martedì 26 ottobre 2021

Il Governo programma il ritorno alla legge Fornero

 Il Governo Draghi si conferma il Governo della Restaurazione, e quale campo migliore per confermarlo se non quello della previdenza sociale? A riprova di ciò, le cronache di questi giorni ci parlano con insistenza della prossima modifica alla legislazione sulle pensioni che anima i dibattiti nella maggioranza.

Prima l’ipotesi di ‘quota 102’ estesa ai prossimi anni; poi l’allargamento dell’APE sociale ad una platea più vasta ma pur sempre limitata di lavoratori; ora si torna al balletto delle quote: ‘quota 102’ per il 2022, ‘quota 104’ dal 2023, e poi situazione da valutare per l’anno successivo con sicuro ritorno alla norma dei 67 anni.

Numeri e numeretti dietro i quali si cela ormai palesemente la chiara volontà di tornare alla legge Fornero dichiarando però di non volerci tornare. Un giochino ideologico sin troppo plateale per essere creduto anche dai più distratti e dai meno inclini a fare le somme.

Il ritorno alla legge Fornero, infatti, è scritto nelle cifre del Documento Programmatico di Bilancio (DPB) inviato a Bruxelles che il Governo non intende smentire. Tali cifre sono talmente esigue (600 milioni per il 2022; circa 500 per i successivi due anni) da mettere nero su bianco che si tratterà dell’ennesima toppa e non di una riforma onnicomprensiva. Il problema, come al solito, è che la toppa è peggio del buco. Vediamo perché.

Quota 102 significa poter andare in pensione con la combinazione di 64 anni e 38 di contributi. Ovvero uno scatto di due anni anagrafici rispetto a quota 100 a parità di età contributiva. Quota 104 che scatterebbe, nell’ipotesi tracciata dal Ministro dell’Economia Michele Franco, dal 2023, si tradurrebbe nel binomio 66 anni di età e 38 di contribuzione come doppio requisito di accesso alla pensione.

Lo status quo stabilito dalla legge Fornero, invece, che tornerebbe a valere in caso di abolizione sic et simpliciter di quota 100, porterebbe già dal 2022 l’età di pensionamento di vecchiaia a 67 anni (e almeno 20 anni di contributi), ferma restando la possibilità della cosiddetta “pensione anticipata”, ovvero la possibilità di accedere al pensionamento con 42 anni e 10 mesi di carriera per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne, senza requisiti anagrafici.

Insomma, con quota 104 a regime, ovvero tra soli 14 mesi, si tornerebbe ad un solo anno di distanza da quei requisiti rigidissimi che le leggi pensionistiche del periodo 2011-2012 avevano definito per gli anni a venire prevedendo peraltro aumenti automatici dell’età pensionabile legati all’aumento della vita media attesa.

E dal 2024 il probabile ritorno diretto allo status quo delle leggi Sacconi-Fornero, ovvero a quella normalità tanto raccomandata da tutte le linee guida europee, dall’OCSE e da tutta la corte di economisti esperti al servizio permanente dello smantellamento dello stato sociale.

Una presa in giro così sonora che tutto il mondo sindacale confederale, in genere poco incline ad opporsi con decisione al destino ineluttabile delle riforme neoliberiste del mercato del lavoro e dello stato sociale, ha dovuto mostrare il suo pieno disappunto fino a definire la misura un vero e proprio sfottò ai danni dei lavoratori.

Del resto, il livello di derisione della misura viene mostrato con chiarezza dalla platea ristrettissima di potenziali beneficiari di quota 102, e ancor di più di quota 104. Si parla di circa 10.000 lavoratori coinvolti (8.524 nel 2022 e 1.924 nel 2023). Una cifra che definire “esigua” è riduttivo.

Se si considera che i beneficiari potenziali di quota 100 nel 2019 erano più di 300.000 lavoratori, si capisce molto bene l’impatto restrittivo del passaggio, che ha peraltro l’esplicito obiettivo di tornare nel giro di due anni massimo alle durezze della legge Fornero, ovvero ad un numero pari a 0 di beneficiari di misure di flessibilità in uscita.

Alla beffa generale si aggiunge la volontà di abolire ‘Opzione donna’, quella misura che consentiva alle donne (particolarmente penalizzate dalla misura del 2012, in cui si equiparò l’età pensionabile maschile e femminile provocando di fatto uno scalone improvviso per le donne) di andare in pensione con 58 anni di età e almeno 35 di contributi calcolando però la pensione con il solo computo contributivo anche per la residua quota retributiva (dunque con forte penalizzazione sull’assegno previdenziale).

Si abolirebbero così tutte le residuali forme di flessibilità in uscita ad oggi ancora esistenti.

Nell’arco politico di sostegno al Governo delle larghissime intese di Mario Draghi, solo la Lega con timidezza e palese velleitarismo si dichiara “contraria” al meccanismo proposto; ma si tratta, come sempre, di pure dichiarazioni di intenzioni.

Ricordiamo a chi avesse la memoria corta che fu proprio la Lega a volere la misura di quota 100 come un mero esperimento a termine di carattere triennale, ben sapendo che ciò avrebbe significato nel volgere di pochissimo tempo il ritorno alla ‘tanto odiata’ legge Fornero, senza per altro averne mai stravolto la logica.

Peraltro, il presunto alter ego della Lega nella maggioranza di Governo – il PD di Enrico Letta, che pure si dichiara contrario ai meccanismi proposti – lo fa in una maniera altrettanto odiosa.

Le parole di Letta, infatti, chiariscono quale sia l’obiettivo. Non solo tenere in piedi la legge Fornero, ma riattivarla il prima possibile, già dal 2022, pur mantenendo alcune opzioni di flessibilità, tra cui Opzione donna, che verrebbero tuttavia spazzate dall’introduzione di Quota 102 prima e Quota 104 poi.

È evidente come le sorti delle lavoratrici e dei lavoratori non hanno speranza di migliorare, qualsiasi opzioni passi; è altrettanto palese come la vecchia tecnica di mettere i lavoratori gli uni contro gli altri sia ancora viva e vegeta.

Checché ne dicano Letta o Bonomi, infatti, non vi è modo di attribuire alle varie forme previste di anticipazione dell’età pensionabile la colpa di “penalizzare giovani e donne”.

Il problema è l’esatto opposto: le misure di austerità, di cui l’innalzamento dell’età pensionabile rappresenta una faccia odiosissima, condannano giovani e donne alla disoccupazione e a stipendi da fame, rendendo altresì un miraggio il raggiungimento di una pensione dignitosa.

Pur senza nominarla mai, dunque, il ritorno alla legge Fornero è accettato da tutti.

Non dirlo esplicitamente rappresenta solo diversivo ideologico per non mostrarsi troppo allineati a quella che è diventata nel tempo un vero e proprio simbolo della carneficina pensionistica del fu governo Monti.

A parole sono tutti o quasi tutti (si distingue forse Italia Viva per fedeltà ideologica al liberismo ostentato) per superare lo scalone che il ritorno allo status quo pre-Quota 100 implicherebbe dal 1° gennaio 2022.

Nei fatti, le proposte per superare lo scalone, lungi dal prevedere una stabilizzazione duratura di meccanismi di uscita flessibile, ambiscono a trasformare lo scalone in un paio di scalini che porteranno punto e daccapo alla legge Fornero dal 2024.

Insomma, tutti spingono per tornare alla legge Fornero, ma cercano il modo più presentabile di farcelo sapere e il modo meno traumatico di farlo digerire a milioni di lavoratori cornuti e mazziati. L’eterna lezione del Gattopardo che non muore mai.

Il sistema pensionistico e l’intero corpus ferito e moribondo del nostro stato sociale meritano invece ben altro: una rivisitazione radicale della logica di computo delle pensioni che superi le angustie del sistema contributivo, riportando le pensioni ad un livello dignitoso per tutti e, contestualmente, garantendo meccanismi non penalizzanti di ampia flessibilità di uscita.

venerdì 22 ottobre 2021

La rappresentanza politica e il gioco dell’oca

 Certamente le elezioni svolte in questi giorni essendo “locali” potrebbero non essere significative sul piano nazionale, ma il fatto che si siano svolte nelle più importanti aree metropolitane del paese e che abbiano riscontrato una sostanziale omogeneità dei risultati sia nei grandi che nei piccoli centri,  forniscono indizi politici interessanti e realistici.

Non è la prima volta che accade di trovarsi di fronte ad un tracollo della partecipazione elettorale dove la disaffezione politica arriva ad “acuti” che si ripetono periodicamente. E’ sufficiente osservare il periodo precedente, quello che va dalle elezioni del 2008, dove vinse Berlusconi, a quelle del 2013, le quali produssero una profonda modifica del quadro istituzionale con l’affermazione del M5S, inattesa per la sua dimensione.

Quello che portò ad una vera e propria rottura del quadro precedente, fu l’incapacità/impossibilità del governo dell’epoca di sostenere gli effetti della dilagante crisi finanziaria sotto la pressione della UE a sostegno dell’austerity, una politica che pochi anni dopo avrebbe fatto deflagrare anche la Grecia di Tsipras.

Tale situazione si protrasse fino alla defenestrazione di Berlusconi nel 2011 con l’intervento diretto della BCE con la lettera di Trichet-Draghi che imponeva tagli e sacrifici sociali, aprendo un periodo di confusione politica e istituzionale che si risolse solo con il varo del governo Monti-Napolitano fedeli attuatori dei diktat Europei.

Un primo segnale di “disaffezione” si era già manifestato con la scadenza elettorale del 2010 tenutasi nei 2/3 delle regioni italiane, quando l’astensione raggiunse il 40%, ben oltre la media usuale, ma decisivo fu il quadro indecente che emergeva da tutte le forze presenti in parlamento e dalle politiche antipopolari di Monti, a cominciare dalla famigerata riforma Fornero sulle pensioni.

In quel frangente storico esplose la crisi della rappresentanza, latente fino a quel momento e che aveva già portato all’esclusione del PRC dal parlamento, una crisi che fece avere al M5S il 25% dei voti. Tale situazione si è protratta fino al 2018, periodo in cui si sono affermate le forze cosiddette “populiste e sovraniste”, certamente inconsistenti sul piano programmatico ma che hanno raccolto l’adesione della maggior parte degli elettori e del montante malessere sociale.

Il M5S prima e la Lega poi, hanno cavalcato per quasi un decennio questo spazio vuoto della rappresentanza senza nessuna capacità progettuale, uno spazio vuoto che oggi si ripresenta senza ambiguità con un livello di astensionismo che arriva al 60%.

Irrilevante e ridicolo è il balletto che oggi viene fatto sulle TV e sulla comunicazione mainstream tra vinti e vincitori, in quanto la realtà sancisce senza infingimenti  che interi pezzi della società è e si sente fuori e senza rappresentanza dopo l’imbroglio dei movimenti cosiddetti “antisistema”.

Certamente va fatta una analisi dei caratteri di questo tipo di astensione, non omogenea al suo interno, ma certo è che, come nel gioco dell’Oca, siamo tornati al punto di partenza di un decennio fa.

Ovviamente le condizioni complessive della società, anche a causa della pandemia, sono ben peggiori di quelle di un decennio fa, ed è pure ridotta la capacità del paese di poter decidere i propri destini come il governo Draghi, lo stesso che non casualmente ha “tagliato la testa” a Berlusconi, sta a dimostrare.

Il governo Draghi ci fa vedere nitidamente come il “superstato” europeo sia ormai in grado di dirigere in modo centralizzato un progetto continentale peraltro favorito anche dall’insorgere della pandemia. Non a caso Prodi ha sempre sostenuto che l’Unione Europea si costruisce proprio tramite le crisi e già si presenta la prossima “opportunità” nel confronto con la Polonia che vuol mantenere le sue prerogative sovraniste.

L’uscita dalla pandemia, l’operazione sul Recovery Fund, l’affermazione della UE come soggetto immerso nella “ipercompetizione”, come ci ha ben ricordato la Von Der Leyen, sono tutti elementi che non possono che peggiorare la situazione sociale e di classe. Su questo non ci dilunghiamo nell’analisi, ma i processi di ristrutturazione ed i licenziamenti che dilagano stanno li a mostrarci quali sono le prospettive per il mondo del lavoro e la società nel suo complesso.

Possiamo dire che si sta aggiungendo un altro tassello alla crisi di egemonia che procede da tempo, in quanto pur avendo i centri di potere sussunto le forze cosiddette “antisistema” – depotenziandole e trasformandole da “antieuropeiste” ad “europeiste” – riesplode la questione della crisi della rappresentanza politica dei settori di classe e sociali penalizzati, e questo può rappresentare un importante punto di ripresa di iniziativa ed organizzazione.

Certamente non ci sarà un effetto automatico e molto sarà determinato dalla soggettività organizzata che sarà messa in campo, ma si stanno ricreando le condizioni per dare un ruolo a quelle forze che hanno un carattere di classe e che hanno avuto la strada sbarrata sulla rappresentanza proprio dai cosiddetti populisti che il “sistema” ha saputo magistralmente manipolare.

Il riuscito sciopero generale dell’11 ottobre, i parziali ma pure importanti risultati elettorali avuti da Potere al Popolo nelle aree metropolitane e non solo, il crescere della conflittualità in molte fabbriche colpite dalla crisi, sono tutti segnali che vanno nella giusta direzione e che sono da rafforzare e consolidare.

Per questo la necessità di una totale indipendenza politica dal quadro istituzionale, la costruzione di un radicamento di classe organizzato, la lotta contro l’Unione Europea dentro un orizzonte di rottura socialista, sono tutte questioni che possono ritrovare forza in questo passaggio storico di crisi del capitalismo a condizione di una ritrovata e rinnovata soggettività di classe ed organizzata

giovedì 14 ottobre 2021

No green pass, le percentuali tra i lavoratori

 Tra i portuali il 40% non sarebbe vaccinato e il 30% tra gli autotrasportatori. Situazione analoga nel settore agricolo, dove un terzo dei 390mila addetti non ha ricevuto il vaccino anti-Covid.

In definitiva, i lavoratori non vaccinati sarebbero 2,5 milioni, di cui oltre 2,2 lavorano nel privato.

mercoledì 6 ottobre 2021

CIA e Mossad

 La relazione di amore-odio esistente fra i servizi segreti israeliani (Mossad) e l’intelligence statunitense (CIA e FBI) è costellata di episodi più o meno eclatanti, ma che danno l’esatta dimensione dell’intensa attività di spionaggio e controspionaggio che avviene soprattutto in territorio americano.

Uno dei motivi di tensione più famosi, forse il più eclatante, fra i due Paesi fu quello che vide come attore principale Jonathan Jay Pollard, nato Jonathan Polanski (cittadino statunitense ebreo), diplomato in scienze politiche a Stanford e fin dal 1979 assiduo candidato presso tutti i centri di intelligence americani. Pollard venne inizialmente selezionato per un colloquio dalla CIA che lo scartò per aver ammesso di aver fatto uso di droghe illegali durante gli anni dell’università; successivamente fu assunto dal Navy Field Operational Intelligence Office. Nella marina militare statunitense, fra varie vicende e alterne fortune, riuscì a sottrarre importantissimi documenti riservati su componenti dei servizi, controspionaggio, armamenti e piani militari e a consegnarli agli agenti del Mossad, inviati dal governo israeliano. Pollard venne quindi scoperto, arrestato e condannato all’ergastolo per spionaggio, primo caso di un cittadino americano condannato per aver agito contro il proprio Paese a favore di uno Stato alleato. In carcere chiese e ottenne la cittadinanza israeliana e dopo aver ottenuto la libertà condizionale, volò a Gerusalemme dove al suo arrivo fu accolto come un eroe dall’allora premier Benjamin Netanyahu.

Marc Rich, invece, era un miliardario ebreo americano che venne incriminato con 65 capi d’accusa dall’allora procuratore federale degli USA Rudolph Giuliani. Convinto che sarebbe stato condannato, Rich fuggì in Svizzera con l’aiuto di agenti del Mossad e non fece più ritorno negli USA, nemmeno per il funerale della figlia. Nonostante fosse nell’elenco dei dieci fuggitivi più ricercati d’America, tutti i tentativi di catturarlo risultarono vani e Rich continuò a fare affari con mezzo mondo e soprattutto con Israele, dove godeva di fama e rispetto. Il rapporto speciale con Gerusalemme nacque subito dopo la rivoluzione komeinista in Iran, dove Rich divenne uno dei principali trafficanti di petrolio che forniva con assiduità proprio i serbatoi di Israele. Divenne quindi finanziatore del Mossad e offrì i propri uffici sparsi per il mondo quali basi per le attività dei servizi segreti. Ottenne in cambio cittadinanza, protezione e la grazia concessa dall’allora presidente americano Clinton. L’FBI indagò anche su quest’ultimo aspetto della vicenda, ma ogni tentativo di scoprire un coinvolgimento fra Mossad e membri della Casa Bianca venne insabbiato a tempo di record.

Circa vent’anni fa, un’indagine dell’emittente televisiva Fox News ed in particolare del giornalista Marc Cameron portò alla luce documenti federali che raccontavano dell’arresto di ben 140 agenti segreti israeliani tra il 2000 e il 2001 nell’ambito di una inchiesta sullo spionaggio contro gli Stati Uniti. I documenti citati parlavano di centinaia di “incidenti” in varie città del Paese, causati dalle attività degli arrestati. Si sottolineava, come riportato da Fox News, che il Mossad fosse penetrato con facilità all’interno di numerose basi militari, della DEA (Drug Enforcement Administration), dell’FBI stessa e di decine di altre strutture governative. L’inchiesta, dettagliata e realmente ben realizzata dal punto di vista giornalistico, rimase online fino al 12 dicembre del 2001, poi sparì nel nulla.

In Israele, il membro della Knesset Yuval Steinitz istituì, nel 2004, il “Comitato investigativo per l’intelligence israeliana” e ne divenne presidente. Dopo numerose indagini e interrogatori, venne redatto un rapporto che criticava pesantemente il Mossad per i rapporti inviati, non solo al Governo israeliano, ma soprattutto ai servizi dei Paesi alleati. Questi report, assolutamente fuorvianti, ingigantivano il potenziale bellico dei soliti nemici noti (Iraq, Iran e Siria) e furono spesso utilizzati dai governi amici di Gerusalemme (Stati Uniti in primis) in maniera acritica e poco analitica per giustificare attacchi o embarghi.

Recentemente l’FBI, in un clima interno reso più favorevole dai fallimenti in Medio Oriente, ha intensificato le indagini e aumentato il proprio raggio d’azione, monitorando non solo i cittadini israeliani e i diplomatici sul territorio, ma soprattutto quelle associazioni di sostenitori dell’esercito israeliano di stampo prettamente sionista. Effettivamente, da sempre, gli agenti del Mossad hanno libero accesso a tutte le organizzazioni ebraiche presenti sul territorio americano e di questo i vertici militari americani hanno consapevolezza e timore. Davvero numerose, negli ultimi due decenni, sono state le segnalazioni di CIA e FBI al proprio Congresso sull’aggressività delle operazioni degli agenti israeliani e sul loro famelico appetito di informazioni di carattere militare, politico e industriale. Insomma, la partita dell’intelligence è sempre aperta, chi vincerà è la vera incognita.