giovedì 30 giugno 2016

Juncker favorevole ad una soluzione senza i Parlamenti nazionali. E ancora ci si interroga sul Brexit?

Il Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha dichiarato il 29 giugno di essere favorevole all'ingresso del Trattato di libero scambio UE-Canada (Ceta) senza il passaggio dei Parlamenti nazionali. La stessa posizione del governo Renzi, attraverso le recenti dichiarazioni del neo ministro Calenda. “Ho detto chiaramente ieri che la Commissione è arrivata alla conclusione dopo un'analisi giuridica che non è un accordo misto.
L'accordo che abbiamo concluso con il Canada è il miglior accordo commerciale che l'Ue abbia mai concluso”, ha dichiarato a margine di una conferenza stampa dopo il Consiglio europeo a Bruxelles post Brexit. Questo è il rispetto per democrazia, volere delle popolazioni e leggi nazionali da parte del regime di Bruxelles. E i media di regime che ancora si interrogano sul perché i cittadini britannici abbiano deciso di uscire da questo sistema totalitario...

mercoledì 29 giugno 2016

Un pianeta che ha sete: la guerra per l'acqua

Il panorama che si scorge all’orizzonte è certamente incerto ed inquietante. Gli esperti nel tema affermano che tra gli anni 2025 e 2030 la scarsità dell'acqua sarà un problema insostenibile se non si prendono sul serio tutte le previsioni inquietanti e si mettono in atto iniziative mirate a risolvere questa problematica che mette a rischio l’esistenza e l’evoluzione stessa dell'essere umano. I modelli che analizzano gli effetti del cambiamento climatico calcolano che nel 2050 la domanda di acqua per coprire le necessità di nove miliardi di abitanti nel mondo sarà di circa 4.900 km. cubi di acqua, invece dei 3.350 km. cubi che coprono le nostre necessità attuali, e se non si intraprendono delle iniziative che mirino ad una riduzione del consumo, l’abbinamento di cambio climatico e crescita demografica daranno origine ad una scarsità generalizzata. Difatti, il Programma Ambientale delle Nazioni Unite (UNEP in inglese) ha identificato i due problemi più angoscianti del nuovo millennio: la scarsità idrica ed il riscaldamento globale.
L'acqua si erge come motivo di fondamentale importanza nella conflittualità sociale e politica tra comunità di questo secolo; diversi studi indicano che da oltre un decennio il pianeta si incammina verso la scarsità idrica, al punto che, nel 2025, la domanda sarà, almeno, un 50% superiore alla capacità reale di somministrazione. Di conseguenza, quelle nazioni che dispongono di riserve importanti saranno oggetto di enormi pressioni e di saccheggi violenti, così come succede adesso con le risorse energetiche.
In questo stato di cose si inserisce anche il forte dissenso esistente tra chi sostiene che l'acqua deve essere considerata un bene sociale, strettamente legata al diritto alla vita, e chi invece la considera un bene commerciabile come qualsiasi altro, così come avviene attualmente con il grano e le leguminose.
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È la confluenza di diversi fattori ad aggravare ulteriormente la condizione di stress idrico:
1. Educazione: l'acqua potabile è una risorsa apparentemente abbondante, il che ha fatto sì che in molti posti del mondo sia considerato inesauribile ed economico, una visione questa che impedisce di valorizzarla nella sua giusta dimensione.
2. Qualità: oltre 2, 4 miliardi di esseri umani, distribuiti in 31 paesi, hanno accesso in qualche modo all’acqua, ma senza che compia le specifiche norme di risanamento. Alcuni dati attuali che fanno riflettere: su quattro persone, una non ha accesso all’acqua potabile; ogni otto secondi muore un bambino nel mondo per aver bevuto acqua inquinata; più di cinque milioni di persone muoiono ogni anno per l’utilizzo di acque inquinate.
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3. Gestione e distribuzione: la maggior parte dell'acqua dolce è utilizzata in agricoltura e oltre il 60% si perde nei sistemi di irrigazione a causa dell'inefficienza dei metodi; inoltre oltre la metà dell'acqua potabile nei paesi in via di sviluppo si perde nelle reti di distribuzione.
4. Illegalità: nel 60% sopra menzionato si inserisce il furto per allacciamenti illegali e perdite per vandalismo.
5. Infrastrutture: la costruzione dei sistemi idraulici richiesti per soddisfare la richiesta dei differenti settori (agricolo, industriale, domestico e servizi vari, compresa la distribuzione di corrente elettrica), è insufficiente e mal pianificata, a ciò si aggiungono gli sprechi e l’evaporazione di oltre il 70% dell'acqua che potrebbe essere raccolta nella stagione delle piogge.
6. Sociale: in funzione della crescita della popolazione, c’è comunque un consumo eccessivo di acqua. Dalle informazioni che abbiamo il consumo globale di acqua dolce è aumentato di sei volte, mentre la popolazione lo ha fatto solo nell'ordine di tre.
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7. Politico: un fattore di forte squilibrio è il fatto che le persone con minori entrate sono quelle che pagano di più per il servizio, mentre ne hanno minore disponibilità. Negli ultimi tempi, grandi corporazioni sono riuscite ad avere il controllo dell'acqua in molte regioni del pianeta ed è fattibile che non sia lontano il giorno in cui poche aziende avranno il controllo del 75% di questa risorsa vitale. I governi devono essere fedeli al principio di tutela della gestione di questo bene naturale, e non cedere nemmeno di fronte al pretesto di un miglioramento nella somministrazione del servizio.
8. Prepotenza e corruzione: la maggior parte delle aziende nei paesi in via di sviluppo versano le loro acque reflue senza previo trattamento direttamente nei bacini più immediati, senza un minimo grado di coscienza, inquinando fiumi, laghi, lagune, coste e, quindi, le falde acquifere, che vengono contaminate per effetto di lisciviazione ed altri fenomeni associati. I governi non intervengono ufficialmente e spesso si limitano ad applicare le proprie normative per versamento di agenti contaminanti.
Il Nuovo Ordine Mondiale non garantisce la distribuzione equa di questa risorsa naturale, né il rispetto delle fonti naturali di acqua dolce esistenti, contribuendo a creare un panorama ancora più desolante. È per questo motivo che i governi di tutti i paesi del mondo devono prendere decisioni concordate, intelligenti e giuste, partendo dal presupposto di base che questa risorsa è un bene sociale e un indiscutibile diritto per la vita, e in questo modo allontanare lo spettro terrificante di un prossimo conflitto mondiale.

martedì 28 giugno 2016

Brexit, alla fine l'unico potere che lor signori vogliono difendere strenuamente è quello delle banche

Giornali inguardabili, opinionisti che sembrano astrologhi da call center, ideologia di bassa lega distribuita a pacchi, come vuol fare Draghi con l’elicopter money; cancellerie europee nel panico più completo, molto più preoccupate dei loro rispettivi equilibri interni che non del futuro dell’Europa.
La Brexit ha ottenuto alcuni “effetti collaterali” non di poco conto. Addirittura c’è chi pensa di ritornare alle urne. Che fine farebbe la credibilità della politica, già sottozero? Sulle conseguenze politiche, meno che mai su quelle economiche, c’è da prendere tutto con molta cautela. Difficile che i tecnocrati di Francoforte e di Berlino abbiano una qualche forma di resipiscenza per quanto riguarda l’austerità, e tutto il resto. Il massimo che sono riusciti a pensare, solo pensare, per carità, è un Vecchio continente a due velocità, il che vorrebbe dire maggiori tutele per una elite e più povertà per gli altri.
Dalla loro hanno comunque un lungo periodo, circa due anni, per consumare il distacco vero e proprio con Londra. E non è poca cosa. Basta dare un’occhiata ai primi smozzicati resoconti politici per rendersi conto del muro di gomma che circonda la vera sostanza del problema, ovvero i rapporti economici contenuti nei vari trattati commerciali. In questi due anni, paradossalmente, Londra potrebbe fare la parte del leone, considerando che la voglia di “Brexit” ormai agisce come un virus.
I rapporti di forza sono i rapporti di forza. E per il capitale è ciò che conta davvero. E i rapporti di forza passano per le banche in questo momento. Per dirla con le parole di Emiliano Brancaccio: “Se ci saranno forti ripercussioni sul settore bancario la situazione potrebbe precipitare anche nei rapporti interni all’eurozona”. Tutte le maggiori istituzioni del settore, per il momento, hanno deciso di far quadrato. E questo sembra bastare. Insomma, per la parte vincente del capitale, quella finanziaria e speculativa, si tratta di attestarsi, più faticosamente delle altre volte, su un nuovo punto di equilibrio. E da lì continuare a cavare profitti come se niente fosse. Ciò che verrà deciso realmente nei prossimi vertici europei non sarà certo il futuro dei cittadini europei o dei ventitre milioni di disoccupati ma gli assetti di potere delle banche francesi e italiane rispetto a quelle tedesche. Tutto qui.
Da un punto di vista strutturale, si stanno fronteggiando due opposte linee economiche. “C’è una lotta in corso tra le tendenze liberoscambiste del grande capitale e le pulsioni protezioniste dei proprietari più piccoli e maggiormente in affanno”, sottolinea sempre Brancaccio. Difficile dargli torto. Difficilie non registrare il dato che è questa la “continuazione della guerra” con altri mezzi; di quella guerra che prevede la distruzione di ricchezza, di risorse umane, con mezzi non convenzionali, e di strutture produttive.
Per chi era già in una situazione di difficoltà, come l'Italia, non cambierà molto. Non a caso, la parola "rischio", per il momento, viene associata solo a quei risparmiatori che avevano deciso di affidare i propri sogni a qualche allegra speculazione sui mercati dei titoli. Al resto, cioè alla possibilità che si torni a ballare sullo spread, ci pensa la Bce, almeno per il momento.

lunedì 27 giugno 2016

Spagna, l’effetto Brexit premia i partiti

Niente di nuovo sul fronte spagnolo. Come nelle elezioni dello scorso 20 dicembre, dalle urne non emerge nessuna certezza. Il Partido Popular del premier Mariano Rajoy è ancora il primo partito del paese, ma senza maggioranza assoluta non potrà governare da solo. Il PP, rispetto al dicembre scorso, guadagna 14 seggi in più e si impone ora come forza trainante di un possibile esecutivo di coalizione con i socialisti di Pedro Sanchez, al secondo posto ma in leggera flessione. Nessun disastro per il PSOE che veniva dato da tutti i sondaggi per spacciato, travolto dall’inarrestabile marea viola di Podemos. Il movimento di Pablo Iglesias, indicato dai primi exit poll come vincitore della tornata e futuro partito di maggioranza, non ha brillato fermandosi a 71 deputati, gli stessi che aveva il dicembre scorso. Una vera e propria delusione per gli indignados per settimane in testa ai sondaggi. Crolla Ciudadanos. Il partito di centro-destra del giovanissimo Albert Rivera non va oltre il 13%, cannibalizzato dal Partido Popular. Il quadro rispetto al 20 dicembre è sostanzialmente invariato. Solo un accordo tra PP e PSOE può dare un governo alla Spagna. E’ tutto nelle mani di Pedro Sanchez, il fotogenico leader socialista che evitando il sorpasso di Podemos è riuscito a salvare la sua posizione, il partito e a diventare arbitro della partita per il futuro esecutivo. Sta ai socialisti decidere a chi affidare i voti dei propri elettori.
La strada obbligata è quella dell’accordo con i popolari. Un patto tra PSOE e Podemos è difficile anche perché insieme non arrivano alla maggioranza richiesta di 176 seggi. Pablo Igleasias comunque non demorde e dichiara: “Ho scritto un messaggio a Pedro Sanchez per parlare alla luce di questo risultato e non ho ancora ricevuto risposta – ha detto il leader di Podemos commentando il risultato delle elezioni – Rimango convinto che sia sensato riuscire a dialogare e lavorare insieme a partire dal terreno comune, condividiamo infatti un modello sociale opposto a quello attuato dal governo dei popolari”. Un chiaro tentativo di dialogo con i socialisti che però, al momento, sembrano non essere troppo interessati alle proposte di Podemos e del suo leader, considerato troppo volubile e inaffidabile. Gli spagnoli hanno bisogno urgente di un governo e difficilmente tollereranno i capricci dei partiti. A influire sul voto è stato anche l’effetto Brexit. La preoccupazione che un’eventuale vittoria di Podemos potesse aprire le porte a proposte radicali sul futuro della Spagna nella UE ha allertato gli indecisi e i moderati che hanno preferito premiare il governo uscente. La paura è tanta. Il nuovo parlamento si riunirà il prossimo 19 luglio. Da lì in poi inizierà il valzer delle consultazioni con lo spettro della soluzione alla Monti.

venerdì 24 giugno 2016

Brexit. Perché non è una vittoria delle xenofobie

Infranto il "dogma" Unione Europea. Rifilato un sonoro schiaffo ai "chierici" dell'europeismo sempre e comunque, alle vestali del "ci vuole più Europa". Il risultato indebolisce - in prospettiva futura - anche il "terrorismo" mediatico che puntualmente, con tutto il bagaglio catastrofista, viene sparso a piene mani in occasione di ogni appuntamento elettorale che coinvolge l'Ue: il sole è sorto anche oggi e Londra non è sprofondata nell'Atlantico.
Dato su cui riflettere: il "leave" vince con alte percentuali nelle zone di maggiore sofferenza sociale ed economica, in zone operaie e di voto tradizionalmente di sinistra. Vince, quindi, tra le vittime della restaurazione liberale e dell'offensiva del Capitale. Lasciamo alle destre razziste la critica all'Unione Europea del massacro sociale e della guerra?

giovedì 23 giugno 2016

E ora come la metteranno con l’Italicum?

Galeotto fu quel 41 percento alle Europee. Risultato inusitato per la compatta ma storicamente minoritaria sinistra del Paese, convinse Matteo Renzi dell’eccezionalità della propria figura. Interpretò l’evento in due modi: da un lato come legittimazione di sé stesso, capace di compattare un consenso massivo in un popolo bisognoso più di speranza che di paura; dall’altro lo convinse di essere sulla strada giusta nel suo intento di tracciare una “via maggioritaria” per il Partito Democratico. Si parlò spesso di Partito della Nazione, una sorta di nuova Dc spostata a sinistra, perlomeno sul fronte del progressismo civile, sulla falsariga dei Democratici americani. Oggi si parla piuttosto del Partito della Nazione che non c’è. A due anni da quella tornata elettorale, il consenso per il premier del dinamismo e della narrazione è in continuo calo, e rischia di riportare il Pd a valori elettorali più consoni col suo vissuto.
Se è vero, come ha affermato lo stesso Renzi, che un voto locale non è un voto nazionale, è altrettanto vero che alcune indicazioni si possono cogliere. La prima è piuttosto evidente: la polarizzazione ad personam del dibattito politico ha funzionato. Oggi si vota per Renzi o contro di lui (e ciò che rappresenta). Peccato che, sempre stando alle amministrative, siano molti di più i voti contro. L’ordine tripolare instauratosi nel 2013 non accenna infatti a mutare, nonostante le ventennali spinte verso un bipolarismo di estrazione anglosassone. Emerge piuttosto una convergenza tra centro-dx e m5s nel votare contro il partito di governo. L’odio che gli orfani di Berlusconi e i figli di Salvini nutrono per la parte sinistra del Paese è piuttosto radicato e viene confermato dall’analisi dei flussi elettorali. A Torino il travaso è stato pressoché totale, lasciando Fassino al palo, con praticamente gli stessi voti del primo turno. Roma era un caso particolare, ma la vittoria della Raggi, attesa e schiacciante, ha confermato lo stesso trend. E’ meno forte la correlazione opposta: nei comuni in cui al ballottaggio è andato il centro-dx ha spesso vinto il centro-sx, seppur di poco. Se gli elettori di Salvini non hanno problemi a votare i pentastellati pur di fare un torto all’altro Matteo, è meno netta la tendenza dei grillini a far fronte comune. Tendenza che comunque, in realtà, c’è, visto che a Bologna la leghista Borgonzoni dopo aver strappato un insperato ballottaggio al sindaco uscente Merola, ha visto un flusso giallo colmare parte del notevole gap. Non abbastanza da vincere, ma sufficiente da venir considerato.
Inizia dunque a vacillare il poker di convinzioni del Premier riportate dalla Stampa alcuni giorni fa. Quattro punti a sostegno dell’Italicum, che palesano uno dei soliti limiti della politica italiana: legiferare in base alla contingenza, rinunciando a qualunque concessione agli assoluti. Il primo e il secondo punto sono tentativi di ridurre all’impotenza le “stampelle” degli ultimi anni. Convincere minoranza dem e Ncd che non c’è vita al di fuori del partito maggioritario con una legge elettorale che scoraggia le scissioni. Terzo e quarto punto riguardano invece gli avversari. Il centro-dx per vincere deve stare insieme ma è diviso ideologicamente, col “blocco lepenista” che faticherebbe a digerire la riproposizione dell’alleanza con Berlusconi. Il problema per l’alternativa classica è evidente: se vanno divisi mandano al ballottaggio i grillini, se ci vanno insieme perdono al ballottaggio. O forse no? Qui la narrazione renziana comincia a fare i conti con la realtà. Le vittorie di misura a Milano e Bologna non lo mettono al riparo da possibili cambi di vento. Il rischio maggiore arriva però dal quarto punto: Renzi è convinto che al ballottaggio andrà un centro destra compattato, capace di passare in volata il Movimento 5 Stelle. E se non dovesse avvenire? Se il centro destra non si unisce o se comunque arrivano secondi i grillini, l’azzardo diventa sconfitta certa. Il Movimento ha vinto diciannove dei venti ballottaggi a cui ha partecipato, e non è una novità, visto che Parma e Livorno sono arrivate nello stesso modo.
Alla luce di ciò, si aprono le prime crepe nella granitica solidità dell’Italicum. Il Corriere ha riportato alcuni spifferi, secondo i quali il Premier potrebbe essere tentato di lasciar cambiare la legge da qualcuno che non porti il suo nome. Renzi stesso qualche giorno fa, a RepIdee, in un dibattito con Scalfari, si è lasciato sfuggire un: “non sono innamorato della legge elettorale”. Sono prove di marcia indietro?
Quel che appare certo, col tasso di certezza che possono avere le speculazioni politiche, è che non sarà il primo turno a determinare il Governo. Il Partito della Nazione appare sempre più in contrazione verso quella che è sempre stata la dimensione storica della sinistra in Italia, il 30 percento nazionale con le roccaforti rosse come base territoriali. Nonostante Renzi e il suo centrismo manifesto. L’altra certezza è che le forze anti-sistema hanno un peso considerevole, che sia un’opposizione di destra importata sulla falsariga delle Le Pen o un prodotto autoctono come il Movimento 5 Stelle. Quale delle due arrivi all’ipotetico ballottaggio non è dato sapere, ma se una ha quantomeno la possibilità di vincerlo, l’altra ne ha una ragionevole certezza.
Ci troviamo così di fronte ad un ulteriore paradosso. Sono proprio le forze che si sono schierate contro l’Italicum e la connessa riforma costituzionale quelle che rischiano di beneficiarne maggiormente. Il referendum di ottobre sarà un banco di prova importante. Come voluto dallo stesso Renzi, che ha l’ottima abitudine di scommettere su sé stesso e la pessima di perdere puntualmente la scommessa, sarà un referendum sul premier stesso. Dovesse passare ne uscirebbe rafforzato nel breve, rischiando però di aver solo posticipato quella morte politica che lui stesso ha paventato in caso di vittoria del no. Il gioco delle tre carte è lungi dall’esser finito, ma vede il saltimbanco arrancare.

mercoledì 22 giugno 2016

A San Pietroburgo contratti, a Bruxelles sanzioni

Con singolare tempismo, mentre a San Pietroburgo si svolge il consueto forum internazionale di affari, a Bruxelles decidono di prolungare le sanzioni contro la Russia per tutto il 2017. La decisione ormai è rinnovata automaticamente di anno in anno senza alcuna discussione, grazie alla completa sudditanza della Commissione ai voleri d’oltreoceano. Le risibili motivazioni sono sempre le stesse: l’illegale plebiscito della Crimea per tornare alla Russia e la deliberata destabilizzazione dell’Ucraina. Inutile aggiungere altro; inutile chiedersi il perché il governo di Kiev stia volutamente sabotando gli accordi di Minsk, preparandosi a una nuova offensiva contro i separatisti. Quando Washington ordina, l’Unione esegue senza fiatare con un’unica eccezione: a Berlino si prosegue imperterriti verso la realizzazione del raddoppio del North Stream. Se a parole il ministro tedesco dell’Energia rassicura che l’Ucraina sarà sempre il Paese fondamentale per il transito del gas in Europa, nei fatti accelera il progetto per la costituzione della società che si occuperà della posa dei tubi. La New European Pipeline AG sarà per il 51% di proprietà della Gazprom mentre Basf, E. ON, OMV e Shell possiederanno il 10% e il restante 9% andrà alla Engie. A Berlino infatti sono pragmatici; rispettano il diktat americano, perseguendo anche i propri interessi economici.
Più di 12mila persone da 320 Paesi sono volate nell’ex capitale zarista per stringere accordi commerciali con il “nemico numero uno dell’Occidente”. 1300 aziende hanno stipulato accordi per 15 miliardi e mezzo di dollari, confermando il trend positivo del Forum che, anno dopo anno, diventa sempre più attrattivo, nonostante le masochistiche sanzioni europee. Dall’inizio di queste, infatti, sono più di 100 i miliardi persi sull’altare degli interessi geopolitici della Casa Bianca. Il premier Renzi – ancora una volta colto in fallo mentre distratto armeggiava con il cellulare – ha sottolineato come l’Italia stia lavorando per “costruire ponti che uniscano e non muri che dividano”, ma l’unico ponte che per ora si sta realizzando è quello di Putin sulla penisola di Kerc. La sterile retorica del presidente del Consiglio può far piacere ai russi e riempire le prime pagine dei giornali, ma è inconsistente; come lo scorso dicembre, quando l’Italia impose la discussione sul rinnovo delle sanzioni, rimanendo però muta al momento di prendere parola.
Il governo italiano comunque ha ricevuto un’ottima accoglienza e ha firmato accordi per oltre un miliardo di euro – nel rispetto delle sanzioni -, visitando anche il cantiere di Astaldi per il nuovo raccordo autostradale della città; eppure le perdite patite dal nostro Paese sono gravi e pesanti. Molti politici in Europa negli ultimi mesi hanno lamentato di non volere rinnovare questo suicidio economico ma, alla resa dei conti, non hanno voluto muovere un dito. Tanto è la sudditanza ai voleri d’oltreoceano da non concedere alcun margine di manovra; così a Bruxelles hanno tirato un sospiro di sollievo dopo il controverso esito del ballottaggio presidenziale austriaco. Hofer, infatti, sarebbe stato il primo presidente a spezzare il fronte unanime delle sanzioni. Ironico pure il commento dell’ex presidente Sarkozy che ha esortato i russi a compiere il primo passo, abolendo le contro-sanzioni. Perché mai il Cremlino, demonizzato oltre misura, dovrebbe riaprire il proprio mercato ai prodotti alimentari europei, quando nessuno dei 28 ha un minimo di sussulto di sovranità?
Sarebbe ora che gli Stati dell’Unione iniziassero a interrogarsi su quali interessi stiano difendendo in questa isterica riproposizione della Guerra fredda, ma tutte le vere decisioni si prendono ormai altrove

martedì 21 giugno 2016

Italicum, “i nostri ricorsi contro la legge elettorale sono fermi”

Il regista della strategia giudiziaria denuncia: "Se prosegue questa inerzia, solleveremo la questione facendo presentare interpellanze e interrogazioni in parlamento". La Consulta si deve esprimere il 4 ottobre: "Per questo il governo vuole il referendum il 2. E' un segno di debolezza"». Il Fatto quotidiano online, 19 giugno 2016 (c.m.c.)
Il referendum costituzionale si intreccia al giudizio della Corte costituzionale sulla legge elettorale. Il 4 ottobre è fissata la prima udienza alla Consulta. «La bocciatura della legge elettorale sarebbe un pessimo viatico per i sostenitori del Sì, ecco perché vogliono fissare il referendum prima del giudizio della Corte», spiega l’avvocato Felice Carlo Besostri, il regista della strategia giudiziaria contro l’Italicum. Ma nella maggior parte dei Tribunali i nostri ricorsi sono fermi, aggiunge Besostri, come se si volesse prima conoscere il risultato del referendum e il giudizio della Corte sul primo ricorso.
Il Tribunale di Trieste è in riserva dal 2 febbraio, Torino dal 21 marzo. Dovrebbero depositare le ordinanze in 30 giorni. «Se prosegue questa inerzia, solleveremo la questione facendo presentare interpellanze e interrogazioni in parlamento». Se salta la riforma costituzionale, tuttavia, «non sta in piedi nemmeno questa illegittima legge elettorale pensata solo per la Camera».
Avvocato Besostri, facciamo il punto della strategia di ricorsi contro l’Italicum.
I Tribunali che abbiamo interpellato sono quelli civili di Torino, Genova, Milano, Brescia, Venezia, Bologna, Firenze, Ancona, Perugia, Roma, L’Aquila, Bari, Lecce, Napoli, Potenza, Catanzaro, Messina. A breve Caltanissetta e Cagliari. L’obiettivo è quello di ottenere più ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale sui quattordici motivi di ricorso. Bisognava evitare che per avere un giudizio di costituzionalità si dovesse arrivare in Cassazione, magari dopo aver già votato con l’Italicum.
Come sta andando?
Le decisioni finora depositate sono state soltanto due. La prima decisione è stata del Tribunale di Messina che ha sollevato questione incidentale di costituzionalità su sei punti: la discussione in Corte Costituzionale è stata fissata per il 4 ottobre. La seconda del Tribunale di Ancona, che ha respinto il ricorso con una motivazione copiata, compreso un errore di data, 10 luglio invece del 1° luglio come data di applicazione della maggior parte delle norme dell’Italicum, da una sentenza del Tribunale di Milano, resa in un giudizio promosso da altri elettori non associati al nostro Coordinamento per la Democrazia.
L’ordinanza di rigetto è già stata impugnata. A Bari un giudice ha messo per iscritto quello che altri stanno facendo senza dirlo: ha rinviato tutto al 7 novembre per conoscere il risultato del referendum e le decisioni della Corte Costituzionale. I giudici che si sono riservati di emettere le ordinanze sono immobili. Il Tribunale di Trieste è in riserva dal 2 febbraio, Torino dal 21 marzo. Dovrebbero depositare in 30 giorni.
Chi avete di fronte nelle udienze?
A Roma l’Avvocatura Generale, negli altri tribunali le avvocature distrettuali in ogni distretto di Corte d’Appello. La difesa è al massimo livello, ma l’impresa è disperata: l’Italicum è come il Porcellum. O la Corte Costituzionale rinnega i principi della sentenza n. 1/2014 o la sua sorte è segnata. Al ballottaggio si accede senza una soglia in voti o seggi e il premio di maggioranza è sempre di 340 seggi che si abbia il 40% o si acceda al ballottaggio con il 25%: il premio è inversamente proporzionale al consenso elettorale e prescinde anche dalla percentuale dei votanti.
Sospetta una pressione per rallentare l’esito dei ricorsi in vista del referendum e del primo dibattimento alla Consulta?
Vediamo se continua l’inerzia. Se non succede nulla solleveremo la questione facendo presentare interpellanze o interrogazioni in parlamento.
Si legge che il governo intende fissare il referendum prima dell’udienza alla Consulta.
Il Governo ha tentato invano di far celebrare il referendum in giugno in coincidenza con le amministrative perché non vuole che gli elettori siano informati. L’abbiamo impedito con la raccolta delle firme che ci ha consentito tre mesi di tempo in più. Se si vota il 2 ottobre, la prima data utile, è per evitare un voto informato: due mesi, luglio e agosto, di vacanza, la prima settimana di settembre di rientro. Di fatto ventuno giorni scarsi per la campagna. Volere la votazione due giorni prima della decisione della Corte Costituzionale è un segno di debolezza.
D’altra parte la Presidenza del Consiglio è informata di ogni passo da noi fatto nella quindicina di Tribunali. Gli avvocati dello Stato, che sono ottimi professionisti, hanno informato il governo dei rischi. C’è un nostro motivo di ricorso che può far cadere l’intera legge: alla Camera è stata approvata con un voto di fiducia, cioè con un procedimento speciale vietato dall’art. 72 della Costituzione per le leggi in materia elettorale e costituzionale. Legge elettorale e deforma costituzionale sono strettamente legate. Non sarebbe un buon viatico per il Sì al referendum un pronunciamento negativo sulla legge elettorale.
Quali sono le possibili conseguenze del referendum?
Se vince il Sì il Senato non sarà più eletto dai cittadini direttamente, ma dai consigli regionali. A differenza di quanto molti pensano, il Senato non è stato abolito. E’ stata abolita la democrazia nell’elezione del Senato. Se vince il No il Senato sarebbe eletto con una legge elettorale non proporzionale, ma con soglie di accesso alte, cioè l’8% per le liste singole e il 20% per le coalizioni. Ma tutto dipende da cosa decide la Corte Costituzionale, se i giudici si svegliano. Se salta la deforma costituzionale tuttavia non sta in piedi nemmeno la legge elettorale pensata solo per la Camera dei Deputati.
Secondo lei il governo potrebbe mettere mano all’Italicum prima delle prossime elezioni politiche?
Dipende da come vanno i ballottaggi del 19. Se Renzi li perde tornerà il premio alle coalizioni.
Uno degli argomenti del Sì è la stabilità di governo. Se vincono i no – dicono – ci sarà il caos. Come risponde?
Un governo che non risolve la crisi economica e toglie il diritto di voto per il Senato è meglio che se ne vada. Il governo deve terrorizzare gli elettori perché non ha altri argomenti.
Siamo sopravvissuti a 63 primi ministri, sopravviveremo a 64.

lunedì 20 giugno 2016

La causa dell'”ammutinamento nel dipartimento di Stato” che invoca la guerra alla Siria

Confermando ancora una volta che l’intera campagna degli Stati Uniti in Medio Oriente negli ultimi 4 anni è un piano per destabilizzare ed eliminare il Presidente siriano Bashar al-Assad, che certamente comprende lo SIIL che, come segnalato un anno fa, fu “creato” e sostenuto dal Pentagono quale strumento per rovesciare Assad, un’analisi è stata rilanciata. Il WSJ riferiva che decine di funzionari del dipartimento di Stato protestano contro la politica degli Stati Uniti in Siria, firmando un documento interno che chiede “attacchi mirati contro il governo di Damasco, sollecitando il cambio di regime quale unico modo per sconfiggere lo Stato islamico“. In altre parole, più di 50 alti “diplomatici” sostengono l’eliminazione di Assad per “sconfiggere lo SIIL”, lo stesso SIIL che gli alti “diplomatici” degli Stati Uniti hanno scatenato per eliminare… Assad. Mentre si può comprendere l’inesorabile voglia del dipartimento di Stato degli Stati Uniti di creare un altro Stato fallito guidato da un fantoccio degli Stati Uniti, ci si chiede se almeno il borbottio giustificativo non vada un po’ meglio sistemato. In modo divertente, il tutto è avvolto da una narrazione sul dipartimento di Stato pronto e disposto ad “ammutinarsi” al pacifismo di Obama, perché si vede che Obama ha avuto così successo nel districare e ritirare le truppe statunitensi infoiate in Medio Oriente e Afghanistan. Oh aspettate…
Ecco i dettagli su WSJ: “Il “cablo del dissenso” è firmato da 51 funzionari del dipartimento di Stato consulenti sulla politica in Siria a vario titolo, secondo un funzionario vicino al documento. Il Wall Street Journal ha esaminato una copia del cablo che invoca ripetutamente “attacchi militari mirati” contro il governo siriano alla luce del quasi collasso del cessate il fuoco mediato all’inizio di quest’anno. Le opinioni espresse dai funzionari degli Stati Uniti nel cablo criticano ardentemente dall’interno la vecchia politica degli Stati Uniti verso la guerra siriana, una politica che resta anche se il regime del Presidente Bashar al-Assad è stato più volte accusato di violare gli accordi del cessate il fuoco e le forze filo-russe hanno attaccato i ribelli addestrati dagli Stati Uniti”. E ancora: qual era il motivo per cui Obama era così “contrario” ad invadere la Siria? “I funzionari dell’amministrazione Obama hanno espresso la preoccupazione che attaccare il regime di Assad potrebbe portare ad un conflitto diretto con Russia e Iran“. Oh, perciò la corsa agli armamenti nucleari è ora ufficialmente ricominciata, poche settimane dopo che gli Stati Uniti hanno attivato lo scudo antimissile balistico in Europa, per mutare l’equilibrio della proliferazione nucleare post-guerra fredda. Fatto. Nel frattempo, il tentativo di dipingere Obama come un liberale pacifista continua: “E’ imbarazzante per l’amministrazione avere tanti membri che rompono sulla Siria”, ha detto un ex-funzionario del dipartimento di Stato che ha lavorato sulla politica in Medio Oriente. Il dissenso di tali funzionari sulla politica in Siria persiste dallo scoppio della guerra civile nel 2011. Ma gran parte del dibattito era contenuto ai vertici dell’amministrazione Obama. La lettera è un’azione dal cuore della burocrazia, in gran parte apolitica, che irrompe nella Casa Bianca”. Oh, se solo Obama fosse più disposto ad installare ancor più regimi fantoccio pro-USA… come in Afghanistan, Libia, Egitto, Tunisia, Iraq, Ucraina e così via… È chiaro che tutto ciò è andato così bene, che di certo le cose sarebbero assai migliori in Medio Oriente. Beh, forse no, ma almeno questo dannato gasdotto del Qatar finalmente funzionerebbe.
226498 Allora perché spunta questo ora: “Il cablo interno può essere un tentativo di plasmare la politica estera della prossima amministrazione, dice chi è vicino al documento. Il presidente Barack Obama ha esitato ad adottare un’azione militare contro Assad, mentre la candidata democratica alla presidenza Hillary Clinton ha promesso maggiore aggressività verso il leader siriano. Il candidato repubblicano Donald Trump ha detto che avrebbe colpito duramente lo Stato islamico, ma ha anche detto che sarebbe disposto a collaborare con la Russia in Siria. Il cablo avverte che gli Stati Uniti perdono potenziali alleati nella maggioranza sunnita della Siria nella lotta contro il gruppo estremista sunnita dello Stato islamico, mentre il regime “continua a bombardarla e farla morire di fame”. Assad e la sua cerchia sono alawiti, una piccola setta sciita e minoranza in Siria. Nella guerra su più fronti della Siria, regime, Stato islamico e vari gruppi ribelli si combattono. C’è di meglio: “Non arginare gli abusi flagranti di Assad rafforzerà soltanto l’attrazione ideologica di gruppi come lo SIIL, anche quando subiscono sconfitte sul campo”, dice il cablo”. Ma aspetta, come ha ammesso lo stesso Pentagono, lo SIIL fu accuratamente allevato dal governo degli Stati Uniti proprio per questo: rovesciare Assad. Non ci credete? Leggete la seguente riga di un documento trapelato: “...c’è la possibilità di creare un dichiarato o no principato salafita in Siria orientale (Hasaqa e Dayr al-Zur), e questo è esattamente ciò che le potenze che supportano l’opposizione vogliono, isolando il regime siriano considerato profondità strategica dell’espansione sciita (Iraq e Iran)“. Non badateci. C’è altro: “Il cablo afferma che Assad e Russia non hanno preso l’ultimo cessate il fuoco e i “negoziati indiretti” sul serio e suggerisce l’adozione di una postura militare più muscolare per garantire un governo di transizione a Damasco”. La forza filo-russa avanza su Raqqa da sud, facendo della marcia sulla roccaforte dello Stato islamico una corsa strategica e simbolica tra coalizioni rivali. Lo Stato islamico viene anche ricacciato dall’Iraq, dove le forze governative alleate degli USA hanno ripreso le principali città e avanzano su Falluja, la prima città che gli estremisti occuparono nel 2014”. Beh, certo: con il sostegno della Russia alla nazione sovrana, perché Assad dovrebbe piegarsi all’implacabile pressione degli Stati Uniti. In realtà, sarebbe proprio questo il punto: gli Stati Uniti sono umiliati da una piccola debole nazione mediorientale che osa sfidarli da anni, solo perché ha l’appoggio del Cremlino. Non dobbiamo spiegare la brutta visione di ciò.
Forse il vero motivo per cui il cablo è “emerso” ora è che con l’intervento russo lo SIIL sarà presto roba del passato: “Sebbene lo Stato islamico perda sempre più terreno con le offensive appoggiate dagli Stati Uniti in Siria, Iraq e Libia, diplomatici occidentali temono che il gruppo sia così integrato profondamente nella popolazione che vi avrà grande influenza in futuro, divenendo clandestino mentre viene sconfitto il suo quasi-esercito”. E, infine, un ultimo motivo appare: gli Stati Uniti semplicemente assecondano le pretese saudite, qualcosa che fanno chiaramente molto bene dagli attacchi dell’11 settembre, coprendone il coinvolgimento saudita: “Il cablo fa eco anche alla crescente insofferenza degli alleati del Golfo degli Stati Uniti per il mancato intervento militare mirato sul governo di Damasco, costringendo Assad a dimettersi e a far posto a un governo di transizione. I colloqui di pace tra governo e opposizione della Siria sono crollati ad aprile sul destino di Assad, con il regime che insiste che debba rimanere al potere, mentre il cessate il fuoco negoziato continua a disintegrarsi. Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti spingono gli Stati Uniti a fornire più armi sofisticate ai terroristi. Ma Washington resiste”. In altre parole, se gli Stati Uniti si piegano ed attaccano, scatenando invasione e guerra contro Assad, ancora una volta l’Arabia Saudita detterà la politica estera statunitense, spingendo gli Stati Uniti in ciò che potrebbe essere lo stato di guerra aperta contro la Russia. Possiamo solo sperare che il popolo statunitense si svegli impedendo che tale parodia di candidata presidenziale preferita dall’Arabia Saudita sia eletta presidente.

venerdì 17 giugno 2016

L’Italia alla guerra in Siria a fianco di Erdogan

Operazione top secret dell’Esercito italiano al confine turco-siriano. Il 6 giugno, una batteria di missili terra-aria SAMP/T e una trentina di militari italiani sono stati schierati nella zona di Kahramanras, a nord di Gaziantep (Turchia meridionale), nell’ambito dell’impegno assunto dalla NATO a protezione dello spazio aereo turco dal “rischio di sconfinamenti provenienti dalla Siria”. La notizia è stata pubblicata dai maggiori quotidiani turchi e dall’agenzia di Stato “Anadolu”. I mezzi militari italiani sono sbarcati nel porto di Iskenderun per dirigersi poi nella zona di Kahramanras, nei pressi del confine siriano. Sempre secondo i media turchi, il sistema missilistico messo a disposizione dal nostro paese “avrà esclusivamente il compito di contrastare aerei, missili da crociera e tattici e non sarà impiegato nell’imposizione di una no-fly zone”.
La batteria SAMP/T sostituirà il sistema “Patriot” che le forze armate della Germania avevano schierato a sud della Turchia circa tre anni fa. La decisione del cambio negli assetti missilistici NATO a “protezione” delle forze armate di Erdogan che operano al confine e in territorio siriano è stata assunta all’ultimo vertice dei ministri degli esteri dei paesi del’Alleanza tenutosi a Bruxelles. Oltre alla batteria dei SAMP/T italiani, a luglio la NATO fornirà alla Turchia il supporto di un altro velivolo radar AWACS (Airborne Warning and Control System).
Il sistema antiaereo e antimissile a medio raggio SAMP/T è stato sviluppato dal consorzio europeo “Eurosam” formato dalle aziende MBDA Italia (gruppo Leonardo-Finmeccanica) e Thales (Francia). Basato sul missile intercettore “Aster 30” con un raggio sino a 100 km e una velocità massima di 1.400 m/s, il nuovo sistema sarebbe in grado di intercettare e abbattere anche in maniera del tutta automatica aerei, elicotteri, droni, missili di crociera, missili teleguidati, ecc.. Ogni batteria SAMP/T è costituita da lanciatori con un numero variabile di missili da 8 a 48 che possono ingaggiare fino a 10 bersagli contemporaneamente. Il costo del sistema è elevatissimo: nel 2008 l’Esercito italiano, dopo i test effettuati in Francia e nel poligono di Salto di Quirra in Sardegna ha deciso di acquistare 6 batterie di lanciatori con una prima tranche di spesa di 246,1 milioni di euro.
Il trasferimento in Turchia di una batteria missilistica SAMP/T del 4° reggimento artiglieria contraerea “Peschiera” era stato anticipato il 18 maggio scorso da un articolo di Analisi Difesa che analizzava il decreto di rifinanziamento delle missioni militari italiane all’estero. In esso, infatti, era stato previsto uno stanziamento di 7 milioni di euro per la partecipazione all’operazione NATO “Active Fence” al confine turco-siriano. La missione italiana nell’ambito di “Acrive Fence” era stata confermata il 7 giugno in Parlamento dai ministri Roberta Pinotti e Paolo Gentiloni, ma senza che ne fossero specificate le modalità o i tempi.
“La nuova missione militare, oltre alle implicazioni legate al conflitto siriano, non può non venire contestualizzata nella crescenti tensioni tra NATO e Russia”, scrive l’analista Gianandrea Gaiani. “La batteria missilistica è infatti schierata a due passi da un’area conflittuale complessa dove le truppe turche colpiscono in Siria le milizie dello Stato Islamico e quelle curde, sostengono altre milizie islamiste come quelle di al-Qaeda (Fronte al-Nusra) e combattono sul territorio turco e in Iraq le forze curde del PKK”.
“Alla luce di queste valutazioni stupisce l’assenza di un dibattito politico in Italia circa l’opportunità o meno di inviare nostre truppe e mezzi in quell’area con un compito che rischia di coinvolgerci nel confronto in atto tra Ankara e l’asse Damasco/Mosca”, aggiunge Gaiani. “Difficile non notare che dopo l’abbattimento da parte di un F-16 turco di un bombardiere russo il 24 novembre scorso, tutti i partner NATO hanno ritirato le loro batterie di missili terra-aria dal sud della Turchia mentre gli italiani si schierano in quella polveriera nel momento in cui diversi alleati (statunitensi in testa) sembrano voler soffiare sul fuoco di una nuova guerra fredda”. Ma, si sa, Renzi, Pinotti e Gentioni non brillano certamente per lungimiranza politica e militare…

giovedì 16 giugno 2016

La povertà mondiale

L'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL-ILO) sforna ogni anno una pubblicazione dal titolo L'occupazione nel mondo e le prospettive sociali. Il rapporto per l'anno in corso, pubblicato il 18 maggio, e sottotitolato "Trasformare il lavoro per sconfiggere la povertà". Fornisce stime sulla soglia di povertà nel mondo e del quantitativo di reddito che sarebbe necessario trasferire ai poveri per metter fine alla povertà mondiale.
Prima di buttarci su queste stime, val la pena di riflettere su come l'OIL definisce la povertà. Vengono utilizzati i parametri della Banca Mondiale per l'anno 2011, per i quali vivere con meno di 1,90 dollari al giorno significa rientrare nella "povertà estrema", mentre vivere con una somma compresa tra 1,90 e 3,10 dollari al giorno significa trovarsi in una "povertà moderata" nei "paesi emergenti ed in via di sviluppo". Queste soglie di povertà sono convertite nelle monete locali di questi paesi usando i tassi di cambio del sistema detto della "parità dei poteri di acquisto" (purchasing power parity, PPP) del 2011, e non i tassi di cambio nominali correnti.
La differenza tra i due tassi di cambio può essere compresa nel modo che segue. Il tasso di cambio nominale tra la rupia (moneta dell'India, n.d.t.) ed il dollaro USA è oggi intorno alle 67 rupie per dollaro; ma se noi prendiamo un determinato paniere di beni e servizi, vale a dire il paniere dei beni e servizi consumati dai redditi più bassi, allora il costo di tale paniere non è 67 volte in rupie quello che costerebbe in dollari, in questo caso il tasso di cambio è 20 rupie per dollaro e non 67. Il tasso della parità dei poteri di acquisto (PPP) utilizzato per convertire le soglie di povertà dalle rupie ai dollari è - come già detto - quello che ha prevalso nel 2011.
Cifre come 1 dollaro e 90 e 3 dollari e 10 sono esse stesse raggiunte prendendo le varie soglie di povertà del 2011, convertendole in dollari al tasso PPP del 2011, e poi facendo la media di questi differenti soglie di povertà. Questa è poi riconvertita nelle valute nazionali con i tassi PPP 2011 per scoprire quante persone vivono al di sotto di queste cifre. Il totale della popolazione che vive al di sotto della povertà viene così stimata sull'anno-base del 2011. Ci si può così esercitare sulle cifre per gli anni successivi, per esempio per gli anni dopo il 2011, aggiornando le soglie di povertà del 2011 con un indice dei prezzi.
L'OIL ha scoperto che, per l'anno 2012, due miliardi di persone, o il 36,2% della popolazione totale dei "paesi emergenti od in via di sviluppo" è afflitta da estrema o moderata povertà. Di questi, un 15% sono afflitti da estrema povertà, il resto da quella moderata. Prendendo la popolazione mondiale intera, che era intorno ai sette miliardi a quel tempo, quelli afflitti da estrema e moderata povertà nei soli paesi emergenti ed in via di sviluppo (la povertà viene definita e stimata per i paesi in via di sviluppo in una maniera del tutto diversa ed è ultimamente in aumento, ma dovremmo per il presente ignorare questa povertà), costituiscono circa il 30 per cento della popolazione mondiale.
L'OIL naturalmente annuncia che questa povertà sta diminuendo, ma finché la soglia di povertà utilizzata dall'OIL (e proveniente dalla Banca Mondiale) è alla fine derivata dalle soglie di povertà nazionali, e finché, sulla base di queste soglie nazionali di povertà, paesi, come l'India, hanno annunciato una diminuzione significativa della povertà, non desta stupore che anche l'OIL faccia da eco a questi annunci. In altre parole nessun maggiore affidamento può esser dato agli annunci dell'OIL sulla diminuzione della povertà nel complesso dei "paesi emergenti ed in via di sviluppo" di quello che uno può dare agli annunci del governo indiano sulla diminuzione della povertà. Finchè gli annunci di quest'ultimo sono completamente insostenibili, e la verità sta dalla parte opposta, esattamente lo stesso può esser detto per gli annunci dell'OIL.
Lasciamo comunque tale questione da parte per il momento. L'OIL stima quello che viene chiamato "gap reddituale" che è la somma, considerando tutti i poveri insieme, della differenza tra la capacità di spesa per il consumo pro capite (o il reddito, se i dati sono disponibili come reddito) e la soglia di povertà. In altre parole è la quantità di moneta che, se trasferita ai poveri, in relazione alla misura in cui il reddito di ogni povero è inferiore alla soglia di povertà, eliminerebbe interamente la povertà. La cifra che è necessaria per eliminare sia la povertà estrema che quella moderata arriva a 600 miliardi di dollari nel 2012, la quale altro non è che lo 0,8 % del PIL mondiale di quell'anno.
Se noi dividiamo 600 miliardi di dollari per il numero dei poveri, che è di due miliardi, allora avremmo 300 dollari all'anno, che risulta 0,82 dollari al giorno. La persona povera media dei paesi emergenti ed in via di sviluppo del mondo aveva in altre parole una capacità di spesa che ogni giorno era inferiore di 82 centesimi alla soglia di povertà dei 3 dollari e 10, o di circa un quarto della soglia di povertà. Se questa quantità di moneta fosse resa disponibile alla persona povera media ogni giorno, sia come reddito immediato o attraverso misure di protezione sociale, allora il povero del mondo verrebbe tolto via dalla povertà.
Per la precisione, un mero trasferimento di reddito può non essere la via migliore per eliminare la povertà; è sempre preferibile che impieghi di maggiore qualità siano assicurati ai poveri. Ma il punto non è tanto cosa sia meglio per eliminare la povertà; il punto è quanto poco sia richiesto per eliminare la povertà sulla faccia della Terra. Un mero 0,8% del reddito mondiale è tutto ciò che è necessario sia trasferito al povero del mondo per toglierlo via dalla povertà. Ed ancora, la cosa da notare è che nessuno leva una sola voce perché sia effettuato un tale trasferimento. Anche il rapporto dell'OIL, pur dopo aver menzionato la minuscola cifra del gap reddituale in rapporto al PIL mondiale, prontamente si allontana dalla questione per comparare questo gap con il PIL non del mondo inteso in modo complessivo, ma con quello dei paesi emergenti ed in via di sviluppo, come se solo questi ultimi dovessero essere lasciati con la responsabilità di eliminare la povertà che ristagna nelle loro economie.
Non ci sarebbe alcun dubbio per sostenere che ci fosse un certo fondamento per cui paesi afflitti dalla povertà siano gli unici sulle cui spalle debba ricadere il fardello di rimuoverla, ciò se però i differenti paesi del mondo fossero disconnessi l'uno dall'altro, se ciascuno fosse un'isola separata. Cosa che ovviamente non è. I "paesi emergenti ed in via di sviluppo" sono precisamente quelli che sono stati soggiogati come colonie e semi-colonie, quelli dalle cui economie è stato drenato profitto per secoli, le cui manifatture locali sono state distrutte con l'importazione dei beni metropolitani, i cui artigiani sono stati spossessati e trasformati in popolazione eccedentaria e conseguentemente in povertà di massa. Anche al giorno d'oggi si trovano incatenati attraverso la "globalizzazione" e le loro economie sono inermi di fronte alla predazione della finanza speculativa, le loro risorse naturali sono gettate in pasto alle multinazionali e i loro contadini ed allevatori soggetti ad un processo di accumulazione primitiva di capitale da parte delle imprese metropolitane e da parte della locale oligarchia finanziaria ed industriale integrata con esse. Anche il più debole sforzo messo in campo da questi paesi per assicurare risorse ai poveri incontrerebbe resistenza ed innescherebbe una fuga di capitali; ed il controllo dei capitali per impedire una tale fuga stimolerebbe sanzioni ed intimidazioni da parte dei poteri metropolitani.
In breve, finchè viviamo in un mondo "globalizzato" e ci riteniamo soddisfatti di ciò, la povertà stessa deve essere vista altrettanto come un problema globale e la sua rimozione altresì una responsabilità globale. Ciò che suggerisce il rapporto OIL è che questa responsabilità rappresenta al massimo un "peso" minuscolo.
In realtà non costituisce affatto un onere. Finchè l'economia mondiale è in crisi, lo 0,8 % del PIL mondiale che deve essere reso disponibile per riempire il divario reddituale non deve provenire dalla restrizione del reddito di altri. Può essere messo a disposizione solamente producendo in più tale quantità, reintegrando in produzione la forza lavoro attualmente priva di occupazione e gli impianti inutilizzati. E inoltre, se lo 0,8 % del prodotto attuale fosse trasferita ai poveri come un fido, allora non solo questo ammontare potrebbe provenire da quella capacità che oggi rimane inutilizzata, ma un multiplo di essa sarà prodotto dall'utilizzazione della capacità inutilizzata.
Un esempio renderà chiaro il punto. Assumiamo che il prodotto mondiale sia 100. Ora se 0,8 unità di beni sono prodotte, esse potrebbero generare un'equivalente quantità di reddito, una parte del quale sarà speso, generando ulteriore produzione e reddito, ed una parte del quale verrà risparmiato. Questa produzione in breve produrrà una catena di spesa e quindi di prodotto, attraverso ciò che viene chiamato "processo del moltiplicatore". Se, diciamo, un quarto del reddito generato è abitualmente messo da parte, allora, per renderne disponibili alla povertà mondiale 0,8 unità, il prodotto mondiale deve crescere del 3,2, i risparmi del quale corrispondono allo 0,8 (che i governi possono prendere in prestito per finanziare i trasferimenti ai poveri del mondo) e 2,4 il consumo addizionale dai non poveri del mondo. In altre parole, l'eliminazione della povertà mondiale, lontano dal richiedere una restrizione di consumi da parte dei non poveri del mondo, può attualmente suscitare un aumento dei consumi del mondo non povero.
Naturalmente, finché il mondo non avrà un solo governo ma molti, come questo 0,8 % del prodotto mondiale debba essere apportato dai differenti governi va ancora studiato. In breve, la logistica di come la povertà debba essere sconfitta va ancora elaborata. Ma, in via di principio, nessun sacrificio è richiesto ad alcuno per sconfiggere la povertà mondiale. Al contrario, agendo in questo modo, si migliorerà lo stato di altri.
Ciò che impedisce di debellare la povertà nel mondo non è né la riluttanza dei non poveri a fare sacrifici (dal momento che non sono necessari sacrifici), e neppure i problemi logistici emergenti dal fatto che ci sono molti governi (anche questi potrebbero essere sbrogliati); ciò è di ostacolo è lo stesso capitalismo, la cui "etica", come ha detto Kalecky (1), "richiede che tu debba guadagnare il tuo pane col sudore - a meno che tu non goda di ricchezze private". Riequilibrare i divari di reddito è un anatema per il capitalismo. Ed è un sintomo dell'egemonia di questa etica il fatto che, a differenza di qualche decennio fa, quando la Commissione Brandt aveva chiesto ai paesi sviluppati di contribuire coll'uno per cento del loro PIL all' "aiuto" dei paesi sottosviluppati, anche ad una tale richiesta socialdemocratica radicata nel "keynesismo globale" oggi non viene data alcuna voce.

mercoledì 15 giugno 2016

I siti dei test nucleari sono ancora radioattivi dopo settant’anni

L’isola di Bikini è ancora radioattiva, più di quanto previsto. È quindi difficile che gli sfollati possano tornare a casa. L’isola fa parte di un atollo delle Isole Marshall, nel Pacifico. Su questo atollo e su quello di Enewetak gli Stati Uniti hanno condotto tra il 1946 e il 1958 alcuni test nucleari. Dopo aver spostato la popolazione su altre isole, hanno fatto esplodere 67 bombe nucleari. A causa di questi test anche i vicini atolli Rongelap e Utirik, che erano abitati, sono stati contaminati. Gli sfollati hanno provato a tornare a Rongelap in 1957 e a Bikini nel 1968, ma la radioattività era troppo alta.
Un team della Columbia University di New York ha misurato l’effettiva radioattività su sei isole. Sono state studiate Enewetak, Medren e Runit, dell’atollo Enewetak, Bikini e Nam, dell’atollo Bikini, e Rongelap, dell’atollo omonimo. In precedenza ci si affidava a proiezioni basate su dati storici.
Emlyn Hughes e colleghi hanno scoperto che a Bikini la radioattività è superiore a quanto previsto dagli accordi tra Stati Uniti e la repubblica delle Isole Marshall. L’isola non può quindi essere abitata.
Su altre isole la radioattività è invece molto più bassa, sotto le soglie stabilite. In questo caso, secondo i ricercatori, andrebbe calcolata anche l’esposizione dovuta al consumo di alimenti prodotti localmente, come le noci di cocco, prima di autorizzare il ritorno degli sfollati. Due isole probabilmente non saranno più abitabili: quella di Nam, distrutta da un’esplosione nucleare, e quella di Runit, dove è stato costruito un deposito di scorie.

martedì 14 giugno 2016

FBI: la fabbrica del terrore

Quali potrebbero essere le implicazioni e i riflessi politici e sociali negli Stati Uniti se dovesse emergere che la minaccia di attentati terroristici sul suolo domestico è in gran parte non solo alimentata, ma fabbricata dalle forze di polizia ? La domanda è del tutto legittima, visto il ruolo ricoperto dall’FBI (Federal Bureau of Investigation) nell’ideazione, pianificazione e quasi esecuzione di molte delle trame di matrice presumibilmente terroristica “sventate” in America negli anni successivi agli attentati dell’11 settembre 2001.
La discussione sulle cosiddette “sting operations”, o operazioni sotto copertura, condotte dall’FBI non è nuova, ma un’analisi approfondita pubblicata questa settimana dal New York Times ha riportato al centro dell’attenzione sia il crescente ricorso a questi metodi nell’ambito della “guerra al terrorismo” sia la strumentalizzazione politica della presunta minaccia incombente sulla sicurezza pubblica.
Per il quotidiano americano, le operazioni sotto copertura erano considerate in passato come uno strumento eccezionale, mentre oggi “vengono impiegate in circa due su tre procedimenti di incriminazione che coinvolgono individui sospettati di avere legami con lo Stato Islamico” (ISIS). Le preoccupazioni sono tanto maggiori quanto le operazioni clandestine non richiedono il mandato di un giudice, ma possono essere autorizzate sommariamente dai “supervisori” dell’FBI e dai procuratori del Dipartimento di Giustizia.
Se a queste operazioni si faceva già ricorso quando la minaccia terroristica principale per gli americani era identificata con al-Qaeda, l’impennata registrata dal Times con l’entrata in scena dell’ISIS appare come la logica conseguenza della caratterizzazione con toni apocalittici dell’ascesa del “califfato”. Parallelamente, l’opposizione sempre più forte della popolazione americana a nuovi interventi militari all’estero e all’adozione di misure lesive delle libertà democratiche ha richiesto l’ingigantimento della minaccia terroristica percepita.
La necessità di alimentare, se non addirittura di promuovere, la minaccia del terrorismo è apparsa tra le righe di una dichiarazione rilasciata sempre al New York Times dal capo della divisione sicurezza nazionale dell’FBI, Michael Steinbach. Rivelando forse più di quanto intendeva sostenere, quest’ultimo ha affermato che la sua agenzia “non può attendere che una persona [sospettata di pianificare attentati terroristici] si muova secondo i propri tempi”, ma va evidentemente incoraggiata in qualche modo.
L’FBI, ha aggiunto Steinbach, “non si può permettere di rimanere immobile e aspettare, sapendo che un tale individuo sta attivamente complottando” un attentato. La realtà dei casi analizzati dal Times indica piuttosto che l’FBI, al fine di favorire un clima di tensione nel paese, decide sempre più spesso di agire per precipitare l’organizzazione di atti violenti che, senza il contributo attivo e determinante di informatori o agenti sotto copertura, non verrebbero mai portati a termine.
Così, in recenti operazioni “dalla Florida alla California, gli agenti [dell’FBI] hanno aiutato individui sospettati di essere estremisti ad acquistare armi, a studiare obiettivi da colpire e a organizzare viaggi in Siria per unirsi allo Stato Islamico”. Per l’ex agente FBI sotto copertura, Michael German, la polizia federale americana sta in sostanza “inventando casi di terrorismo”, poiché le persone coinvolte, di per sé, “sono ben lontane dal rappresentare una minaccia per gli Stati Uniti”.
Avvocati difensori, organizzazioni a difesa dei diritti civili e membri della comunità islamica continuano a contestare le “sting operations” dell’FBI, definendole come vere e proprie trappole per individui frequentemente emarginati o affetti da un qualche disagio mentale.
Molti dei casi descritti dal New York Times rivelano una trama pressoché identica, nella quale gli agenti dell’FBI individuano sui social media persone che esprimono simpatie o sostegno per organizzazioni fondamentaliste, come l’ISIS, oppure manifestano l’intenzione di commettere atti violenti. Una volta identificato il proprio obiettivo, l’FBI incarica un agente sotto copertura di contattare on-line il potenziale “terrorista”.
Stabilito il primo contatto, segue uno scambio di messaggi, per fare emergere le intenzioni del sospettato, ed eventualmente un incontro di persona. Il compito dell’agente clandestino è quello di istigare l’individuo oggetto dell’operazione, proponendosi come un possibile fornitore di armi ed esplosivi, aiutandolo a individuare obiettivi da colpire oppure promettendo di facilitare un futuro trasferimento in Medio Oriente.
In molti casi, l’FBI decide l’arresto dei sospettati dopo che a questi ultimi sono state fornite armi, rigorosamente inoffensive, o biglietti aerei per il Medio Oriente. Invariabilmente, gli agenti sotto copertura registrano inoltre conversazioni nelle quali chiedono in maniera esplicita ai potenziali terroristi se intendono rinunciare all’attentato in programma o a unirsi all’ISIS. In questo modo, l’FBI si mette presumibilmente al riparo da complicazioni legali e dall’accusa di avere incastrato la persona al centro delle operazioni.
Emblematico è l’esempio del presunto estremista islamico Gonzalo Medina, di Miami. L’FBI aveva dapprima aperto un’indagine su quest’ultimo dopo avere avuto notizia delle sue intenzioni di fare esplodere una sinagoga. Le prove nei suoi confronti erano però scarse, ma il Bureau non si è dato per vinto. Un informatore dei federali lo aveva allora agganciato, ma in una discussione durante un incontro di persona Medina aveva preso le distanze da un amico che a sua volta si era detto disposto a prendere di mira una sinagoga.
Qualche giorno più tardi i due si trovavano in auto in un sobborgo di Miami e l’informatore aveva indicato una sinagoga come possibile obiettivo di un attacco terroristico durante una festività ebraica che avrebbe avuto luogo di lì a due settimane. Medina, verosimilmente per assecondare il suo interlocutore, aveva risposto che quello sarebbe stato “un buon giorno per fare esplodere” l’edificio.
L’informatore aveva così presentato Medina a un esperto di esplosivi, in realtà un agente dell’FBI in incognito. All’incontro, Medina aveva detto di volere commettere un attentato in nome dell’ISIS e l’agente gli aveva posto varie domande per assicurarsi delle sue motivazioni, aggiungendo che “non era obbligato a farlo”.
Infine, lo stesso agente aveva consegnato a Medina una bomba “inerte” ed entrambi si erano diretti in auto verso la sinagoga in questione. Quando il presunto attentatore era sceso dal veicolo con l’ordigno tra le mani, gli uomini dell’FBI hanno proceduto all’arresto.
Altri casi riportati dal Times sollevano le stesse perplessità e confermano come la minaccia teorica rappresentata dagli individui al centro delle operazioni sotto copertura dipende interamente dalle azioni dell’FBI. I sospettati non si sono quasi mai macchiati di alcun crimine in senso stretto, mentre eventuali post o dichiarazioni a favore di organizzazioni fondamentaliste, in assenza di atti concreti, dovrebbero essere garantiti dal principio della libertà di espressione, protetta dal Primo Emendamento alla Costituzione americana.
Tra i casi citati che suscitano le maggiori perplessità c’è quello di Emanuel Lutchman di Rochester, nello stato di New York, al quale un informatore della polizia aveva consegnato 40 dollari per l’acquisto di un machete e altri oggetti che avrebbero dovuto servire per l’esecuzione di un improbabile attentato alla vigilia di Natale dello scorso anno. Lutchman era in terapia per una malattia mentale e, secondo i suoi famigliari, qualche mese prima dell’arresto l’FBI gli aveva proposto di diventare egli stesso un informatore.
In molti casi, i sospettati finiti nella rete dell’FBI si dichiarano colpevoli di avere progettato attentati terroristici o di essere stati sul punto di unirsi a un organizzazione fondamentalista. Più che la concretezza delle prove a loro carico, ciò conferma il disorientamento di queste persone.
Nonostante le accuse rivolte al governo di fabbricare a tavolino minacce e complotti di natura terroristica, i casi finiti in tribunale si sono quasi sempre conclusi con verdetti di colpevolezza e lunghe condanne. Anche in questo caso, l’esito dei procedimenti basati sulle operazioni sotto copertura non dipende tanto dalla solidità delle accuse, quanto da leggi sull’anti-terrorismo particolarmente severe e dalla sostanziale accettazione dei principi anti-democratici della “guerra al terrore” da parte del potere giudiziario.
Almeno un giudice americano ha però nel recente passato descritto le “sting operations” dell’FBI per quello che realmente sono. Il giudice Colleen McMahon del tribunale distrettuale degli Stati Uniti a Manhattan in un caso del 2011 affermò in aula di “credere senza ombra di dubbio che non ci sarebbe stato nessun crimine senza l’istigazione, la pianificazione e la messa in atto da parte del governo”.
Il caso riguardava quattro musulmani di Newburgh, nello stato di New York. L’FBI aveva piazzato un informatore in una moschea di questa città e l’operazione prevedeva addirittura un piano per il lancio di missili terra-aria contro una base aerea e due sinagoghe. Un finto missile era stato realizzato dall’FBI e successivamente consegnato ai quattro “attentatori”. Nonostante l’assurdità della vicenda e le esternazioni del giudice di New York, gli imputati vennero incredibilmente condannati e le accuse sarebbero state poi confermate anche dalla sentenza di Appello.

lunedì 13 giugno 2016

HILLARY CLINTON: UNA GUERRAFONDAIA VERSO LA CASA BIANCA

Il curriculum di Hillary include il supporto ai barbari “contras” contro il popolo del Nicaragua negli anni ’80, il supporto ai bombardamenti NATO nell’ex Jugoslavia, il supporto alla guerra in Iraq di Bush tuttora in corso, i disordini ancora in corso in Afghanistan, la distruzione – in quanto Segretario di Stato – dello stato centenario della Libia, il colpo di stato militare in Honduras e l’attuale tentativo di “cambiare regime” in Siria. Tutte queste situazioni hanno portato più estremismo, più caos in giro per il mondo, e più pericoli per il nostro Paese. I prossimi saranno i confini di Russia, Cina e Iran. Osservate la cattiveria del suo recente comizio all’AIPAC (poi non dite che non eravate stati avvisati). Possiamo davvero tollerare che la Clinton vuole “alzare di livello la nostra alleanza [con Israele]”? Dove sta il senso delle proporzioni? I media non potrebbero, quantomeno, rinfacciarle il suo estremismo? Temo che il problema sia quella schifezza del “politically correct” che domina il pensiero americano (ossia: Trump è estremista, quindi Hillary non deve esserlo).
Preso dall’articolo “Andiamo in guerra” – Oliver Stone commenta il pericoloso estremismo della neoconservatrice Hillary Clinton
Jeffrey Sachs è in gran forma ultimamente. Il suo ultimo pezzo sembra il migliore.
L’articolo sull’Huffington Post: “Il discorso della Clinton dimostra che solo Sanders sarebbe idoneo alla Presidenza”, è assolutamente da leggere. Ecco qui:
Il recente discorso di politica estera di Hillary Clinton è un attacco a Donald Trump ma ci ricorda anche che la Clinton è un candidato pessimo e preoccupante. Il suo ruolino di marcia come Segretario di Stato è uno dei peggiori della storia USA moderna; le sue politiche hanno incastrato l’America in nuove guerre in Medio Oriente, fomentando il terrorismo e persino una nuova guerra fredda con la Russia. Dei tre candidati principali, solo Bernie Sanders possiede il buon senso per evitare ulteriori guerre e cooperare con il resto del mondo.
La Clinton è intossicata dal potere americano. Ha appoggiato una guerra dopo l’altra. Il bombardamento di Belgrado (1999); l’invasione dell’Iraq (2003); l’eliminazione di Gheddafi (2011); il finanziamento dei jihadisti in Siria (dal 2011 ad oggi). I risultati sono stati un bagno di sangue dopo l’altro, e le ferite aperte tutt’oggi fomentano l’ISIS, il terrorismo e le migrazioni di massa.
Nel suo discorso, la Clinton si è lasciata andare alla sua retorica altisonante (in stile Trump): “Se l’America non prende il comando, si crea un vuoto – e questo porta o al caos, oppure altri paesi si daranno da fare per riempire il vuoto. Allora saranno loro a prendere le decisioni sulle vostre vite, sui vostri lavori e sulla vostra sicurezza – e credetemi, le decisioni non saranno prese a vostro vantaggio.”
Questa arroganza – l’idea che l’America e solo l’America debba governare il mondo – ci ha portati dritti a esagerare: guerre infinite che non possono essere vinte, infinite e crescenti tensioni con la Russia, la Cina, l’Iran e altri, che rendono il mondo più pericoloso. La Clinton non sembra capire che nel mondo odierno abbiamo bisogno di maggiore cooperazione, non di spavalderia senza limiti.
La Clinton ha dichiarato di credere “con tutto il mio cuore che l’America è un paese eccezionale – che noi stiamo ancora, per usare le parole di Lincoln, l’ultima, migliore speranza per la Terra.” Ma di sicuro il Presidente Lincoln faceva un discorso morale, non militare. Lincoln non intendeva che la nostra migliore e ultima speranza dovesse mandare i bombardieri NATO in Libia, la CIA in Siria, e le Forze Speciali in un numero infinito di altri paesi. Di sicuro Lincoln non avrebbe spinto la NATO ad espandersi fino ai bordi della Russia in Ucraina e Georgia, innescando così la violenta reazione della Russia e una nuova guerra fredda.
La Clinton non si rende conto di quando sia stata fallimentare come Segretario di Stato. Strombazza i suoi “successi” in questo modo:
A differenza [di Trump] ho una certa esperienza con le decisioni difficili e il duro lavoro di Stato. Ho lottato con i cinesi riguardo l’accordo sul clima a Copenaghen, ho negoziato un cessate il fuoco tra Israele e Hamas, ho negoziato la riduzione delle armi nucleari con la Russia, ho costretto il mondo a imporre sanzioni globali contro l’Iran, e ho sostenuto i diritti delle donne, delle minoranze religiose e del popolo LGBT in tutto il mondo.
Pura millanteria. Certo la Clinton “ha lottato con la Cina” per un accordo sul clima, ma non è riuscita ad ottenerlo. Certo ha “negoziato un cessate il fuoco tra Israele e Hamas”, ma anzitutto non è riuscita ad evitare la disastrosa Guerra di Gaza. Certo ha “negoziato la riduzione delle armi nucleari con la Russia”, ma ha sostenuto un approccio altamente conflittuale con la Russia, espandendo la NATO in Ucraina e Georgia e innescando una nuova corsa alle armi nucleari che costerà ai contribuenti americani più di 355 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni. Nonostante sostenga di “aver sostenuto i diritti delle donne, delle minoranze religiose” la sua avventurosa politica in Siria ha distrutto il paese, fatto scappare 10 milioni di persone, e distrutto le comunità religiose minoritarie che sostiene di difendere.
La Clinton ha dichiarato di avere un piano per sconfiggere l’ISIS, ma l’ISIS non sarebbe nemmeno esistita se non fosse stato per la politica della Clinton di “cambio di regime” in Siria. L’ISIS si è affermata in risposta alla politica USA di schierarsi con l’Arabia Saudita per rovesciare Bashar al-Assad in Siria. Questa politica errata ha creato un caos nel quale l’ISIS ha guadagnato terreno e rastrellato armi, incluse le armi USA sottratte ai jihadisti sostenuti dall’America.
Naturalmente, c’è di più. Ricordate quello che abbiamo saputo lo scorso anno dall’articolo “Come le donazioni alla Fondazione Clinton hanno portato decine di miliardi di vendite di armi ai regimi autocratici”:
Anche paragonato agli altri accordi sugli armamenti tra USA e Arabia Saudita, questo è davvero enorme. Un consorzio di società americane guidate da Boeing forniranno 29 miliardi di aerei militari avanzati all’alleato ricco di petrolio degli USA nel Medio Oriente
I funzionari israeliani si sono agitati, lamentandosi con l’amministrazione Obama che questo sostanziale rafforzamento della potenza saudita rischia di distruggere il fragile equilibrio di potere della regione. L’accordo sembra in contrasto con i timori del Dipartimento di Stato riguardo le politiche repressive della famiglia reale dell’Arabia Saudita.
Queste non sono le uniche relazioni che legano i leader delle due nazioni. Negli anni precedenti all’insediamento della Clinton come Segretario di Stato, l’Arabia Saudita ha contribuito con almeno 10 milioni di dollari alla Fondazione Clinton, una società filantropica che lei presiede con il marito, l’ex presidente Bill Clinton. Appena due mesi prima della firma dell’accordo, la Boeing – il fornitore che produce gli aerei militari che i Sauditi erano interessati ad acquistare, gli F-15 – ha contribuito con 900 mila dollari alla Fondazione Clinton, secondo un comunicato stampa della società stessa.
E ora torniamo a Sachs…
La Clinton ha ragione ad accusare Trump di essere imprevedibile, ma la Clinton è prevedibilmente pericolosa. Deve sempre dimostrare a tutti che è una dura, che l’America è dura, e quanto straordinario sia il potere dell’America. Trump non è qualificato per essere Presidente perché gli manca sia la necessaria esperienza che il buon senso. Al contrario la Clinton ha una vasta esperienza che dimostra come anche a lei manca il buon senso per essere Presidente.
Bernie Sanders, al contrario, non solo ha un programma economico nettamente migliore della Clinton, ma anche una politica estera saggia, civile e soprattutto contenuta. Di conseguenza, gli americani si fidano di più di Sanders che della Clinton. Lei vince le primarie chiuse (a chi non è registrato come elettore del Partito Democratico NdVdE) mentre lui vince quelle aperte, ossia, le primarie che includono gli elettori indipendenti che decideranno le elezioni vere e proprie di novembre.
I democratici sarebbero pazzi ad accettare la Clinton come la candidata “inevitabile”; lei rappresenta la voce della politica estera fallimentare, mentre Sanders è la voce della speranza, dei giovani e del futuro, e ha le migliori chance di battere Trump quest’autunno

venerdì 10 giugno 2016

Il capolavoro della NATO: è in Europa uno dei dieci paesi più pericolosi al mondo

L’ultimo bilancio stilato stamattina dall’amministrazione presidenziale ucraina sulle attività militari delle ultime 24 ore in Donbass non è di certo tra i peggiori nella storia del conflitto, ma è senza dubbio significativo su ciò che sta succedendo nell’est del paese. «Durante l’ultimo giorno di ostilità – ha detto in conferenza stampa il portavoce dell’operazione ATO, Andrei Lysenko – sono rimasti feriti sette soldati ucraini, mentre per fortuna non registriamo morti». Gli attacchi nell’ultima settimana sono stati pesanti, ma soprattutto reciproci. Alle accuse ucraine, i filorussi rispondono sempre con puntualità e precisione.
Nella notte tra il 7 e l’8 giugno, ad esempio, secondo quanto rivelato da una fonte dell’agenzia di sicurezza dell’autoproclamata Repubblica di Donetsk all’agenzia di stampa Donetsk, le unità delle forze armate ucraine hanno bombardato la raffineria di Dokuchaevsk, danneggiando fortemente la struttura. Il capo del villaggio di Zaytsevo, a nord di Horlivka, ha denunciato invece bombardamenti ucraini su alcune zone residenziali. «Questa notte – ha detto Irina Dikun – le forze governative hanno danneggiato undici case, sparando colpi di mortaio dalle loro posizioni nel villaggio di Zhovanka».
Che la situazione in Donbass sia peggiorata nelle ultime settimane lo conferma anche l’OSCE. «La situazione in Donbass è nettamente peggiorata», ha detto il vice presidente della missione di monitoraggio in Ucraina, Alexander Hug. «La scorsa settimana la SMM ha registrato un aumento dei casi di violazione del cessate il fuoco del
10% rispetto alla settimana precedente». La situazione più difficile sulla linea di contatto è sorta nell’area di Yasinovatskiy, dove è presente un checkpoint filorusso sulla strada tra Donetsk e Horlivka. Il ministero della Difesa ha dei separatisti di Donetsk ha dichiarato che le forze di sicurezza ucraine, in violazione agli accordi di Minsk, stanno cercando di occupare la zona cuscinetto.
Il contesto, dunque, rimane difficile. E con l’arrivo dell’estate e lo stallo nei colloqui diplomatici dei vari gruppi di contatto, le cose potrebbero addirittura peggiorare, portando a una nuova violenta escalation del conflitto, che ormai si trascina avanti da più di due anni. Conflitto che ha reso l’Ucraina uno dei paesi più pericolosi al mondo, almeno secondo lo studio pubblicato l’altro giorno dal Global Peace Index, che misura lo stato di “tranquillità” di un paese in base a 23 fattori, come la sicurezza nazionale, la situazione politica, il livello di spese militari e il rapporto con gli stati vicini.
Nel 2016 l’Ucraina è scesa al 156esimo posto su 162, risultando l’unico paese europeo nella top ten dei peggiori. Dietro l’ex repubblica sovietica si piazzano solo Siria, Sud Sudan, Iraq, Afghanistan, Somalia, Yemen e Repubblica centroafricana, mentre davanti si trovano paesi meno “pericolosi” come la Libia, il Pakistan, la Corea del Nord, la Repubblica democratica del Congo e la Turchia. Eppure nel 2013, ossia prima di Maidan e della guerra in Donbass, era appena 120esima, a trentasei posizioni da dove si trova attualmente. Il capolavoro della NATO è servito.

giovedì 9 giugno 2016

"La spending review di Monti non coinvolge gli enti locali. Va abolita". Lo dice la Corte costituzionale

La forbice della spending review tanto voluta dal governo di Mario Monti nel 2012 è incostituzionale. A dirlo la stessa Corte Costituzionale intervenuta a seguito del ricorso presentato al Tar del Lazio da due Comuni pugliesi, Lecce e Andria.
Per recuperare le risorse necessarie e guadagnare credibilità agli occhi dei mercati, il governo Monti varò la spending review, una serie di tagli alla spesa pubblica che colpirono anche gli enti territoriali. Il decreto legge sulla spending review prevedeva per l’anno 2013 la riduzione del fondo sperimentale di riequilibrio e del fondo perequativo per un ammontare complessivo di 2.250 milioni di euro.
Ora la Consulta con la sentenza n. 129/2016 depositata ieri, ha dichiarato illegittima proprio una parte del secondo decreto sui tagli alla spesa pubblica del governo Monti del luglio 2012, ossia quella in cui “non prevede, nel procedimento di determinazione delle riduzioni del Fondo sperimentale di riequilibrio da applicare a ciascun comune nell’anno 2013, alcuna forma di coinvolgimento degli enti interessati, né l’indicazione di un termine per l’adozione del decreto di natura non regolamentare del ministero dell’Interno”.

La Consulta in pratica boccia la spending review di Monti perché non ha coinvolto i Comuni. Non era stata convocata neppure la Conferenza Stato-città, quindi il provvedimento ha violato palesemente l’articolo 119 della Costituzione, che sancisce l’autonomia finanziaria di entrate e di spese di comuni, le province, le città metropolitane e regioni.
E la cosa ancor più grave, a detta dei ricorrenti e confermata anche dalla Consulta, è che lo Stato ha deciso di tagliare quelli che sono chiamati i “consumi intermedi”, una definizione generica in cui rientrano sì le spese per il funzionamento amministrativo e quindi eventuali sprechi ma anche le spese sostenute per l’erogazione di servizi ai cittadini, finendo così per sacrificare le amministrazioni comunali che erogano più servizi.

mercoledì 8 giugno 2016

Il volto oscuro della società dei consumi

Il 5 giugno di ogni anno si celebra la, quest’anno quarantaquattresima, giornata dell’ambiente proclamata nel 1972 in occasione dell’apertura della Conferenza delle Nazioni Unite di Stoccolma sul tema: “L’uomo e l’ambiente”. Quest’anno le Nazioni Unite propongono come tema la lotta al commercio illegale di specie vegetali ed animali e di loro parti come le zanne di elefante o le pelli di tigre. Un problema importante perché tale commercio è alimentato dal bracconaggio e da operazioni illegali e criminali che provocano la perdita della biodiversità da cui dipendono la stessa sopravvivenza delle specie, alla lunga della nostra stessa specie.
La giornata mondiale dell’ambiente rappresenta una occasione per leggere ancora una volta, tutte insieme, le forme in cui l’ambiente viene modificato, le cause delle modificazioni, i danni umani e anche gli effetti economici che le violenze all’ambiente provocano.
La prima cosa che viene in mente riguarda le modificazioni climatiche i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti, anche in questi giorni di fine primavera; da Parigi a Bari, da Milano alle campagne tedesche e romene. Piogge improvvise cadono su città di asfalto e su campi supersfruttati e l’acqua non trova più le sue strade naturali di scorrimento e dilaga nelle cantine, esplode dalle fognature, distrugge coltivazioni agricole pregiate. Ormai, con buona pace dei negazionisti, non c’è più dubbio che tali violenze climatiche derivano dalla continua, crescente modificazione della composizione chimica dell’atmosfera, la quale, a sua volta è dovuta non a punizioni divine, ma ad azioni lecite e anzi lodevoli: all’uso dei combustibili con cui oltre un miliardo di autoveicoli sulle strade del mondo trasportano persone e merci e tengono in moto l’economia, con cui le fabbriche producono cose utili e benefiche come acciaio per la costruzione delle abitazioni, dai lussuosi grattacieli del Golfo Persico, alle periferie che continuamente si espandono per ospitare miliardi di persone, in Cina come a Milano, in Africa come in California.
I gas che modificano il clima vengono dall’agricoltura che assicura il cibo che “consumiamo” ogni giorno, dai campi coltivati con concimi e trattori, agli allevamenti del bestiame che fanno arrivare proteine pregiate sulle mense del mondo.
Se ci spostiamo dalle modificazioni climatiche agli incendi che devastano tante zone della Terra, dai boschi che circondano le ville dei divi in California, a Pantelleria, alle grandi foreste brasiliane, indonesiane, africane, si vede che tali incendi lasciano il suolo nudo ed esposto all’erosione da parte delle piogge. Incendi e distruzioni forestali che spesso sono intenzionali per lasciare spazio a speculazioni edilizie o a nuove coltivazioni o a miniere da cui estrarre preziosi minerali, operazioni che spesso rispondono alla richiesta di “cose buone”. La estensione delle coltivazioni di palme nel sud-est asiatico permette di soddisfare la domanda dell’olio di palma che entra in molti alimenti e del biodiesel, quel surrogato ”ecologico” del carburante diesel ricavato dal petrolio. Oppure i nuovi spazi, “liberati” dalle foreste, consentono di ottenere lo zucchero da trasformare in alcol usato come carburante “ecologico” al posto della benzina, o di estrarre due miliardi e mezzo di tonnellate all’anno di minerale di ferro che sarà poi trasformato in un miliardo e mezzo di tonnellate di ferro e acciaio, che sono cose buone e utili.
Tutte le cose buone e i “servizi” come la conoscenza, le telecomunicazioni, la difesa della salute, la possibilità di muoversi, richiedono dei beni materiali che vengono tratti dalla Terra, modificandola, e inevitabilmente comportano la restituzione alla Terra delle acque usate, addizionate di sostanze nocive per la vita, di gas, di scorie solide, un flusso di circa 250 miliardi di tonnellate all’anno di materie, corrispondenti ad un “peso” di circa 35 tonnellate all’anno per ogni persona che abita la Terra (500 volte il peso del corpo). Inutile dire che questo numero, oltre ad essere una grossolana approssimazione, è un valore medio; molti abitanti della Terra si appropriano delle sue ricchezze molto di più e molti altri se ne appropriano in quantità molto minore.
L’”ambiente” che le Nazioni Unite e i governi del mondo intendono difendere viene, insomma, continuamente attraversato da un flusso di materiali che trasformano la biosfera, che è cosa buona, in tecnosfera, il mondo degli oggetti capaci di soddisfare la richiesta dei “consumi” umani, che sono cose buone, come ci ripetono ogni giorno i governanti. Consumi che anzi dovrebbero aumentare per tenere vivace l’economia mondiale, ma la cui produzione e uso modificano inevitabilmente e negativamente proprio quello stesso ”ambiente” che diciamo di voler invece difendere.
Con strani effetti finanziari; l’aumento dei consumi fa aumentare la massa di denaro in circolazione e i danni ambientali, la distruzione del suolo, le alluvioni, gli inquinamenti, fanno aumentare la massa di denaro in circolazione per risarcire gli alluvionati, per costruire impianti di depurazione o pannelli solari o automobili elettriche e così via. La Terra ci rimette sempre e i soldi crescono sempre.
Le precedenti brevi considerazioni non hanno alcun fine moralistico né raccomandano necessariamente comportamenti di austerità merceologica, anche se una critica dei “consumi” figura in maniera quasi ossessiva perfino nell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco; sono semplicemente avvertimenti degli effetti che l’attuale comportamento merceologico determina sulla Terra e sul suo ambiente. Tanto per saperlo.

martedì 7 giugno 2016

SACCHEGGIO DELLO STATO GRECO: LA COMMISSIONE EUROPEA PRETENDE L’IMMUNITÀ PER GLI ESECUTORI

La Commissione Europea si è direttamente intromessa nel funzionamento della magistratura greca, chiedendo che i tecnocrati UE che lavorano per il Fondo per la Privatizzazione Greca abbiano l’”immunità”. La Commissione Europea è intervenuta due giorni dopo che i magistrati anticorruzione di Atene hanno sollevato accuse nei confronti di 3 greci e 3 cittadini UE appartenenti all’HRADF (Hellenic Republic Asset Development Fund ndVdE) per una vendita di asset pubblici che ha provocato una perdita di parecchi milioni di euro ai danni dello Stato.
Venerdì, il protavoce UE Margaritis Schinas ha dichiarato ai giornalisti a Bruxelles che gli esperti UE che lavorano in Grecia per il “programma greco”, dovrebbero essere coperti da una forma di “garanzia”.
“Secondo noi, a tutti gli esperti UE che aiutano la Grecia a migliorare la sua economia e a ritornare alla crescita (coi bellissimi risultati che abbiamo visto ndVdE) dovrebbero vedersi garantiti ampi margini di manovra.” Ha dichiarato Schinas. Contemporaneamente, ha sottolineato che “abbiamo pieno rispetto delle procedure giudiziarie” in corso contro 6 membri del vecchio Fondo di Privatizzazione. Ma il suo intervento non è stato chiaro.
Schinas non si è soffermato sulla richiesta dell’Eurogruppo di un’immunità per i tecnocrati che lavoreranno al nuovo Fondo di Privatizzazione Greco.
L’intervento della Commissione è avvenuto subito dopo che i magistrati dell’accusa hanno accusato 6 membri dell’HRADF per la vendita di 28 asset pubblici. Tre membri sono greci, gli altri tre vengono dall’Italia, la Spagna e la Repubblica Slovacca, nominati dall’Eurogruppo. Le accuse si riferiscono al periodo 2013-2014 e sono stati convocati per testimoniare di fronte al magistrato anti corruzione Costas Sargiotis.
Sono sospettati di “reato di slealtà” e di “utilizzo improprio” delle 28 proprietà statali.
Secondo l’agenzia di stampa AthensNewsAgency, un funzionario UE ha spiegato che Bruxelles teme che se non viene garantita questa immunità, nessun membro delle istituzioni europee vorrà essere assegnato al lavoro da svolgere in Grecia e questo metterebbe a rischio il successo del nuovo Fondo di Privatizzazione.
(Che sarebbe come dire che il boia si rifiuta obbedire agli ordini, se non ha la garanzia di non essere poi accusato di omicidio… NdVdE).
Pertanto l’Eurogruppo ha chiesto al Governo Greco di cambiare opportunamente le leggi, in modo che simili accuse non possano ripetersi in futuro, ha dichiarato il funzionario.
I sei membri e il HRADF: vendere gli asset per poi prenderli in affitto
Le accuse nei confronti dei sei membri dell’HRADF riguardano la vendita e riaffitto di 28 proprietà statali.
Secondo l’accusa, lo Stato Greco ha sofferto perdite per 575 milioni di euro.
Il caso riguarda due aste vinte da due società private. Le aste valevano 2 miliardi e 611 milioni di euro complessivi. I relativi contratti sono stati firmati nel maggio 2014, con lo Stato Greco che si impegnava a riaffittare le proprietà per 20 anni per soddisfare le esigenze di spazi dei servizi pubblici. Il costo di affitto per lo stato greco era di 25,6 milioni di euro per il solo primo anno. Lo Stato è obbligato a pagare anche per gli edifici rimasti vuoti o parzialmente vuoti, perdendoci 6,6 milioni di euro.
Esempi tipici sono l’edificio Keranis e l’edificio del Ministero della Salute.
L’accusa sottolinea anche che in alcuni casi, il “congruo valore della proprietà” è stato sottostimato, riducendo così la somma che lo Stato ha ricevuto e che “il valore della terra non è stato preso in considerazione, così come altri fattori del mercato immobiliare”. (fonti: euro2day.gr, huffingtonpost.gr).
AGGIORNAMENTO: dopo la testimonianza resa ai magistrati, i sei sono stati rilasciati. Hanno respinto le accuse, sostenendo che il loro compito era soltanto di dare una consulenza ma il loro parere non era vincolante per il consiglio dell’HRADF che doveva prendere la decisione finale.
Uno degli accusati è il presidente spagnolo dell’agenzia delle proprietà immobiliari del Governo Spagnolo, un altro è la sua controparte italiana e l’ultimo il presidente della Borsa slovacca. Tutti e tre hanno partecipato al Consiglio degli Esperti che ha raccomandato la vendita degli asset pubblici al consiglio dell’HTADF.
Le proprietà in questione sono: 5 edifici del Ministero della Cultura, dell’Interno, della Giustizia, della Salute e Istruzione, 13 uffici dell’agenzia esattoriale e 5 edifici della Polizia greca. (ProtoThema)
L’assurdità del programma Vendi e Ri-Affitta per gli edifici statali nel contesto del programma di privatizzazioni era già stata discussa quando l’accordo del HRADF era stato siglato e una parte di esso era trapelato alla stampa. Gli scandalosi dettagli dell’accordo sono tornati recentemente alla ribalta, quando è venuto fuori che lo Stato pagava 220 mila euro al mese per un edificio vuoto.
Vediamo un po’: qual era esattamente lo scopo del programma HRADF di Privatizzare e Ri-Affittare le proprietà pubbliche? Che lo Stato greco vendesse gli immobili, ricevesse un ammontare X di denaro per ripagare i creditori, e riaffittasse le proprietà vendute pagando una somma XX ai nuovi proprietari?
Alla fine dei giochi, la Commissione Europea dirà alla Grecia che l’”immunità per i tecnocrati UE” è una selle “azioni prioritarie” che il paese deve intraprendere nei confronti dei creditori per poter ricevere la prossima tranche di “aiuti”…
Ma forse il signor Schinas ha ragione! Che ingrati questi greci che non apprezzano il lavoro degli esperti europei presso il Fondo per la Privatizzazione, specialmente dal momento che quest’ultimo aiuta la Grecia a migliorare la propria economia e a ritrovare il sentiero della crescita.
PS e ora tutti al supermercato ad accaparrarsi un po’ di crescita, con la nuova IVA al 24%.

lunedì 6 giugno 2016

DOPO AVER IMPOVERITO MILIONI DI PERSONE, IL FMI AMMETTE CHE IL NEOLIBERISMO È UN FALLIMENTO

La scorsa settimana da un dipartimento di ricerca del Fondo Monetario Internazionale è uscito un rapporto che ammette che il neoliberismo è stato un fallimento. Lo studio, intitolato “Neoliberalism: Oversold?” (Neoliberismo: sopravvalutato?), è, auspicabilmente, un segnale della morte dell’ideologia. Sono solo in ritardo di circa 40 anni. Naomi Klein sul rapporto ha twittato “Allora tutti i miliardari che sono stati creati stanno per restituire i soldi, vero?”
Molte delle scoperte del rapporto che colpiscono il cuore dell’ideologia sono l’eco di quello che i critici e le vittime del neoliberismo dicono da decenni.
“Invece di creare crescita,” il rapporto spiega che le politiche neoliberiste di austerità e di bassa regolamentazione dei movimenti di capitale hanno di fatto “incrementato la diseguaglianza”. Questa diseguaglianza “potrebbe essa stessa recidere alla base la crescita…” Di conseguenza il rapporto afferma che “i politici dovrebbero essere più aperti alla redistribuzione di quello che sono”.
Tuttavia, il rapporto lascia fuori alcuni elementi degni di nota sulla storia e l’impatto del neoliberismo.
Il FMI suggerisce che il neoliberismo è stato un fallimento. Ma ha funzionato molto bene per l’1% globale, il che è sempre stato l’intento del FMI e della Banca Mondiale. Come ha riportato Oxfam all’inizio di quest’anno l’1% più ricco del pianeta adesso detiene più ricchezza di tutto il resto della popolazione mondiale. (Analogamente la giornalista investigativa Dawn Paley ha provato nel suo libro Drug War Capitalism che, lontano dall’essere un fallimento, la Guerra alla Droga è stata un grande successo per Washington e le multinazionali).
Il rapporto del FMI cita il Cile come un caso di studio per il neoliberismo, ma non menziona nemmeno una volta che quella visione economica è stata applicata attraverso la dittatura di Augusto Pinochet sostenuta dagli USA – una omissione rilevante che non è una svista casuale da parte dei ricercatori. In tutta l’America Latina, il neoliberismo e il regime del terrore in genere sono andati di pari passo.
Il coraggioso giornalista argentino Rodolfo Walsh, nel 1977, nella Lettera Aperta alla Giunta Militare Argentina, denunciò l’oppressione di quel regime, una dittatura che aveva organizzato l’uccisione e la scomparsa di 30.000 persone.
“Questi fatti, [Walsh aveva scritto delle torture e degli omicidi] che scuotono la coscienza del mondo civile, non sono però quelli che hanno arrecato le maggiori sofferenze al popolo argentino né sono le peggiori violazioni dei diritti umani in cui voi incorrete. Nella politica economica di codesto governo si deve ricercare non solo la spiegazione dei vostri crimini, ma una maggiore atrocità, la condanna di milioni di esseri umani alla miseria pianificata (…) Basta camminare per qualche ora nel Gran Buenos Aires per verificare la rapidità con la quale una simile politica l’ha trasformata in una città-miseria di dieci milioni di abitanti.”
Questa “miseria pianificata”, come dimostra vividamente Shock Economy di Naomi Klein, è stata l’agenda neoliberista che il FMI ha imposto per decenni.
Il giorno dopo aver spedito la “Lettera alla Giunta Militare”, Walsh fu catturato dal regime, ucciso, bruciato e gettato nel fiume, una tra le milioni di vittime del neoliberismo.

domenica 5 giugno 2016

La Turchia e l’ipocrisia dell’Occidente

Considerando la copertura (diplomatica, mediatica e internazionale) che gli accordi presi con l’Unione europea hanno generato in favore di Ankara, Erdogan si starà fregando le mani soddisfatto ogni giorno da quando la Merkel – presentatasi alla corte del Sultano – si è genuflessa tendendo in avanti le mani che stringevano i 3 miliardi di euro, una, e l’accordo da firmare, l’altra. Ecco perché viene spontaneo pensare che la risoluzione votata ieri dalla Bundestag (la camera bassa del Parlamento tedesco) faccia parte di un teatrino che potrebbe permettere alla Cancelliera Merkel di uscire leggermente più pulita dopo gli accordi, sporchi, stretti con il dispotico Erdogan. Il presidente della Turchia non appena appresa la notizia del voto sul genocidio armeno ha alzato la voce intimando, con toni gravi, il rientro dell’ambasciatore turco d’istanza a Berlino.
Sarebbe però ingenuo credere che il leader turco abbia l’intenzione di rovinare i rapporti con la Germania per un semplice voto che non ha nessuna valenza pratica. Perché? Perché se non fosse stato per gli accordi presi con l’Ue (e quindi, di fatto, con Berlino) il “Sultano” non sarebbe mai riuscito a rivoltare come un calzino il suo paese, cosa che ha fatto e continua a fare forte della copertura internazionale che gli accordi gli hanno garantito. Firmati questi ultimi infatti, Erdogan, che prima aveva più di qualche riserbo nel mascherare gli atti totalitaristici del proprio governo, ha avuto la strada spianata e non si è più dovuto preoccupare di nascondere il suo operato. E come tutti i sistemi totalitari (in ascesa) che si rispettino prima tra tutti ha attaccato la stampa, ovverò la libertà di parola, di espressione. Sono stati ordinati e compiuti veri e propri blitz negli studi televisivi e nelle redazioni dei giornali nazionali accusati di essere anti-governativi. Il copione sempre lo stesso, confermato dalle immagini video facilmente rintracciabili su internet: le forze armate entravano nelle redazioni armate fino ai denti, combattevano con il popolo che cercava di fermarle e arrestavano giornalisti e manifestanti, senza certo preoccuparsi di non trascendere nella bestialità, come possono testimoniare le immagini divulgate dai cittadini improvvisatisi reporter.
Successivamente, in seguito alle manifestazioni e alle rivolte dei cittadini turchi che sono scesi in piazza per criticare il governo e le restrizioni delle libertà dell’individuo, Erdogan ha cominciato, spietatamente, a schiacciare il suo stesso popolo. Le rivolte sono state e vengono soffocate nella violenza dall’esercito e dalla polizia turca, che con arresti di massa e manganello in mano provano a piegare gli spiriti dei rivoltosi. Le fiammelle della sedizione cominciavano ad accendersi negli animi del popolo e Erdogan sapeva che il suo compito era cercare di spegnerle al più presto, prima che divampasse un fuoco incontrollabile. Tra le immagini che possono riassumere il modus operandi del governo Erdogan particolarmente esemplificative sono quelle che ritraggono camion della polizia spruzzare dai propri idranti un liquido roseo: l’acqua era stata rimpiazzata da liquidi repellenti e dannosi per le persone che venivano costrette a scappare urlando con la pelle rosso fuoco irritata o bruciata, se fortunati, “solo” dal peperoncino.
In questa cornice di violenza e restrizione delle libertà, in questa situazione che sembra l’incubatrice di un mostro di cui si parlerà nella storia a venire, tra i più colpiti troviamo sicuramente la minoranza curda. Non solo l’esercito turco cercava e cerca ogni giorno di penetrare nei quartieri curdi a sud del paese attraverso l’utilizzo delle proprie milizie armate, ma ha anche impedito che la minoranza etnica partecipasse ai Colloqui di Ginevra, che invece dovrebbero avere come firmatari tutte le parti in gioco nel caso il loro obiettivo fosse quello di essere duraturi ma soprattutto concreti ed efficaci per una parvenza di stabilità in Siria. Un ulteriore passo avanti, già intrapreso prima di Erdogan da tutti i leader che nella storia hanno messo avanti prima di tutto non la nazione ma il nazionalismo, è stato mosso l’altro ieri, quando in occasione di un incontro al ventennale della Turgev, una fondazione per l’educazione giovanile che lui stesso creò quando era sindaco di Istanbul, ha dichiarato: “Per i musulmani non ci deve essere controllo sulle nascite”, incalzando, “moltiplicheremo i nostri discendenti, abbiamo bisogno di aumentare il numero dei nostri eredi.” Durante l’incontro è stato ribadito da Erdogan quale debba essere il ruolo delle donne nella società turca, ovvero “prima di tutto madri”. Nell’ultimo anno la Turchia ha speso 130 milioni di euro per sostenere la natalità. Pochi in fin dei conti: siamo sicuri che con i 3 miliardi di euro dell’Unione europea e il disinteresse mediatico internazionale il Sultano, pardon, presidente Erdogan riuscirà a raggiungere con più serenità il suo sogno ottomano, con o senza un ambasciatore turco a Berlino.