giovedì 30 maggio 2019

I pensierini di Salvini e le letterine di Bruxelles

Il tema Unione Europea – scomparso dal confronto elettorale delle principali forze politiche – torna subito in campo con l’annuncio di una lettera della Commissione UE che chiederebbe all’Italia di rispettare le regole del Fiscal Compact, che sono anche più rigide del 3% di deficit massimo previsto dal Trattato di Maastricht.
Di questo avrebbe dovuto parlar una seria campagna elettorale per il Parlamento UE. Invece tutte le principali forze politiche si sono scontrate sulle polemiche di casa, tutte poi aggiungendo che avrebbero voluto “andare in Europa per cambiarla. Che voleva dire? Nulla.
Ora Salvini, dopo il successo elettorale, prevedendo la “letterina” di Bruxelles, esprime pensierini “non conformisti” sui vincoli di bilancio imposti dai trattati UE. Lui che, nel solo bilancio ufficiale sinora stilato assieme a Di Maio, non solo non è riuscito a sforare il 3%, ma si è impegnato con la UE non superare neppure il 2.
Lui che ha firmato di nuovo ed ampliato le cambiali sottoscritte dai suoi predecessori, impegnandosi ad aumentare l’IVA di 50 miliardi in due anni. Lui che, con i suoi alleati del fronte sovranista reazionario, ha esaltato l’Europa bianca e cristiana, ma si è ben guardato dal mettere in discussione l’Europa di Maastricht. Perché i suoi alleati, felici quando chiude i porti, sono indisponibili ad aprire i cordoni della borsa per sostenere le spese pubbliche degli italiani.
I pensierini anti-austerità di Salvini sono pura propaganda.
La realtà è che la Lega, soprattutto quando governa le regioni del Nord, è un partito perfettamente aderente ai vincoli liberisti di Bruxelles. Anzi, l’autonomia differenziata che essa rivendica è proprio un modo per renderli permanenti, per dividere l’Italia tra regioni “virtuose” e ricche, compatibili con la UE, e regioni povere destinate a subire permanentemente il massacro sociale dell’austerità.
Ma se Salvini finge, anche la UE recita. E non solo perché la letterina di una Commissione dimissionaria rinvia per ogni decisione a quella successiva. Ma perché, dopo la devastazione della Grecia usata come cavia – e non avremo mai parole sufficienti per definire il cedimento e le complicità di Tsipras – tutta la UE e in particolare proprio le forze che la governano hanno deciso di agire con più prudenza.
Una volta riaffermati i principi di fondo delle politiche liberiste, qualche margine in più la UE se lo è dato. Anche perché sempre più forte è il conflitto della grande borghesia e del potere economico europei con la Russia e soprattutto con la Cina; mentre l’alleanza con gli USA, seppure competitiva, resta strategica in tutto il mondo, dal Venezuela, all’Africa, al Medio Oriente.
Per questo penso che vivono in un perenne inganno coloro che in questa campagna elettorale hanno davvero creduto alla contrapposizione frontale tra europeisti e sovranisti, frontalmente contrapposti sui destini dell’Europa.
Intanto, il solo uso della parola Europa è già fuorviante e strumentale. L’Europa è un continente che arriva fino agli Urali, lUnione Europea è una costruzione politica che comprende solo metà del continente e anzi è sempre più aggressiva verso il più grande stato europeo, la Russia.
Ma luso della parola Europa al posto di Unione Europea è già una scelta politica e di campo. Esso vuole indicare una appartenenza ideologica, etnica, religiosa. Il PD vanta il patriottismo europeo al posto di quello nazionale. Ma sempre di patriottismo si tratta, cioè dellultimo rifugio dei mascalzoni, secondo Samuel Johnson.
Del resto, questo “patriottismo europeo” è sempre tanto più guerrafondaio e aggressivo verso il mondo, quanto liberista al proprio interno: competitività, produttività, flessibilità. Naturalmente questo patriottismo si ammanta di principi liberali, ma sono gli stessi principi liberali che hanno portato nellottocento a fare dellEuropa la prima patria dello sfruttamento capitalistico e dellimperialismo coloniale.
Così oggi il patriottismo europeista si identifica con la cosiddetta civiltà occidentale, e il M5S ha rispolverato una parola degli anni 50 per affermare la propria collocazione euroliberale: Euroatalantismo. E infatti la NATO è sempre più avvinghiata all’Unione Europea.
Questo “patriottismo” europeista ha vinto le elezioni europee contro i cosiddetti sovranisti. Ma davvero costoro, seppure a destra, volevano una rottura della UE? Manco per sogno. Non è vero che i sovranisti volessero ristabilire i confini TRA gli stati europei, questo semmai lo ha fatto Macron. No, essi vogliono rafforzare e rendere invalicabili ai poveri I CONFINI ESTERNI della UE.
I sovranisti vogliono una fortezza europea di stampo medioevale, che innalzi ovunque il vessillo Dio Patria Famiglia. Contro di essi gli europeisti hanno innalzato la bandiera della modernità: mercato, impresa, individualismo.
Siamo proprio sicuri della incompatibilità tra queste due diverse trinità?
Il potere economico nella UE si sta ristrutturando, e il patto di Aquisgrana tra Francia e Germania lancia la necessità che il potere pubblico difenda gli interessi dei “campioni europei”. Guarda caso subito dopo è stata lanciata la fusione tra Renault e FCA.
Non è vero che il liberismo dell’Unione Europea sia un ritorno al laissez faire settecentesco, fondato sullo stato minimo. Al contrario questo liberismo usa il potere pubblico per sostenere in ogni modo il potere economico e l’impresa. È l’Europa dei grandi monopoli.
Su questo piano c’è sempre più convergenza tra europeisti e sovranisti. Entrambi infatti, quando parlano di intervento pubblico nell’economia, pensano a Grandi Opere e finanziamenti alle imprese. “È l’impresa che crea il lavoro”, questo è lo slogan comune di europeisti e sovranisti. Avete mai sentito Salvini parlare di rilancio dello stato sociale, della scuola e della sanità e dei servizi pubblici? No. L’obiettivo fondamentale della Lega è la riduzione delle tasse ai ricchi e alle aziende private, naturalmente un poco mascherato come “aiuto al ceto medio”.
È la scuola di Reagan e Thatcher che continua e si trasforma, e ai principi di questa scuola nella UE ubbidiscono sia gli europeisti che i sovranisti. Il 9 maggio in Romania tutti i capi di governo europeo – da Tsipras a Orban, da Macron a Conte e Merkel – hanno sottoscritto un appello comune nel quale si esalta la UE, ci si impegna a rafforzarne i confini esterni e a continuare con le politiche liberiste. Sta nascendo l’EUROSOVRANISMO.
Per questo penso che lo scontro tra i pensierini di Salvini e le letterine della UE sia un altro capitolo di un teatrino politico di attori che perseguono gli stessi interessi e che alla fine troveranno un accordo. E chi vuol cambiare le cose nel nome dell’eguaglianza sociale, dei diritti del lavoro e dell’ambiente deve considerare europeismo e sovranismo, nei loro accordi e disaccordi, due facce dello stesso avversario.

lunedì 27 maggio 2019

Fuochi d’artificio elettorali. C’è davvero da spaventarsi?

Guardando ai risultati elettorali europei ed italiani non si sfugge a un’impressione decisamente contraddittoria. La prima reazione, di fronte al “trionfo” della Lega e in generale delle destre xenofobe/razziste, è chiedersi “dove posso emigrare”? La seconda, altrettanto immediata, è che tutto ciò non sia del tutto reale.
Intendiamoci subito: i voti sono quelli, chiarissimi. E non si deve far finta di nulla.
La Lega sbraitante ha superato il 34%, i Cinque Stelle sono stati dimezzati, il Pd ha avuto il classico “rimbalzo del gatto morto” (dopo una caduta da grandi altezze) risalendo al 22,7%, Berlusconi ha rinviato il decesso raccogliendo quasi il 9 (quasi la metà di un anno fa, e pare addirittura un mezzo successo), i nostalgici della Meloni prendono un 6,5% che sembra oro.
Il resto è poca roba, importante solo per le analisi autoconsolatorie che seguono una sconfitta, quando gli zero virgola in più o meno devono essere enfatizzati al massimo per “tenere le truppe” ed evitare la fuga disordinata. Così gli ultrà europeisti di zombie-Bonino confermano il 3% del 4 marzo (solo che lì dava diritto a qualche parlamentare, qui no), i Verdi – inesistenti come struttura organizzata – beneficiano superficialmente dell’altrettanto superficiale “effetto Greta” e raccattano un 2,6 su cui si castellerà moltissimo, “a sinistra”, sognando altre combinazioni elettorali magiche per le prossime scadenze (che arriveranno a breve).
La sinistra” precipita all’1,7%, come se il ritorno dei vendolian-fratoianniani nel vecchio alveo post-“Rifondazione Unita” non avesse avuto alcun effetto, tranne quello di allontanare da quel residuo di ceto politico anche la voglia di interrogarsi sul futuro.
Ancora peggio gli “identitari”. Il “Rizzo pelato servo della Nato” – definizione immortale guadagnata ai tempi della guerra contro la Jugoslavia, quando stava al governo che bombardava e diceva di solidarizzare con i bombardati – sfiora ma non tocca l’1%, chiarendo una volta di più che la speculazione sul simbolo con la falce e martello può servire giusto come catalizzatore di un sentimento nostalgico, peraltro in via di esaurimento fisiologico.
Idem o peggio per i “fascisti del terzo millennio” o del quarto scantinato – Casapound e Forza Nuova – che nonostante una sponsorizzazione mediatica eccezionale non prendono, sommati, neppure lo 0,5%. A quanto pare, il “voto utile” ha fatto strage soprattutto a destra, visto che c’è un primattore di panza in grado di rappresentare le identiche istanze senza (ancora) emanare lo stesso fetore.
I risultati europei richiederanno un’analisi specifica, paese per paese, ma nell’insieme restituiscono un frame dalla dinamica non troppo dissimile: lo spostamento di milioni di voti da un’area all’altra (generalmente verso destra), ma senza alcuna impressione di stabilità. Senza, insomma, restituire il senso dell’affermarsi vero di un modo di pensare e agire, di una “soluzione” ai problemi – per quanto orrenda –  che confusamente gli “elettorati” vanno cercando.
Alla vigilia delle elezioni, le avevamo definite un “sondaggione”. Ossia una fotografia delle “opinioni” – e del loro peso specifico – in un certo istante. Ma senza alcun potere di determinare spostamenti rilevanti della governance europea. Perché è l’assetto istituzionale dell’Unione Europea a non poter tradurre – neanche volendo – una “volontà popolare” in un “governo” che le corrisponda.
Il parlamento per cui si è votato non possiede l’unica prerogativa che lo renderebbe un vero Parlamento: il potere legislativo. Le “leggi europee” vengono elaborate dalla Commissione (il governo), e ai parlamentari non resta che approvare o respingere. Su tutto l’insieme preme un’orda di lobbisti tale da far sembrare un suq mediorientale il paradiso della trasparenza decisionale…
Ora, infatti, i singoli governi nazionali indicheranno i “commissari europei” (i “ministri”), ed è certo che verranno nominati quelli che meglio sanno proteggere gli interessi nazionali in uno “spirito europeo”, molto competitivo all’interno, ma sotto il velo della “solidarietà”. Sapendo bene che pesano soprattutto le dimensioni delle diverse economie, gli intrecci tra le rispettive filiere industriali e il rispetto rigido di trattati che possono essere rivisti solo all’unanimità. O meglio, a seconda di come Francia e soprattutto Germania decidono e impongono.
E’ questo marchingegno istituzionale – ovviamente molto più complesso di quanto qui schematizzato – a rendere un “sondaggione” le elezioni europee. Perché non ne discendono conseguenze politiche immediate.
Ma non lasciano neanche intatte le situazioni nazionali. Gli effetti, paese per paese, ci sono; eccome. Il problema, però, è che anche gli spostamenti interni ai paesi sono diventati relativamente ininfluenti sulle decisioni politiche “vere”. Ossia sulle politiche economiche e fiscali, quelle che determinano o favoriscono una certa produzione e redistribuzione della ricchezza.
Questo svuotamento della “sovranità” è alla radice della trasformazione dei processi elettorali in mega-sondaggi d’opinione, con scarsi o nulli effetti pratici. Certo, si può eleggere un governo nazionale che affoga i migranti in mare oppure fa piazza pulita di rom ed homeless dai centri metropolitani (o financo dalle periferie). Ma non un esecutivo che trasformi la volontà popolare in miglioramento delle condizioni di vita della popolazione.
Potete insomma pretendere di avere un paesaggio urbano “senza negri e zingari”, e questo in parte vi verrà dato, per qualche tempo. Ma non potete pretendere un governo che vi dia un lavoro o un reddito per vivere, aumenti salariali se siete già al lavoro, abbassamento dell’età pensionabile, aliquote fiscali proporzionali alla ricchezza posseduta, una scuola efficiente-utile-semigratuita, una sanità accessibile e funzionante, case vivibili a un prezzo abbordabile, ecc.
Questa condizione è ormai entrata per molte vie traverse nella testa degli “elettorati”, svuotando peraltro di significato immediato le differenze di “opinione” rispetto alla posizione di classe o collocazione sociale.
Impossibile, dunque, o completamente stupido, continuare a pensare alle elezioni nei vecchi termini, quando uno spostamento di voti determinava – o poteva determinare – anche un cambiamento di scelte politiche fondamentali.
Il voto è divento “liquido” e infatti gira da una lista all’altra, di anno in anno, come acqua nei tubi di un sistema idraulico che però non serve a spegnere la sete o irrigare un orto. Circola a vuoto, a sistema chiuso, obbligato dal semplice fatto di “dover” essere espresso per confermare la retorica della “democrazia” senza più gli effetti pratici di una democrazia.
In soli cinque anni, in Italia, “il consenso di riferimento” per formare un governo – esattamente come l’azionariato di riferimento in un’azienda – è velocemente passato dal Pd di Renzi (2014) ai Cinque Stelle (2018) e ora alla lega di Salvini. Non è cambiato nulla, per “la gente”, in questi passaggi. Solo la “velocità di rotazione” nell’opinione disorientata…
Gli strilli della retorica, solo leggermente diversa nei tre protagonisti principali, non sono bastati e non basteranno a coprire l’impotenza pratica (puoi affogare “un negro” e far manganellare i manifestanti, sfrattare i senza casa e qualche centro sociale, ma nulla su tutto il resto).
Dunque questo voto – per molti versi “preoccupante” – non è né un punto d’arrivo nel “processo di fascistizzazione” né un punto di partenza verso orizzonti diversi (migliori o peggiori). E’ solo una stazione lungo un viaggio che, scorrendo lungo la faglia di una crisi epocale dei sistemi occidentali, può finire solo contro un muro o in un baratro.
Le alternative? Ci potrebbero essere, ma occorre ricominciare a pensare a quest’altezza. Altrimenti si alimenta solo il chiacchiericcio e l’orrore dell'”opinione”, da sondaggiare compulsivamente per far finta di essere vivi…

giovedì 23 maggio 2019

23 maggio 1992, strage di Capaci. “Il botto” non fu solo mafioso

Quel pomeriggio la terra ha tremato. Nel palermitano, fra Capaci e l’Isola delle Femmine, l’Istituto Nazionale di Geologia e Vulcanologia di Erice registrava una scossa di terremoto, pari al terzo grado della scala Mercalli.
Mi trovavo in zona per il mio giornale – allora ero corrispondente per il settimanale “Il Paese” di Modena – e ho avvertito perfettamente il tremore sotto i piedi: mancava qualche minuto alle ore 18. Però l’effetto-terremoto durò pochissimo tempo. Infatti non c’era stato nessun terremoto!
Gli elicotteri della polizia e dei carabinieri, il massiccio intervento delle autobotti dei vigili del fuoco e delle autoambulanze, le auto a sirene spiegate di tutte le forze dell’ordine andavano, tutte, verso l’autostrada e precisamente verso lo svincolo di Capaci. Un giro di telefonate fra i colleghi giornalisti e la strage era nuda, la strage di Capaci.
Quel giorno, Giovanni Falcone, “il giudice”, stava tornando da Roma, come era solito fare nei fine settimana. Il jet di servizio, partito dall’aeroporto di Ciampino intorno alle 16.45, dopo un viaggio di 53 minuti atterrava a Palermo a Punta Raisi. Lo attendevano tre Fiat Croma, gruppo di scorta sotto comando del capo della squadra mobile della Polizia di Stato, Arnaldo La Barbera.
Appena sceso dall’aereo, Falcone si sistemava alla guida della vettura bianca e, accanto a lui, prendeva posto la moglie Francesca Morvillo, mentre l’autista giudiziario Giuseppe Costanza occupava il sedile posteriore. Nella Croma marrone c’era alla guida Vito Schifani, con accanto l’agente scelto Antonio Montinaro e, sul retro, Rocco Di Cillo. Nella vettura azzurra c’erano Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. La Croma marrone era in testa al gruppo, seguiva la Croma bianca, guidata da Falcone e, in coda, la Croma azzurra. Le auto lasciavano l’aeroporto imboccando l’autostrada in direzione Palermo.

Otto minuti dopo, alle ore 17.58, presso il chilometro 5 dell’autostrada A 29, una carica di cinque quintali di tritolo, posizionata in un tunnel scavato sotto la sede autostradale nei pressi dello svincolo di Capaci, veniva azionata per telecomando da Giovanni Brusca,  incaricato da Totò Riina. La detonazione ha provocato un’esplosione “vulcanica” e una voragine enorme sull’autostrada.

Circa venti minuti dopo Giovanni Falcone veniva trasportato, insieme alla moglie, presso l’ospedale Civico di Palermo. Gli altri agenti e i civili coinvolti venivano anch’essi trasportati in ospedale, mentre la Polizia Scientifica eseguiva i primi rilievi e i Vigili del Fuoco espletavano il pesante compito di estrarre i corpi irriconoscibili di Schifani, Montinaro e Di Cillo.

È stato impossibile raggiungere subito il luogo del “botto”. Successivamente sul luogo della strage  ci sono arrivato insieme al mio amico Mario Gatto che nutriva una forte passione per la fotografia. Siamo  riusciti a raggiungere quel luogo attraverso un varco, denominato “il passaggio della lepre”.

È bastato calpestare il terreno che portava verso l’autostrada per rendermi conto che tutto quello che avevo visto nei telegiornali, anche le immagini più cruenti, lì, in quel preciso istante, non avevano lo stesso peso. Quello che stavo vivendo era impressionante! Man mano che mi avvicinavo all’autostrada il terreno era sempre più nero, come se fosse stato raggiunto dai lapilli dell’Etna. Gli alberi d’ulivo bruciati dal fuoco. Il messaggio biblico: “Non c’è pace fra gli ulivi!”, in questa Sicilia, colonizzata e sfruttata, sempre più attuale.

Avvicinandomi al luogo della strage, notavo dei poliziotti della Scientifica che raccoglievano, fra i rami degli alberi bruciati, pezzetti di carne umana. Quella dei poliziotti della scorta, macellati. Dentro l’autostrada la “bocca vulcanica” dell’esplosione . Il puzzo nauseante della carne umana bruciata era insopportabile. Mario, emozionatissimo, continua a scattare le sue foto. Io, giornalista “di strada”, nascondevo a malapena le rabbia, e mi dicevo a me stesso, quasi con ossessione: “Tutto questo non è solo mafia, no!”.
E non era solo una mia sensazione. Infatti, quando si parla della strage di Capaci, come quella successiva che costò la vita al giudice Borsellino e alla scorta, si parla di quella che è stata la TRATTATIVA MAFIA-STATO. Una trattativa che, oltre le vittime delle stragi, ha avuto il popolo sfruttato siciliano, sempre più criminalizzato con l’infame marchio di ” popolo mafioso”, marchio che fa comodo alle cosche mafiose e a chi tratta con loro.

mercoledì 22 maggio 2019

L’Europa delle disuguaglianze sotto la sferza dell’Unione Europea

Il voto europeo è alle porte. Non servirà a nulla, per quanto riguarda la direzione di marcia dell’Unione Europea – il parlamento di Strasburgo è tale solo di nome, visto che non ha potere legislativo autonomo – ma ridisegnerà la mappa delle “famiglie politiche” nei 27 paesi membri.
Il dato comune, a quattro giorni dall’apertura delle urne, è la crisi politica che attraversano tutti i paesi, soprattutto quelli più grandi e “importanti”. La Francia si è ribellata a Macron, ma non sembra aver individuato la possibile alternativa. La Spagna continua a votare e a non avere una maggioranza di governo accettabilmente stabile. La stessa Germania guarda con preoccupazione a una ulteriore possibile sconfitta della Grosse Koalition (i democristiani della Merkel e i “socialdemocratici” dell’Spd). Sulla Gran Bretagna verrebbe da stendere un velo pietoso, mentre il ghigno di quel pagliaccio di Farage emerge dallo sfondo.
In Italia si attendono i risultati solo per determinare chi sarà il “timoniere” del superamento del governo gialloverde. E se fino a qualche settimana fa sembrava certo che lo scettro sarebbe stato in mano a Salvini e all’ultradestra che lo sostiene, col passare dei giorni la stella ducesca del “Capitano” si è drasticamente offuscata.
Terremoto ovunque, ma neanche questo sembra sufficiente a far emergere un’idea progettuale di sviluppo di quella che non è più solo una comunità economica ma non è in grado di diventare una comunità politica sovranazionale. Solo chiacchiere, distintivo e procedure di infrazione…

Nella competizione globale, ufficializzata da Trump con la “guerra dei dazi” ma ripresa fin dall’inizio dell’”era Obama”, l’Unione Europea sembra destinata a essere il vaso di coccio. Troppo indietro nell’innovazione tecnologica, troppo povera di risorse energetiche proprie, troppo fragile sul piano militare, troppo lenta nel reagire agli input esterni (sia positivi che negativi), troppo sparagnina nella visione economica, segnata negativamente dall’austera e suicida visione ordoliberista, che ha imposto tagli di spesa in piena crisi e competizione interna fondata sulla compressione dei salari (e quindi sulla distruzione del mercato interno).
L’unica reazione degna di nota, che getta però una luce orrenda sul prossimo futuro, consiste nella centralizzazione ulteriore dei processi decisionali continentali. Il Trattato di Aquisgrana trasforma l’asse franco-tedesco nel motore unico della futura Unione Europea, unificando in prospettiva i campioni industriali e finanziari, ma anche i rispettivi Parlamenti ed eserciti (la velocità e la qualità tecnologica del riarmo tedesco è l’unica vera incognita nell’equazione relativa al prossimo decennio).
Prevedibili, in questa chiave, ondate di “revisioni dei trattati” o stipulazione di nuovi trattati secondo la formula “prendere o lasciare”, con i paesi della “serie B” esonerati anche dalla fatica di dover elaborare una risposta.
La reazione “istintiva” di questo organismo continentale malpensato, malprogettato e malgestito (almeno ai fini dichiarati di una “riduzione delle disuguaglianze” tra i diversi paesi e popolazioni) è stata insomma quella di una concentrazione del potere e un incremento delle disuguaglianze. Nelle relazioni economiche e quindi anche nelle condizioni vita delle varie popolazioni.
Chi ancora farfuglia frasi senza senso su possibili “riforme dell’Unione Europea” (“la sinistra”, insomma) dovrebbe perlomeno dare un’occhiata a quel che sta accadendo nelle “stanze che contano”. Se non altro per evitare di essere additato ancora una volta dal popolo come complice dei veri nemici. Ma non nutriamo illusioni, su questo punto…

Il paese in cui è più netta e chiara la contrapposizione tra le possibili “vie d’uscita” è al momento la Francia, non a caso il luogo in cui il conflitto sociale – come sempre “imprevisto” nelle sue forme fenomeniche concrete – è esploso con maggiore intensità, superando la lunga fase di incubazione del “malessere” che si esprime poi nelle urne con un tasso altissimo di volatilità (il 4 marzo 2018 sembra ormai un’altra era geologica…).
E in effetti l’”uscita a destra” rappresentata dalla destra lepenista, altrettanto neoliberista di quella “europeista” di Macron, è radicalmente opposta quella “di sinistra” de La France Insoumise. Non a caso, anche lì, la destra ha progressivamente azzerato le proprie critiche alla Ue per adottare invece la classica “prospettiva riformatrice” in chiave razzista e nazionalista. Proprio come Salvini qui da noi.
Al fondo del turbinio politico, come sempre, stanno le differenze sociali, di classe, le disuguaglianze sempre più forti che rendono intollerabile – per strati sempre più larghi delle popolazioni – l’accettazione dello status quo.
Per avere una mappa statisticamente fondata di quelle disuguaglianze, come già fatto in altre occasioni, consigliamo la lettura dell’editoriale di Guido Salerno Aletta su Milano Finanza.
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Diseguaglianze in Europa
Guido Salerno Aletta
Nel tempo e nello spazio: tanto è cambiato in questi ultimi cinque anni, a partire dall’ultimo rinnovo del Parlamento europeo. Si torna nuovamente alle urne, la prossima settimane, in un contesto ancora più articolato di quello del 2014, appena a valle della approvazione del Fiscal Compact che tutto semplifica dividendo gli Stati tra virtuosi e viziosi, prendendo come unico metro di giudizio i parametri che disciplinano le finanze pubbliche, rapporto deficit/pil e debito/pil.
Anche gli stessi gradienti finanziari che ci accompagnano quotidianamente, come l’andamento delle Borse e degli spread sui titoli di Stato, non sono esaustivi per descrivere il contesto in cui si svolgeranno le elezioni. Si vota con la pancia, e non solo con la testa.
Nell’Unione Europea a 28, nel 2014, il reddito mediano annuo era di 15.790 euro. Nel 2017, a prezzi correnti, è salito a 16.909 euro. Ma le differenze all’interno dell’area sono rimaste enormi: si va dai 36 mila euro del Lussemburgo ai 2.742 della Romania.
Nella fascia alta ci sono tutti i Paesi della Europa “tradizionale”: Danimarca, Svezia, Austria, Olanda, Belgio, Francia, Germania e Gran Bretagna, tutti Paesi in cui i redditi sono stati superiori ai 20 mila euro. Con minime differenze tra i tre grandi: Francia con 22.077 euro, Germania con 21.920 e Gran Bretagna con 20.995. Italia e Spagna sono rimaste distaccate, rispettivamente con 16.542 e 14.503 euro, mentre in fondo si trova i Paesi del Blocco Orientale: Polonia con 5.945 euro, Ungheria con 4.988, Bulgaria con 3.590 ed infine Romania con i citati 2.742 euro.
Tra i Paesi con il livello più alto e quelli con il più basso c’è ancora un rapporto all’incirca di 5 a 1.
Nel tempo, la crisi ha seguito a colpire in modo molto diverso. E’ andata comunque molto bene per alcuni Paesi, ma molto male per altri: in termini reali, e fatto uguale a 100 il reddito pro capite nel 2010, in Germania si è passati da 98,2 del 2008 a 108,8 del 2018 (+10,6); in Francia è cresciuto un po’ meno, da 98,5 a 105,4 (+6,9); la Gran Bretagna si è attardata, passando da 102,8 a 108,3 (+5,5): il plotone di testa, quello dei Paesi più ricchi, si è dunque sgranato. Anche l’Austria, ad esempio, ha registrato un progresso assai modesto, passando da 98,6 a 101,6 (+3).
L’Italia ha accusato una forte flessione, da cui non si è ancora ripresa: il reddito pro capite mediano è sceso da 101,1 del 2008 a 93,1 del 2014, per poi approdare appena a 97,8 nel 2018 (-3,3). Anche l’Irlanda ha perso prodotto pro capite, ma un po’ meno dell’Italia, passando da 106,4 a 103,3 (-3,1). La Grecia ha pagato un prezzo enorme: il reddito pro capite mediano è crollato da 108,7 a 84,2 (-24,5).
Ai vertici, in termini di miglioramento, troviamo invece i Paesi del Blocco Orientale: nonostante la crisi generale, hanno ridotto le distanze con il resto dell’Unione: Romania (+32,2), Polonia (+30,1), Bulgaria (+29,8), Ungheria (+12,5). Mentre non ci sono dati recenti sulla Spagna, passata da 103,2 del 2008 ai 92,6 del 2014 (-10,6), sorprende la performance del Portogallo: nonostante tutto, è passato da 99,8 del 2008 a 103,6 del 2018 (+3,8). Merito della protezione ottenuta sul debito pubblico, detenuto in blocco dai fondi delle ex colonie, Macao in testa.
Il tema della occupazione è un altro aspetto centrale per la valutazione della situazione economica e sociale. Anche qui, i dati devono essere letti con cura, disaggregandoli, perché quelli complessivi cui si fa generalmente riferimento non tengono conto di fenomeni potenzialmente indesiderabili: un elevato tasso di occupazione può celare una quota elevatissima di lavoro a tempo parziale o precario, magari involontario e soprattutto femminile.
Nel periodo 2014-2018, il tasso complessivo di occupazione, considerando tutte le classi di età tra i 20 ed i 64 anni, ha avuto andamenti tutti in miglioramento, pur rimanendo profonde differenze. Ai vertici, si trova la Germania, che era già partita assai bene: è passata dal 77,7% al 79,9% (+2,2%); la Gran Bretagna lo ha aumentato percentualmente molto di più, passando dal 72,2% al 78,8% (+6,6%). La Francia ha avuto una performance più modesta, anche considerando il basso livello di partenza: è passata infatti dal 69,5% al 71,3% (+1,8%).
In Italia, che pure partiva da un livello molto basso, l’occupazione è cresciuta più della Francia, passando dal 59,9% al 63% (+3,1%), anche se il divario rimane elevato: ancora otto punti rispetto alla Francia e oltre diciassette punti rispetto alla Germania. Ben si spiega, così, l’insofferenza verso le politiche di austerità ed il minor consenso nei confronti delle tradizionali famiglie politiche.
Per quanto riguarda il Blocco Orientale, la dinamica occupazionale è stata assai positiva: l’Ungheria ha fatto meglio di tutti, passando dal 66,7% al 74,4% (+7,7%); in Bulgaria è cresciuta dal 65,1% al 72,4% (+7,3%), in Polonia dal 66,5% al 72,2% (+5,7%).
Analizzando le tipologie di occupazione, si rileva che il lavoro a part time e quello temporaneo, soprattutto nella componente femminile, hanno avuto un enorme rilievo: nel 2018, in Olanda, il primo ha rappresentato il 46,8% della occupazione totale ed addirittura il 73,8% di quella femminile. In Austria, i due dati sono stati rispettivamente il 27,6% ed il 47,6%; in Germania il 26,8% ed il 46,7%; in Gran Bretagna il 23,3% ed il 38,6%. Queste percentuale sono state molto più basse in Italia (18,3% e 32,4%), Francia (17,8% e 28,7%) e Spagna (14,2% e 23,6%).
Il lavoro part time e precario raggiunge i livelli minimi europei nei Paesi del Blocco Orientale: Romania (6,3% ), Polonia (6,2%), Ungheria (4,2%), Bulgaria (1,8%). Bassi costi del lavoro e produttività inferiore consentono infatti di avere manodopera a tempo pieno pagando comunque salari monetari esigui.
Tre sono i dati che emergono. In primo luogo, si assiste al divaricarsi delle principali economie della Europa “storica”, con la Germania che surclassa ampiamente la Francia e la Gran Bretagna in termini di crescita del reddito e soprattutto in termini di risanamento della finanza pubblica; l’Italia, invece, non solo non è riuscita a recuperare i danni della duplice profonda recessione del 2008 e del 2012, ma continua a veder peggiorare anche il rapporto debito/pil.
In secondo luogo, nonostante la crescita economica sostenuta nel Blocco Orientale, la distanza in termini di reddito mediano rispetto ai Paesi dell’Europa core è ancora elevatissima.
Infine, i dati complessivi relativi alla occupazione celano i processi di precarizzazione e di parzializzazione del lavoro, che sono più vistosi nei Paesi ad alto reddito pro-capite.
La sofferenza sociale è ancora più evidente quando si analizzano i dati relativi alla occupazione “involontaria” part time, che quantifica coloro che ricorrono a questa forma di impiego non avendo trovato di meglio: la percentuale più alta è in Grecia con il 69% del totale, seguita dall’Italia con il 64%, e dalla Spagna con il 63%. Non a caso, ci sono alte percentuali anche nel Blocco Orientale: Bulgaria 61%, Romania 48%, Ungheria 38%, Polonia 29%: i salari sono già talmente bassi che un lavoro a tempo parziale è oltremodo penalizzante. Anche la Francia, con il 41,5% denota livelli di malessere elevati, mentre la Gran Bretagna con il 17% e la Germania con il 13% mostrano una situazione di gran lunga meno stressata.
Anche questi dati confermano lo sfarinamento della Europa “storica”, ed il Blocco Orientale ancora in grande sofferenza sociale.
Anche le statistiche sul tasso di povertà, nella fattispecie definita da Eurostat in termini di Severe material deprivation rate, offrono elementi di riflessione, sia in termini di distribuzione geografica che di dinamica temporale. Anche in questo caso, il Blocco Orientale ha registrato tra il 2014 ed il 2017 i più vistosi miglioramenti, con la Romania che lo ha visto calare dal 28,4% al 19,2% della popolazione (-9,2%), l’Ungheria dal 22,2% al 13,4% (-8,8%), la Polonia dal 10,4% al 5.9% (-4,5%), e la Bulgaria dal 31,9% al 30,5% (-1,4%).
Sono dati molto significativi, anche se le statistiche sono spesso effettuate nel tempo seguendo criteri nuovi. Ad esempio, nel 2013, la medesima percentuale in Bulgaria era stata calcolata nel 42,5% della popolazione. La Grecia ha riportato miglioramenti minimi, passando tra il 2014 ed il 2017 dal 20,9% al 20,3% (-0,6%), dopo aver raggiunto il picco del 21,4% nel 2016; l’Italia è passata dall’11,1% al 10,2% (-0,9%) dopo aver toccato anch’essa il picco nel 2016, con il 12%. La Spagna avrebbe ottenuto migliori risultati, passando dal 7,1% al 5,1% (+2%), assai più rilevanti anche rispetto a quelli della Francia, che ha ridotto ulteriormente un indice di malessere che già nel 2014 era molto basso, portandolo dal 4,5% al 3,8% (-0,7%). La Germania lo avrebbe portato dal 4,8% al 3,6% (-1,2%). Il successo della Gran Bretagna nella lotta alla povertà sarebbe stato decisivo, avendola ridotta dal 6,5% al 3,7% (-2,8%). Niente poveri, in questi ultimi tre Paesi, statisticamente parlando.
Anche quest’ultimo set di dati conferma il quadro che si è andato un po’ alla volta tratteggiando: l’Europa “storica”, quella dei Paesi che hanno aderito all’Unione fino alla caduta del Muro di Berlino, mostra che nel periodo 2014-2017 c’è stata una ulteriore, vistosa tendenza alla divaricazione rispetto ai ritmi di crescita registrati dalla Germania. La Francia e la Gran Bretagna la seguono, ma con fatica e forti tensioni interne: queste ultime sono dimostrate dalle manifestazioni dei Gilets Jaunes, che reclamano un maggior potere di acquisto per le famiglie, e dal voto favorevole alla Brexit, sia pure espresso da una risicata maggioranza referendari.
Pesano, ed è questa la fatica, gli squilibri nel commercio con l’estero. Il gruppo dei Paesi PIIGS, Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda ed Italia, segnati dalla crisi, si è distanziato dalla Europa “tradizionale”. Nonostante i consistenti miglioramenti, in termini di reddito, di occupazione e di riduzione dei livelli di povertà, rimangono afflitti da forti ritardi, i Paesi del Blocco Orientale, Polonia, Romania, Ungheria e Bulgaria, sono ben lontani dai livelli di reddito del resto del Continente.
Ai tempi della caduta del Muro c’era un solo nodo sciogliere: assimilare democraticamente i Paesi del Blocco Orientale, aprendo loro il grande mercato interno, per portarli al livello economico di quelli dell’Europa storica.
Ora, ad undici anni dalla crisi americana e ad otto da quella dell’Eurozona, i problemi si sono moltiplicati: occorre riacciuffare la Gran Bretagna; recuperare la Grecia; ridurre le distanze a cui Italia e Spagna sono state lasciate andare.
Il vero sovranismo, per cui tanto ci si straccia le vesti, è quello sotteso dalla Brexit ed dal nuovo accordo di Aquisgrana, con cui Francia e Germania hanno rinsaldato il loro asse, per difendere i propri interessi, decidendo da soli sulla politica estera, sull’esercito comune, sulla politica industriale.
Sarebbe davvero scomodo doverlo ammettere in campagna elettorale. Meglio dibattere sui candidati alla Presidenza della Commissione, ed in sottofondo lasciar andare lo spread per gli sforamenti del deficit da parte dell’Italia. Balliamo al suono delle nostre catene, anche stavolta

martedì 21 maggio 2019

L’Europa delle disuguaglianze sotto la sferza dell’Unione Europea

Il voto europeo è alle porte. Non servirà a nulla, per quanto riguarda la direzione di marcia dell’Unione Europea – il parlamento di Strasburgo è tale solo di nome, visto che non ha potere legislativo autonomo – ma ridisegnerà la mappa delle “famiglie politiche” nei 27 paesi membri.
Il dato comune, a quattro giorni dall’apertura delle urne, è la crisi politica che attraversano tutti i paesi, soprattutto quelli più grandi e “importanti”. La Francia si è ribellata a Macron, ma non sembra aver individuato la possibile alternativa. La Spagna continua a votare e a non avere una maggioranza di governo accettabilmente stabile. La stessa Germania guarda con preoccupazione a una ulteriore possibile sconfitta della Grosse Koalition (i democristiani della Merkel e i “socialdemocratici” dell’Spd). Sulla Gran Bretagna verrebbe da stendere un velo pietoso, mentre il ghigno di quel pagliaccio di Farage emerge dallo sfondo.
In Italia si attendono i risultati solo per determinare chi sarà il “timoniere” del superamento del governo gialloverde. E se fino a qualche settimana fa sembrava certo che lo scettro sarebbe stato in mano a Salvini e all’ultradestra che lo sostiene, col passare dei giorni la stella ducesca del “Capitano” si è drasticamente offuscata.
Terremoto ovunque, ma neanche questo sembra sufficiente a far emergere un’idea progettuale di sviluppo di quella che non è più solo una comunità economica ma non è in grado di diventare una comunità politica sovranazionale. Solo chiacchiere, distintivo e procedure di infrazione…

Nella competizione globale, ufficializzata da Trump con la “guerra dei dazi” ma ripresa fin dall’inizio dell’”era Obama”, l’Unione Europea sembra destinata a essere il vaso di coccio. Troppo indietro nell’innovazione tecnologica, troppo povera di risorse energetiche proprie, troppo fragile sul piano militare, troppo lenta nel reagire agli input esterni (sia positivi che negativi), troppo sparagnina nella visione economica, segnata negativamente dall’austera e suicida visione ordoliberista, che ha imposto tagli di spesa in piena crisi e competizione interna fondata sulla compressione dei salari (e quindi sulla distruzione del mercato interno).
L’unica reazione degna di nota, che getta però una luce orrenda sul prossimo futuro, consiste nella centralizzazione ulteriore dei processi decisionali continentali. Il Trattato di Aquisgrana trasforma l’asse franco-tedesco nel motore unico della futura Unione Europea, unificando in prospettiva i campioni industriali e finanziari, ma anche i rispettivi Parlamenti ed eserciti (la velocità e la qualità tecnologica del riarmo tedesco è l’unica vera incognita nell’equazione relativa al prossimo decennio).
Prevedibili, in questa chiave, ondate di “revisioni dei trattati” o stipulazione di nuovi trattati secondo la formula “prendere o lasciare”, con i paesi della “serie B” esonerati anche dalla fatica di dover elaborare una risposta.
La reazione “istintiva” di questo organismo continentale malpensato, malprogettato e malgestito (almeno ai fini dichiarati di una “riduzione delle disuguaglianze” tra i diversi paesi e popolazioni) è stata insomma quella di una concentrazione del potere e un incremento delle disuguaglianze. Nelle relazioni economiche e quindi anche nelle condizioni vita delle varie popolazioni.
Chi ancora farfuglia frasi senza senso su possibili “riforme dell’Unione Europea” (“la sinistra”, insomma) dovrebbe perlomeno dare un’occhiata a quel che sta accadendo nelle “stanze che contano”. Se non altro per evitare di essere additato ancora una volta dal popolo come complice dei veri nemici. Ma non nutriamo illusioni, su questo punto…

Il paese in cui è più netta e chiara la contrapposizione tra le possibili “vie d’uscita” è al momento la Francia, non a caso il luogo in cui il conflitto sociale – come sempre “imprevisto” nelle sue forme fenomeniche concrete – è esploso con maggiore intensità, superando la lunga fase di incubazione del “malessere” che si esprime poi nelle urne con un tasso altissimo di volatilità (il 4 marzo 2018 sembra ormai un’altra era geologica…).
E in effetti l’”uscita a destra” rappresentata dalla destra lepenista, altrettanto neoliberista di quella “europeista” di Macron, è radicalmente opposta quella “di sinistra” de La France Insoumise. Non a caso, anche lì, la destra ha progressivamente azzerato le proprie critiche alla Ue per adottare invece la classica “prospettiva riformatrice” in chiave razzista e nazionalista. Proprio come Salvini qui da noi.
Al fondo del turbinio politico, come sempre, stanno le differenze sociali, di classe, le disuguaglianze sempre più forti che rendono intollerabile – per strati sempre più larghi delle popolazioni – l’accettazione dello status quo.

lunedì 20 maggio 2019

Genova: chi fa la guerra non va lasciato in pace!

Nel mentre scriviamo la nave Bahri Yanbu, della maggiore compagnia di navigazione saudita e vettore consolidato del traffico di armi che alimenta la più grande catastrofe umanitaria mondiale (secondo la definizione dell’ONU) ovvero la guerra in Yemen è nella rada del porto di Genova ed entrerà – se entrerà – nello scalo ligure lunedì mattina alla sei circa.
Per quell’ora è convocato un presidio – anticipato di alcune ore rispetto all’indizione precedente – di fronte al varco portuale Etiopia, su lungomare Canepa, uno dei principali accessi all’area portuale nella delegazione di Sampierdarena.
La nave è salpata ad aprile dagli States e ha imbarcato il 4 maggio container di munizioni al porto di Anversa, e sarebbe dovuta entrare l’8 maggio nel porto di Le Havre per caricare 8 cannoni semoventi Caesar da 155 mm prodotti da Nexter, rinunciandovi per la decisa opposizione e l’azione intrapresa nello scalo francese da associazioni pacifiste e dockers.
Questi sistemi d’arma, non caricati nello scalo francese sarebbero stati spostati su rotaia per essere poi imbarcati dallo scalo ligure di La Spezia.
Nello scalo iberico non previsto, nel porto di Santander, dov’è approdata dopo il mancato arrivo a Le Havre, ha incontrato l’opposizione di forze che ne hanno denunciato la funzione militare, ma nonostante le denunce e gli esposti alla magistratura delle associazioni pacifiste “avrebbe caricato armi e munizioni solo destinate ad una esposizione negli Emirati Arabi Uniti”, come riporta l’OPAL, prendendo spunto da ciò che era accaduto nello scalo francese.
Il porto di le Havre è stato uno dei maggiori epicentri dell’opposizione all’approvazione della Lois Travaille durante la presidenza Hollande – “il job act” francese – e le immagini della marea umana che costantemente usciva in sciopero dallo scalo è ancora viva nella memoria di chi ha seguito quel movimento di lotta.
Allo stesso tempo la città portuale è stata uno dei punti di forza e di congiunzione dei gilets jaunes e delle “giacche rosse” del sindacato – insieme a Tolosa, Marsiglia, Parigi, Bordeaux, ecc. – durante questi sei mesi di mobilitazione permanente iniziati il 17 novembre in Francia.
Un movimento che è stato una scuola politica di massa, in cui varie tematiche sono state conosciute e fatte proprie da un ampio fronte di lotta in una coniugazione di rivendicazioni politiche e sociali in cui si sono innestati i temi della transizione ecologica, della parità di genere, della condizione abitativa fino alla critica alla tendenza alla guerra e al coinvolgimento della Francia in conflitti, come quello Yemenita.
L’Arabia Saudita, che guida la coalizione che dal 2015 ha dato vita all’escalation militare contro lo Yemen – colpevole in sostanza di avere defenestrato dalla sua posizione di potere un “uomo dei sauditi” nel 2014 – è il secondo cliente per i commercio di armi per la Francia.
L’establishment governativo aveva sempre pervicacemente negato il coinvolgimento dei dispositivi bellici francesi venduti alla petromonarchia saudita nel conflitto yemenita, ma una inchiesta giornalistica (prima del mancato sbarco a Le Havre) ha reso pubblici alcuni documenti ufficiali che smentiscono clamorosamente le menzogne di Macron e del suo entourage.
I due autori dell’inchiesta giornalistica sono stati interrogati dai servizi segreti interni francesi e su di loro è stata aperta un’indagine, suscitando l’indignazione dell’opinione pubblica e degli altri operatori dell’informazione (che hanno fatto un comunicato più complessivo sul diritto di informazione citando il caso) per questo abuso di potere nei confronti di coloro che hanno solo fatto quello che sarebbe uno dei principali doveri per l’informazione nei confronti dell’assetto di potere: dire che è il re è nudo.
Questa manovra “a tenaglia” coronata dall’azione di Le Havre ha contribuito ad una maggiore delegittimazione del “presidente dei ricchi” e posto in evidenza il ruolo della Francia nei conflitti che infiammano l’Africa e il Medio Oriente.
Bisogna infatti ricordare che il neo-colonialismo francese, oltra alla funzione che svolge attraverso il Franco CFA e le sue multinazionali nel continente africani, agisce anche con una presenza militare ormai costante nell’Africa Trans-Sahariana, senza che sia stata limitata la presenza dello “jihadismo” e la strage dei civili – come è avvenuto in Mali, per esempio – in cui in primavera la popolazione  dopo l’ennesima strage ha manifestato contro la presenza militare di Parigi.
Un altro dato importante è la sponsorizzazione del signore della guerra libica, Haftar, che ha lanciato una escalation militare su Tripoli, provocando altre immani sofferenze a questo martoriato popolo, e di fatto mandando all’aria qualsiasi ipotesi di “pacificazione” del conflitto.
Una ragione in più per sostenere, senza se e senza ma, la “marea gialla” e l’ampio fronte di lotta contro Macron ed il mondo che l’ha generato.
La Francia, come l’Italia, è pesantemente coinvolta in questo traffico di morte grazie agli accordi firmati durante il governo targato PD (mantenuti dall’attuale governo giallo-verde) ed aveva visto la ministra Pinotti tra le maggiori responsabili – e allo stesso tempo negatrici – del coinvolgimento del paese nel conflitto yemenita.
Una partecipata assemblea alla sala chiamata della Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie Paride Battini – la storica cooperativa di camalli che impiega 1.000 lavoratori dello scalo ligure – promossa dai delegati sindacali della Filt-CGIL della CULMV, ha fatto il punto sull’annunciato arrivo della nave e del suo carico, ribadendo il rifiuto di “lavorare” materiale bellico e chiamando la città a sostenere questo rifiuto e denunciando il traffico d’armi precedente, e prendendo una chiara posizione di opposizione all’aggressione militare al popolo yemenita.
Nei giorni precedenti delegati della FILT CGIL della CULMV e dei terminal privati dello scalo genovese si erano riuniti e avevano chiesto formalmente al segretario generale, Natale Colombo, di farsi carico della situazione e prendere una posizione contraria allo scalo della nave.
Colombo ha condiviso e sostenuto le preoccupazioni dei portuali liguri, ribadendo in un lancio dell’ANSA del 15 maggio la richiesta che in casi come questo il Ministro dell’Interno dovrebbe intervenire, chiudendo “i nostri porti per evitare che la nave in questione possa caricare armi anche nel nostro paese”.
Il segretario nello stesso comunicato ha ribadito che “resteremo vigili e al fianco dei lavoratori portuali di Genova affinché nessuno utilizzi i nostri porti per alimentare conflitti che violano i diritti umani
Bisogna ricordare che l’iniziativa è partita dalla “base” dei lavoratori portuali più impegnati a vario titolo nell’azione politico-sindacale in questi anni, e che non è la prima “denuncia” di un traffico di strumenti di morte che da quattro anni almeno passa per il maggior porto italiano, cui fino ad ora non era stata dato il giusto rilievo dalla stampa mainstream e dalle forze politiche organizzate.
Già nei mesi precedenti, il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali, un organismo che da anni è protagonista delle mobilitazioni nello scalo e nella città, aveva denunciato questo genere di traffici avvenuto nel terminal gestito dalla GMT, continuando una denuncia puntuale delle condizioni di lavoro in generale nel porto (dalla lotta contro l’auto-produzione sulle banchine alla precarietà e alla mancanza di sicurezza che caratterizza ormai anche il lavoro portuale).
Nel corso dell’assemblea è stato ribadito che se la nave, come nega capitaneria portuale e prefettura, ha in stiva o carica materiale a fine bellico – dopo una ispezione da parte del personale che sarebbe incaricato delle operazioni di carico-scarico della merce – scatterà lo sciopero, “rafforzato” dalla presenza solidale che comunque ci sarà all’accesso dell’area portuale in uno dei principali varchi e che inizierà all’alba.
Dalle foto della banchina del Ponte Eritrea (terminal Steinweg-GMT) sono in attesa alcuni imballi di grandi dimensioni. “apparentemente shelter per generatori elettrici fabbricati da TECKNEL Srl di Roma, che come hanno affermato l’agenzia delta (Gastaldi) che gestisce la nave, la prefettura e la capitaneria genovese, non si tratterebbe di materiale di materiale classificato come militare.
Queste componenti vendute ai sauditi però come riporta il sito dell’OPAL sono parti essenziali per il controllo dei droni, la cui consegna iniziata nel 2018 sono ancora in corso.
In più la nave contiene senz’altro materiale bellico imbarcato a Sunny Point negli USA – maggior terminal militare del mondo – ad Anversa in Belgio, a Santander e probabilmente a Tibury, in Gran Bretagna e Bemerhaven in Germania.
La mobilitazione di una parte dei portuali e della città (dalle forze dell’opposizione politico-sindacale alle reti pacifiste e del mondo cattolico) è uno dei punti più alti di opposizione alla tendenza alla guerra ed uno dei rari momenti in cui uno conflitto rimosso come quello yemenita torna alla ribalta e costringe a pensare a quella “terza guerra mondiale” di cui parla apertamente da anni il Pontefice.
Una guerra quella in Yemen in cui “la carne da cannone” è costituita per buona parte da soldati – anche bambino – provenienti dal Sudan, in particolare dal Darfur che vengono pagati attraverso un istituto bancario saudita, uno stato che materialmente paga gli sati che contribuiscono alla coalizione in una sorta di ricatto che si fa forza grazie ai proventi economici del settore petrolifero (così come avviene per Pakistan, Giordania, ecc.)
Ma questa “carne da cannone” da mesi si sta ribellando ed ha defenestrato Bashir – un dittatore sanguinario che dall’89 governava il paese africano grazie ad un colpo di stato in cui le forze più retrive dell’islam politico gli hanno dato un fondamentale appoggio ed hanno fatto diventare la Sharia – introdotta nell’83 in Sudan – l’architettura del paese, insieme alla feroce repressione degli oppositori politici ed il razzismo istituzionale delle componenti più marginalizzate della popolazione ora al centro della protesta insieme alle donne.
Mentre l’autorità militare che governa transitoriamente il paese dall’11 aprile dopo la destituzione del presidente avvenuta con un “colpo di stato” al picco di una storica mobilitazione popolare vuole continuare l’avventura militare in Sudan (i due suoi principali esponenti sono vicini all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti), la coalizione che da metà dicembre ha guidato le proteste – tra cui il Partito Comunista Sudanese – vuole risolvere conflitti armati interni e porre fine all’avventura bellica in Yemen.
Una ragione fondamentale in più per sostenere la rivoluzione sudanese.
La mobilitazione genovese ha aperto uno squarcio nel velo di ipocrisia di cui si sono cinti tutti coloro che ad ogni ordine e grado, in qualsiasi schieramento politico e sindacale, hanno sostenuto e alimentato il business della guerra, provocando sofferenze indicibili ad un popolo che da poco tempo aveva conosciuto la riunificazione, in cui il colera ormai è diventato endemico, e i bambini muoiono di malnutrizione quando non vengono massacrati dai bombardamenti della coalizione, a guida saudita, a cui il nostro governo, come quello francese, vende armi.
I camalli genovesi – come gli attivisti in Francia ed in Spagna prima di loro – mostrano la via, e inchiodano alle loro responsabilità chi ha dichiarato di essere al loro fianco e che ha disertato questa importantissima lotta, e di denunciare il ruolo nefasto che l’Unione Europea (ed i governi alla testa degli stati che la compongono) svolge nella spirale bellica perché: chi fa la guerra non va lasciato in pace.

venerdì 17 maggio 2019

Il gioco rischioso degli Stati Uniti in crisi

S/globalizzare” l’economia non è un gioco da ragazzi. Né per cuori deboli. Se i consiglieri nazionalisti di Trump pensavano di poter imporre facilmente gli interessi statunitensi – ri-localizzare negli States una parte della produzione manifatturiera fuoriuscita negli anni d’oro del Wto, senza però perdere la centralità sui mercati finanziari – la realtà si sta incaricando di mostrare quanto quella pretesa fosse illusoria. E pericolosa.
La “guerra dei dazi” aperta contro la Cina (e la Germania, anche se ne ne parla meno) non è e non poteva essere un blitzkrieg. O meglio: come tutte le “guerre lampo” ha smesso di esser tale quando ha lasciato il tavolo degli “strateghi” per diventare scontro sul campo.
Abbiamo già scritto diverse volte su questo argomento, per cui ci limitiamo ad aggiornare sugli ultimi sviluppi, che stanno mettendo a dura prova anche gli analisti professionali dei giornali specializzati. Al punto che nella stessa testata – IlSole24Ore, per esempio – c’è chi ritiene che stiano vincendo i cinesi, e chi all’opposto vede in vantaggio gli americani.
Le guerre economiche, del resto, sono altrettanto complesse di quelle militari, e spesso le preparano. Ma se a darsele di santa ragione – per ora lavorando più di fioretto che di sciabola – sono due giganti, tutta la cristalleria del capitalismo attuale va in sofferenza.
Mettere un dazio del 25% su praticamente tutti i prodotti cinesi da importare egli Usa (per oltre 500 miliardi dollari), significa infliggere un danno pesante alla produzione di Pechino. Che ovviamente ha risposto facendo altrettanto, ma su un ventaglio di prodotti minore perché le importazioni cinesi dall’America sono certamente di dimensioni inferiori.
Ma l’arma delle tariffe doganali non è l’unica che si possa usare, in questo titpo di guerre. E quindi il Celeste Impero ha fin qui compensato le perdite (potenziali, perché i dazi non sono ancora operativi sulle merci già partite) lasciando svalutare la moneta. Il calcolo che ne deriva – secondo Vito Lops, de IlSole – vede ampiamente in vantaggio la Cina, per ora.
Ma altre armi sono a disposizione dei duellanti. Si segnalano infatti fughe di capitali stranieri dalle borse cinesi (Hong Kong e Shangai), per “chiara reazione difensiva degli investitori internazionali davanti agli scenari fuori-controllo”. Capitali che in parte corrono verso un parcheggio “sicuro” come i titoli di Stati di Washington, i quali però negli stessi giorni stanno subendo massicce vendite proprio da parte di Pechino (e Parigi, imprevedibilmente).
Del resto gli investitori cinesi si erano già clamorosamente assentati alle due ultime aste di Treasury Bond americani, facendo intuire l’irritazione per l’innalzamento dei dazi e i veti alla tecnologia di Huawei.
Ma in un’economia mondiale altamente interconnessa le mosse decise dai governi alimentano movimenti dei mercati assolutamente autonomi e in larga parte imprevedibili. Per esempio: “Persino i Bitcoin – notoriamente utilizzati in Asia per esportare capitali illegalmente – sembrano essere entrati nella partita: malgrado la stretta delle autorità di regolamentazione cinesi, i Bitcoin sono saliti del 40% da venerdì scorso, superando con slancio gli 8.000 dollari: il prezzo della crypto-valuta (come è accaduto durante l’ultima crisi tra Stati Uniti e Corea del Nord) è raddoppiato nell’arco di poche settimane.
E’ finita? No, perché una guerra commerciale Usa-Cina si trascina dietro attese per una frenata complessiva della crescita, e dunque un minor utilizzo di materie prime (petrolio e ferro in primo luogo). Dunque un calo generalizzato dei relativi prezzi che andrà ad incidere sui bilanci dei molti paesi estrattori (Usa compresi, specie per quanto riguarda greggio e gas).
Su tutto, va ricordato, aleggia sempre la “bolla del dollaro”. Moneta di riserva globale, bene-rifugio, unità di misura… Tante funzioni-chiave che si reggono però sulla “credibilità” degli Stati Uniti come decisore globale, autorevole e magari anche autoritario, spesso; ma attendibile.
Proprio quel che sta venendo a mancare, agli occhi del mondo, da qualche anno a questa parte

mercoledì 15 maggio 2019

Guerra dei dazi; c’è ora il rischio che diventi “vera”

Ogni guerra si sa come comincia, mai come finisce. Spesso inizia per sbaglio, per una scommessa o un rilancio fondato sulla “sicurezza” che l’avversario avrebbe fatto buon viso a cattivo gioco.
Sembra così anche per l’attuale “guerra dei dazi” innescata da Donald Trump contro la Cina (e l’Unione Europea, in primo luogo la Germania). Neanche l’ostentata assenza di investitori cinesi alle ultime due aste di titoli di Stato a stelle-e-strisce ha distolto i vertici statunitensi a recedere dalla propria offensiva. La partita, come si sa, è del resto vitale: riportare negli Usa buona parte delle produzioni sparse in giro per il mondo, ricreando produzione e mercato interni, devastati da delocalizzazioni e corsa alla speculazione finanziaria.
La Cina ha risposto alla sua maniera, dicendo di non volere la guerra e attendendo qualche giorno prima di rispondere, con misure comunque inferiori a quelle decise – o minacciate, visto che si applicheranno solo alle merci in partenza, ma non a quelle già in viaggio – dall’immobiliarista col ciuffo.
Dazie esattamente simmetrici – 25% – ma su un parco merci inferiore (60 miliardi contro gli oltre 300 colpiti dagli Usa). Mentre The Donald prepara un’altra infornata altrettanto colossale.
In teoria tutto si può ancora fermare all’improvviso, facendo spuntare di nuovo il sole sui mercati e il commercio globale. Così come tutto può sfuggire di mano. Del resto, la pretesa Usa che Pechino renda “scalabili” le proprie società più importanti (sotto la dizione “fine degli aiuti di Stato”) è decisamente inaccettabile per i cinesi, che vedrebbero sconvolti propri assetti di sistema economico.
Non paradossalmente, a soffrire di più – al momento – è proprio la sponda statunitense. Ad affrontare i ribassi, infatti, sono soprattutto le borse e soprattutto il mercato delle materie prime. I semi di soia, per esempio, uno dei principali prodotto esportati da Washington a Pechino, registrano scorte a livelli record (non vengono venduti, insomma) e stanno calando velocemente di prezzo: sotto gli 8 dollari per bushel, come ai tempi della recessione globale, dieci anni fa. Idem per il cotone, che ha perso oltre il 4%.
A rimetterci è insomma la fascia dei produttori agricoli Usa, il cuore di quell’America profonda che ha sollevato Trump dalle truffe immobiliari alla presidenza degli Stati Uniti.
Ma una possibile frenata generale dell’economia mondiale – impossibile rispettare le già non rosee previsioni, se i primi due giganti cominciano a darsele – trascina con sé anche i prezzi del petrolio, ferro e gas, che pure non entrano mai nella lista dei prodotti “sovra-tariffati”.
Al contrario, i treasury bond della Federal Reserve – considerati il più sicuro dei prodotti finanziari sicuri – hanno recuparato un po’ di prezzo (e dunque diminuito i rendimenti – dopo la gelata derivante dal disinteresse cinese.
Sembra una buona notizia per Trump (diminuisce il costo del debito), ma in realtà allontana l’obbiettivo dichiarato: diminuire il peso della finanza e aumentare quello dell’economia reale.
Senza contare i disastri che potrebbero nascere a ridosso di una guerra tariffaria “vera” e non sono minacciata.

martedì 14 maggio 2019

E venne il giorno in cui il Financial Times vide lo sfruttamento, ma non se ne accorse

«I lavoratori europei sono esclusi dalla distribuzione della ricchezza. Neanche la recente crescita occupazionale ha permesso di interrompere la straordinaria redistribuzione del reddito dai salari ai profitti che è in atto da diversi decenni. Per questo, è necessario favorire la dinamica dei salari reali». 
Sembrerà strano, ma queste non sono le parole del leader di un temutissimo sindacato estremista. Si tratta invece del contenuto di un articolo apparso qualche giorno fa sul Financial Times. Direttamente dalla City di Londra, il quotidiano della finanza internazionale sciorina una serie di dati e riflessioni che mostrano, inequivocabilmente, in quali condizioni di disuguaglianza e precarietà versi il mercato del lavoro europeo.
Guardando in maniera neutra i dati, ci viene detto nell’articolo, salta agli occhi un presunto paradosso. Nel nostro continente, il tasso di occupazione avrebbe ormai superato i livelli pre-crisi. Ciò, tuttavia, non è stato accompagnato da una crescita dei salari, la cui dinamica rimane avviluppata in una stagnazione che dura ormai da decenni.
Andando nel dettaglio, viene sottolineato come, a fronte di 15 milioni di nuovi occupati nei 28 Paesi dell’Unione Europea, i salari nominali tra il 2010 e il 2017 siano cresciuti in media ad un tasso annuo del 1,7%, decisamente inferiore al 2,5% che aveva caratterizzato il periodo 2000-2007 (Figura 1).

Questo fenomeno viene confermato anche dall’andamento della quota salari sul PIL, che rappresenta la parte del reddito nazionale che è attribuito ai lavoratori. Infatti, sostiene a ragione l’articolo mostrando i dati della Commissione Europea, i profitti si sono impossessati di una quota sempre maggiore del reddito, a scapito dei salari. Questa tendenza è generalizzata e continua dalla prima metà degli anni Settanta ad oggi. Tuttavia, il paese che più degli altri spicca per l’entità di questa redistribuzione dal lavoro al capitale è proprio il nostro. La quota salari italiana, pari a più del 65% nel 1975, è oggi di poco superiore al 55% e le proiezioni per il 2020 riportate nell’articolo la danno ancora in diminuzione

Per rendere il quadro ancora più fosco, l’articolo ci ricorda anche che l’aumento del tasso di occupazione, di per sé, non è sufficiente a descrivere accuratamente la situazione occupazionale del continente. Esiste infatti, in Europa, un enorme problema di sotto-occupazione. Per sotto-occupato si intende quel lavoratore che sarebbe disposto a lavorare a tempo pieno ma, per carenza di domanda di lavoro, è costretto a lavorare ad orario ridotto. In Europa almeno un lavoratore part-time su quattro lo è suo malgrado. In paesi come l’Italia e la Spagna la situazione è ancora peggiore, poiché addirittura il 60% dei lavoratori part-time desidererebbe lavorare (e guadagnare) di più.
Spesso, come lo stesso articolo sottolinea citando l’OCSE, questi part-time assumono la forma di contratti a chiamata “zero hours contracts”, vale a dire contratti di lavoro in virtù dei quali si è ufficialmente occupati, ma che ciononostante non implicano la certezza di lavorare neanche un’ora settimanale, dando vita al paradosso per il quale un lavoratore potrebbe essere considerato dalle statistiche ufficiali ‘occupato’ e al contempo ricevere una retribuzione di zero euro.
Questa condizione di precarietà e povertà, conclude l’articolo, è spesso aggravata da difficoltà in termini di accesso al welfare, ai sussidi di disoccupazione e alle pensioni. Difficoltà che, apparentemente, avrebbero una natura impersonale, astratta e sarebbero il frutto di qualche sfortunata coincidenza.
Passando a noi e parafrasando il noto cantautore, potremmo chiosare con un “se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato”. il quadro tracciato è drammatico, descrive bene la fragilità che affligge i mercati del lavoro europei ed è, per altro, ciò che più e più volte abbiamo sottolineato. Lo spaccato offerto dall’articolo del Financial Times, però, è anche parziale e ipocrita.
Come dicevamo, l’apertura del pezzo è dedicata all’analisi dei trend occupazionali in Europa. Quello che viene omesso, però, è che la dinamica così fortemente positiva, in termini di riduzione della disoccupazione, che ha caratterizzato gli ultimi anni è pressoché del tutto imputabile ai Paesi dell’Est Europa. In Estonia, ad esempio, il tasso di occupazione è cresciuto dal 2010 al 2018 del 22%; in Lituania del 26%, in Polonia del 14,4%. In altri Paesi, invece, la situazione è ben meno rosea: in Francia è cresciuto del 2%; in Italia del 3%; del 6% in Spagna.
Si tratta naturalmente di situazioni e strutture economiche ben diverse, ma ciò che ci preme sottolineare qui è che questi dati verosimilmente celano in sé il frutto avvelenato delle delocalizzazioni verso economie ad uno stadio di sviluppo capitalistico meno avanzato, in cui condizioni lavorative e salari sono decisamente peggiori. La libera circolazione dei capitali, architrave su cui si regge l’Unione Europea, mette i lavoratori gli uni contro gli altri su scala continentale ed esercita una formidabile pressione al ribasso sui salari, evidentemente all’insaputa del Financial Times che non coglie in questo processo una delle spiegazioni per l’apparente paradosso su cui si interroga.
Ma ciò che, ancora di più, risulta indigeribile dell’articolo, è lo stupore con cui sia la giornalista sia il più volte citato Stefano Scarpetta dell’OCSE guardano alla fotografia che essi stessi hanno scattato.
La drammatica situazione in cui versano milioni di lavoratori europei, infatti, non è un risultato casuale e imprevedibile di fantasmagoriche leggi economiche. Esso è, al contrario, il risultato deliberato di una precisa stagione di politiche economiche e delle cosiddette riforme strutturali che sono state imposte, a più tornate, dalle Istituzioni internazionali alla classe lavoratrice dei Paesi europei.
L’obiettivo di queste cosiddette riforme era quello di rimuovere le ‘rigidità’ dal mercato del lavoro, sulla base dei dettami della teoria economica dominante per la quale, nonostante numerose smentite empiriche e teoriche, la flessibilità del lavoro è la panacea per risolvere tutti i mali di un’economia.
Da un lato, infatti, la flessibilità favorirebbe la competitività delle merci prodotte nel paese, rendendole più appetibili sui mercati internazionali e stimolando quindi le esportazioni. Dall’altro, incentiverebbe gli imprenditori ad aumentare le assunzioni.
Il meccanismo magico che dovrebbe garantire questi risultati è, se si vuole usare uno degli eufemismi tanto cari a liberisti di varia estrazione, il contenimento del costo del lavoro. Guardando alla realtà, stiamo parlando esattamente della violenta compressione salariale che turba oggi i sogni del Financial Times.
La stessa Banca Centrale Europea, che ultimamente ha lamentato la stagnazione dei salari, non più tardi di qualche anno fa auspicava un maggiore sforzo nel perseguire quelle riforme volte a ridurre ulteriormente i livelli salariali e il potere contrattuale della classe lavoratrice. Tradotto in termini concreti, ciò di cui la BCE si faceva e si fa promotrice, è lo sforzo imposto ai lavoratori di dover accettare sacrifici su sacrifici, in nome di un benessere futuro che, in maniera non sorprendente, non si è ancora manifestato e mai si manifesterà.
Le politiche di deflazione salariale, che hanno contribuito in maniera decisiva alla riduzione della quota salari, sono state dunque una chiara e precisa scelta e indicazione delle Istituzioni europee e internazionali. È forse inutile aggiungere che questa indicazione è stata solertemente accettata dai governi dei Paesi europei, da ormai venti anni. Le riforme del mercato del lavoro si sono abbattute ovunque come una clava, si pensi alla Spagna (1994, 2006, 2010, 2012) o alle riforme Hartz in Germania (2002-2005), senza dimenticare il ventennale e mai pago ciclo di flessibilizzazione in Italia.
Oltre a facilitare l’accesso a forme contrattuali più precarie e ai contratti atipici a tempo indeterminato, una parte importante di queste riforme ha riguardato anche i sussidi di disoccupazione e i modelli di welfare. In particolare, con la scusa di allargare la platea dei beneficiari – nella falsa logica dei lavoratori privilegiati a cui si deve la disoccupazione dei lavoratori non tutelati – si sono di fatto ridotte, sia nei trasferimenti che nella durata, le prestazioni di cui i disoccupati beneficiavano.
L’intento è sempre lo stesso: smorzare la conflittualità dei lavoratori, renderli ricattabili e costringerli ad accettare una riduzione dei salari. Il metodico lavoro di erosione del potere contrattuale dei lavoratori, operato a colpi di ‘raccomandazioni’ delle Istituzioni europee e felicemente eseguito da governi nazionali al servizio del capitale, ha lasciato un campo di macerie, fatto di salari da fame e condizioni lavorative sempre più precarie.
Ecco quindi che quello che pareva un inspiegabile paradosso, almeno per il Financial Times, si mostra per quello che realmente è: il risultato deliberato di una lotta di classe esercitata dai privilegiati contro l’enorme maggioranza della popolazione. Un risultato talmente sbilanciato a favore del capitale che quest’ultimo può adesso raccoglierne a piene mani i frutti, fatti di una produzione che torna ad aumentare e che garantisce enormi margini di profitto, grazie ai miserabili salari pagati.