso, per capire le condizioni per l’azione di conflitto, l’attenzione deve spostarsi a ciò che è stato individuato come divenire : non esistono ancora le identità, né sono state costituite; le reti si sono riformate attraverso il superamento di vecchie scissioni. In periodi straordinari, a causa della rottura di vecchie identità e di vecchie aspettative, emerge un nuovo spirito: i movimenti sociali esprimono allora, prima di tutto, il diritto di esistere.
Lo sviluppo di uno spirito nuovo è stato osservato nelle piazze occupate, che hanno caratterizzato il nuovo repertorio di proteste. Esse rappresentano infatti spazi per la formazione di una nuova soggettività, basata sulla ricomposizione di precedenti scissioni e l’emergenza di nuove identità. Le manifestazioni sono quindi da vedere come produttrici di entità emergenti, che vanno al di là dei propri elementi costitutivi. L’attenzione sul divenire affiora attraverso le pratiche che sottolineano l’importanza degli incontri – infatti, viene celebrata nelle varie piazze la diversità delle persone.
In questo senso, come indicato dal percorso evolutivo di Grecia e Spagna, anche se apparentemente in ritirata, le ampie ondate di protesta hanno un carattere costitutivo, e sospendendo vecchie regole ne creano di nuove. In questo modo la democrazia si è evoluta nelle strade.

giovedì 2 aprile 2015

Caso Aldrovandi, sì al processo per Giovanardi

Via libera dalla Giunta. Il senatore era stato accusato di diffamazione aggravata.
La Giunta per le Immunità del Senato ha detto sì all'autorizzazione a procedere nei confronti del senatore Ncd-Ap Carlo Giovanardi chiesta dai giudici di Ferrara.
Contro la richiesta dei magistrati hanno votato i rappresentanti in Giunta di Forza italia, Gal, Ncd e Lega. A favore, invece, Pd e M5s.
DIFFAMAZIONE AGGRAVATA. Il parlamentare era stato accusato di diffamazione aggravata per alcune dichiarazioni rilasciate al programma radiofonico La Zanzara nel 2013 sul caso di Federico Aldrovandi, il 18enne morto a Ferrara il 25 settembre 2005 in un controllo di polizia.
Giovanardi è nel mirino della magistratura ferrarese per alcune dichiarazioni pronunciate dopo la manifestazione di solidarietà nei confronti dei quattro agenti condannati per la morte di Federico Aldrovandi, che si tenne a Ferrara il 27 marzo del 2013, sotto l'ufficio del Comune dove lavora Patrizia Moretti, la madre del ragazzo ucciso.
DEFINÌ LA FOTO CON IL SANGUE «UNA MONTATURA». La madre in quell'occasione aveva mostrato agli agenti una foto del figlio che era stata definita «modificata» anche da Giovanardi. Il senatore di Ap aveva dichiarato a La Zanzara che la foto mostrata da Patrizia Moretti, era una montatura e che «la macchia rossa che è dietro (la testa) è un cuscino, non è sangue». Ma la madre, aveva continuato Giovanardi, «ha detto che è sangue e neppure lo può dire perché non è così», ribadendo più volte l'affermazione. Giovanardi aveva replicato alle accuse di diffamazione sostenendo di non aver mai detto che «la foto fosse modificata».
DECISIONE CHE ORA SPETTA AL SENATO. «Ho sempre detto che la foto mostrata dalla signora Moretti era vera», ha poi assicurato il senatore, «altra questione è rappresentata dalle differenti versioni che nel processo e fuori dal processo sono state date di quello che appare nella foto...». Ma la Giunta ha dato il via libera affinché i magistrati procedano nei suoi confronti per diffamazione aggravata. Una decisione che dovrà essere ora confermata dall'Aula di palazzo Madama.