mercoledì 31 agosto 2016

Terremoto, le responsabilità di chi ha governato sono gravi ed evidenti

Se è vero, infatti, che non è possibile prevedere i terremoti, è altrettanto vero che in un Paese con un rischio sismico tra i più alti nel mondo e con 3.690 terremoti di magnitudo superiore a 2.5 negli ultimi 5 anni, il minimo che si possa fare è prevenire: il che significa, come va ripetendo da anni l'inascoltato Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, "rispettare le norme antisismiche nella costruzione di nuovi edifici e cercare di mettere in sicurezza gli edifici già esistenti, soprattutto quelli di edilizia pubblica".
Mentre in Giappone e Stati Uniti si sono ottenuti importanti risultati nel minimizzare gli effetti distruttivi di eventi sismici di magnitudo ben superiore a quella del sisma di Amatrice ed Arquata, in Italia invece i terremoti si trasformano quasi sempre in tragiche emergenze ed in eventi luttuosi.
Il prezzo che si paga al piegarsi alla logica dell'emergenza ha anche altre conseguenze nefaste: ragionando in termini strettamente ragionieristici, per ricostruire si spende molto più che prevenire. Si stima, infatti, che le varie ricostruzioni post-terremoti degli ultimi cinquant'anni (dal Belice in poi) siano costate alla collettività qualcosa come 150 miliardi di euro mentre per mettere in sicurezza gli edifici già esistenti ne occorrerebbero 80.
Ricostruire in situazioni di "emergenza" determina inoltre incapacità di controllo della spesa (lo ha certificato la Corte dei Conti), pessimi risultati dal punto di vista tecnico-costruttivo (si pensi ai numerosi casi di crollo dei balconi degli alloggi antisismici a L'Aquila); favorisce il diffondersi di fenomeni corruttivi e mafiosi-camorristici-ndrangestisti (vedi Irpinia e, di nuovo, L'Aquila), l'annientamento di intere comunità e delle relazioni sociali; determina, infine, lo stravolgimento delle regole dello Stato di diritto (limitazione delle libertà personali, espropriazione dei poteri degli enti territoriali, ecc.).
La logica emergenziale alimenta il vortice dell'irresponsabilità collettiva ed è per questa ragione che deve essere denunciata all'opinione pubblica che ha a sua volta il diritto-dovere di reagire.
La responsabilità delle devastazioni e del pesante tributo pagato in termini di vite umane per eventi sismici (quasi 5.000 vittime negli ultimi 50 anni) e per disastri ambientali (si pensi, ad esempio, ai recenti fatti di Genova o all'alluvione di Sarno con i suoi 159 morti o a quella piemontese del 1994 che causò 70 vittime) va ascritta per intero a coloro che, investiti di responsabilità di governo, hanno brillato per inerzia, spingendosi fino a promuovere l'utilizzo predatorio e spregiudicato del territorio.
Come dimenticare, in tempi recenti, l'edificazione e l'infrastrutturazione, con tanto di pareri favorevoli ed autorizzazioni, di parte della città de L'Aquila su una faglia attiva (Pettino), e la seguente ricostruzione nel medesimo sito ad alto rischio sismico? Come non ricordare che il decantato "Sblocca Italia" è la più recente e forse la più tristemente nota tra le modalità con cui la bramosia di devastazione dei territori si è tradotta sul piano legislativo?
Mancata prevenzione antisismica, edificazione selvaggia, trivellazioni, realizzazione di infrastrutture energetiche inutili, impattanti e dispendiose, sono figli della stessa cultura predatoria, della medesima matrice ideologica i cui pilastri portanti sono lo sfruttamento dissennato del territorio, la mancanza di rispetto del diritto alla vita ed il saccheggio dei beni comuni.
Questa nuova tragedia nazionale non è frutto della casualità ma ha mandanti ed esecutori che meritano di essere sfiduciati dai cittadini e sanzionati, quanto meno sotto il profilo politico.
In merito ad altri profili di responsabilità sarà la magistratura a pronunciarsi. La Procura di Rieti, che ipotizza il reato di disastro colposo, è già al lavoro. Confidiamo che giustizia sia fatta e che non abbiano a ripetersi i fatti de L'Aquila (assoluzione in Cassazione dei componenti della Commissione Grandi Rischi e condanna delle famiglie delle vittime al pagamento delle spese processuali).
Dopo questa nuova strage di innocenti, nessuno può arrogarsi il diritto di tergiversare: occorre subito una rapida inversione di rotta nelle politiche di governo del territorio e nella pianificazione delle opere, anche di quelle ritenute fino ad oggi strategiche e di interesse nazionale.
Nulla è più strategico e nulla risponde in maggior misura all'interesse nazionale che la tutela della sicurezza e della vita dei cittadini!
Governo e Regioni si facciano promotori SUBITO di un Piano Straordinario di messa in sicurezza dell'intero territorio italiano -dal punto di vista sismico, idrogeologico e paesaggistico-, sul modello dell'Unica Grande Opera (UGO) di Salvatore Settis e Tomaso Montanari, e del patrimonio edilizio privato e pubblico, reperendo risorse anche in ambito U.E., stimate in 4 miliardi di euro/anno per 20 anni, che devono poter essere impegnate anche in deroga ai limiti posti dal Patto di Stabilità e che, oltre tutto, genererebbero nuove attività d'impresa, occupazione qualificata e gettito fiscale.
Con riferimento alla prevenzione degli effetti distruttivi degli eventi sismici, sul modello di quanto fatto in Toscana con la legge regionale n. 56 del 1997, che per prima ha introdotto finanziamenti pubblici per i privati, è necessario ed urgente procedere alla realizzazione di indagini di microzonizzazione sismica in tutto il territorio nazionale (i fondi assegnati ai Comuni sono stati utilizzati tutti e non si sono rivelati sufficienti), di verifiche sismiche su edifici pubblici, di una rete sismica e geodetica; promuovere una campagna di capillare informazione diretta alla popolazione e nelle scuole; mettere a disposizione delle famiglie in incentivi e finanziamenti tali da incoraggiarle a verificare sotto il profilo sismico e, se del caso, ad adeguare le abitazioni di proprietà; semplificare l'attuale meccanismo per l'erogazione dei contributi già stanziati e disponibili.
Tali nuovi finanziamenti pubblici sono da intendere come aggiuntivi, cumulabili e non sostitutivi rispetto alla misura della detraibilità fiscale prevista nella misura del 50%, per spese di adeguamento sismico sostenute da soggetti Irpef e condomini, che andrebbe anch'essa resa strutturale.
Sempre nell'ottica della prevenzione e della corretta pianificazione delle opere pubbliche, dovrebbero essere introdotti più severi requisiti nella valutazione di compatibilità ambientale, nella selezione delle aree in cui è possibile realizzare determinate opere ed attività, e più elevati standard qualitativi nella progettazione di autostrade, dighe, acquedotti, gasdotti, ecc..
Con riferimento alle opere ed alle attività "petrolifere", la soppressione del Piano delle Aree, prevista nella Legge di Stabilità 2016 e fortemente voluta dal Governo, va nella direzione opposta. Lo strumento deve essere assolutamente recuperato in modo che si sappia una buona volta cosa può essere costruito e cosa no ed in quali aree del Paese.
Il sistema Paese reclama un salto di qualità e di razionalità per porre rimedio agli effetti delle scelte scellerate del passato e per prevenirne di nuove.
Il pensiero corre alla diga idroelettrica di Rio Fucino, sul lago di Campotosto, costruita sulla faglia dei Monti della Laga, in provincia di Teramo, il cui cedimento spazzerebbe via interi centri abitati a valle; alle 8 esplosioni di metanodotti verificatesi in Italia dal 2004 ad oggi (Montecilfone, Tarsia, Tresana, Sciara, Sant'Alberto, Pineto, Roncade ed Alta Val Marecchia); alle campagne di trivellazioni autorizzate sia a terra in zone ad alto rischio sismico (Emilia, Basilicata) sia in mare, in aree soggette al fenomeno della subsidenza (Ravennate e Veneto); alle attività di reiniezione a forte pressione dei fluidi di scarto della lavorazione del petrolio, a circa 4 km di profondità, che si vorrebbero effettuare in Basilicata all'interno delle rocce carbonatiche deformate della piattaforma apula; infine, al TAP, al " grande tubo" lungo quasi 700 chilometri, che, nonostante l'opposizione di alcune Regioni, attraverserà l'Italia dalla Puglia fino all'Emilia Romagna, transitando lungo la dorsale appenninica ed attraversando le località più colpite dal terremoto del 1997 (Marche ed Umbria), dal sisma del 6 aprile 2009, in provincia de L'Aquila, e, infine, dal nuovo terremoto di magnitudo 6.2 che ha raso al suolo Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto ed altri borghi minori.
In ultimo ma non per ultima, la riforma del Titolo V della Costituzione, con tutto ciò che ne conseguirà in termini di mancata interlocuzione e collaborazione tra Stato e Regioni in materia di approvazione di opere ed infrastrutture energetiche, con conseguente accentramento delle scelte nelle mani dello Stato che potrà disporre a proprio piacimento dei territori e delle loro fragilità ambientali, così già si è verificato con il TAP.
Centralizzare non paga neppure sotto il profilo della gestione dei contributi previsti per la messa in sicurezza degli edifici privati. Nel 2013, ad esempio, delle 11.000 domande presentate ai Comuni, dopo un lungo passaggio di carte dai Comuni alle Regioni e da queste alla Protezione Civile, ne sono state accolte appena 1.849, per un contributo medio a pratica di circa 20 mila euro.
ll capitolo delle modifiche costituzionali si inserisce in un disegno complessivo di riforme della Carta e strutturali che riduce la possibilità per i cittadini di compiere scelte democratiche e di partecipare alle decisioni che hanno una ricaduta diretta e inequivocabile sulla propria salute, sulla sicurezza, sul benessere delle famiglie e della comunità.
E’ il momento che i cittadini si riapproprino di questo diritto-dovere e che si prenda atto della gravità della situazione del nostro Paese che, ancora una volta, si riscopre fragile da un punto di vista strutturale, ma ricco di partecipazione civica.
E' compito di chi governa i territori, ma anche di noi cittadini nel richiederle e sollecitarle, dar vita a politiche economiche che riducano il distacco tra la difesa del suolo e della salute pubblica (poca) e la solidarietà umana

martedì 30 agosto 2016

La lotta per la giornata lavorativa di sei ore

Quanto a lungo dovremmo lavorare? La proposta di Jeremy Corbyn di una politica di giornata lavorativa di sei ore dimostra che la risposta a questa domanda non è un fatto stabilito da Dio. In realtà ciascuna società prende una decisione volontaria e le risposte sono soggette a grandi fluttuazioni storiche e a lotte sociali, cui continuiamo ad assistere oggi. Quando François Hollande ha annunciato quest’anno che la settimana di 35 ore sarebbe stata aumentata si è scontrato con gli scioperi di #LoiTravail, che sono stati abbastanza feroci da vedere l’esausta polizia francese pregare i sindacati per un cessate il fuoco. Con il maggior partito socialdemocratico d’Europa che propone le sei ore, si tratta oggi di una mossa che potrebbe essere concretamente realizzata. Ma quali sono gli argomenti a favore e contro? Com’era la giornata lavorativa in passato? E come potrebbe essere in futuro?
Innanzitutto guardiamo alla storia. Uno dei miti del capitalismo è che esso riduce il fardello della fatica umana, ma ciò che in realtà è stato fatto è creare un vasto potenziale per tale riduzione. Il fine del profitto mutila e devia l’innovazione tecnologica sotto il capitalismo, e ciò nonostante il progresso prosegue a rotta di collo. Possiamo produrre più di quanto generazioni precedenti abbiano mai sognato, usando solo una frazione della forza-lavoro. Keynes notoriamente previde che all’alba del ventunesimo secolo questa tendenza ci avrebbe lasciato a lavorare solo 15 ore la settimana. Ma che cosa ha in realtà fatto, storicamente, il capitalismo alla giornata lavorativa? Nel corso della rivoluzione industriale era in media di 12-14 ore, a volte estendendosi sino a 16 ore. Si trattava di un cambiamento di scala quasi inimmaginabile rispetto al mondo pre-capitalista.
Spesso immaginiamo che la vita dei servi nel feudalesimo fosse di miseria e stenti e non è che in questo non ci sia un elemento di verità. Ma una delle durezze che tendiamo a immaginare, l’immagine di un contadino che fatica pesantemente nei campi dall’alba al tramonto è un mito. Secondo il professore di Harvard James Rogers la giornata lavorativa medievale non superava le otto ore. La partecipazione dei lavoratori alla lotta per le otto ore nel corso della fine del diciannovesimo secolo, perciò, stava “semplicemente sforzandosi di recuperare quanto lavoravano gli antenati quattro o cinque secoli prima”. Ciò è proseguito nel primo periodo moderno, in cui i lavoratori si sono rifiutati di venerare più del dovuto il loro lavoro e hanno tenuto duro quanto alle pause nella giornata lavorativa che rendevano le loro vite più tollerabili, come dimostrano le osservazioni di James Pilkington. E’ stato l’avvento del capitalismo industriale che ha visto i lavoratori precipitare in giornate lavorative estreme da parte di quelle che erano, nell’espressione di Eric Hobsbawm, “molto chiaramente le forze dell’inferno”. La resistenza della classe operaia ha gradualmente riportato indietro la durata della giornata lavorativa, dapprima con la Legge delle Dieci Ore (una conquista del Cartismo) e alla fine attraverso la famosa richiesta: “otto ore per lavorare, otto ore per riposare e otto ore per far quello che ci pare”. Da ciò potremmo presumere che il capitalismo sia stato storicamente domato quanto alle ore lavorative. Ma che cosa è successo da allora? I lavoratori britannici oggi restano al lavoro quasi nove ore al giorno e siamo quelli che in Europa accumulano il maggior numero di ore lavorative l’anno. Siamo tornati indietro. Quali sono gli argomenti a favore di un cambiamento di corso?
Innanzitutto gli argomenti contro che, in verità, oggi sono esili sul campo. Persino una ricerca su Google di “argomenti contro le 6 ore al giorno” producono una lunga lista di articoli che ne cantano le lodi, compresi datori di lavoro e altri segmenti dell’élite. Segnalano il successo di particolari imprese o regioni, quali Göteborg, Svezia, nell’attuarle.
Ma alla fine si trovano i critici. Maria Ryden, vicesindaco di Göteborg, obietta argomentando che “il governo non dovrebbe interferire nel luogo di lavoro”. Forse la Ryden si è persa le migliaia di intrusioni che i governi già operano sul luogo di lavoro: il salario minimo, remunerazione uguale per le donne, pause obbligatoria e, naturalmente, le otto ore esistenti. Kyle Smith ha scritto sul New York Times paragonando le sei ore al giorno alla pretesa di “cuccioli di unicorno per tutti”, e segnalando che “ogni ora in cui non lavorate vi costa soldi”. Ma le otto ore al giorno sono esse stesse il risultato di una riduzione volontaria e Smith non offre spiegazioni sul perché ciò sia irrealistico mentre le sei ore sono una fantasia utopistica. Quando alla perdita di remunerazione, a Göteborg le sei ore sono state attuate senza cambiamenti dei salari.
I tipici argomenti a favore di una riduzione sono semplici. Commentatori segnalano i dimostrati aumenti di produttività, il ridotto assenteismo e la migliorata salute dei lavoratori. Sono tutte cose preziose, ma sono solo i relativamente ristretti vantaggi dell’aumentata efficienza del luogo di lavoro e noi dovremmo guardare oltre essi. Dovremmo guardare alla massiccia riduzione della nostra impronta carbonica, al miglioramento della salute mentale di cui godiamo e al maggior tempo di cui disporremmo da dedicare alle nostre famiglie e ai nostri amici. Dovremmo porre domande dure riguardo al lavoro nel suo complesso. Che cosa facciamo che è necessario e che cosa che è superfluo?
Chiaramente ci sono vasti segmenti dell’economia globale che sono francamente industrie di spreco e che dovrebbero essere lasciate cadere o essere massicciamente ridimensionate. David Graeber è lieto di fare i nomi nel suo saggio “On Bullshit Jobs” [Lavori stronzi]: servizi finanziari, telemarketing, espansione senza precedenti di settore come la legge societaria, amministrazione accademica e sanitaria, risorse umane e pubbliche relazioni. Graeber segnala che persino lavoratori impiegati in tali industrie tendono a considerare stronzate i loro lavori; che sono “del tutto privi di significato, che non offrono nulla al mondo e, nella loro valutazione, non dovrebbero esistere”.
L’industria del confezionamento [packaging], gran parte della quale è dedicata alla commercializzazione di prodotti, è la maggiore industria del pianeta, dopo quella energetica e quella alimentare. Il confezionamento costa in media tra il 10 e il 40 per cento dei prodotti non alimentari acquistati e il confezionamento dei cosmetici può costare fino a tre volte quello del contenuto. I costi della pubblicità arrivano a un importo simile. I soli Stati Uniti hanno speso un trilione di dollari nel 2005; il costo totale per por fine alla povertà estrema è stimato in 3,5 miliardi di dollari. Dedichiamo uno sforzo, risorse e manodopera colossali in un’attività che non contribuisce ad altro che ai margini di profitto. E lo stiamo facendo in un mondo che sfreccia verso il precipizio di un cambiamento climatico irreversibile, in un mondo in cui la metà di noi afferma che il superlavoro danneggia le nostre relazioni con i nostri figli e i nostri partner. Eliminando il lavoro superfluo, automatizzando dove possibile i lavori esistenti e riducendo la durata della giornata lavorativa libereremmo un’enorme quantità di tempo per la manodopera globale, concedendoci un’occhiata al mondo del FALC: Fully Automated Luxury Communism [Comunismo di lusso interamente automatizzato].
Quel tempo potrebbe essere dedicato all’ozio, al miglioramento di sé o semplicemente a progetti di lavoro più significativi e più soddisfacenti. Lottare per una riduzione delle ore di lavoro non significa prendere una posizione contro il lavoro in sé, bensì contro la compulsione a un lavoro non necessario e a favore della sua sostituzione con qualcosa di meglio. Dovremmo lottare per una giornata lavorativa di sei ore e poi dovremmo spingerci molto oltre e lottare, nell’espressione di James Butler, per “un mondo dove siamo lasciati seduti in giro a condividere nuove varietà di formaggio scoperte, a creare più night club di nicchia e a esplorare gli oceani, o qualsiasi altra cosa contribuisca a un’umanità felice e realizzata”

lunedì 29 agosto 2016

Stressati digitali: boom di malati in Italia. Ecco cosa fare per non cadere nella trappola

Le vacanze, specie quelle estive, sono un momento ideale non solo per rilassarsi, ricaricare le pile, recuperare forze ed energie, restituirci il piacere di piccoli gesti, come la buona compagnia degli amici e della famiglia. Le vacanze al mare o in montagna sono anche un’occasione, da non sprecare, per superare la nostra condizione di stressati digitali. Nella vita di tutti i giorni siamo vittime di una valanga di informazioni e di stimoli che alimentiamo, quasi con ossessione, attraverso computer, cellulari, smartphone, e via proseguendo nell’infinito oceano delle sirene tecnologiche. La progressione dei messaggi è spaventosa: nel 2006 inviavamo 31 miliardi di email al giorno, adesso siamo circa a quota 200 miliardi; senza considerare l’uso spropositato che facciamo dei socialnetwork. Ma quali sono gli effetti più evidenti dello stress digitale? Ed esiste una prevenzione per questo tipo di patologia?
Stress digitale: gli effetti negativi sulla salute e i consigli per combatterlo
ìI DANNI CAUSATI DAL TECNOSTRESS -
Sono davvero tanti i danni che possono essere causati al nostro stato psico – fisico, ecco i principali ai quali bisogna assolutamente porre rimedio:
Il primo danno è la perdita, o la riduzione, del sonno. Non a caso un terzo degli italiani dormono male, e nell’ultimo decennio abbiamo perso un’ora di sonno, quanto basta per alterare l’umore e il metabolismo, con un aumento della produzione di zuccheri e del nostro peso medio. D’altra parte ogni volta che rispondiamo al cellulare o scriviamo un messaggio elettronico, produciamo dopamina, cioè una sostanza chimica che eccita e sollecita energia. Fino a impedire al cervello, sottoposto a un uso compulsivo della comunicazione, di riposare. L’effetto della chimica è ancora più controproducente nelle ore notturne (quasi il 40 per cento degli italiani leggono messaggi a letto, prima di addormentarsi), perché la luce dello schermo impedisce la secrezione di melatonina, l’ormone che ci predispone al sonno.
Un secondo effetto dello stress digitale è la perdita di concentrazione e di creatività. Il bombardamento degli stimoli non è sostenuto in modo efficace dal cervello, che affanna di fronte all’attività multitasking, fino a modificare le connessioni neuronali. In parole povere: il pensiero si abitua a essere rapido e distraibile, mentre perde la capacità di profondità, tipica della riflessione. Un tempo si diceva: «respira, e poi parla». Adesso dovremmo dire: «Spegni il telefonino o il pc, e poi parla».
Terzo danno: si appannano le relazioni. Il 38 per cento degli adolescenti ha preso l’abitudine di controllare messaggi e video mentre mangia, magari in famiglia. Un gesto perfetto, nella sua semplice e violenta ripetizione, per spegnere la conversazione, allontanare i contatti reali per intensificare soltanto quelli virtuali. Il problema si pone anche nelle aziende, dove l’invasività della posta elettronica, per esempio, si traduce con un numero: un dipendente è costretto, mediamente, a interrompere il suo lavoro almeno 8 volte all’ora per controllare la posta elettronica, non sempre indispensabile alla sua attività e spesso fonte di cattive relazioni con i suoi collaboratori.
COME COMBATTERE LO STRESS DIGITALE -
Lo stress digitale, per nostra fortuna, non è una malattia inguaribile. E non richiede neanche terapie particolari, se non un grado di consapevolezza dei rischi legati all’iperconnessione e qualche contromisura ispirata più al buon senso che alla medicina. Di fronte a un fenomeno evidente di obesità informatica, serve la dieta. Proprio come quando ci ritroviamo ingrassati, con i relativi rischi di varie malattie, e modifichiamo il regime alimentare. Nel suo libro Felicemente sconnessi (edizioni De Agostini), Frances Booth dopo avere segnalato i vari pericolo dell’era digitale, passa in rassegna alcune soluzioni alternative. Si parte dall’idea di “staccare la spina”, appunto disconnettersi, almeno un’ora e mezza prima di andare a letto, e dal non rispondere subito a email e sms se non sono considerati assolutamente urgenti.Stress digitale: gli effetti negativi sulla salute e i consigli per combatterlo
Un altro fattore di prevenzione dello stress digitale è quello della meditazione: possono bastare anche dieci minuti ogni pomeriggio, durante i quali si chiudono gli occhi, ci si rilassa e non si pensa a nulla. In America è già di moda lo slow web, cioè l’applicazione della filosofia zen alla navigazione su Internet: pause frequenti e ritmi non ossessivi. D’altra parte proprio negli Stati Uniti il fenomeno della schiavitù della Rete e dell’iperconnessione ha assunto le dimensioni di un’epidemia: il 34 per cento degli adulti, secondo uno studio della Cambridge University, si dichiarano stressati a causa delle tecnologie informatiche.
Infine, la dieta tecnologica può essere favorita da altre abitudini alternative. Passeggiare, camminare, andare in bicicletta, curare un giardino o un orto. Conversare. Ovviamente senza auricolari e in totale “offline”. Un ordinario esercizio fisico, in tutta rilassatezza e senza rincorrere chissà quale benessere del corpo, resta il modo più efficace per non alterare i delicati equilibri del nostro cervello sottoposto al bombardamento delle informazioni. Ed è un esercizio che andrebbe insegnato alle nuove generazioni dei “nativi digitali” come un modo sano di usare il computer e in generale le varie apparecchiature elettroniche. Dice Antonio Giovannelli, docente di Tecniche riabilitative psichiatriche dell’università di Milano e studioso di patologie legate alla dipendenza da Internet: «In realtà l’uso corretto delle tecnologie, considerando anche la loro enorme diffusione, andrebbe insegnato in modo sistematico nelle scuole. Poche ore, ma con scadenza regolare, dalle elementari alla maturità». Poche ore di autodisciplina, quelle che servono per non inciampare nel labirinto dello stress digitale.

venerdì 26 agosto 2016

Terremoto: in Italia il 70% delle costruzioni viola le regole antisismiche

Gli sfollati sono migliaia, 1.500 solo nelle Marche. E per la gestione di questa emergenza saranno utilizzati i primi soldi che saranno stanziati oggi dal consiglio dei ministri. Per i costi della ricostruzione vera e propria, invece, è ancora presto. Il ministro delle Infrastnitture Graziano Delrio dice che al momento «non è possibile indicare una cifra precisa». Servirà tempo. Ma è utile ricordare che per il terremoto dell’Aquila, per alcuni aspetti simile a quello di ieri, la spesa complessiva programmata fino al 2029 ammonta a 13,7 miliardi di euro. Dopo ancora, forse, sarà il momento delle decisioni per rendere più sicuri gli edifici, si legge su “il Corriere della Sera“.
In Italia il 70% delle costruzioni non è antisismico
O meglio non è progettato per resistere alla «scossa di riferimento», quella che può tornare in media ogni 475 anni. Non c’è una regola unica per tutto il territorio nazionale: la forza del terremoto di riferimento varia di chilometro in chilometro. Il punto è che devono essere costruiti in modo da resistere a questa scossa solo gli edifici nuovi. Per quelli esistenti non c’è alcun obbligo. Ed è questo il vero problema per un territorio fatto dai centri storici antichi, di case che si tramandano di generazione in generazione. La nostra bellezza, la nostra debolezza. «In Giappone una botta così arriva una volta al mese e loro, sulla sicurezza, sono diventati i primi al mondo», dice Massimo Forni, capo del laboratorio di ingegneria sismica e prevenzione dell’Enea, l’agenzia nazionale per le nuove tecnologie. «Mentre da noi – continua – succede ogni cinque anni, Tutte le volte piangiamo, promettiamo. Ma poi ci dimentichiamo e lasciamo perdere».
Oggi la metà delle scuole italiane non rispetta le regole
Dopo il terremoto che distrusse la scuola di San Giuliano di Puglia, nel 2002, è scattato l’obbligo di «analisi di vulnerabilità» per tutti gli edifici pubblici. Ma ancora oggi la metà delle scuole italiane non rispetta le regole. Il vero punto interrogativo, però, sono le case private. Nel 2002 — ricorda Armando Zambrano, presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri — proprio la Regione Lazio approvò una legge che rendeva obbligatorio il fascicolo di fabbricato, documento che imponeva un esame di tutti i fabbricati esistenti per sapere almeno in che condizioni erano. Ma la norma è stata poi bocciata da TAR e Consiglio di Stato, fermando tutto. E allora, per la sicurezza, restano due strade. La prima, più volte scartata, è l’assicurazione obbligatoria. Oggi è volontaria e rarissima: meno dell’1% dei 33 milioni di case ha una polizza del genere. L’alternativa, che il governo sta studiando, è rafforzare gli sconti fiscali per chi fa una ristrutturazione anti sismica.

giovedì 25 agosto 2016

Rothschild: "Il mondo vive il più grande esperimento di politica monetaria della storia"

Secondo Rothschild, le conseguenze di questo esperimento, che comprendono i tassi di interesse bassi, rendimenti negativi sul debito pubblico e alleggerimento quantitativo, sono ancora sconosciute.
Bassi tassi di interesse, rendimenti negativi sul debito pubblico e alleggerimento quantitativo sono parte del più grande esperimento finanziario della storia, ha sostenuto il capo del fondo di investimento RIT Capital Partners, Jacob Rothschild. Le sue conseguenze sono ancora sconosciute, ha avvertito.
"Nei sei mesi in esame, le banche centrali hanno continuato con quello che è senza dubbio il più grande esperimento di politica monetaria nella storia del mondo," ha scritto Rothschild nella relazione finanziaria annuale della società.
"Siamo in acque inesplorate"
Secondo il miliardario, "Siamo in acque inesplorate", ed è impossibile prevedere le conseguenze della combinazione di tassi molto bassi di interesse, con il 30% del debito pubblico al mondo di rendimenti negativi e alleggerimento quantitativo su vasta scala.

mercoledì 24 agosto 2016

Russia offre assistenza all'Italia

La Russia si dice pronta ad aiutare l'Italia a "liquidare le conseguenze" del grave sisma. Il ministro delle Situazioni di Emergenza russo Vladimir Puchkov - riporta Interfax - ha inviato un telegramma al capo della Protezione civile Fabrizio Curcio offrendo "assistenza pratica". Secondo il ministero russo, i soccorritori dell'unità 'Tsentrospas' sono pronti a partire. Mosca si dice anche disposta a inviare il complesso diagnostico mobile 'Struna' per stimare i danni agli edifici

martedì 23 agosto 2016

IL COSTO DELLA FAME OSCURA IL FUTURO

Lo studio Coha (Cost of hunger in Africa) è un progetto multi-paese finalizzato a stimare gli impatti economici e sociali della denutrizione infantile nel continente. L’iniziativa è stata lanciata nel 2012 nel quadro della strategia di nutrizione regionale africana (2005-2015), ed è in corso in 12 paesi sub-sahariani che, di volta in volta, sono oggetto di un report.
Il progetto è realizzato grazie agli sforzi congiunti della Commissione dell’Unione africana (Ua), dell’Agenzia di pianificazione e coordinamento (Npca) e della Nuova partnership economica per lo sviluppo dell’Africa (Nepad), che pubblicano i vari report con il sostegno della Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa (Uneca) e del Programma alimentare mondiale (Pam).
Lo studio presenta dati e analisi, mirati a informare i decision maker e l’opinione pubblica riguardo gli elevati i costi che le società africane stanno già pagando per non aver affrontato il problema della denutrizione infantile. I risultati raccolti nei rapporti finora pubblicati (Etiopia, Swaziland, Uganda, Egitto, Malawi, Burkina Faso e Rwanda), hanno fornito prove convincenti per guidare il dialogo politico e aumentare gli sforzi nel prevenire il fenomeno.
Lo scorso 2 agosto, è stata pubblicata la fase del progetto relativa al Ghana dove, secondo il rapporto, l’insufficiente nutrizione tra i bambini ha aumentato le spese sanitarie e comportato pesanti oneri per il sistema educativo del paese.
In termini numerici, il documento rileva che i costi umani ed economici della malnutrizione infantile, hanno assorbito il 6,4 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) del paese dell’Africa occidentale.
Nella regione settentrionale del Ghana, il 30% dei bambini sotto i cinque anni sono rachitici o cronicamente malnutriti. Questo deficit non incide solo sulla loro crescita, ma anche sul loro sviluppo educativo e sul potenziale economico che rappresentano per il futuro del paese.
Il rapporto afferma, inoltre, che i bambini che avranno maggiori problemi di crescita sono quelli che fin da quando erano ancora nel grembo materno hanno avuto un alimentazione carente degli elementi nutritivi essenziali, tra cui proteine, vitamine e minerali. Se la sottoalimentazione continuasse durante i primi cinque anni di vita, causerebbe un preoccupante arresto della crescita con conseguente rischio di cecità e riduzione delle capacità mentali.
Lo studio rivela che il 37% della popolazione adulta in Ghana ha sofferto di uno sviluppo stentato e che almeno il 24% dei casi di mortalità infantile sono stati associati alla denutrizione. E la mortalità infantile abbinata all’insufficiente nutrizione hanno ridotto la forza lavoro del Ghana del 7,3%.
La relazione ha registrato anche alcuni progressi nel miglioramento dell’alimentazione dei bimbi durante gli ultimi due decenni in Ghana, dove la malnutrizione cronica e l’arresto della crescita sono stati ridotti dal 23 al 19%. Tuttavia, gli autori del documento hanno evidenziato l’urgente necessità di compiere ulteriori passi avanti nel contrasto alla sottoalimentazione cronica che affligge il paese.
Il rapporto sottolinea infine che l’arresto della crescita rappresenta ben più di un semplice problema di salute e necessita essere affrontato attraverso un approccio multi-settoriale e prioritario nei programmi di sviluppo a livello nazionale.

lunedì 22 agosto 2016

Soros con Renzi: Sì al referendum, cioè al diktat della Bce

Pochi giorni fa George Soros sul “Corriere della Sera” dispensava buoni consigli a Renzi su come vincere il referendum costituzionale. In questo modo il più famoso di quei moderni pirati che sono gli speculatori finanziari internazionali confermava ciò che in molti sappiamo. Che la finanza e le banche, quell’1% di super-ricchi che oggi ha in mano il potere, abbiano diretto interesse nella vittoria della controriforma della nostra Costituzione. E che per vincere questi signori siano disposti a fare carte false e anche per questo, dopo mesi di campagna per il Sì a reti unificate, ancora non sappiamo quando si andrà a votare. Il pronunciamento di Soros, che segue quello di Confindustria, top manager di multinazionali, banchieri italiani ed europei, ci porta direttamente alla dimensione sociale dello scontro sulla controriforma costituzionale. Cioè al fatto che, contrariamente a quanto affermato dai suoi estensori, la controriforma di Renzi abbia proprio il fine ultimo di affossare la prima parte della Costituzione del 1948.
La legge Boschi sistematizza processi di riduzione dei poteri e dei diritti popolari e del lavoro, di centralizzazione del potere, iniziati negli anni ‘80 del secolo scorso con i governi di Bettino Craxi. Non a caso è in quegli anni che si comincia a parlare di Sorosgovernabilità e decisionismo. Allora si lanciò il progetto di una “grande riforma” che superasse il sistema costituzionale uscito dalla sconfitta del fascismo e rafforzasse il potere di decidere del governo e del suo capo. Craxi accompagnò questo suo disegno con il taglio per decreto legge del salario determinato dalla scala mobile. Questo per chiarire quale fosse il segno sociale ed economico del decisionismo rivendicato. Nel mondo della globalizzazione dei mercati e della speculazione finanziaria dominante sarebbe stato necessario un nuovo tipo di governo, più simile all’amministrazione di una grande impresa che al governo democratico della società.
Contemporaneamente allo smantellamento di quei lacci e lacciuoli, per usare la definizione di Guido Carli, che limitavano mercato e potere d’impresa, negli anni ‘80 si diede il via alla piena affermazione del potere della finanza sul bilancio pubblico. Nel 1982 venne decisa la separazione del Tesoro dalla Banca d’Italia, per cui da quel momento l’amministrazione pubblica per i suoi bisogni avrebbe dovuto indebitarsi con le banche e la finanza internazionale a prezzi di mercato, invece che ricorrere alla Banca d’Italia come nei decenni di crescita precedenti. Insomma negli anni 80 si misero in campo tutte le basi delle politiche liberiste contro il lavoro e i diritti sociali, poi sviluppatesi nei trenta anni successivi. Ora Renzi riprende e porta a conclusione tutti i progetti di riforma autoritaria della democrazia nati oltre trenta anni fa, contemporaneamente ed assieme all’affermazione delle politiche economiche e sociali Benigni, tra i supporter del Sìliberiste. Il suo quindi non è un cambiamento, ma il compimento sul piano istituzionale delle politiche che da trenta anni colpiscono il lavoro.
Roberto Benigni e altri sostengono però che la legge Boschi possa essere accettata proprio perché inerisce alla organizzazione del potere e non ai suoi fini, che resterebbero ancora quelli definiti nella prima parte, che non viene toccata. La Costituzione più bella del mondo resterà, dicono costoro, sarà solo più efficiente. Ma come si può sostenere che la completa riscrittura di 47 articoli della Costituzione in una volta sola lasci inalterata la nostra Carta? Se in una automobile conservo un po’ della carrozzeria esterna e cambio motore e parti meccaniche io ho un’altra vettura e anche la carrozzeria ne risentirà, sempre che non si vada a sbattere. La prima parte della Costituzione, cioè i principi sul lavoro, sulla salute, sul rapporto pubblico privato, sull’ambiente, da tempo viene devastata dalle normali leggi dei governi. Forse che acquistare un operaio come un pacchetto di sigarette dal tabaccaio, con i voucher, ha qualcosa a che vedere con il concetto costituzionale di lavoro? E la distruzione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e tutte le forme di precarietà previste per legge, non espellono forse i diritti costituzionali dai luoghi di lavoro?
Di Vittorio chiedeva di far entrare la Costituzione nelle fabbriche per realizzarla davvero, oggi la si estromette dal rapporto di lavoro ridotto a merce, per poi renderla vuota e inutile ovunque. E lo Sblocca Italia, la Buona Scuola, i tagli alla sanità che costringono milioni di poveri a non curarsi, quelli alle pensioni, le privatizzazioni non devastano ogni principio della prima parte della Costituzione? E la guerra in violazione plateale dell’articolo 11? Da tempo la politica quotidiana dei governi vìola i principi della prima parte della Carta, la controriforma della sua seconda parte istituzionalizza e rende permanente il pratico smantellamento della prima. La nostra non è una Costituzione liberale che stabilisca semplicemente le regole del gioco per Il leader della Cgil Giuseppe Di Vittoriol’accesso al potere politico. Quello era lo Statuto Albertino, che permise venti anni di dittatura fascista nel rispetto delle sue regole. La nostra è una Costituzione democratica a forte caratterizzazione sociale, è una costituzione sociale.
Voglio ricordare quello che secondo me è l’articolo che meglio caratterizza il senso e lo scopo della nostra Carta, l’articolo 3. All’inizio quell’articolo afferma semplicemente il principio dell’eguaglianza formale: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, fin qui siamo nel solco delle costituzioni liberali e borghesi. Ma poi nel secondo comma cambia tutto, leggiamolo: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Ecco, qui la nostra Costituzione afferma che senza eguaglianza sociale non c’è davvero neppure quella formale. Marchionne che guadagna 50 milioni di euro all’anno ed un operaio Fiat che ne prende 25000 non sono eguali. L’uno ha infinitamente più potere dell’altro. Per questo il diritto del lavoro non è eguale a quello commerciale, perché la compravendita della prestazione di lavoro non avviene tra contraenti con pari forza contrattuale.
Il diritto del lavoro parte dal presupposto che i rapporti di forza tra impresa e lavoratore vadano riequilibrati a favore di quest’ultimo; ed è proprio per questo che le riforme liberiste degli ultimi trenta anni smantellano il diritto del lavoro e lo sostituiscono con il diritto commerciale. Secondo la controriforma liberista il lavoro va trattato come qualsiasi altra merce e non deve essere sostenuto da leggi e tutele speciali, altrimenti verrebbero violate le sacre leggi del mercato. L’articolo 3 riconosce la disparità sociale delle classi come limite assoluto della democrazia e affida alla Repubblica il compito di “rimuovere”, apprezziamo bene la forza di questa parola, gli ostacoli economici all’eguaglianza. Chi sono i soggetti a cui la Repubblica deve offrire la sua tutela particolare, i cittadini svantaggiati genericamente intesi? No,sono proprio i lavoratori perché evidentemente Marchionneper la nostra Costituzione il grado di libertà reale del paese si misura innanzitutto con quello del lavoro. Una Costituzione classista? No, democratica nel senso ampio assunto da questa parola dopo la sconfitta del fascismo.
Si noti bene poi che il compito di rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza non è affidato al governo o al suo capo, ma alla Repubblica. Cioè al governo, al Parlamento, alla magistratura, agli enti locali, a tutte le istituzioni politiche che compongono la Repubblica, comprese le organizzazioni che la Costituzione riconosce come fondamentali, sindacati, partiti, libere associazioni. Tutto questo è la Repubblica, che si dà il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono la reale eguaglianza. La repubblica prefigurata ed organizzata dalla controriforma di Renzi è invece tutta un’altra cosa. Prima di tutto nella Costituzione renziana c’è un uomo solo al comando. Il Parlamento è composto di nominati, direttamente il Senato, indirettamente ma egualmente la Camera. Che viene eletta con una legge elettorale che concede il potere assoluto alla migliore minoranza, che potrà decidere quello che vuole, o meglio quello che vuole il suo capo, contro la maggioranza del paese che non l’ha scelta per governare. Un colpo di Stato permanente, frutto del golpe bianco che ha prodotto la stessa legge di riforma.
Non dimentichiamo infatti che un Parlamento dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale, con una maggioranza che rappresenta poco più del 20% del paese reale, ha smontato un Costituzione votata nel 1947 da oltre il 90% di una Assemblea eletta dal 90% dei cittadini. Il potere autoritario che scaturisce dai 47 nuovi articoli della Costituzione renziana distrugge l’autonomia di tutte le istituzioni della Repubblica, dal parlamento, alla magistratura, agli enti locali. I sindaci diventano impiegati del governo, visti i vincoli nazionali ed europei cui sono sottoposti secondo il nuovo articolo 119. I sindacati, anche per le complicità di Cgil, Cisl e Uil, vengono anch’essi soggiogati al sistema di potere. Che a sua volta deve obbedire a vincoli e ordini superiori, quelli dettati dal vincolo europeo. In sintesi, la controriforma della Costituzione è un tavolo a tre gambe. Quella Maria Elena Boschicentrale, su cui siamo chiamati ad esprimerci con il referendum, organizza il sistema di potere attorno al capo. Un’altra gamba è l’Italicum, la legge elettorale truffa che determina chi sarà il capo.
La terza gamba è il nuovo articolo 81, che impone anche al capo un vincolo superiore: quello del Fiscal Compact europeo, il pareggio di bilancio obbligatorio costituzionalmente. Una repubblica autoritaria a sovranità limitata, questo è ciò che sta sul tavolo della controriforma costituzionale. Altro che rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e la partecipazione dei lavoratori, la nuova repubblica si dà un altro mandato, quello di rimuovere gli ostacoli alla libertà d’impresa. Nel nome del mercato e della austerità europea, il capo supremo deve fare sì che la repubblica sia sempre più appetibile per gli investimenti della finanza e delle multinazionali, che devono essere attirati come dice la propaganda liberista dominante. È la repubblica del Ttip, il trattato internazionale che vorrebbe concedere il diritto alla extraterritorialità giudiziaria alle multinazionali, prima di tutto sui diritti del lavoro e sulla tutela della salute e dell’ambiente.
Le fonti ispiratrici di questa Costituzione di mercato sono chiaramente rintracciabili nei centri del potere finanziario europeo e multinazionale. Basta rileggersi la lettera del 5 agosto 2011, indirizzata al governo italiano da Draghi e Trichet, cioè dalla Banca Centrale Europea. Quel testo definiva un preciso programma di governo e di riforma costituzionale, realizzati poi in gran parte dagli esecutivi che si sono succeduti da allora alla guida del paese. E poi bisogna ricordare il documento del 28 maggio 2013 stilato dalla Banca Morgan, una delle grandi istituzioni della finanza speculativa mondiale. Quella banca allora scrisse in un suo documento che le riforme liberiste nei paesi europei periferici, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, non si erano potute Cremaschirealizzare pienamente a causa degli ostacoli frapposti dalle relative costituzioni nazionali. Quelle Costituzioni, ricordava sempre la banca, figlie della sconfitta del fascismo e della parte rilevante avuta in essa dalle forze di sinistra socialiste e comuniste.
Per questa ragione storica le Costituzioni antifasciste tutelano troppo il lavoro, danno troppo potere alle opposizioni così come alle regioni e ai comuni, garantiscono i sindacati e in definitiva danno potere di veto a chiunque scenda in piazza per difendere i propri interessi. Le riforme liberiste della economia e della società non avrebbero mai potuto dispiegarsi con tutta la loro efficacia senza cambiare quelle costituzioni, concludeva infine la banca. Non può esservi dubbio che la legge Boschi corrisponda meticolosamente agli indirizzi di riforma costituzionale rivendicati dalla Banca Morgan e che la sua messa in opera cancellerebbe la sostanza della Costituzione antifascista. Bisogna votare No alla controriforma, affinché l’Italia sia ancora una repubblica democratica fondata sul lavoro e non sulle banche.

lunedì 15 agosto 2016

Lo Stato Islamico alle porte di casa. Nei Balcani crescono i network jihadisti

Sembrerebbe una legge del contrappasso eppure è lo stesso scenario che si è ripetuto costantemente dall’alleanza con i mojaheddin afgani dal 1980 in poi. Gli Stati Uniti, la Nato e l’Unione Europea hanno disgregato gli stati esistenti – anche con i bombardamenti e le operazioni di regime change – hanno sostenuto militarmente i gruppi islamici e hanno consentito il loro rafforzamento economico e militare in enclavi protette e sostenute dal wahabismo saudita. Ma non è accaduto solo in Medio Oriente, è accaduto anche in Europa nella sua periferia balcanica. Una volta diradata la polvere dei bombardamenti (incluso quelli all’uranio impoverito) sul territorio dei Balcani sono rimaste quasi sempre basi militari Usa (in Kosovo, Croazia, Macedonia) e sono prosperati network legati alla jihad globale, sia di osservanza wahabita (legati all’Arabia Saudita) che di altre correnti (legati alla Turchia). Il risultato è che enclavi dello Stato Islamico sono assai più vicine ai confini europei di quanto la geografia e la cronaca abbiano lasciato intendere fino ad ora.
Sono stati infatti individuati diversi network jihadisti che hanno origine in Kosovo (dove in rapporto alla popolazione si segnala il numero più alto di foreign fighters andati a combattere in Siria e Iraq tra le file dell’Isis), Bosnia e Albania. In questi tre paesi balcanici nei quali la Nato è intervenuta militarmente tra il 1995 e il 1999 a sostegno delle ambizioni islamiche, si è formata una rete di gruppi islamici radicali, che si ispirano a Lavdrim Muhaxheri, noto come il “’macellaio dei Balcani”, per le sue atroci esecuzioni al servizio del califfo Al-Baghdadi. Tra i cento soggetti posti all’attenzione dalla polizia in Italia, ci sono persone provenienti da quelle zone: si tratta soprattutto di ex criminali con precedenti per spaccio di droga, tra cui anche donne. Proprio nel dicembre 2015 è stato individuato un gruppo di kosovari, di cui alcuni arrestati, che propagandava la Jihad e che, secondo gli investigatori, aveva collegamenti con gruppi riconducibili a Muhaxheri. Quest’ultimo ha lavorato proprio dentro la base militare Usa in Kosovo, quella di Camp Bondsteel, all’ombra delle quale si segnalano ben cinque campi di addestramento dei miliziani islamici.
Il vero cuore dello Stato Islamico alle porte dell’Europa è proprio il Kosovo, uno stato fantoccio creato dai bombardamenti dalla Nato e riconosciuto come indipendente dalla maggioranza dei paesi europei (tranne la Spagna). Una inchiesta de L’Espresso rivela che Florin Nezir, l’imam della moschea Sinaan Pasa Camii di Kacanik, è stato sostenuto in questi anni da Ilir Berisha e Jetmir Kycyku, arrestati per terrorismo in un’operazione dell’ Eulex (la missione europea in Kosovo). Ma il grande sostenitore di Nezir è Lavdrim Muhaxheri, albanese, oggi uno dei capi dello Stato islamico, ex collaboratore della Kfor (la missione Nato in Kosovo dopo la guerra del 1999), famoso per essersi fatto ritrarre mentre decapitava prigionieri in Siria.

giovedì 11 agosto 2016

FMI: L’EURO È TROPPO FORTE DEL 6% PER LA FRANCIA E TROPPO DEBOLE DEL 15% PER LA GERMANIA

Il Fondo monetario internazionale ha calcolato quale dovrebbe essere il valore dell’euro, se corrispondesse alle caratteristiche economiche di ciascun paese dell’Eurozona. È nettamente sopravvalutato per la Francia e sottovalutato per la Germania.
È una delle comiche di Stanlio e Ollio, il più famoso duo comico del cinema mondiale. I due indossano lo stesso costume: Stan Laurel, magro, nuota disperatamente nel vestito troppo largo, mentre Oliver Hardy, grande e grosso, sembra sul punto di scoppiare, come un otre troppo pieno.
Succede la stessa cosa con la moneta unica, condivisa dai 19 paesi della zona euro. Per la Francia il tasso di cambio attuale dell’euro è superiore di circa il 6% rispetto a quello che dovrebbe essere per risultare adatto alle caratteristiche economiche dell’Esagono, in particolare la competitività un po’ “esile”, come la corporatura di Stan Laurel. Ed è esattamente l’opposto di quello che avviene per la Germania, per la quale l’euro è sottovalutato di circa il 15%. In altre parole, se le due prime economie dell’Unione monetaria europea tornassero indipendenti, il franco “posteuro” dovrebbe essere svalutato di circa il 20% rispetto al marco “posteuro”.

Il mondo si può dividere in due
La fonte di queste cifre è il Fondo monetario internazionale (FMI), che ha recentemente pubblicato il suo “External Sector Report” per il 2016. Questo titolo un po’ criptico indica in realtà un esercizio in linea di principio semplice. Si tratta di esaminare i risultati macroeconomici delle 29 principali economie nazionali, in funzione principalmente del loro saldo commerciale e finanziario estero e incidentalmente della situazione delle finanze pubbliche interne.
Quello che preoccupa il FMI, come responsabile della stabilità finanziaria globale, sono gli squilibri esterni delle economie nazionali. In questo senso, il mondo può essere diviso in due: da un lato i paesi con surplus esterni, a volte enormi; dall’altro, quelli che registrano un deficit nella loro bilancia dei pagamenti, spesso altrettanto significativo. A partire da questo, il FMI esamina le variazioni dei tassi di cambio che sarebbero necessarie per riequilibrare i conti di ogni nazione. In altre parole, una svalutazione i per i paesi in deficit, e al contrario una rivalutazione per le economie in surplus.

Due paesi in forte deficit: Stati Uniti e Regno Unito
Questo confronto tra i due blocchi si può ridurre in realtà a quello tra sette grandi giocatori. Da una parte due paesi in forte deficit. In primo luogo gli Stati Uniti, la cui bilancia dei pagamenti è stata in rosso per un ammontare di 473 miliardi nel corso degli ultimi dodici mesi, addirittura il 2,6% del PIL del paese nel 2015. E poi il Regno Unito, in deficit estero di 162 miliardi di dollari, pari al 5,2% del PIL del Regno Unito nel 2015.
Dal lato opposto, cinque grandi attori in surplus. Tre sono asiatici: la Cina (285 miliardi di dollari, 3% del PIL nel 2015), il Giappone (159 miliardi di dollari, 3,4% del PIL) e Corea del Sud (105 miliardi, 7.3 % del PIL). A questi si aggiungono due paesi europei, la Svizzera (72 miliardi di dollari di surplus, 9% del PIL nel 2015), ma soprattutto l’eurozona, che è il campione del mondo in tutte le categorie: i 19 paesi della zona euro presi insieme registrano nei confronti del resto del mondo un surplus nella bilancia dei pagamenti di 392 miliardi di dollari, pari al 3,2% del PIL della zona euro.
Dopo aver compilato questa mappa globale degli squilibri tra nazioni, il Fondo monetario internazionale ne trae le sue conclusioni sui cambiamenti dei tassi di cambio che potrebbero riequilibrare i conti. L’esercizio è per forza di cose teorico e necessariamente approssimativo, ma almeno fornisce delle indicazioni sui cambiamenti dei tassi di cambio auspicabili.
Così il FMI suggerisce un deprezzamento del dollaro e della sterlina inglese, e viceversa una rivalutazione di tutte le valute delle zone in surplus, sia il won coreano, lo yen giapponese, lo yuan cinese o l’euro. Per la valuta cinese il FMI parla di una rivalutazione media del 3,9%, non nei confronti del solo dollaro USA, ma in relazione a tutto l’insieme delle valute dei paesi con cui la Cina commercia. Allo stesso modo, l’euro sarebbe attualmente sottovalutato in media del 6% nei confronti delle altre valute, dato l’enorme surplus estero della bilancia dei pagamenti dell’eurozona (392 miliardi di dollari).
Ma il punto in cui le cose si complicano è quando il FMI spinge la sua analisi all’interno dell’Eurozona, cosa ovviamente del tutto legittima dal momento che i 19 paesi in questione sono tutti membri a pieno titolo dell’organizzazione finanziaria internazionale di Washington. Improvvisamente gli squilibri dell’area dell’euro appaiono in piena luce e in tutta la loro crudezza.

Le difficoltà dell’economia francese
Mentre la Germania nel corso degli ultimi dodici mesi ha avuto un surplus della bilancia dei pagamenti di 306 miliardi (8,5% del PIL), la Francia ha avuto 21 miliardi di deficit (0,7% del PIL). Oltre a queste disparità finanziarie nei conti con l’estero, anche le disparità nei tassi di disoccupazione e di crescita gioca a favore della necessità di una variazione del tasso di cambio tra Francia e Germania. Solo che, naturalmente, questo è impossibile a causa dell’esistenza dell’euro, che si dimostra più che mai un letto di Procuste.
Chiaramente lo studio del FMI e le implicazioni per i tassi di cambio che ne derivano rimane sostanzialmente teorico. Ma è comunque una guida utile. “In un mondo in cui ci si fa a pezzi sul libero scambio e le pratiche valutarie sleali, il rapporto sui conti con l’estero del Fondo monetario internazionale è fatto per attirare l’attenzione, perché si tratta di un quadro analitico per i responsabili politici”, ha detto Alan Ruskin, stratega macroeconomico di Deutsche Bank.
Bisogna ricordare anche che il Tesoro USA, da parte sua, pubblica ogni anno uno studio simile a quello del Fondo monetario internazionale, ma inquadrato solo dal punto di vista dell’economia degli Stati Uniti. Il suo scopo dichiarato è quello di stigmatizzare i paesi, compresa la Cina, rispetto ai quali gli Stati Uniti registrano un deficit commerciale giudicato eccessivo. Il Tesoro francese dovrebbe fare lo stesso? Sarebbe molto utile a capire meglio le difficoltà dell’economia francese. A rischio, si intende, di mandare in crisi di coppia Francia e Germania, gli “Stanlio e Ollio” dell’economia europea.

mercoledì 10 agosto 2016

Internet: si scrive cyberbullismo, ma si legge norma ammazza web

Sei anni di carcere per i cittadini, i blogger e le testate che pubblichino anche una sola informazione in grado di violare i dati personali o di ledere l'onore e la reputazione di qualsiasi soggetto, con confisca del telefono, del computer e rimozione del contenuto obbligatoria.
È questa la novità di agosto (in realtà del 27 luglio) della proposta di legge C 3139 (prima firmataria la senatrice Dem Elena Ferrara), che, con l'accordo di tutte le forze politiche, eccetto alcuni parlamentari di opposizione che ne hanno contestato l'applicazione, verrà votato dalla Camera a partire dal 12 settembre prossimo.
La norma che dovrebbe occuparsi di cyberbullismo, quindi teoricamente di tutela del minore, transitando alla Camera, con i relatori Dem Micaela Campana e Paolo Beni è divenuta, con i profondi ritocchi dei relatori e della Commissione riunite Giustizia e Affari sociali, una vera e propria norma ammazza web, che riguarda anche e soprattutto ogni maggiorenne che si affaccia alla rete internet.
E sì, perché diversamente dalla disposizione originaria approvata anche dal Senato, che era incentrata principalmente sulla tutela del minore, il testo uscito il 27 luglio, è stato completamente stravolto, divenendo una norma repressiva sul web a tutti gli effetti.
Le Commissioni hanno approvato diversi emendamenti tra i quali questo testo: "2-bis. Ai fini della presente legge, con il termine 'cyberbullismo' si intende qualunque comportamento o atto, anche non reiterato, rientrante fra quelli indicati al comma 2 e perpetrato attraverso l'utilizzo della rete telefonica, della rete internet, della messaggistica istantanea, di social network o altre piattaforme telematiche.
Per cyberbullismo si intendono, inoltre, la realizzazione, la pubblicazione e la diffusione on line attraverso la rete internet, chat-room, blog o forum, di immagini, registrazioni audio o video o altri contenuti multimediali effettuate allo scopo di offendere l'onore, il decoro e la reputazione di una o più vittime, nonché il furto di identità e la sostituzione di persona operate mediante mezzi informatici e rete telematica al fine di acquisire e manipolare dati personali, nonché pubblicare informazioni lesive dell'onore, del decoro e della reputazione della vittima".
Nel testo e nelle altre disposizioni scompaiono i riferimenti ai minori al fine di delimitare l'ambito di applicazione della norma. In base a questa questa, qualsiasi attività, anche isolata (e quindi effettuata anche una sola volta), compiuta dai cittadini anche maggiorenni sul web conferisce la possibilità a chiunque (altra innovazione portata dalla Camera) di ordinare la cancellazione di contenuti, salva la possibilità che questa attività venga ordinata dal garante privacy.
E chi non si adegua? Rimozione e oscuramento dei contenuti e sanzione sino a 6 anni di carcere. In pratica le attività di critica sui social network, attraverso blog o testate telematiche, farà scattare la possibilità di richiedere la rimozione del contenuto, dell'articolo, del messaggio, di qualsiasi cosa insomma sia presente sul web, con la possibilità di far bloccare il contenuto anche rivolgendosi al garante privacy.
Un blog scomodo, una commento troppo colorito sul forum, una conversazione un po' ardita tra maggiorenni su Whatsapp, qualsiasi pubblicazione di dati a opera di maggiorenni, qualsiasi notizia data su un blog o su una testata, e che riguardano maggiorenni, ricadranno in quella definizione e saranno oggetto di possibile rimozione.
Da Facebook a Whatsapp ai blog tutto viene inserito nella furia iconoclasta del legislatore pronto a punire le attività peccaminose dei maggiorenni sul web. Con buona pace del cyberbullismo sui minori che è divenuto un elemento del tutto residuale della norma. Un bavaglio in piena regola.
Per essere sicuri che chiunque potesse essere assoggettato a sanzione i relatori personalmente hanno pensato bene di far approvare una nuova norma (l'articolo 6 bis della proposta) che prevede per tutti i cittadini la possibilità di essere sanzionati con un reato che prevede il carcere fino a 6 anni, e - si badi bene - la confisca di tutto quanto sarebbe servito per commettere il reato.
A opporsi a questa deriva sono stati solo un drappello di parlamentari del Movimento 5 Stelle, Baroni, Lorefice e Agostinelli, che si sono battuti duramente per il ritorno allo spirito originario della norma, ovvero alla tutela attraverso azioni di sostegno e di reazione rapida a beneficio dei minori. Senza però ottenere risultati a quanto pare, dal momento che a partire dal 12 settembre la Camera potrebbe varare definitivamente il testo uscito dalle Commissioni. C'è tempo fino all'8 settembre per emendamenti. Con la speranza che settembre non porti con sé, insieme al fresco, anche la prima norma liberticida per il web del 2016.

martedì 9 agosto 2016

CHI PAGHERA’ I DANNI DEI DERIVATI DEL TESORO ? MONTI O MORGAN STANLEY?

Da anni si parla di derivati. Questa forma di speculazione finanziari ad alto rischio (e per questo vietata a Comuni e Regioni) è, però, ancora largamente utilizzata dal governo centrale. Con inevitabili costi per le casse dello stato. Proprio a seguito delle polemiche sorte, a febbraio, il governo ha deciso di segretare i dati relativi allo stato dei derivati. Uno strumento che, secondo alcune stime, tra 2012 e 2015 sarebbe costato agli italiani circa 23 miliardi di euro su un totale di 160 (dati Eurostat/Reuters).
Nei giorni scorsi, però, un’altra tegola si è abbattuta sulla questione “derivati”. Secondo la Reuters, i magistrati della Corte dei Conti avrebbero chiesto a Morgan Stanley di pagare la somma si 2,9 miliardi di Euro a titolo di “risarcimento” per un’operazione condotta dallo stato tra fine 2011 e inizio 2012, ovvero durante il governo Monti. La conferma sarebbe contenuta nella relazione trimestrale della banca di investimenti americana. In questa nota si parla di un danno erariale. Tutto ha avuto inizio con le indagini condotte dalla procura regionale per il Lazio relativa ai 3,1 miliardi di euro versati dal ministero dell’Economia a Morgan Stanley a seguito dell’estinzione anticipata di alcuni contratti swap, durante la crisi economica (con spread alle stelle) che portò il capo dello stato ad affidare l’incarico di salvare l’economia del paese al governo tecnico guidato da Monti. Quanto sia riuscito nell’intento il professore della Bocconi è scritto sui libri di storia: durante il proprio mandato, Monti si premurò di proporre (e far approvare ad un Parlamento accondiscendente) diverse modifiche alla Costituzione, impose una serie di norme presentandole come strumenti per salvare l’Italia dalla crisi iniziata nel 2007 (teorie tutt’altro che condivise dalla maggior parte dei maggiori economisti mondiali) e alla fine fu costretto a dimettersi.
Solo dopo un certo tempo (e dopo aver prodotto gravi danni) alcune delle misure introdotte durante il suo governo risultarono decisamente “sbagliate”. Lo scorso anno, è stata la volta della norma voluta dalla Fornero (“Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici”) e inserita nel Decreto Salva Italia del Governo Monti è stato dichiarato incostituzionale.
Ora è un’altra delle misure tecniche volute dal governo tecnico a finire nel mirino della Corte dei Conti. I magistrati contabili ritengono che alcune delle operazioni in derivati fossero “improprie” e così come la loro chiusura. Della vicenda, nel 2012, parlò Orazio Carabini, sulle pagine de “L’Espresso”. Emersero sospetti anche di una “triangolazione” con alcune banche (anche nazionali subentrate a Morgan Stanley. Poi su tutta la vicenda cadde il silenzio.
“Riteniamo che la richiesta sia priva di basi e ci difenderemo con vigore”, ha commentato un portavoce di Morgan Stanley. L’accusa dei magistrati contabili, però, è pesantissima: il danno erariale deriverebbe dalle clausole capestro imposte dalla banca a fine 2011, e accettate con troppa facilità dal Tesoro. Quasi senza proferire parola. Il Tesoro avrebbe accettato da Morgan Stanley una clausola “unilaterale” Additional termination events (Ata) sconvolgente: se si fosse trovato esposta oltre un certo livello, la banca avrebbe potuto chiedere la chiusura del portafoglio. Per questo, secondo la Corte dei Conti, quei contratti non sarebbero serviti a stabilizzare il debito. Quindi il ministero Tesoro non avrebbe dovuto stipularli. A questo si aggiunge che il rischio era troppo elevato (la soglia era così bassa che la probabilità di superarla era troppo alta).
Una speculazione troppo azzardata per le povere casse dello stato. Quasi tre miliardi di euro non sono pochi, specie considerando che si tratta di una forma di speculazione basata su swap e che la perdita ammontava a quasi la metà delle intere entrate per l’IVA (2012). Tanto più che che, alla guida del paese, l’allora presidente Napolitano aveva chiamato quello che venne presentato (e per questo, nominato in pochi giorni prima senatore a vita e poi capo del governo) come uno dei massimi esponenti della finanza internazionale….

lunedì 8 agosto 2016

Sul ponte sventola bandiera Bianca

Non ho visto ieri sera il commovente commiato della più celebrata vittima del renzismo, che, si sa, il lavoro, la costituzione, l’esercizio libero della critica e dell’opinione, la partecipazione democratica, non hanno avuto parità di emozionata e solidale comunione da parte della corporazione giornalistica e nemmeno da quella degli escursionisti sui social network, toccati dalla barbara e spietata esecuzione.
Non dirò nulla sulla nemesi abbattutasi sulla inedita eroina, fulminata dopo essere sopravvissuta incolume a tante epurazioni. Quella prodotta dalla stessa temperie nella quale si è materializzato il suo successo: nepotismo, clientelismo dei salotti e delle camere, familismo amorale anche quando se ne giovano dinastie dei sacerdoti della rettitudine, che si ritorce in virtù della famigerata e brutale volgarità dei killer anche contro soggetti considerati inviolabili.
Non dirò nulla sulle sue qualità professionali, che non mi sono mai parse particolari e meritevoli oggi di tanto encomio postumo. Nemmeno di quelle umane: una certa segaligna antipatia esemplarmente rispecchiata nella sobria severità del look, a pallida imitazione dell’inflessibile rigore paterno, offerta e esibita in forma di schizzinosa ed elegante superiorità, quella che si intravvedeva dietro alla doverosa partecipazione a cause e battaglie civili, attraversate, o così pareva, con remoto distacco.
Non dirò nulla sulle denunce rare, di una redazione che le rimproverava capricci tirannici da satrapo, poco pubblicizzati nel timore di controaccuse di sessismo, maschilismo, ormai inevitabili quando si osa segnalare qualche vizio a carico di quote rosa affermatesi con piglio virile o per appartenenza a cerchie privilegiate e intoccabili, necessariamente rimosso o guardato con indulgente tenerezza complice, come intemperanza comprensibile e giustificabile in chi proviene da minoranze non numeriche discriminate.
Non dirò nulla ma proprio nulla sui pettegolezzi sibilati in occasione di certe lontane esuberanze giovanili, tra il Kenya e le avventure rivendicate di certi sciupafemmine, comprensibili e giustificabili proprio in ragione della fisiologica ribellione di un cognome illustre e alla condanna a riservatezza monastica, a rigidezza drastica e austerità irriducibile che lo accompagnano nella percezione del pubblico, piccole rivolte insomma che non si è creduto opportuno esprimere parimenti nell’accesso a carriere senza dolorosa e penitenziale gavetta.
Mi preme invece interrogarmi sull’abitudine così radicata nella nostra autobiografia nazionale, di trasformare qualsiasi vittima anche quelle meno credibili e tardive, in martire, come se il passaggio da carnefice o correo o indifferente, a perseguitato possedesse una facoltà demiurgico di cancellazione di colpe e di redenzione. In grado di far dimenticare misfatti piccoli e grandi, sopraffazioni grandiose o meschine, mediocrità nascoste o palesi, viltà infami o “necessarie” in nome della famiglia, della sopravvivenza, del mantenimento di privilegi e rendite e visibilità, oggi necessaria quanto l’ossigeno per chi l’ha più cara della reputazione.
L’eccellente “rimossa”, non licenziata dal regime, visto che continuerà a godere di un fastoso salario, di una pingue anzianità di servizio, di una tribuna autorevole altrove, garantita dalla condizione di sacrificata in nome della libertà d’informare, non suscita la mia compassionevole e sodale comunanza. Non quanta ne riservo a tutti i licenziati e agli inoccupati d’Italia, vittime dello stesso sistema che in forma paranoica e estrema si accanisce sul mazzo, colpendo anche qualcuno che fino a ieri ne ha goduto e che non serve più alla guardia imperiale.
E non hanno la mia comprensione nemmeno altre vittime, quelli che per dare consistenza reale al loro disappunto e al loro malessere, attribuiscono umanità ai frigidi, virtù ai viziosi, genio ai cretini, perfino innocenza alle mignotte quando si ribellano all’utilizzatore finale che non paga loro il dovuto, rinfacciandogli in culo moscio e il parrucchino.
Non si vincono così le guerre contro l’usurpatore e il tiranno, andando come un gregge dietro a qualche bandiera, che se è bianca, poi, segna la resa.

venerdì 5 agosto 2016

Occupazione, l’inganno dei numeri

Quale storia raccontano gli ultimi numeri Istat sul mercato del lavoro italiano? A giugno la disoccupazione giovanile è calata dello 0,3%, al 36,5% (il livello più basso dall’ottobre del 2012), mentre quella generale è aumentate dello 0,1%, tornando all’11,6% (il numero di disoccupati è aumentato di 27mila unità, +0,9%). Il tasso di occupazione è salito invece dello 0,1% (+71 mila unità), arrivando al 57,3% (il massimo dal 2009), e gli inattivi - quelli che non hanno un lavoro e nemmeno lo cercano - sono diminuiti dello 0,1% (-51mila unità), al 35,1%. Bene: tutto ciò rappresenta un successo per il governo, o piuttosto un fallimento?
Se ci basassimo soltanto sulle reazioni politiche, dovremmo pensare che siano veri entrambi i punti di vista, a seconda che ci piaccia di più dare ragione alla maggioranza o all’opposizione. Peccato che i numeri diano torto a tutti.
In effetti alcune statistiche, per loro natura, hanno la tendenza a ingannare chi le legge. Quelle sul lavoro sono in cima a questa classifica, perché tratteggiano una realtà complicata e vanno lette, messe in relazione e interpretate nel loro insieme. Purtroppo la comunicazione di massa, soprattutto se istituzionale, non ha il tempo né l’interesse ad approfondire, per cui ogni mese ci tocca assistere al solito teatrino della bagarre fra entusiasti esaltati, come il premier Matteo Renzi e il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, e cassandre catastrofiste come i vari esponenti forzaitalioti e pentastellati.
Iniziamo da questi ultimi. Il Movimento 5 Stelle accusa il Presidente del Consiglio di “esultare perché la disoccupazione è aumentata dello 0,1%”, ma non è così. Il tasso di disoccupazione calcolato dall'Istat corrisponde al rapporto fra i disoccupati e il totale della forza lavoro: se gli inattivi diminuiscono perché alcune persone iniziano a cercare un impiego - indipendentemente dal fatto che lo trovino o meno - la forza lavoro aumenta, perciò è più facile che il tasso di disoccupazione salga.
Allo stesso modo, il Premier forza la realtà dei numeri con i soliti proclami trionfalistici: “Fatti non parole. Da febbraio 2014 a oggi l’Istat certifica più di 599mila posti di lavoro. Sono storie, vite, persone. Questo è il ‪#‎JobsAct‬”. In realtà no, questo non è il #JobsAct. È innegabile che negli ultimi mesi si siano verificate delle variazioni positive, soprattutto nel secondo trimestre di quest’anno, periodo durante il quale il tasso di occupazione è cresciuto dello 0,4% rispetto al trimestre precedente e addirittura dell’1% su base annua.
Tuttavia, a ben vedere, i nuovi occupati tra maggio e giugno sono tutti autonomi, visto che quel saldo positivo di 71mila unità è dato dalla differenza fra i lavoratori indipendenti in più (78 mila) e i dipendenti in meno (esatto: sono diminuiti di 7 mila unità). Tra aprile e giugno, inoltre, i lavoratori con contratto a tempo determinato sono aumentati del 2,6% e quelli a tempo indeterminato solo dello 0,2%. I nuovi occupati, perciò, non sono affatto dipendenti che hanno conquistato finalmente il posto fisso, come recita la vulgata sul Jobs Act.
A chi invece si esalta per il calo della disoccupazione giovanile (che, ricordiamo, fa riferimento alla fascia d’età 15-24 anni, in cui il tasso di attività è assai più basso che nelle altre), bisogna far notare che l’incremento maggiore di occupati (+46mila) si è registrato fra gli over 50, mentre nella fascia fra i 25 e i 34 anni (quindi non più “giovani”, almeno in termini statistici), la disoccupazione è aumentata al 16,9% mentre la percentuale di inattivi è del 26,8%.
Non solo: con la riduzione degli incentivi per le assunzioni stabili (da gennaio lo sgravio è sceso a 3.250 euro l’anno per ogni neoassunto, dagli 8.060 euro del 2015), nell’ultimo trimestre le aziende hanno ricominciato ad assumere molto più con contratti precari (60mila) che a tutele crescenti (27mila). Quando gli incentivi scompariranno del tutto, è prevedibile che anche le tutele crescenti diventeranno un ricordo.
Insomma, se vogliamo tirare le somme con un minimo di onestà dobbiamo arrenderci al fatto che la realtà è grigia. Quando escono nuove statistiche si ha sempre la tentazione di scegliere una percentuale e aggrapparvisi per sostenere una visione bianca o nera, che però non corrisponde (quasi) mai a quella raccontata dai numeri. La verità, poco esaltante e probabilmente anche poco giornalistica, è che il mercato del lavoro italiano - una volta assorbito il doping degli incentivi 2015 - sta percorrendo una traiettoria positiva, ma il miglioramento non è né dell’entità né della qualità che racconta il governo.
Anzi, come fa notare Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro alla Camera e esponente della minoranza Pd, se la tendenza del secondo trimestre “si dovesse confermare, diminuirebbe la qualità dell’occupazione e riprenderebbe vigore il lavoro precario”. Questo è il #JobsAct.

giovedì 4 agosto 2016

Hillary Clinton rivoluzionerà la politica sulla Siria (con queste conseguenze per il resto del mondo)

Hillary Clinton, candidato del partito Democratico degli Stati Uniti ha in mente una completa rivisitazione della politica sulla Siria che potrebbe portare il mondo a scenari potenzialmente apocalittici. Il suo collaboratore Jeremy Bash ha affermato che Hillary cercherà di porre fine al “criminale” governo del Presidente Bashar al-Assad. “Prevedo che ci sarà una rivisitazione della politica estera della Siria come uno dei primi punti per il team di sicurezza nazionale”, ha dichiarato parlando alla Convention di Philadelhia cha ha suggellato la criticata candidatura di Clinton. Dopo il solito, “Assad deve andare”, Jeremy Bash ha proseguito con una minaccia per tutto il mondo. “Hillary Clinton ritiene che i problemi nel mondo possono facilmente essere risolti quando l'America è coinvolta in ognuno di questi problemi o crisi”.
Dopo aver avallato l'invasione dell'Iraq da senatore e quella della Libia come Segretario di Stato, la Clinton, scrive Alex Gorka su Strategic Culture, ha chiesto un maggiore ruolo militare degli Usa in Siria, in particolare armare e supportare i ribelli armati definiti in occidente “moderati”. Secondo Wikileaks, l'aspirante Presidente voleva che la Siria sprofondasse nella guerra nella speranza di rovesciare il presidente siriano Bashar al-Assad, eventulità che Clinton ha definito come “il miglior modo per aiutare Israele” e annullare la potenza nucleare iraniana. Le email trapelate rivelano come Hillary Clinton scrisse che “la cosa giusta” è minacciare di morte personalmente la famiglia del Presidente.
A giugno mentre Kerry negoziava con la Russia una soluzione diplomatica, il Centro di falchi neoconn molto vicino alla Clinton, il New American Security, prosegue Gorka nella sua analisi, ha pubblicato un rapporto a guida Michele Flournoy, probabile Segretario alla Difesa di Hillary, che invoca un maggior “armamento e addestramento” dei ribelli “moderati”, il lancio di “limitate operazioni militari” contro il regime di Assad e l&#
39;eliminazione “delle limitazioni artificiali” per missioni militari nel paese. Flournoy ha anche chiesto una zona di “non bombardamento” in Siria per permettere ai ribelli di riuscire a rovesciare Bashar al-Assad.
A giugno, 51 alti funzionari del Dipartimento di Stato hanno scritto una lettera chiedendo al Presidente di reindirizzare la sua politica sulla Siria per rovesciare Assad. I neoconn falchi che supportano Hillary hanno in mente questo: rivedere la politica sulla Siria e fermare le negoziazioni in corso tra Russia e Usa a Ginevra, con la mediazione del rappresentante Onu De Mistura, per la cooperazione militare in Siria e l'inizio di un dialogo tra governo e opposizioni riconosciute del paese.
Il problema è che Hillary Clinton afferma apertamente di voler distruggere tutto questo: la sua idea ossessionante di «no-fly zones» e corridoi umanitari sono preludi per un intervento diretto che significherebbe l'invio di molte truppe con conseguenze potenzialmente drammatiche per il mondo. Il paese, sottolinea Gorka, piomberebbe in nuovo caos e gli Stati Uniti provocherebbero la Russia al livello del conflitto. Con Clinton Presidente, gli Usa aumenterebbero la presenza in Iraq e aprirebbero nuovi teatri in Libia, Yemen e ovunque serva per aumentare ulteriormente lo spaventoso debito del paese. Definita «Queen of Chaos» da Diana Johnstone, Killary sarebbe il Presidente della guerra e come ha sintetizzato perfettamente da Assange: "Un voto oggi per Hillary Clinton è un voto per la guerra ad oltranza”.

mercoledì 3 agosto 2016

15 fatti sul collasso dell'economia USA che il mainstream non vuole farti conoscere

Stiamo per conoscere la prova inconfutabile che l'economia USA è in rallentamento da un bel po' di tempo. Ed è vitale che prestiamo attenzione ai fatti, perché in tutta Internet troverete molte e molte persone che esprimono opinioni su cosa sta accadendo all'economia. E naturalmente i media mainstream cercano sempre di mettere le cose in modo che Barack Obama ed Hillary Clinton ne vengano fuori bene, perché quelli che lavorano nei media mainstream sono molto più liberisti della popolazione americana nel suo complesso. E' vero che anch'io ho la mia opinione, ma come avvocato ho imparato che le opinioni non significano nulla finché non sono corroborate dai fatti. Pertanto lasciatemi per cortesia qualche minuto per condividere con voi le prove che dimostrano chiaramente che siamo entrati in una grande recessione economica. I 15 fatti che seguono riguardano l'economia USA che sta implodendo e sono fatti che i media mainstream non vogliono farvi sapere…
1. La produzione industriale è in declino da oltre nove mesi di fila. Non abbiamo mai visto accadere questo nella storia degli USA al di fuori dei periodi di recessione.
2. I fallimenti negli USA sono aumentati sulla base annua per sette mesi di fila e sono ora oltre il 51% in più da settembre.
3. Il tasso di criminalità sui mutui commerciali ed industriali è in aumento sin da gennaio 2015.
4. Il totale degli scambi commerciali negli USA è andato stabilmente scendendo fin dalla metà del 2014. No, non ho detto 2015. Il totale degli scambi commerciali è oggi in declino da quasi due anni e abbiamo appena saputo che è sceso ancora…
Il totale degli scambi in USA ha fatto in aprile quello che sta facendo da luglio del 2014: è crollato: -2,9% dall'anno scorso fino agli 1,28 miliardi di miliardi di dollari che l'ufficio statistiche (Censues Bureau) ha riportato mercoledì. Questi sono stati gli scambi di aprile 2013!
5. Gli ordinativi delle imprese USA stanno crollando da 18 mesi di fila.
6. L'indice di cassa delle spedizioni via nave è in caduta su base annua da 15 mesi consecutivi.
7. La produzione USA di carbone è scesa ai più bassi livelli da 35 anni a questa parte.
8. Goldman Sachs ha il suo indicatore interno dell'economia USA ed è sceso al livello più basso fin dall'ultima recessione.
9. Gli "indici di recessione" di JP Morgan sono saliti al livello più alto mai visto dall'ultima recessione.
10. il gettito fiscale federale e quello statale di solito iniziano a scendere nel momento in cui si entra in una nuova recessione, ed è precisamente ciò che sta accadendo adesso.
11. L'indice delle condizioni del mercato del lavoro della Federal Reserve è in caduta da cinque mesi di fila.
12. Le cifre dell'occupazione che il governo ha diffuso per l'ultimo mese sono state le peggiori mai viste negli ultimi sei anni.
13. Secondo Challenger, Gray & Christmas, le richieste di cassa integrazione per le principali imprese sono in aumento del 24 % in più quest'anno di quanto lo erano nello stesso periodo dell'anno scorso.
14. Le offerte di lavoro on-line sul sito del network d'affari LinkedIn sono in costante calo da febbraio, dopo 73 mesi che erano in stabile crescita.
15. Il numero dei lavoratori temporanei negli USA raggiunse il picco e scese precipitosamente prima che iniziasse la recessione del 2001. La stessa identica cosa successe un attimo prima dell'inizio della recessione del 2008. Così, vi sorprenderebbe venire a sapere che il numero dei lavoratori temporanei ha avuto il picco in dicembre e da allora è drammaticamente sceso?
Solo ieri abbiamo appreso che due delle nostre più grandi società licenzieranno sempre più lavoratori. Bank of America, che è in possesso del nostro denaro più di ogni altra banca del paese, ha annunciato tagli per ulteriori 8000 lavoratori.
Si prevede che Bank of America ridurrà il personale nel proprio settore del credito al consumo di 8000 posti.
La banca al dettaglio più grande della nazione per depositi ha già ridotto il personale nel suo settore di credito al consumo da più di 100.000 nel 2009 a circa 68.400 alla fine del primo quarto del 2016, ha detto Thong Nguyen, Presidente dei servizi bancari al dettaglio di Bank of America e coamministratore del credito al consumo alla Morgan Stanley Financials Conference di martedì.
E Wal-Mart ha annunciato che sta eliminando i ruoli contabili nell'amministrazione in circa 500 punti vendita.
Wal-Mart sta cercando di tagliare ruoli contabili in amministrazione in 500 negozi nel tentativo di diventare più efficiente.
I tagli avverranno prevalentemente nei negozi dell'ovest e coinvolgeranno lavoratori della contabilità e delle spedizioni, ha detto il portavoce Kory Lundberg. Al loro posto, le funzioni di contabilità verranno deviate alla sede centrale di Walmart, a Bentonville, Ark. La cassa dei negozi verrà contabilizzata dai computer.
Giorno per giorno sentiamo di tagli ed esuberi come questi qui. E allora perché questo accadrebbe se l'economia degli USA fosse veramente in ripresa?
Anche con i dati del PIL manipolati come lo sono in questi giorni, Barack Obama si avvia ad essere l'unico Presidente in tutta la Storia degli Stati Uniti che non ha avuto un singolo anno in cui l'economia sia cresciuta di almeno il 3 per cento. La verità è che la nostra economia si è impantanata già dalla fine dell'ultima recessione ed ora è chiaramente iniziato un nuovo ciclo recessivo.
E sapete chi altri lo hanno capito, questo?
Gli investitori stranieri.
Lo scorso mese, gli investitori stranieri si sono liberati dei titoli di debito USA con la velocità più alta che sia mai stata registrata…
Gli investitori stranieri hanno venduto una quota record di titoli ed obbligazioni del Tesoro USA per il mese di aprile, secondo i dati del Dipartimento del Tesoro degli USA di mercoledì, così come gli stessi investitori hanno fissato il prezzo di pochi punti superiore a quello della Federal Reserve di quest'anno.
Gli stranieri hanno venduto 74,6 miliardi di dollari del debito del Tesoro USA nel mese, dopo averne acquistato 23,6 miliardi in Marzo. Lo squilibrio in uscita di aprile è stato il più grande da quando il Dipartimento del Tesoro degli USA ha iniziato a registrare le transazioni sul debito nel gennaio 1978.
Non c'è più da discutere - la prossima crisi economica è già qui. A questo punto, ciò è così ovvio che anche George Soros sta febbrilmente vendendo titoli ed acquistando oro.
Potremmo discutere se l'economia USA abbia iniziato la fase recessiva nell'ultimo 2015, nel primo 2015 o nell'ultimo 2014, ed è un bene che si facciano tali discussioni.
Ma alla fine della fiera, ciò chè è molto più importante e quello che ci troveremo davanti. Fortunatamente, la nostra recessione è stata fino ad ora abbastanza graduale, e speriamo che si mantenga così il più a lungo possibile.
In molti altri posti del mondo, le cose sono già in conclamata modalità panico. Fino ad ora, il Venezuela era stato una delle nazioni più ricche del sudamerica, ma ora la gente ha iniziato letteralmente a cacciare cani e gatti per mangiarli.
In assenza di un grande evento riconoscibile e imprevedibile di qualche sorta, non vedremo ciò che sta succedendo negli Stati Uniti ancora per un po', ma senza dubbio stiamo correndo a tutto vapore verso una grande depressione economica.
Sfortunatamente per tutti noi, non c'è nulla che qualsivoglia nostro politico sia in grado di fare per fermarlo.

martedì 2 agosto 2016

Nel capitalismo perfino il cibo è merce

Nel 1974 la Conferenza Mondiale per l'Alimentazione delle Nazioni Unite fissò un obiettivo «…entro un decennio nessun bambino andrà a letto affamato… nessun essere umano sarà colpito da fame e malnutrizione». Oggi, nel XXI secolo, circa 1.795 milioni di persone soffrono la fame nel mondo. Oltre 50 milioni si trovano in America Latina e nei Caraibi, regione che produce ed esporta cibo nel mondo, ma dove c’è anche maggiore disuguaglianza e iniqua distribuzione della ricchezza. La FAO, in occasione della XXXIV Conferenza realizzata in Messico, stabilì di porre fine alla fame in 10 anni.
Buoni propositi, ma pochi risultati. Perché? Si è deciso di insistere su soluzioni sbagliate, ma che beneficiano ampiamente i grandi interessi che muovono in questo campo sulla base di due miti: la scarsità, l’incremento della produzione e l’efficienza.
In realtà non vi è alcuna mancanza di cibo, il settore contadino è in grado di produrre cibo per tutti. ma grandissimi interessi economici si traducono in una distribuzione senza equità. Negli anni ’60, come soluzione viene promossa la cosiddetta ‘rivoluzione verde’ in agricoltura che con il tempo ha finito per determinare un settore sempre più ingiusto, la perdita di biodiversità e di suoli fertili, una crescente dipendenza alimentare oggetto di commercio nel settore agricolo, promossa da centinaia di aziende che hanno ottenuto il controllo monopolistico del sistema alimentare globale.
Di fatto, a partire dai primi anni &#
39;90, ha avuto inizio una nuova fase del capitalismo egemonizzata dal capitale finanziario e dalle multinazionali, che hanno preso il controllo della produzione e del commercio mondiale. Una situazione che si traduce in cambi strutturali nella produzione agricola, basata sulla monocoltura, attraverso un ampio uso di terreni, l’utilizzo di pesticidi, la meccanizzazione e l’imposizione di semi di proprietà e transgenici.
I beni comuni come la terra, l’acqua, l’energia, i minerali, etc. etc… si trasformano in merci.
E così, che la presenza di operatori finanziari nel sistema alimentare globale ha consentito la manipolazione speculativa nel mercato alimentare, perché ora il cibo viene negoziato nelle Borse internazionali. Per queste ragioni, il FMI dichiarò una crisi alimentare mondiale nel 2007.
Gli organismi internazionali per i diritti umani devono dichiarare che il cibo non è una merce.
I produttori di cibo, donne, uomini, piccoli agricoltori, popoli indigeni, pescatori, abitanti dei boschi e lavoratori agricoli, devono essere rivalutati in quanto attori chiave nella produzione alimentare; non devono essere sottovalutati e presi in considerazione solo per essere sfruttati. Devono essere eliminate le multinazionali che controllano i semi e gli altri beni comuni. Non prendendo queste misure urgenti, la crisi alimentare continuerà generalizzata nel mondo e la fame mondiale aumenterà. Solo il sistema socialista può porre fine a questa tragedia.

lunedì 1 agosto 2016

Il potere del "Niet"

Su questo pianeta è previsto che le cose vadano così: negli Stati Uniti gli apparati del potere (pubblico e privato) decidono quello che vogliono far fare al resto del mondo. Comunicano i loro voleri attraverso canali ufficiali e non, attendendosi una cooperazione automatica.
Se questa cooperazione non arriva immediatamente, allora incominciano a fare pressioni, politiche, finanziarie ed economiche.
Se anche queste, tuttavia, non producono l'effetto desiderato, allora provano con un cambio di regime, ottenuto con una rivoluzione colorata o un colpo di stato militare, oppure organizzano e finanziano una rivolta che porta, nella nazione recalcitrante, ad attacchi terroristici ed alla guerra civile.
Se tutto questo ancora non ottiene l'effetto sperato, allora bombardano la (suddetta) nazione fino a farla ritornare all'età dalla pietra.
Questo è il modo in cui sono andate le cose negli anni '90 e nel 2000, ma, ultimamente, è emersa una nuova dinamica.
All'inizio era tutta incentrata sulla Russia, ma, da allora, il fenomeno si è allargato in tutto il mondo e sta per inglobare gli stessi Stati Uniti.
Funziona così: gli Stati Uniti decidono che cosa vogliono far fare alla Russia e comunicano i loro desideri, aspettandosi una cooperazione automatica.
La Russia dice "Niet".
Gli Stati Uniti passano attraverso tutte le fasi sopracitate, esclusa la campagna di bombardamento, sconsigliata dalla deterrenza nucleare russa.
La risposta rimane "Niet".
Si potrebbe pensare che qualche persona intelligente, all'interno della struttura di potere statunitense, si faccia sentire e dica: "Basandoci sulle prove che abbiamo, dare ordini alla Russia non funziona, cerchiamo di negoziare con la Russia in buona fede, da pari a pari". E allora tutti quanti si darebbero una manata in fronte e direbbero, "Caspita! E' fantastico! Perché non ci abbiamo pensato?". Invece, quella persona verrebbe licenziata il giorno stesso perché, vedete, l'egemonia mondiale americana non è negoziabile.
Quello che invece succede è che gli Americani agiscono in modo confuso, si riorganizzano e provano di nuovo, creando uno spettacolo veramente comico.
L'intero pasticcio riguardante Edward Snowden è stato particolarmente divertente da osservare. Gli Stati Uniti hanno richiesto la sua estradizione. I Russi hanno detto: "Niet, la nostra costituzione lo proibisce".
Allora, in modo esilarante, come tutta risposta alcune voci in Occidente hanno chiesto che la Russia cambiasse la sua costituzione! La risposta, che non richiede traduzione è stata :"Ah,ah,ah,ah,ah!"
Meno divertente è l'impasse sulla Siria: gli Americani hanno continuato a chiedere che la Russia si allineasse al loro progetto di rovesciare Bashar Assad.
L'immutevole risposta dei Russi è stata: "Niet, sono i Siriani che devono scegliere la loro leadership, non la Russia e non gli Stati Uniti".
Ogni volta che lo sentono, gli Americani si grattano la testa e. ci riprovano.
John Kerry è stato di recente a Mosca per una "maratona negoziale" con Putin e Lavrov.
In alto c'è una foto di di Kerry che parla con Putin e Lavrov a Mosca, più o meno una settimana fa, e le loro espressioni facciali non sono difficili da leggere. C'è Kerry che dà le spalle alla macchina fotografica, e che blatera come al solito. La faccia di Lavrov dice: "Non ci posso credere, devo star seduto qui ad ascoltare di nuovo tutte queste stupidaggini". Quella di Putin dice: "Oh, il povero scemo, non riesce a capire che gli diremo 'niet' un'altra volta".
Kerry è ritornato a casa con giusto un altro "Niet".
Ciò che è peggio, è che ora stanno unendosi al gioco anche altre nazioni.
Gli Americani hanno detto agli inglesi esattamente come votare e gli Inglesi hanno detto "Niet" ed hanno optato per il Brexit.
Gli Americani hanno detto agli Europei di accettare quell'orrenda presa di potere delle corporations costituita dal Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti (TTIP), e i Francesi hanno detto "Niet, non passerà".
Gli Stati Uniti hanno poi organizzato un altro colpo di stato in Turchia per rimpiazzare Erdogan con qualcuno che non cercasse di giocare pulito con la Russia e i Turchi hanno detto "Niet" anche a quello.
Ed ora, orrore degli orrori, c'è Donald Trump che dice "Niet" a tutta una serie di cose: alla NATO, alla delocalizzazione dei posti di lavoro americani, al flusso incontrollato dei migranti, alla globalizzazione, alle armi per i nazisti ucraini, al libero commercio...
Non si può sottovalutare l'effetto psicologico corrosivo del "Niet" sulla psiche egemonica americana.
Se è previsto che tu pensi ed agisca come un egemone, ma poi a funzionare sono solo le intenzioni, allora il risultato è una dissonanza cognitiva. Se il tuo lavoro è quello di tiranneggiare le nazioni e le nazioni non possono più essere tiranneggiate, allora il tuo lavoro diventa una barzelletta e tu ti trasformi in un paziente psichiatrico.
La pazzia che ne risulta si è rivelata di recente con un interessante sintomo: alcuni dipendenti del Dipartimento di Stato americano hanno firmato una lettera, diventata immediatamente di dominio pubblico, in cui si chiedeva una campagna di bombardamenti nei confronti della Siria allo scopo di rovesciare Bashar Assad. Questi sono dei diplomatici. La diplomazia è l'arte di evitare le guerre attraverso la discussione. Dei diplomatici che invocano una guerra non sono esattamente. diplomatici.
Potreste dire che sono dei diplomatici incompetenti, ma questo non è sufficiente (la maggior parte dei diplomatici competenti ha lasciato il servizio durante la seconda amministrazione Bush, molti di loro per il disgusto di dover mentire sul razionale della guerra in Iraq).
La verità è che sono dei malati, squilibrati e non diplomatici guerrafondai. Il potere di una semplice parola russa è tale che hanno praticamente perso il lume della ragione.
Ma non sarebbe corretto parlare solo del Dipartimento di Stato. E' l'intero corpo politico americano ad essere stato infettato da un putrido miasma, che penetra in ogni cosa e rende la vita miserabile.
Nonostante tutti i problemi, la maggior parte delle cose, negli Stati Uniti è ancora gestibile, ma questa faccenda qui, il venir meno della capacità di tiranneggiare il mondo intero, rovina tutto. Siamo in piena estate, la nazione è sulla spiaggia. La stuoia è sfilacciata e mangiata dalle tarme, l'ombrellone è pieno di buchi, le bibite nella ghiacciaia sono piene di schifezze chimiche e le letture estive sono annoianti. e poi, lì vicino, c'è una balena morta in decomposizione che si chiama "Niet". Basta questo a rovinare tutta l'atmosfera!
Le teste parlanti dei media e dei politici che appartengono alle istituzioni, a questo punto, si rendono dolorosamente conto del problema e la loro prevedibile reazione è incolpare della cosa quella che per loro sta all'origine di tutto: la Russia, convenientemente personificata in Putin. "Se non voti per Clinton stai votando per Putin" è una delle ultime metafore politiche uscite. Un'altra è che Trump è un agente di Putin.
Ogni figura pubblica che rifiuti di assumere una posizione filogovernativa è automaticamente etichettata come "utile idiota di Putin".
Per quel che valgono, queste affermazioni sono ridicole.
Ma per esse c'è una spiegazione più approfondita: ciò che le lega tutte insieme è il potere del "Niet".
Un voto per Sanders è un voto "Niet": l'apparato democratico ha partorito una candidata e ha detto alla gente di votare per lei e la maggior parte dei giovani ha detto "Niet".
La stessa cosa con Trump: la macchina repubblicana ha tirato fuori i suoi Sette Nani e ha detto alla gente di votare per uno qualsiasi di loro e, invece, la maggior parte della classe operaia bianca e diseredata ha detto "Niet" e ha votato per Biancaneve, l'outsider.
E' un segno di speranza che la gente, in tutto il mondo dominato da Washington, stia scoprendo il potere del "Niet".
Le istituzioni, viste dall'esterno, possono anche sembrare tutte scintillanti, ma sotto la mano fresca di vernice a smalto si nasconde uno scafo marcio, con l'acqua che entra da tutte le falle aperte. Un "Niet" detto a voce abbastanza alta sarebbe probabilmente sufficiente per farlo affondare, lasciando spazio a qualche cambiamento veramente necessario. Quando questo accadrà, ricordatevi di ringraziare la Russia. o, se preferite, Putin