martedì 31 marzo 2015

Europa, dove sono diritto e democrazia?

In un recentissimo parere l’avvocato generale della Corte di Giustizia Europea ha sostenuto che la BCE deve astenersi dal coinvolgimento diretto nei programmi di assistenza finanziaria per i singoli Paesi. La questione, per chiarire, non riguarda la legittimità degli aiuti ma i ruoli istituzionali. Il parere è lo stesso con cui l’avvocato giudica legittimo il Quantitative Easing. Ma per quanto riguarda gli interventi di “salvataggio” il ruolo della BCE, dice, non può spingersi oltre i suoi compiti tradizionali legati alla politica monetaria e alla stabilità finanziaria. Per altro già il PE in una sua risoluzione approvata il 13 marzo 2014 sui temi della Troika aveva posto l’accento sul potenziale conflitto di interessi che emerge quando la BCE si spinge oltre ed opera come consulente tecnico. Perciò il PE aveva chiesto che alla BCE venisse conferito il ruolo di osservatore silenzioso con funzioni consultive trasparenti e chiaramente definite ma non quello di partner negoziale a pieno titolo e venisse posta fine alla prassi per cui la BCE è cofirmataria delle dichiarazioni di intenti.
Questo parere, importantissimo per ciò che comporta in materia di legittimità della Troika, è citato dalla parlamentare europea Pervenche Beres, socialista francese, nel suo progetto di relazione sulla revisione del quadro di governance economica in discussione ora al PE.
Suona dunque ben “strano” che questa ridiscussione della governance che è stata posta all’odg anche dal Consiglio Europeo sia stata affidata dallo stesso Consiglio ai “4 Presidenti” e cioè a quello del Consiglio, della Commissione, dell’Eurogruppo e della stessa BCE. Per altro da questo quartetto è escluso invece il Parlamento Europeo.
E ancora più “strano” è che si continui ad affrontare la cosiddetta “questione greca” nei soliti modi e come se nulla fosse in discussione. Invece molto, se non tutto, è in discussione e da tutti i punti di vista. Quelli politici, quelli di bilancio economico e sociale, quelli democratici e quelli di legittimità istituzionale.
La ridiscussione sulla governance, e sul suo bilancio, fu iniziata dal PE nella sua risoluzione precedente le ultime elezioni. E non era una risoluzione tenera. Né dal punto di vista del giudizio sugli effetti sociali ed economici delle politiche di austerità e dell’operato della Troika. Né dal punto di vista dei problemi democratici e di legittimità.
Ora, come dicevo, la discussione si riapre su un triplo binario. C’è quello affidato dal Consiglio Europeo ai “4 Presidenti”. C’è quello del Parlamento Europeo, aperto dal progetto di relazione della Beres ma che prevede anche altri contributi di altri rapporti. E, soprattutto, c’è il “campo di battaglia” aperto dalla spinta riformatrice greca che qualcuno vorrebbe strangolare sul nascere.
Chi, come me, pensa che non siamo di fronte ad una questione Grecia ma ad una questione Europa deve fare di tutto perché ciò si manifesti con chiarezza e determini conseguenze politiche. Un ruolo importantissimo in tal senso lo ha il PE e al suo interno anche quei settori, dello stesso Partito Socialista, che si dicono critici dell’attuale stato di cose. La risoluzione approvata a marzo, come dicevo, è piena di critiche radicali che sembravano quasi far pensare che il PE si fosse accorto solo allora di quale mostruosità era stata costruita con la Troika. Sostenuta, purtroppo, da tutto il pacchetto di norme edificate, dal six pack, al two pack, al fiscal compact. Ma la risoluzione trovò una maggioranza e dovrebbe contare e pesare sui fatti.
La reazione della Beres riprende anche essa molti spunti importanti come il già citato parere dell’avvocato della Corte di Giustizia. Ma propone una ridiscussione su altri punti d’insieme ed anche di specifico assai rilevante. Come ad esempio la sostenibilità della previsione di rientro di un ventesimo annuo dal debito prevista dal fiscal compact. Ma poi ridiscute l’insieme delle scelte economiche sociali dicendo che va visto il quadro complessivo, a partire dalle previsioni di crescita e dell’effetto su di esse delle misure operate e dalle conseguenze sociali, in particolare occupazionali, delle stesse. Ma va visto anche quello di relazione sistemica rispetto alle politiche di armonizzazioni. E poi ci sono i problemi giuridici e di legittimità democratica e di trasparenza. Ad esempio per varare gran parte del pacchetto di governance si è usato il metodo intergovernativo e non quello comunitario. Democrazia e trasparenza sono in grave sofferenza. A questo proposito ho ritrovato una sentenza della Corte di Giustizia che, in questo caso, invece difende la non accessibilità ai giornalisti di materiali della BCE!
Anche lo scritto di apertura della riflessione dei 4 Presidenti, sostanzialmente attribuibile a Juncker, dopo un primo punto sullo status quo fa un secondo punto più mosso e a domande. Sostanzialmente tre. Sul quadro economico e sociale due sono molto interessanti e riguardano le politiche verso i differenziali occupazionali e quelli delle bilance commerciali. Cioè il cuore vero dei problemi. L’attuale assetto mercantilistico europeo si muove in direzione opposta infatti alle esigenze di armonizzazione e crea squilibri strutturali sistemici irrecuperabili se si permane in questo quadro. Eppure nel Trattato è previsto di intervenire rispetto agli eccessi esportativi ma su questo oltre a blandi richiami non si è andati ad esempio nei confronti della Germania. E l’armonizzazione occupazionale non è stata certo prodotta dalle politiche di “liberalizzazione” del lavoro che hanno invece acuito i differenziali quantitativi e qualitativi.
C’è poi una terza domanda che viene posta ed è quella della democratizzazione del’area Euro. Ad essa si ha la tentazione di rispondere con la creazione di una nuova struttura, un Parlamento, magari di secondo livello, per quell’area. Questa tentazione mi pare sbagliata. Essa sarebbe al più una foglia di fico rispetto al permanere di vecchie strutture e di vecchie politiche e ridurrebbe l’attuale UE a poco più di un’area di libero scambio. Il tema vero è quello di una vera democrazia europea. La quale prevede innanzitutto che ci sia possibilità di scelta. E dunque di smantellare tutto ciò che ha teso a rendere irreversibili le attuali politiche liberiste e di dominio del capitale finanziario globale. E poi edifichi il quadro di una vera democrazia europea. Con un PE che abbia poteri legislativi diretti e di indirizzi di politica economica. Una Commissione che sia un governo eletto. Una politica fiscale, economica e sociale proprie. Una BCE di cui vengano riviste in profondità statuto e finalità.
Primi importanti passi avanti in questa direzione vanno fatti subito. Sciogliendo la Troika. Dando nuovi poteri al PE sulla politica economica. Democratizzando gli organi di governo. Riformando la BCE. Ponendo fine alla austerità e mettendo in campo una politica di nuova economia e di armonizzazione. La discussione aperta in sede istituzionale deve essere resa pubblica e partecipata. Non possiamo assistere solo alla “battaglia di Grecia” ma dobbiamo allargare il campo. La sciaguratezza delle attuali classi dirigenti è tale da far finta di non capire che una sconfitta del nuovo corso greco si trasformerebbe in un disastro per la speranza europea trasformata in incubo. Tutti dobbiamo fare la nostra parte invece per un’altra Europa. Il tempo è adesso.

lunedì 30 marzo 2015

Il problema della scuola sono i tre mesi di vacanze?

Dice il ministro del Lavoro Giuliano Poletti: “Un mese di vacanza va bene. Ma non c’è un obbligo di farne tre. Magari uno potrebbe essere passato a fare formazione. I miei figli d’estate sono sempre andati al magazzino della frutta a spostare le casse. Sono venuti su normali, non sono speciali”. Non è una boutade, ma è un’idea molto precisa del rapporto tra scuola e lavoro quella lanciata dal ministro emiliano. La risposta di Massimo Cacciari sulle pagine de Il Fatto.
“Tre mesi di vacanze per gli studenti sono troppi? Perché? Secondo quale ragionamento? Bisognerebbe vedere come vengono impiegati, tanto per cominciare. E poi bisognerebbe distinguere tra i diversi ordini di studi. Comunque mi pare un’idea trogloditica.
Mi chiedo se siano questi i problemi urgenti della scuola o dell’insegnamento. Non mi pare proprio. È una “questioncella”. Non ha nulla a che fare con la sostanza dei fatti. L’ennesimo slogan gettato in pasto all’opinione pubblica, tanto per vedere l’effetto che fa; un esercizio periodico. Ma poi, cosa c’entra Poletti con le vacanze degli studenti?
I giovani fanno una fatica enorme a trovare un’occupazione anche dopo aver terminato gli studi… Il motivo secondo Poletti è che non fanno “formazione”? Se avessero lavorato durante il liceo e le medie, dopo sarebbe più facile trovare lavoro? Ma cosa dicono questi qui… Parlano per dare aria ai denti.
Le vacanze possono essere anche il periodo più formativo della vita di un ragazzo. Per me è stato così. I viaggi in Grecia e in Turchia, coi libri alla mano, mi hanno fatto imparare tantissimo. In effetti, le vacanze mi hanno formato diecimila volte più di due anni scolastici. Ma questi qui chiacchierano, chiacchierano e basta. La chiacchiera universale sta travolgendo tutto e tutti.
C’è l’idea trogloditica che la produttività di una persona si misuri sul tempo di lavoro. Ce l’aveva anche Brunetta, quest’idea, quando se la prendeva con i dipendenti pubblici perché non timbravano. In un’epoca in cui, grazie allo sviluppo tecnologico, il 90 per cento del lavoro potrebbe essere utilmente svolto a casa, questi arcaici predicatori vanno in giro a dire che bisogna stare più tempo a scuola o in ufficio. Come se studiare o lavorare un mese in più facesse la differenza. Un ragionamento talmente comico che non ci si crede. Sembra che siano fermi a prima dell’invenzione del telefono, questi signori. Il ragionamento di Poletti nella migliore delle ipotesi è offensivo. Se lo prendessimo sul serio, l’impostazione del suo discorso sarebbe da puri reazionari. Se fosse solo una battuta, invece, sarebbe offensiva nei confronti dei giovani italiani. Il 40, 50 per cento di loro è disoccupato, o lavora a condizioni tremende. E ora si sentono pure dire da un ministro che devono fare chissà cosa durante il percorso di studio per riuscire trovare un’occupazione. Poi escono dalle scuole e dalle università e c’è il deserto.”

domenica 29 marzo 2015

Taylorismo digitale, finta creatività e schiavitù informatica

Com’è noto, l’organizzazione scientifica del lavoro teorizzata da Taylor consisteva in una serie di pratiche di quantificazione/misurazione di ogni gesto lavorativo – pratiche che servivano a definire (e successivamente imporre) il “modo migliore” (cioè più veloce, efficiente e produttivo di valore per l’impresa) di effettuare una determinata mansione. Negli ultimi anni è prevalsa la convinzione che lo spirito del taylorismo sia tramontato assieme alla fabbrica fordista, sostituito da un modo di produrre che – grazie alle tecnologie di rete – si fonda sulla creatività e sull’autonoma capacità di cooperare dei lavoratori autonomi. Questa visione ottimista è andata in crisi a mano a mano che ci si è resi conto del fatto che le tecnologie digitali – in particolare gli algoritmi del software – incorporano una serie di regole, procedure e schemi cognitivi che sono in grado di controllare/disciplinare i comportamenti del lavoro “creativo” (più o meno “autonomo”) in misura non inferiore a quella in cui la catena di montaggio subordinava il lavoro dell’operaio fordista.
Si è così iniziato a parlare di “taylorismo digitale”, ma questa metafora, al pari di quella – cara ai teorici post-operaisti – che parla di “vita messa al lavoro”, appare insufficiente a descrivere il salto qualitativo che il capitalismo si appresta a compiere a Kevin Kelly, guru della net economymano a mano che il mezzo di lavoro computer viene sostituito dagli smartphone e altre tecnologie “indossabili” (ma soprattutto dalle “app” che animano questi dispositivi). Per rendersene conto basta seguire il dibattito americano sul concetto di “Quantified Self” (letteralmente: sé quantificato, o misurato). Il termine è stato coniato da Gary Wolf e Kevin Kelly, noto apologeta della “rivoluzione” digitale fin dalla metà dei ’90. Riferendosi alla capacità dei dispositivi in questione di raccogliere dati su salute, performance fisiche e mentali e gestualità (oltre che sull’ambiente ad essi circostante) di coloro che li indossano, i due parlano della chance di attivare una sorta di autoanalisi della vita quotidiana per “migliorarsi” e aiutare gli altri (visto che i dati possono, anzi devono, essere condivisi) a fare lo stesso.
Mikey Siegel, un ex ingegnere della Nasa laureatosi al Mit, è il guru di una versione New Age di questo “movimento”. Tenere traccia dei propri passi, consumo di calorie, sonno, numero di volte in cui si controllano le mail, sostiene Siegel, è un potente strumento per ottenere un allargamento della coscienza, un’attenzione focalizzata sul proprio sé complementare a quella che si può raggiungere attraverso la meditazione. Così, conclude, anche noi occidentali capiremo che le cause delle nostre sofferenze, paure, angosce, stanno nella psiche e non nel mondo che ci circonda (cioè in bazzecole come miseria, disuguaglianze, sfruttamento, violenza, oppressione dell’uomo sull’uomo). Se poi nemmeno così riusciremo a superare il disagio provocato Smartphonedall’eccesso di alternative che una realtà iperconsumistica ci offre, rendendoci incapaci di scegliere, ecco venirci in soccorso un’altra generazione di nuove “app”, capaci di trovare sempre la soluzione migliore per noi.
Per farla breve: qui siamo ben oltre il taylorismo digitale, andiamo verso uno scenario in cui si tenterà di garantire pace sociale, massimizzazione produttiva, autocontrollo e autodisciplina attraverso la disponibilità dei singoli soggetti di “godere” della consulenza operativa, psicologica e morale dei propri gadget e degli “spiritelli” che li abitano. Uno scenario in cui il capitale non si limiterebbe ad appropriarsi a posteriori della libera e spontanea creatività del lavoro cognitivo, ma ne spegnerebbe a priori ogni reale margine di autonomia (Marx avrebbe parlato di transizione dalla Formentisubordinazione formale alla subordinazione sostanziale del lavoro al capitale).
Ma gli algoritmi non servono solo a disciplinare/controllare la vita messa al lavoro: sono al centro delle strategie di repressione delle “classi pericolose” escluse o confinate ai margini del processo produttivo. Come racconta Massimo Gaggi in un articolo (“L’algoritmo che anticipa in crimini?”) apparso sul “Corriere della Sera” dell’8 marzo, le polizie di 58 città americane pattugliano ormai solo le sezioni di territorio che il software della società Predictive Policing (un marchio sinistramente evocativo del racconto “Minority Report” di Philip Dick, che descrive un regime totalitario in cui i criminali vengono arrestati “prima” che possano delinquere) seleziona come quelle statisticamente più esposte a ospitare reati. E indovinate chi merita di finire sotto lo sguardo di questo Panopticon digitale? Neri e Latinos.

venerdì 27 marzo 2015

La crisi del benessere

Il sistema economico non produce tutta la felicità e il benessere che vorremmo. L’Italia ha fatto importanti passi avanti in questa direzione costruendo con un processo partecipato dal basso il sistema di indicatori del Bes. Ma il problema non è solo quello di costruire statistiche quanto quello di utilizzarle nelle scelte politico-economiche
Il sistema economico non produce tutta la felicità e il benessere che vorremmo e appare particolarmente “inefficiente” da questo punto di vista (basta pensare agli enormi problemi distributivi, ambientali, finanziari e di senso di vita esistenti nelle nostre società). Il problema di fondo per cui questo avviene è che la scala gerarchica dei portatori d’interesse implicita nelle logiche economiche (prima gli azionisti, poi i clienti, per ultimi i lavoratori) è l’opposto di quella ottimale per la nostra felicità (dove la nostra sorte come lavoratori viene prima di quella come consumatori e come azionisti). La radice di questi problemi sta in una concezione “misera” di individuo, impresa e valore che espelle i valori dalla vita economica. Sul valore e sugli indicatori il riduzionismo sta nel considerare il PIl e la sua crescita come sintesi della nostra felicità. Ma la ricchezza delle nazioni non è il PIL ma lo stock dei beni spirituali, culturali, ambientali, relazionali ed economici di cui una comunità inserita su un territorio può godere.
Poiché “siamo ciò che misuriamo” e gli indicatori statistici assunti acriticamente sono come stelle polari che indicano la rotta ai governi, se vogliamo progredire in benessere e felicità dobbiamo riportare i valori nell’economia e nel modo in cui misuriamo la sua performance.
L’Italia ha fatto importanti passi avanti in questa direzione costruendo con un processo partecipato dal basso il sistema di indicatori del BES (benessere equo e sostenibile). Le parti sociali hanno identificato 12 ambiti fondamentali per il benessere (salute, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, ricerca e innovazione, qualità dei servizi) sui quali commissioni di esperti hanno prodotto un insieme di 134 indicatori statistici. I primi rapporti BES prodotti dall’Istat hanno cominciato ad offrire fotografie non banali del nostro paese “oltre il PIL”. Indicando i progressi costanti sul piano della salute (pur tra diseguaglianze e divari che raggiungono i 3 anni di vita tra il Trentino e la Campania), gli arretramenti sulla sicurezza effettiva e percepita, la crescita rallentata dell’istruzione in questi anni di recessione e il crollo della soddisfazione di vita soggettiva nei picchi della crisi finanziaria. Tra i dati più interessanti la dicotomia statistica tra delitti contro la persona (ai minimi secolari) e delitti contro il patrimonio (aumentati del 40% negli ultimi anni) anche se il bombardamento mediatico sui grandi omicidi produce nell’opinione pubblica percezioni diverse. Un altro dato che impressiona è il crollo della quota di persone che si dichiara molto soddisfatto della propria vita. Questa quota di popolazione si riduce del 20% a fine 1992, all’apice della crisi dello spread. Documentando che la percezione di perdita di benessere economico incide significativamente sulla soddisfazione di vita. Nonostante l’arretramento del reddito pro capite sia della metà di quello del PIl e la ricchezza netta degli italiani tenga sostanzialmente aiutata dall’aumento del valore reale della ricchezza finanziaria prodotto dalla deflazione. Nel complesso la miscela di dati oggettivi e di percezioni soggettive dimostra come le seconde siano molto importanti e non sempre coerentemente legate con i primi.
Ma il problema non è solo quello di costruire statistiche quanto quello di utilizzarle nelle scelte politico-economiche. Se un primo importante vantaggio del BES è il fatto di non esser nato nello studio di qualche pur illuminato esperto ma attraverso una costruzione che ha coinvolto gli attori più importanti del paese, il secondo vantaggio dipenderà dall’effettiva adozione dei suoi indicatori come criteri per valutare la performance di attori privati e pubblici.
A che serve varare progetti che fanno registrare un aumento nella statistica dei beni e servizi fatturati prodotti internamente nel paese se tali progetti hanno effetti negativi su salute, sostenibilità ambientale, distribuzione del reddito, qualità della nostra vita di relazioni ? Il PIL è incapace di misurare persino il mero benessere economico. Joseph Stiglitz ha recentemente sottolineato come dietro la sua crescita negli Stati Uniti negli ultimi anni il reddito reale mediano sia praticamente fermo ai valori di vent’anni fa. Un po’ come se nella famosa storia dei polli di Trilussa le “magnifiche sorti progressive” ci portassero dalla media di un pollo a quella di due polli: chi ne aveva due, ora ne ha quattro mentre il meno fortunato è sempre fermo a zero. Al politico che guarda solo il PIl e non capisce perché il suo gradimento presso gli elettori non cresce bisognerebbe ricordare che dovrebbe utilizzare il BES e non il PIL per superare l’obiezione di Trilussa.

giovedì 26 marzo 2015

"Siamo i primi in area Ocse per quanto riguarda la corruzione"

In Italia la corruzione percepita e' pari a quasi il 90%, il dato piu' elevato di tutta l'area Ocse. E' quanto emerge dal rapporto 'Curbing Corruption' dell'organizzazione di Parigi, che cita dati di Gallup.
Mettendo in relazione la corruzione percepita con la fiducia nel governo, emerge inoltre che il dato italiano non solo e' il piu' alto di tutti ma supera anche quello di paesi, come la Grecia, la Slovenia e la Spagna, dove la fiducia nell'esecutivo e' piu' bassa (intorno al 20% contro il 35% circa dell'Italia).
Dall'altro lato della classifica troviamo invece la Svezia, con una corruzione percepita di poco superiore al 10%. L'Italia, emerge dal rapporto, e' inoltre il terzo paese Ocse con il maggior numero di persone che ritiene l'esecutivo portatore di interessi di pochi, opinione del 70% degli intervistati secondo i dati del Global Corruption Barometer di Transparency International. Una maggiore sfiducia si registra solo in Israele e in Grecia (quasi l'85%).
Nel momento in cui sono necessari maggiori investimenti in infrastrutture a livello globale e mentre "i confini tra pubblico e privato diventano sempre meno chiari", sottolinea l'Ocse, "l'importanza di frenare la corruzone negli investimenti infrastrutturali non fara' che crescere". Inoltre, prosegue l'organizzazione di Parigi, "i governi devono assicurare un clima stabile per gli investimenti cosi' da attrarre capitali privati".
Piu' in generale, si legge nel rapporto, "con una posta politica in ballo cosi' elevata, mantenere gli investimenti puliti dovrebbe essere una delle massime priorita' dei governi quanto delle aziende" in quanto "la corruzione ha effetti negativi sugli investimenti pubblici" e "scoraggia gli investimenti privati" oltre ad avere, come ovvio, effetti negativi nella fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni.

martedì 24 marzo 2015

La sola utilita' delle Grandi opere: favorire la corruzione

Da Orte-Mestre a Expo: i progetti che non hanno mai sentito la crisi, finanziati da tutti i governi
L’ arma retorica è sempre la stessa, il “partito del no” come male assoluto. Meno di un mese fa Raffaella Paita, candidata Pd alla Regione Liguria, l’ha sfoderata per difendere il Terzo Valico, una ferrovia inutile che da 35 anni fa sognare il partito del cemento. “Quando una forza di sinistra dice no al Terzo Valico fa una cosa di destra”. Errore blu. Nessuno a destra dice no al Terzo valico. A meno che non si sostenga che la Procura di Firenze abbia fatto una cosa di destra arrestando il capo del “partito del sì”, Ercole Incalza.
In attesa del vaglio giudiziario sulla sua presunta corruzione, sotto processo insieme alle persone fisiche ci sono proprio le grandi opere. Non perché in esse si può essere annidato il ma- laffare, ma proprio perché è il malaffare – stando ai primi risultati dell’inchiesta fiorentina – a farle decidere e progettare. E soprattutto a farle piacere ai politici, di destra, centro e sinistra: quando c’è da far colare cemento dissanguando le casse dello Stato vanno sempre d’accordo. I pm di Firenze indicano gli scempi con nomi e cifre. Dei progetti indagati ce ne sono quattro fondamentali.
I LAVORI PER L’EXPO di Milano, un paio di miliardi già spesi, rappresentano plasticamente il primo cancro dei lavori pubblici all’italiana: i tempi infiniti. Ormai è tardi per dare lo stop, ma è tardi anche per l’Expo: inizia a maggio e i padiglioni dell’esposizione non saranno pronti. La disperata accelerazione finale dei cantieri fa impennare i costi, ed è il secondo cancro. Terminare i lavori per l’Expo dopo l’Expo sarà l’apoteosi dell’inutilità, il terzo cancro.
IL TERZO VALICO è affetto da tutti e tre i cancri. Tempi biblici: l’opera fu annunciata come necessaria e urgente nel 1982 dai presidenti di Lombardia e Liguria, Giuseppe Guzzetti e Alberto Teardo. Il primo è oggi padre-padrone delle Fondazioni bancarie. Il secondo, antesignano del craxismo disinvolto, fu arrestato poco dopo il fatidico annuncio.
Infatti il Terzo Valico porta male. Dopo Teardo sono finiti in galera quasi tutti i principali tifosi della grande opera inutile, da Luigi Grillo (democristiano, poi berlusconiano, infine alfaniano, per anni presidente della commissione Lavori pubblici del Senato) a Claudio Scajola. L’opera piace anche a sinistra: prima di Paita l’ha sostenuta per vent’anni il governatore uscente della Liguria, Claudio Burlando. La grande opera non cammina senza accordi trasversali: tutti si danno ragione e rispondono con le supercazzole a chi osi chiedere perché si butti tanto denaro per niente. Adesso tocca a Matteo Renzi metterci la faccia e dire se ha senso spendere 6,2 miliardi per una ferrovia di una sessantina di chilometri che collegherà il porto di Genova con la ridente Tortona. Dicono che servirà a far defluire meglio i container dal porto di Genova, ma non spiegano perché spendono 60 milioni a chilometro per una ferrovia ad alta velocità: vogliono mandare i container a 300 all’ora? Ecco il quarto cancro: progetti vaghi, approssimativi.
IL TUNNEL SOTTO FIRENZE dell’alta velocità ferroviaria ha un costo previsto di 1,5 miliardi ed è simbolo della progettazione alla speraindio. Tanto che l’inchiesta da cui scaturisce l’arresto di Incalza parte dalla Italferr, società di progettazione di Fs. Nel settembre 2013 hanno arrestato la presidente Maria Rita Lorenzetti, politica ammanigliatissima che si vanta nelle intercettazioni di poter mettere tutto a posto grazie ai rapporti con Incalza. E da mettere a posto c’era un progetto che fa acqua da tutte le parti per un’opera voluta a tutti i costi dopo decenni di dubbi sulla sua fattibilità. L’hanno fermata i magistrati un anno e mezzo fa.
LA ORTE-MESTRE è affetta da tutti i quattro cancri già detti più un quinto, il peggiore: il project financing, la finzione del finanziamento privato che serve solo a rinviare alle prossime generazioni la presentazione del conto. Come dimostra il caso Brebemi, se si consente ai privati di farsi prestare i soldi da banche che pretendono e ottengono la garanzia dello Stato, è chiaro che il rischio dell’operazione pesa sul contribuente. Se, come nel caso della Brebemi, l’affare va male, lo Stato viene chiamato a pagare tutto. La Orte-Mestre - figlia del centro-destra veneto e della sinistra emiliana guidata da Pier Luigi Bersani - costerà 10 miliardi, due dei quali pubblici. Sugli otto miliardi privati c’è garanzia dello stato? Il promotore Vito Bonsignore (uomo Ncd con amicizie trasversali) giura di no. Ma i documenti che potrebbero rassicurare i contribuenti sono segretati, perché così vogliono le sacre regole del project financing. Scritte dal loro profeta, Incalza.

lunedì 23 marzo 2015

Dal job's Act al Worker's Act

Workers act/Nonostante l’ottimismo parolaio di Renzi, le stime del Def parlano chiaro: il Jobs act inciderà sul Pil al massimo per lo 0,1%. Per ripartire ci sarebbe bisogno di una politica industriale, di contratti veri e di investimenti pubblici. Una riforma del lavoro per uscire dall’Ottocento 2.0
Un miliardo e 508 milioni di euro. È l'ammontare dell'evasione di contributi e premi assicurativi verificata da parte del ministero del Lavoro, INPS e INAIL nel 2014 su 221.476 aziende ispezionate. Il 64,17% (più di una su due) sono risultate irregolari e dei 181.629 lavoratori impiegati in modo irregolare, il 42,61% (77.387) erano completamente in nero. I dati sono contenuti nel Rapporto annuale dell’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale 2014.
Il Jobs Act riuscirà davvero a migliorare le condizioni di chi oggi è fuori dal mercato del lavoro o è relegato nel suo segmento invisibile, sommerso e malpagato? E ammesso che alcune migliaia di disoccupati possano beneficiare della decontribuzione triennale prevista nella legge di stabilità per i neo-assunti nel 2015, cosa succederà loro quando i tre anni saranno finiti?
Libertà di licenziare, demansionamento, mantenimento delle 45 tipologie contrattuali esistenti ed estensione del lavoro usa e getta sono ricette che rafforzano il potere delle imprese mettendo sotto scacco e gli uni contro gli altri i lavoratori. Chi afferma che questo è il prezzo per rilanciare l'economia e uscire dalla crisi, identificando nel costo del lavoro l'unica variabile dipendente per aumentare la produttività e la "competitività" del nostro paese, non sbaglia: compie un inganno. Consapevolmente. E lo fa perché assume come unico punto di vista quello delle imprese.
E allora è utile ribaltare la prospettiva e riorientare lo sguardo, leggere non solo la crisi degli ultimi anni e le scelte dell'attuale Governo, ma anche le trasformazioni dei processi produttivi, del mondo del lavoro e delle politiche economiche dell'ultimo ventennio, attraverso gli effetti che hanno determinato e determinano sulla vita delle persone in carne e ossa.
Servirebbe un Workers Act.
Cambiare punto di vista significa innanzitutto fare i conti con un modello, quello neo-liberista, che ha subordinato i diritti delle persone (occupate e non) a quelli delle imprese e ha ridotto progressivamente il ruolo di indirizzo dello Stato in ambito economico.
Significa confrontarsi con modelli produttivi che grazie allo sviluppo tecnologico, alla deterritorializzazione e alla globalizzazione delle imprese consentono di precarizzare, frammentare e indebolire il lavoro.
Significa avere il coraggio di constatare che, senza un forte intervento pubblico finalizzato a creare buona occupazione e una redistribuzione del lavoro che c'è, migliaia di persone sono destinate a rimanere escluse dal mercato del lavoro.
Significa non rimuovere l'urgenza di garantire un reddito a chi nel mercato del lavoro non riesce ad entrarci o ne è uscito prima di aver maturato il diritto alla pensione.
Significa infine comprendere a pieno il nesso stringente tra le contro-riforme del mercato del lavoro e della scuola, lo smantellamento del welfare e le riforme costituzionali. Sono collegati da un filo spinato comune: una svolta autoritaria che partendo dalla scuola e dal lavoro intende metterci sotto ricatto ed erodere qualsiasi processo di partecipazione.
Il Jobs Act è approvato e produrrà i suoi effetti, ma le contraddizioni e i nodi lasciati irrisolti dalla mancanza di una strategia di lungo respiro, capace di scegliere come priorità il benessere sociale delle persone, restano.
Da qui la scelta di Sbilanciamoci! di intrecciare conoscenze e competenze diverse per elaborare un Workers Act. Sarà pronto tra qualche settimana. Ci piacerebbe che fosse un'occasione per avviare un dibattito politico e culturale serio sul futuro del lavoro, ma soprattutto delle persone la cui vita è condizionata dal lavoro: perché ce l'hanno già o perché non lo hanno ancora.

domenica 22 marzo 2015

Grandi opere e corruzione in dieci mosse

Gli scandali a ripetizione sulle ruberie e le corruttele nei grandi appalti per le grandi opere, destano nell'opinione pubblica rabbia e ribrezzo.
A mente fredda e lucida, analizzando la situazione, scopriamo che tutto ciò è un'arma volutamente caricata a salve, una bomba lanciata scientificamente e meramente scandalistica per fare cilecca.
La strategia dei grandi manovratori “occulti” e criminali è prima di tutto quella di bloccare la pianificazione e la programmazione di centinaia di “piccole” opere utili che costano meno, ma che salvaguardano l'interesse e l'incolumità collettiva, come la lotta al dissesto idrogeologico, la messa in sicurezza delle strade e delle scuole. Per salvare la faccia si fanno stanziare delle briciole e spesso i pochi fondi a disposizione vengono bloccati e si impantanano nella burocrazia (vedi Genova).
La lista delle opere incompiute e dei lavori non fatti a regola d'arte, grida vendetta. Ricordiamo quelli per il G8 in Sardegna, per i terremoti de L'Aquila e dell'Emilia, le strade e i viadotti crollati in Sicilia e nel Molise, la vela di Calatrava e la nuvola di Fuksas a Roma.
Il decalogo della corruzione, della devastazione, della disinformazione e dell'impunità è articolato nelle seguenti dieci azioni, con cui questo sistema putrido dalle fondamenta, si fa gioco dell'Italia onesta e popolare:
1) Finanziare e/o corrompere politicanti e boiardi di Stato da mandare nei posti chiave di comando;
2) eleggere/nominare (per onestà intellettuale escludiamo gli attuali eletti rimasti nel M5S), trasversalmente nel Parlamento, nelle Amministrazioni Regionali, nei Dipartimenti chiave, utili idioti servitori di due padroni: le banche (per es. Intesa, MPS, UniCredit) e le Società dei General Contractor (per es. Salini-Impregilo, Gavio, Benetton, Pizzarotti, Caltagirone, Astaldi);
3) far approvare, tramite il Governo, il CIPE e le Giunte Regionali, leggi come la "Legge Obiettivo", il "Project Financing", il "Decreto Fare" e lo "SbloccaItalia". Conseguentemente programmare le “opere strategiche”, stanziando miliardi di euro di risorse pubbliche;
4) orchestrare una campagna mediatica propagandistica finalizzata a convincere l'opinione pubblica della bonarietà e della necessità di queste opere con le tre paroline chiave: “strategico, sviluppo e lavoro”. Molto facile, visto che la proprietà dei mass media e nelle mani dei poteri forti;
5) bloccare la giustizia e la magistratura, almeno fino a quando il malloppo non sarà al sicuro, nelle tasche dei grandi lobbisti privati;
6) non ascoltare e non informare le comunità locali e i cittadini, non facendole partecipare alle decisioni sulle opere li riguardano;
7) assegnare gli appalti, distribuendoli ai vari “benefattori”;
8) criminalizzare e bloccare anche con la repressione poliziesca l'opposizione sociale dei Comitati (vedi NOTAV e NOMUOS);
9) una volta aperto il cantiere, allentare la stretta sulla magistratura e lasciare, come nei casi dell'EXPO e del MOSE, che qualche giudice, sfuggito alle maglie del controllo lobbistico, tenti di fare giustizia, ma i polli (leggi i miliardi di euro) avranno già preso il volo, atterrando su nidi sicuri (le tasche dei due padroni, come sopra descritti);
10) se malauguratamente, la magistratura bloccherà il cantiere e l'opera, all'Impresa si dovranno pagare anche i danni per milioni di euro. Oltre al danno (per i cittadini e il territorio) anche la beffa!
La farsa continua con gli ultimi avvenimenti che hanno coinvolto Incalza e Lupi (NCD=Nuova Corruzione Devastatrice) che in Parlamento, in occasione delle sue dimissioni da Ministro, spudoratamente, se la ridacchia e fa le corna, come fece il suo ex amico Berlusconi: stessa teppa!
Una ultra decennale vertenza ancora è viva e resiste: quella del movimento NOcorridoio/NObretella contro l'autostrada a pedaggio A12-Roma-Latina e la bretella Cisterna-Valmontone. Si sono già mangiati decine di milioni per progetti, varianti, consulenze e indennità per i Consigli di Amministrazione di ARCEA e Autostrade del Lazio, il cantiere non è stato ancora aperto, ma lo sarà in autunno del 2015. Fermarlo sarà possibile, se tutte/i insieme, cittadini, pendolari, agricoltori, ambientalisti, Comitati e Associazioni, saranno UNITE/I come un solo grande blocco solidale per difendere la nostra terra con i presidi permanenti, con i nostri corpi e i nostri trattori, davanti alle ruspe dei politicanti corrotti e degli avvoltoi prenditori e accaparratori di grandi appalti pubblici.

sabato 21 marzo 2015

Guerra e bugie: rapinare la Jugoslavia, tutto cominciò lì

Guai se la denuncia del nazifascismo, risuonata nel 70° anniversario della liberazione di Auschwitz, serve a depistare l’opinione pubblica dall’altro fascismo, il “nostro”, fondato sulla menzogna che giustifica le peggiori, sistematiche aggressioni. Per esempio la Libia di Gheddafi, travolta dopo la decisione di costituire una banca africana e una moneta alternativa al dollaro. E la Jugoslavia, rasa al suolo dopo la decisione della Germania di riconoscere i separatisti: inaccettabile, per la nascente Eurozona, la sopravvivenza di un grande Stato multientico con l’economia interamente in mani pubbliche. E avanti così, dalla Siria all’Ucraina, fino alle contorsioni terrificanti del cosiddetto Isis, fondato sulle unità di guerriglia addestrate dall’Occidente in Libia contro Gheddafi, poi smistate in Siria contro Assad e quindi dirottate in Iraq. Possiamo chiamarlo come vogliamo, dice John Pilger, ma è sempre fascismo. E’ il “nostro” fascismo quotidiano. «Iniziare una guerra di aggressione», dissero nel 1946 i giudici del tribunale di Norimberga, «non è soltanto un crimine internazionale, ma è il crimine internazionale supremo». Se i nazisti non avessero invaso l’Europa, Auschwitz e l’Olocausto non sarebbero accaduti.
«Se gli Stati Uniti e i loro vassalli non avessero iniziato la loro guerra di aggressione in Iraq nel 2003, quasi un milione di persone oggi sarebbero vive, e lo Stato islamico, o Isis, non ci avrebbe in balìa delle sue atrocità», scrive Pilger in una Gheddafi freddato dai ribelliriflessione ripresa da “Come Don Chisciotte”. I nuovi “mostri” sono «la progenie del fascismo moderno, svezzato dalle bombe, dai bagni di sangue e dalle menzogne, che sono il teatro surreale conosciuto col nome di “informazione”». Infatti, «come durante il fascismo degli anni ‘30 e ‘40, le grandi menzogne vengono trasmesse con la precisione di un metronomo grazie agli onnipresenti, ripetitivi media e la loro velenosa censura per omissione». In Libia, nel 2011 la Nato ha effettuato 9.700 attacchi, più di un terzo dei quali mirato ad obiettivi civili, con strage di bambini. Bombe all’uranio impoverito, Misurata e Sirte bombardate a tappeto. L’omicidio di Gheddafi «è stato giustificato con la solita grande menzogna: stava progettando il “genocidio” del suo popolo». Se gli Usa avessero esitato, disse Obama, la città di Bengasi «avrebbe potuto subire un massacro che avrebbe macchiato la coscienza del mondo». Peccato che Bengasi non sia mai stata minacciata da nessuno: «Era un’invenzione delle milizie islamiche che stavano per essere sconfitte dalle forze governative libiche».
Le milizie, scrive Pilger, dissero alla “Reuters” che ci sarebbe stato «un vero e proprio bagno di sangue, un massacro come quello accaduto in Ruanda». La menzogna, segnalata il 14 marzo 2011, ha fornito la prima scintilla all’inferno della Nato, definito da David Cameron come «intervento umanitario». Molti dei “ribelli”, segretamente armati e addestrati dalle Sas britanniche, sarebbero poi diventati Isis, decapitatori di “infedeli”. «Per Obama, Cameron e Hollande – scrive Pilger – il vero crimine di Gheddafi era l’indipendenza economica della Libia e la sua dichiarata intenzione di smettere di vendere in dollari Usa le più grandi riserve di petrolio dell’Africa», minacciando così il petrodollaro, che è «un pilastro del potere imperiale americano». Gheddafi aveva tentato con audacia di introdurre una moneta comune in Africa, basata sull’oro, e voleva creare una banca tutta africana per promuovere l’unione economica tra i paesi poveri ma dotati di risorse pregiate. «Era l’idea stessa ad essere intollerabile per gli Stati Uniti, che si preparavano ad “entrare” in Africa corrompendo i governi africani con offerte di Clinton e Blaircollaborazione militare». Così, “liberata” la Libia, Obama «ha confiscato 30 miliardi di dollari dalla banca centrale libica, che Gheddafi aveva stanziato per la creazione di una banca centrale africana e per il dinaro africano, valuta basata sull’oro».
La “guerra umanitaria” contro la Libia aveva un modello vicino ai cuori liberali occidentali, soprattutto nei media, continua Pilger, ricordando che, nel 1999, Bill Clinton e Tony Blair inviarono la Nato a bombardare la Serbia, «perché, mentirono, i serbi stavano commettendo un “genocidio” contro l’etnia albanese della provincia secessionista del Kosovo». L’ambasciatore americano David Scheffer affermò che «circa 225.000 uomini di etnia albanese di età compresa tra i 14 e i 59 anni potrebbero già essere stati uccisi». Sia Clinton che Blair evocarono l’Olocausto e «lo spirito della Seconda Guerra Mondiale». L’eroico alleato dell’Occidente era l’Uck, Esercito di Liberazione del Kosovo, «dei cui crimini non si parlava». Finiti i bombardamenti della Nato, con gran parte delle infrastrutture della Serbia in rovina – insieme a scuole, ospedali, monasteri e la televisione nazionale – le squadre internazionali di polizia scientifica scesero sul Kosovo per riesumare le prove del cosiddetto “olocausto”. L’Fbi non riuscì a trovare una singola fossa comune e tornò a casa. Il team spagnolo fece lo stesso, e chi li guidava dichiarò con rabbia che ci fu «una piroetta semantica delle macchine di propaganda di guerra». Un anno dopo, un tribunale delle Nazioni Unite sulla Jugoslavia svelò il conteggio finale dei morti: 2.788, cioè i combattenti su entrambi i lati, nonché i serbi e i rom uccisi dallUck. «Non c’era stato alcun genocidio. L’“olocausto” era una menzogna».
L’attacco Nato era stato fraudolento, insiste Pilger, spiegando che «dietro la menzogna, c’era una seria motivazione: la Jugoslavia era un’indipendente federazione multietnica, unica nel suo genere, che fungeva da ponte politico ed economico durante la guerra fredda». Attenzione: «La maggior parte dei suoi servizi e della sua grande produzione era di proprietà pubblica. Questo non era accettabile in una Comunità Europea in piena espansione, in particolare per la nuova Germania unita, che aveva iniziato a spingersi ad est per accaparrarsi il suo “mercato naturale” nelle province jugoslave di Croazia e Slovenia». Sicché, «prima che gli europei si riunissero a Maastricht nel 1991 a presentare i loro piani per la disastrosa Eurozona, un accordo segreto era stato approvato: la Germania avrebbe riconosciuto la Croazia». Quindi, «il destino della Jugoslavia era segnato». La solita macchina stritolatrice: «A Washington, gli Stati Uniti si assicurarono che alla sofferente Pilgereconomia jugoslava fossero negati prestiti dalla Banca Mondiale, mentre la Nato, allora una quasi defunta reliquia della guerra fredda, fu reinventata come tutore dell’ordine imperiale».
Nel 1999, durante una conferenza sulla “pace” in Kosovo a Rambouillet, in Francia, i serbi furono sottoposti alle tattiche ipocrite dei sopracitati tutori. «L’accordo di Rambouillet comprendeva un allegato B segreto, che la delegazione statunitense inserì all’ultimo momento». La clausola esigeva che tutta la Jugoslavia – un paese con ricordi amari dell’occupazione nazista – fosse messa sotto occupazione militare, e che fosse attuata una “economia di libero mercato” con la privatizzazione di tutti i beni appartenenti al governo. «Nessuno Stato sovrano avrebbe potuto firmare una cosa del genere», osserva Pilger. «La punizione fu rapida; le bombe della Nato caddero su di un paese indifeso. La pietra miliare delle catastrofi era stata posata. Seguirono le catastrofi dell’Afghanistan, poi dell’Iraq, della Libia, della Siria, e adesso dell’Ucraina. Dal 1945, più di un terzo dei membri delle Nazioni Unite – 69 paesi – hanno subito alcune o tutte le seguenti situazioni per mano del moderno fascismo americano. Sono stati invasi, i loro governi rovesciati, i loro movimenti popolari soppressi, i risultati delle elezioni sovvertiti, la loro gente bombardata e le loro economie spogliate di ogni protezione, le loro società sottoposte a un assedio paralizzante noto come “sanzioni”. Lo storico britannico Mark Curtis stima il numero di morti in milioni. «Come giustificazione, in ogni singolo caso una grande menzogna è stata raccontata».

venerdì 20 marzo 2015

L’istruzione nell’impero renziano

Le legislature hanno un vantaggio: che una volta ogni cinque anni cambino. Ossia, che a cadenza quinquennale venga offerto il privilegio di poter rimaneggiare – o di auspicare in un rimaneggiamento, come nel caso delle recenti stagioni, “grazie” ad un’inconcepibile legge elettorale – l’apparato governativo ed istituzionale. Un rincalzo che goda principalmente di credibilità intellettuale, prima ancora che amministrativa ed organizzativa. Perché fondamentale è ritagliarsi attendibilità agli occhi dell’elettorato. Indipendentemente dai simboli, dai programmi, dai proclami, dalle facce. Complementari e speculari, al netto di qualsiasi obiezione si voglia avanzare. D’altronde, le intricate questioni di questo Paese sono ampiamente note. Sanità, ricerca e istruzione sono stati gli ambiti in cui i vari esecutivi hanno preferito lesinare, evitando che le consuete guarentigie remunerative dei burocrati capitolini venissero adeguate al drastico periodo socioeconomico. Le ipotesi di risoluzioni si sono susseguite in un accelerato valzer di fandonie irrefrenabili, ove chiunque si proponesse di ristabilire un ordine che tutelasse l’efficienza di taluni servizi, ha finito per essere inghiottito dalle fauci dell’ingordigia romana. Una fame di potere e di quattrino che si è tradotta in decenni di cattiva politica, di malaffare e di vergognoso silenzio assenso.
La necessità di aggrapparsi all’opportunità è urgente. Per qual motivo, allora, irridere la sorte che, dall’alto della sua magnanimità, ci ha donato la grazia di vantare i servigi “lungimiranti” di un dissacrante ed irriverente “statista” gigliato? Matteo Renzi, appunto, è un caratterista mancato. Personalità letteralmente sradicata agli onori delle plaudenti folle su uno spalto teatrale ed atterrata nella cloaca parlamentare con il pretesto di rivoltarla dall’alto, scardinando l’incancrenito apparato della nomenclatura partitocratica. L’oggettività dei fatti è, però, lì, pronta a dar vigore ad una tesi che di opinabile non ha proprio nulla. Tralasciando l’irruenza e la presunzione con le quali ha presentato il suo piano di governo un anno fa e che ha sommessamente dovuto ammainare, Renzi ha fornito l’ultima inconcludente uscita sul servizio scolastico, che si è prefigurato di ricostituire per mezzo del progetto “Buona Scuola”. Nella teoria, un valido insieme di propositi sensati, propedeutico allo sviluppo di un settore che per troppo tempo ha perito sotto le grinfie della crisi: sostegno della formazione culturale, tutele occupazionali ai docenti temporanei, struttura burocratica che non interferisca. Nella pratica, il centesimo capriccio di un commissario europeista, mascherato da politico, per indurre a credere che l’agenda di Palazzo Chigi pensi soprattutto all’interesse supremo dell’Italia. In quanto, per volere realmente che la cultura si destreggi nella selva dell’attuale pochezza didattica, sarebbe indispensabile prediligere contenuti ed argomenti che vadano all’opposto della consuetudine accettata dall’élite benpensante. In quanto, per volere realmente che professori flessibili si consacrino nella stabilità dell’insegnamento, bisognerebbe ammettere che legittimare i dirigenti scolastici a sancire chi sia adatto a ricoprire lo spazio dietro ad una scrivania sia completamente fuori da ogni logica. In quanto, per volere realmente che il Leviatano della burocrazia non ingerisca nelle dinamiche della scuola, non ci si dovrebbe chiamare Matteo Renzi.
Primato alla cultura, maggiori garanzie ai precari, burocrazia al minimo. Formalmente, ecco i tre cardini fondanti dell’ex sindaco toscano, intenzionato – all’apparenza, in misura esponenzialmente superiore ai suoi predecessori – a dare una sterzata notevole alla scolasticità nostrana. Sostanzialmente, l’ennesimo pretesto impacchettato a dovere per consentire al fiorentino Savonarola de Noantri di adattare il suo processo di centralizzazione statale nelle strutture educative, istituendo gruppi di amministratori che assumano deleghe per ottundere le giovani menti a perseguire fini utilitaristici e funzionali al pensiero unico. Che “buona”, ‘sta “scuola”!”.

giovedì 19 marzo 2015

le agenzie di rating alla sbarra

I responsabili politici e governativi e anche i media italiani stanno trattando con troppa sufficienza, se non con ostilità, il processo in corso presso il Tribunale di Trani nei confronti delle agenzie di rating, la Standard and Poors’ e la Fitch. Tra maggio 2001 e gennaio 2012 esse resero pubbliche delle analisi che declassavano drasticamente l’Italia e il suo debito pubblico, provocando un terremoto economico e finanziario. Ciò, come è noto, fece schizzare lo spread, la differenza tra i tassi di interesse dei bond italiani e di quelli tedeschi, fino a 575 punti.
Il comportamento delle suddette agenzie di rating era consapevolmente viziato e, attraverso un’informazione falsa e una tempistica manovrata, mirava a mettere in ginocchio l’Italia e a destabilizzare l’intera Europa. Secondo noi erano proprio l’Unione europea e l’euro i veri bersagli economici e geopolitici degli attacchi speculativi.
Chi cerca di denigrare il sostituto procuratore di Trani, Michele Ruggiero, come un esagerato complottista dovrebbe rileggere i dossier preparati dalle varie commissioni americane sul ruolo nefasto delle agenzie di rating nel favorire prima la crisi finanziaria globale più devastante della storia e poi nel detonarla.
Il rapporto del 2011 della bipartisan “Financial Crisis Inquiry Commission” di Phil Angelides, al termine di centinaia di pagine piene di dettagli comprovanti le varie responsabilità degli attori coinvolti, dice: “Sosteniamo che i comportamenti fallimentari delle agenzie di rating siano stati le componenti essenziali nel meccanismo della distruzione finanziaria. Le tre agenzie sono state gli attori chiave del meltdown finanziario. I derivati emessi sulle ipoteche, che sono al centro della crisi, non potevano essere piazzati né venduti senza il loro bollino di approvazione. Senza le agenzie di rating la crisi non ci sarebbe stata.“
Anche la Commissione d’indagine del Senato americano, guidata da Carl Levin e Tom Coburn, nel rapporto “Wall Street and the Financial Crisis: The Role of Credit Rating Agencies” del 2010 scriveva:” La Commissione ha provato che le suddette agenzie di rating hanno permesso a Wall Street di influenzare le loro analisi, la loro indipendenza, la loro reputazione e la loro credibilità. E lo hanno fatto per soldi.. Esse hanno operato con un inerente conflitto di interesse in quanto venivano pagate dagli stessi istituti che emettevano i titoli a cui loro davano il rating.”
Secondo noi è rilevante il fatto che a Trani anche la banca americana Morgan Stanley, uno dei colossi della speculazione in derivati otc, sia stata messa sul banco degli imputati. Essa era azionista della S&P e, proprio nel mezzo dello sconquasso provocato dal declassamento del rating dell’Italia, mise all’incasso un derivato sottoscritto con il Tesoro italiano nel 1994. Si trattava di un classico derivato capestro che, a seguito dell’impennata dei tassi di interesse, era arrivato fino a 2 miliardi e mezzo di euro. Nel corso del 2012 il governo italiano pagò senza fiatare. Quei dirigenti che sollevarono dubbi e richieste di ulteriori valutazioni vennero zittiti. La Morgan Stanley avrebbe portato, a giustificazione della repentina richiesta di monetizzazione del derivato, supposte pressioni fatte dalle autorità di vigilanza americane e inglesi che avrebbero ritenuto inaccettabile l’esposizione della banca con l’Italia.
Anche in questo caso emerge chiaramente il conflitto di interesse tra l’agenzia di rating e la banca in questione. Era una cosa risaputa e generalizzata. Perciò si rende ridicolo, se non peggio, chi sostiene di non aver saputo di una tale commistione di interessi!
Già nel 2006 analizzammo e pubblicammo le strutture di controllo delle agenzie di rating per evidenziare, ancora prima del fallimento delle Lehman Brothers, come le “tre sorelle” fossero compenetrate e teleguidate dalla grande finanza globale.
Non era certamente proibito, ma era sorprendente trovare nei direttivi delle agenzie di rating uomini che provenivano dalle grandi banche impegnate nella speculazione con derivati finanziari ad altissimo rischio.
Ad esempio, la Standard & Poor’s (S&;P) è una controllata della multinazionale McGraw-Hill Companies, il colosso delle comunicazioni, dell’editoria, delle costruzioni che è presente in quasi tutti i settori economici. Allora era guidata dal presidente della Citigroup Europa, dal presidente della Coca Cola, della BP, ecc., nonché partecipata anche dalla citata Morgan Stanley.
La ragione vera degli attacchi contro il lavoro del sostituto procuratore Ruggiero, secondo noi, è dovuta al fatto che a Trani si sta celebrando il primo, e finora unico, vero processo a livello internazionale nei confronti delle agenzie di rating. Nemmeno negli Stati Uniti si sono tenuti dei validi processi contro di loro. Anche per questa considerazione sarebbe stato opportuno che il governo italiano si fosse costituito parte civile nel processo di Trani.
Se a Trani le agenzie di rating dovessero essere condannate allora si potrebbe avere ovunque un’ondata di casi legali contro le stesse. Le richieste di risarcimento sarebbero di proporzioni gigantesche. Probabilmente emergerebbero anche tante verità sui giochi e sulle manipolazioni delle grandi banche. Ecco perché la finanza mondiale sta facendo di tutto per far passare sotto silenzio il processo in questione

mercoledì 18 marzo 2015

Concordando il Giubileo

L'Italia spende, Città del Vaticano incassa. Per non parlare dello spartizione di denaro pubblico per le opere mai realizzate dell'analogo evento del 2000.
Ancora una volta papa Francesco e il suo miracoloso "ufficio relazioni con il pubblico", riescono a sorprendere tutti con l'annuncio di un Giubileo straordinario. Mentre la popolazione romana temeva l'invasione dell'Isis e intanto si sorbiva quella di tifosi olandesi di calcio come un male minore, ecco che tutti insieme possiamo festeggiare l'imminente arrivo nella Capitale di giubilanti credenti cattolici da tutto il mondo e in nome della pace.
Ovviamente, allo stesso suono delle campane, gongolano e si sfregano le mani coloro che a quindici anni di distanza dal Giubileo del 2000 saranno chiamati a gestire e a spartire il denaro pubblico, magari anche per completare quelle tante opere, sulle 5000 previste, che non hanno mai visto la luce divina. Per quei lavori, in lire, si stanziarono 2578 miliardi, di cui ben 2208 a vuoto, cioè per opere mai realizzate o portate a termine. Ne tengano conto gli amministratori ordinari e straordinari che verrano unti dall'alto affinché facciano funzionare l'ingranaggio capitolino di trasporti, sanità e accoglienza per i pellegrini, cioè i settori più "eticamente sensibili". E tengano anche in considerazione, prima di spacciare tornaconti celestiali per il Pil italiano che la maggior parte degli introiti, esentasse vivaddio, finirà nelle casse dello Stato della Città del Vaticano.
Sommessamente e laicamente, chi vede il Giubileo anche come una nuova occasione concordataria per paralizzare dibattito ed eventuali conquiste in merito ai diritti civili, può soltanto pregare che tutto questo giro di denaro avvenga nelle più assolute legalità e trasparenza, soprattutto in nome di quei cittadini romani e italiani che vi contribuiranno con un obolo. che non potranno rifiutare

martedì 17 marzo 2015

Verso una democrazia cesaristica

Il Partito Democratico ha deciso di riformare la Costituzione della Repubblica Italiana da solo. Il compito è stato facilitato dall’Aventino delle opposizioni e si giustifica con la certezza del suggello plebiscitario che verrà (detto impropriamente “referendum” dalla Costituzione del 1948). La strategia e il processo di riforma suggeriscono il carattere del nuovo sistema istituzionale che questi cambiamenti disegnano: una democrazia cesaristica (che sarebbe piaciuta a Sieyès e Schmitt e per nulla a Condorcet e Kelsen).
Nulla di nuovo sotto il sole nazionale, si dirà. L’Italia unita ha mostrato di avere un rapporto di orphanage e nostalgia rispetto alla figura di Cesare, un papa secolare, un monarca non ereditario ma capo politico che incorpori, rappresentandola, la nazione; non come il presidente di una Repubblica parlamentare (o anche presidenziale) ma come il leader che sta nella battaglia politica quotidiana e che governa, che sbaraglia il pluralismo partitico, che tiene insieme esecutivo e legislativo perché possiede una maggioranza ampia (grazie al premio di maggioranza) che può ignorare l’opposizione e idealmente decidere senza deliberazione collettiva (a decidere è anzi il partito, ovvero il suo segretario, anche nella funzione della costruzione delle liste elettorali e della designazione dei capilista, in pectore una classe ramificata nelle Regioni di sostenitori della sua politica).
Esito ne sarà un Parlamento prima di tutto organo e sede della maggioranza e solo di riflesso della funzione La riforma della Costituzione avviata dal Partito Democratico, unita alla nuova legge elettorale, che la completa, rischia di portare l’Italia verso una democrazia di stampo cesaristico. Quale sicurezza può darci un assetto istituzionale privo del contrappeso al potere costituito rappresentato dal bicameralismo, con una diminuita prerogativa del diritto di suffragio e ostaggio del potere del leader, dell’esecutivo e della sua maggioranza?
Il Partito Democratico ha deciso di riformare la Costituzione della Repubblica Italiana da solo. Il compito è stato facilitato dall’Aventino delle opposizioni e si giustifica con la certezza del suggello plebiscitario che verrà (detto impropriamente “referendum” dalla Costituzione del 1948). La strategia e il processo di riforma suggeriscono il carattere del nuovo sistema istituzionale che questi cambiamenti disegnano: una democrazia cesaristica (che sarebbe piaciuta a Sieyès e Schmitt e per nulla a Condorcet e Kelsen).
Nulla di nuovo sotto il sole nazionale, si dirà. L’Italia unita ha mostrato di avere un rapporto di orphanage e nostalgia rispetto alla figura di Cesare, un papa secolare, un monarca non ereditario ma capo politico che incorpori, rappresentandola, la nazione; non come il presidente di una Repubblica parlamentare (o anche presidenziale) ma come il leader che sta nella battaglia politica quotidiana e che governa, che sbaraglia il pluralismo partitico, che tiene insieme esecutivo e legislativo perché possiede una maggioranza ampia (grazie al premio di maggioranza) che può ignorare l’opposizione e idealmente decidere senza deliberazione collettiva (a decidere è anzi il partito, ovvero il suo segretario, anche nella funzione della costruzione delle liste elettorali e della designazione dei capilista, in pectore una classe ramificata nelle Regioni di sostenitori della sua politica). Esito ne sarà un Parlamento prima di tutto organo e sede della maggioranza e solo di riflesso della funzione
di controllo che dovrebbe esercitare l’opposizione; solo di riflesso, perché questa funzione ha efficacia solo se le opposizioni hanno una voce non flebile e non fungono da materiale d’arredo, seggi che occupano uno spazio. Ci troviamo alle soglie di un cesarismo per consenso elettorale e un Parlamento monocamerale che la legge elettorale predisporrà verso una forte vocazione maggioritarista: concordia fidei et populi.
Nella storia politica del nostro paese governare con il dissenso e il pluralismo si è dimostrato più gravoso che allinearsi sotto un’insegna. Governare per mezzo della discussione e del dissenso, secondo una definizione canonica del governo rappresentativo, è un lavoro duro che chiede stamina e pazienza, insieme a tolleranza e fiducia nell’avversario, qualità etico-politiche ardue da formare e riprodurre. Fidarsi degli avversari – vivere tra partigiani amici – comporta diverse cose insieme: prima di tutto, a chi governa impone di non barare al gioco e non cambiare le regole in corsod’opera; e per chi perde e va all’opposizione implica continuare a stare al gioco sperando nelle futureconsultazioni e senza far saltare il banco.
Il governorappresentativo vuole un consenso delle norme edelle regole proprio perché vive di conflitto politico e non di politica consensualista. Quando il consenso delle norme e delle regole stenta e non piace è al secondo, al consenso politico o propagandistico, che ci si rimette. Unire il popolo in un’idea, in una fede, in un uomo o in un partito è tutto sommato non troppo complicato in un paese che ha una secolare tradizione religiosa pressoché omogenea e, soprattutto, l’abituale familiarità con un leader che incorpora la fede e i fedeli sotto l’egida della suprema autorità. Il popolo italiano è unito in alcune credenze e abitudini di fondo (religiose e morali), cioè è unito nei mores, anche se è fazioso e litigioso nella divisione della torta politica, per dirla con James Harrington, ovvero nelle questioni direttamente legate agli interessi locali, territoriali, di fazione o di ceto.
La società civile è molto divisa e quasi incapace di trovare una simpatia unitaria (brutale nel linguaggio e nelle forme di interazione la descriveva Giacomo Leopardi). Essa è però desiderosa di avere una rappresentazione unitaria che si adatti ai suoi mores. L’unità del corpo cattolico-nazionale in una figura rappresentativa: una visione antiliberale della rappresentanza che ha sul suolo patrio una radicata attrazione e una sperimentata pratica.
Con l’eccezione di alcuni anni di interregno segnati da momenti conflittuali – di transizioni da un’unità consensuale a un’altra –, le fasi lunghe della politica nazionale sono state consensuali: o per consenso trasformista o per consenso dispotico o per consenso elettorale. Tanto per restare alla nostra epoca: dopo una dura fase di conflittualità politica seguita alla fine del consenso gestito dalla guerra fredda, oggi ritorniamo al partito nazionale e della nazione, incarnato in un leader e con il progetto di una nuova carta costituzionale.
Alla quale nuova Costituzione si doveva arrivare a tutti i costi. Non vi è alcuna emergenza ovviamente. La gestione di questa riforma – dirigistica a tutti i costi, anche spedendo sull’Aventino le minoranze – è coerente all’esito desiderato: la Costituzione trasformata in un decreto governativo che il Parlamento ha dovuto approvare (sapendo molto bene che nessun tempo limite esiste in questo caso, perché nessun decreto costituzionale può esistere e perché nessuna norma impone notti bianche a votar dormendo – anche se l’ideologia dell’emergenza ha governato l’intero processo di discussione costituzionale conquistando tutti, anche i critici). Questa è la logica dell’emergenza unitarista, del traghettamento verso la concordia fidei et populi.
Il nuovo assetto istituzionale, con la riforma elettorale che lo completa, sancisce quel che nella realtàstava procedendo da più di due decenni: il bisognodi un capo, un bisogno che Silvio Berlusconi nonha rappresentato se è vero che ha diviso radicalmente l’opinione politica, esaltando invece di sedare l’opposizione, sia sulla carta stampata o nell’opinione pubblica ufficiale che nelle piazze. Vinta quella battaglia durissima per difendere la Costituzione (e che la Costituzione ha egregiamente aiutato a vincere), la stanchezza ha come atterrato i guerrieri in tutti i partiti e nell’opinione pubblica e sociale. Oggi c’è voglia di concordia. Con l’esito che, concluso il suo compito, la Costituzione del 1948 non sembra più adatta alla nuova concordia. Essa fu scritta, del resto, con l’intento esplicito di scongiurare l’emergere di maggioranze granitiche, di capi e poteri verticali personalistici – scritta con la memoria fresca della concordia fascista. Ma le nuove generazioni non hanno questa memoria sotto la loro pelle e nella loro mente; e possono con baldanza ritornare a esprimere al meglio il mos cesaristico antico. E il momento è arrivato.
Il nuovo assetto istituzionale, con la riforma elettorale che lo completa, sancisce quel che nella realtà tava procedendo da più di due decenni: il bisogno di un capo, un bisogno che Silvio Berlusconi non
ha rappresentato se è vero che ha diviso radicalmente l’opinione politica, esaltando invece di sedare l’opposizione, sia sulla carta stampata o nell’opinione pubblica ufficiale che nelle piazze. Vinta quella battaglia durissima per difendere la Costituzione (e che la Costituzione ha egre- giamente aiutato a vincere), la stanchezza ha come atterrato i guerrieri in tutti i partiti e nell’opinione pubblica e sociale. Oggi c’è voglia di concordia. Con l’esito che, concluso il suo compito, la Costituzione del 1948 non sembra più adatta alla nuova concordia. Essa fu scritta, del resto, con l’intento esplicito di scongiurare l’emergere di maggio- ranze granitiche, di capi e poteri verticali personalistici – scritta con la memoria fresca della concordia fascista. Ma le nuove generazioni non hanno questa memoria sotto la loro pelle e nella loro mente; e possono con baldanza ritornare a esprimere al meglio il mos cesaristico antico. E il momento è arrivato.
Servirebbe la penna arguta, ironica e graffiante di un Carlo Marx per parlare del bonapartismo italiano, fuoco sotto la cenere e oggi rigenerato per plebiscito da un Parlamento di fatto già monocamerale, da una società vogliosa di ricambio generazionale e cetuale, da un capitalismo corporate law model, un ordine, più che liberale, in effetti feudale, basato sulla devoluzione massiccia del pubblico sovrano statale (quale che sia, nazionale o sovranazionale, come si vede dalla resistenza dell’Unione europea a essere più che un’unione monetaria). A confermare questa tendenza è la politica del governo italiano: con la messa sul mercato delle banche popolari; con la dichiarazione contenuta nel progetto della Buona scuola per cui lo Stato dichiara di non voler più coprire le spese delle scuole statali; con la trasformazione piena e completa del lavoro in una merce. Questa politica amica del corporate law delle multinazionali ha un’ideologia unificante nella favola bella del merito individuale, artefice delle nostre vittorie e sconfitte, condito con la carità cristiana per chi fallisce. Liberismo per i vincitori, religione per i vinti. Nei convegni e nelle riviste specializzate questo fenomeno è analizzato come un esito della trasformazione del pubblico in un ordine legale e istituzionale funzionale al capitale multinazionale, a una lex mercatoria che va a sostituire poco alla volta il diritto pubblico degli Stati e i lacci costituzionali. Se Marx dovesse descrivere la trasformazione italiana da democrazia parlamentare a democrazia cesaristica lo farebbe, pro
prio come quando descrisse il destino bonapartista della Repubblica francese del 1848, nel contestodella trasformazione globale del capitale. L’Italiamicrocosmo. Ma non è necessario immaginare sce-nari da filosofia della storia ottocentesca per leggerela revisione cesaristica della Costituzione del 1948.La Costituzione è un nobile compromesso tra parti. Ha successo se le parti in gioco riescono a incapsulare i loro calcoli di utilità contingente all’internodi una utilità bene intesa. È questa la premessa per il perseguimento di quel che chiamiamo “interesse generale”.
La saggezza costituzionale non è pertanto identica alla saggezza pratico-politica, perché non è celebrativa del presente e delle sue strategie di breve periodo in quanto deve saper prevedere le possibili disfunzioni che la sua applicazione può comportare e deve saper incanalare il comportamento degli attori politici e istituzionali in modo che la sua autorità non sia mai scalfita ma, al contrario, irrobustita. In questa capacità di anticipare il peggio e di neutralizzarlo sta la sua saggezza e la ragione della sua durata. Domanda: che sicurezza può darci una Costituzione votata al cesarismo e al maggioritarismo? Se scrivere Costituzioni, dice Stephen Holmes, è paragonabile alla saggezza di Peter sobrio che pensa a sé nel caso che si ubriachi, allora questa nuova Costituzione è davvero poco saggia, perché non ci protegge da potenziali leader pessimi, dalle ubriacature populiste, quali che siano.
La saggezza costituzionale è opera non di imperativi categorici, rigidi per loro natura, ma dell’imperativo ipotetico: se vuoi A devi volere B. Bisogna chiedersi allora quale sia la posta in gioco, il fine, di questa riforma. Sapevamo certamente i fini della Costituzione del 1948: i diritti che garantiscono le eguali libertà sono contenuti nella prima parte e la struttura dello Stato è così fatta da renderli sicuri perché protesa a limitare il potere della maggioranza, quale che essa sia. Forse i nostri Costituenti non avevano una forte cultura liberale, ma l’esperienza fascista li ha fatti liberali obtorto collo, e grazie a ciò abbiamo avuto una Costituzione democratica ottima. Essi avevano molto chiara l’idea che sarebbe illogico pensare che la prima parte sia fatta di principi immobili, adattabili alle più diverse ingegnerie costituzionali.
E per questa ragione dobbiamo usare l’imperativo ipotetico per valutare il senso della Costituzione. Dobbiamo sapere che ogni Costituzione segue questa logica: se vuoi A devi volere B. Ovvero, i modi di attuazione della democrazia elettorale, la struttura istituzionale dello Stato, i rapporti tra i poteri sono condizioni che devono servire a far funzionare la macchina dello Stato garantendo e rafforzando al contempo i diritti fondamentali contenuti nella prima parte. Ad esempio: in un’unità statale non federale i diritti civili e politici fondamentali sono sicuramente meglio garantiti se la sovranità popolare non grava sul corpo sociale in maniera assoluta e libera quanto più possibile da vincoli. La regola di maggioranza rende la forza della sovranità popolare – soprattutto negli Stati unitari – quasi assoluta, resa fatale dal fatto di riposare sulla volontà stessa dei cittadini.
È per contenere senza conculcare il potere invincibile del numero che si rendono necessari due tipi di contrappesi: il potere giuridico e le forze sociali. Il loro contropotere consiste nel fare affidamento sul giudizio (che è potere negativo per eccellenza) e sul pluralismo degli interessi, dei corpi associativi, delle idee. Spezzare l’omogeneità e l’unione concordataria del corpaccione sovrano è la condizione per ottenere un rispetto compiuto dei diritti sanciti nei fondamenti.
Per rendere più certa la limitazione del potere costituito, ai contrappesi giuridici e della società civile si devono aggiungere quelli istituzionali, ad esempio il bicameralismo (non perfetto ma comunque eletto per suffragio diretto) e i sistemi elettorali che non riconoscono come essenziale solo il diritto della maggioranza di governare ma anche quello dell’opposizione di avere una voce capace di controllare, limitare e, se necessario, bloccare il potere della maggioranza, infine di essere una permanente alternativa possibile.
Il disegno istituzionale deve essere giudicato in relazione allo scopo che intende ottenere e all’efficacia con la quale l’ottiene. In questo senso esso è un esercizio di imperativo ipotetico. E l’imperativo ipotetico che guida la nuova Costituzione in corso d’opera ci porta in una direzione che non assomiglia a quella che volevano i nostri Costituenti; ci porta verso una democrazia cesaristica. Per questo, abbiamo tutte le ragioni per esserne intimoriti e preoccupati, poiché le parti della Costituzione del 1948 non sono come camere stagne: quando si cambia una parte i mutamenti si riflettono sulle altre parti. La prima parte, quella che sancisce i diritti eguali, è messa a repentaglio da un Parlamento monocamerale, da una diminuita prerogativa del diritto di suffragio (un ritorno addirittura all’ottocentesco suffragio indiretto) e da un’impennata di potere dell’esecutivo e della sua maggioranza.
Qui potete scaricare il testo in formato .pdf, leggerlo nella formattazione originale e, se proprio volete, stamparvelo (preferibilmente su carta riciclata), leggerlo e annotarlo con comodo.

lunedì 16 marzo 2015

In cerca di tempo... per fare cosa?

Il governo greco sembrava aver preso un po' di fiato nella trattativa con la Ue al di là dei magrissimi "risultati" ottenuti (se pure...). Ma dopo pochissimo la doccia fredda: il piano Varoufakis di review del bilancio statale è respinto al mittente mentre tornano ad Atene gli uomini della trojka.
In soldoni, non c'è spazio alcuno per una reale contrattazione sulle misure di austerity in vista di una seppur minima ricontrattazione sul debito: ci stanno prendendo per la gola, ha detto Tsipras. L'obiettivo politico, non solo di Berlino ma di tutte le istituzioni e i governi europei, "meridionali" inclusi, è il logoramento di Syriza (che è anche un avvertimento agli spagnoli rispetto alle chances di Podemos).
Fin qui, il consenso interno al governo greco ha tenuto. Il grosso della popolazione vuole infatti la negoziazione coi poteri europei e vuole restare nell'euro. Pur senza farsi eccessive illusioni su quanto si possa portare a casa, crede/spera ancora che a Bruxelles ci si possa un minimo "ravvedere" rispetto agli esiti dell'austerity smussandola in cambio di ulteriori sacrifici, meglio se conditi con una più equa redistribuzione su tutti i ceti garantita dal nuovo governo. Ragiona insomma con quel "realismo" che Tsipras e Varoufakis rispecchiano e rilanciano. Questione di sopravvivenza, non di potenza rivoluzionaria: non si può più vivere come prima ma lo si desidera ancora.
Il problema però è che non ce n'è. Il significato più profondo della vicenda in corso è il limite invalicabile che sbaraglia sul campo l'opzione "europeista di sinistra": non è riformabile non questa Europa ma l'Europa in quanto tale, intesa nella verità effettuale della cosa e non nella sua immaginazione - qui non serve Lenin, basta Machiavelli - come potere del capitale finanziario-industriale a governance ibrida e irrinunciabile atlantismo (ancorchè sempre più a perdere: vedi la vicenda ucraina).
È questo il rimosso che la "sinistra", nel suo europeismo giacobino a prescindere, non vuole/può riconoscere perché così salterebbe la visione socialdemocratica cui si tiene disperatamente avvinghiata (dalla versione melensa alla Manifesto+Landini alla più radicale Podemos+moneta del comune, tutte pronte non a caso a cauzionare un Quantitative Easing purchè agito... "dal basso"). L'equazione internazionalismo (giusto!) equiparato a europeismo è saltata. Prima ne prendiamo atto meglio è (vero Blockupy?).
Passiamo qui oltre gli imperterriti keynesisti per i quali allora si tratta di tornare alle monete e alle sovranità nazionali (il cui succo è il rilancio del capitalismo nazionale via svalutazioni competitive e inflazione per ridurre il debito esterno facendo pagare i costi maggiori ai proletari). L'idiozia sta qui nel credere che la moneta governa il resto e che è possibile il ritorno a "tempi normali".
Il quadro è dunque immodificabile? Nessuno da qui si sogna di dare consigli. In nome di chi, poi, quando le manifestazioni europee in solidarietà con la Grecia sono miseramente fallite, perfino quelle organizzate in Spagna da Podemos? Al massimo, solo alcune caute riflessioni.
Syriza pare in confusione ma Tsipras fa bene a cercare di prendere tempo. Ma per fare cosa? Tenere duro su qualche punto qualificante politicamente va bene.
Ma far pagare le tasse a "tutti compresi i ricchi" insieme a misure assistenzialistiche urgenti, posto anche che sia fattibile, può surrogare l'assenza di "interventi dispotici nei rapporti di proprietà" con conseguente scatenamento della lotta di classe all'interno? E questo è compatibile con le forme "normali" di produzione e riproduzione della vita sociale sconvolte dal denaro facile degli anni ruggenti della finanziarizzazione? Verso l'Europa: si tratta di lavorare "con" i governi europei per indurli a più miti consigli oppure, pur continuando a trattare, rivolgersi direttamente alle classi sfruttate europee evitando di scivolare nel registro patriottico anti-tedesco (per quanto comprensibile)?
Cruciale è poi la questione del piano B che può essere solo quello di rivolgersi a Russia e Cina (sapendo che non sono la S. Vincenzo). Ma ciò significherebbe contribuire a sconvolgere gli assetti economici e geopolitici dell'Occidente (non a caso è arrivato il warning di Washington) e rischiare di essere sbattuti fuori dalla Ue (vedi il ministro delle finanze tedesco che non esclude più il grexit - ciò che la popolazione per ora non sembra proprio volere pur non guardando con sfavore a Mosca.
Per la sinistra europea la mossa sarebbe poi oltre modo ostica perché condivide nella sostanza le critiche liberal ai regimi "autoritari" non occidentali non vedendo che il rapporto tra la stessa Europa e il resto del mondo è di tipo neo-imperialista (sotto l'ombrello yankee) ragion per cui non è possibile un riorientamento europeo "pacifico, equo e solidale" neanche verso i Brics. Problemuccio, vero?
Comunque si rigiri la cosa, viene fuori che non abbiamo davanti soluzioni di effettivo compromesso tra classi e tra livelli istituzionali europei e nazionali come molti ancora sperano. E non solo in Grecia, anche se lì la situazione è precipitata prima e drammaticamente per una serie di ragioni. Il governo di Syriza può essere il canto del gallo di qualcosa di più sostanzioso ma ciò dipende non dalla "sinistra" ma dalla ripresa di una dinamica sociale nel suo farsi antagonistica. Oppure, nell'ipotesi peggiore, il preludio a una renzizzazione della sinistra greca ovvero a temporanee soluzioni direttamente di destra.
Abbiamo comunque davanti a noi lo sconvolgimento delle condizioni date. E la riproposizione di nodi politici con cui la sinistra non ha più avuto a che fare da decenni (se non di più). Detto con tutto il rispetto possibile per Tsipras&co. e per la popolazione greca, l'esperienza Syriza è un passaggio. Dovremmo tutti prepararci ad attraversarlo innanzitutto guardando in faccia la realtà senza raccontarci favole per poter realisticamente. sognare.

domenica 15 marzo 2015

Supermercati: i trucchi che ci convincono a spendere di più quando facciamo la spesa

Dalle carte fedeltà alle raccolte punti fino alla disposizione dei prodotti nei diversi scaffali, ecco quali sono le tecniche di vendita adottate nei supermercati per indurci all’acquisto.
Supermercati: i trucchi che ci convincono a spendere di più quando facciamo la spesa Trucchi dei supermercati per indurci all'acquisto dei prodotti al momento della spesa
TRUCCHI DEI SUPERMERCATI Chi di noi mentre era in fila per pagare al supermercato non si è lasciato convincere dalle barrette al cioccolato, dalle caramelle o dagli snack collocati proprio accanto alla cassa? Prodotti non indispensabili per la nostra dieta quotidiana e collocati strategicamente proprio per essere notati anche se stiamo facendo la spesa in tutta fretta magari durante la pausa a lavoro o la sera prima di rientrare a casa.
COLLOCAZIONE PRODOTTI NEI SUPERMERCATI -
La collocazione strategica di determinati prodotti è infatti una delle tecniche adoperate nei punti vendita per invogliarci a comprare anche determinati prodotti non pianificati nella nostra lista della spesa.
LEGGI ANCHE: Come fare bene la spesa al supermercato, ecco gli errori da evitare per non sprecare denaro
COME CONVINCERE IL CLIENTE A COMPRARE: TECNICHE DI VENDITA -
Anche se non c’è nulla di male nel cercare di convincere il cliente ad acquistare qualcosa in più dal momento che alla fine siamo sempre noi a decidere consapevolmente cosa comprare e cosa no, vediamo insieme quali sono gli stratagemmi adoperati dai diversi punti vendita per indurci all’acquisto:
Innanzitutto, uno degli stratagemmi più utilizzati e non solo nei supermercati e di cui vi abbiamo già parlato è la presenza del numero nove nel cartellino del prezzo. L’uso reiterato di questo numero è legato al fatto che il nostro cervello tende a ridurre il tempo di elaborazione di un’informazione e questo si verifica soprattutto in ambienti pieni di stimoli come i supermercati o i grandi magazzini. E così ci sembra di spendere meno.
Avete notato inoltre che a volte rintracciare il sale, la farina o il pangrattato diventa abbastanza complicato? Accade perché la disposizione degli alimenti nei diversi scaffali è pianificata in maniera tale da indurci a percorrere, anche più volte, le corsie del supermercato alla loro ricerca: così, tra uno scaffale e un altro magari potremmo anche trovare qualcosa a cui proprio non avevamo pensato.
Per contrastare la concorrenza, i diversi punti vendita tendono inoltre a offrire determinati prodotti a prezzi scontatissimi: in questo modo cercano di convincere il cliente che nel loro punto vendita è possibile risparmiare sui costi della spesa. In realtà, per compensare il prezzo ribassato vengono alzati quelli di altri prodotti.
E parliamo ora delle offerte paghi uno e prendi due e così via di cui bisogna approfittare solo se sappiamo che poi riusciremo effettivamente a consumare quel determinato prodotto. È inutile riempire il frigorifero di prodotti freschi in offerta se poi trascorriamo la maggior parte del tempo fuori casa e non abbiamo il tempo di consumarli: è solo uno spreco di cibo e denaro.
Infine, chi di noi non ha il portafoglio pieno di carte fedeltà. Ci permettono infatti di usufruire di determinate offerte riservate solo ai clienti in possesso delle tessere fedeltà e ci consentono di accumulare punti che si convertono poi in premi o sconti sulla spesa. Ovviamente, una volta che si è in possesso della carta fedeltà e si è interessati ai prodotti della raccolta punti, si tende a ritornare sempre nello stesso punto vendita.

sabato 14 marzo 2015

Quel virus chiamato disoccupazione

Il 20 gennaio scorso l’ILO ha pubblicato il report “World Employment and Social Outlook – Trends 2015” . I dati contenuti nel report sono desolanti: nel 2014, nel mondo, più di 200 milioni di persone erano disoccupate ( 31 milioni in più rispetto alla situazione ante-crisi). A pagare il conto salato della crisi economica sono soprattutto i giovani e le donne. E per il futuro si delinea un quadro ancora peggiore: le persone senza lavoro passeranno a 212 milioni entro il 2019. Le previsioni fornite dall’organizzazione internazionale del lavoro sono oltremodo demotivanti per tutti coloro che, loro malgrado, si trovano stretti nella morsa della disoccupazione o in quella di un lavoro precario senza prospettive future. E’ altresì scoraggiante per tutti coloro che, prossimi a completare il proprio percorso di studi, si preparano ad entrare in quel limbo del lavoro-non lavoro.
Visto le proporzioni che ha assunto il fenomeno della disoccupazione- non solo in Italia- e le fosche previsioni dell’ILO di un aumento sproporzionato della disoccupazione nell’arco dei prossimi cinque anni, non si può più guardare alla mancanza cronica di lavoro come ad un problema. Dire che la disoccupazione è un problema è riduttivo. La macchina che non funziona più e vi ha lasciato in mezzo all’autostrada, le sacche di inefficienza della P.A, la casta politica: questi sono problemi più o meno gravi. Ma la disoccupazione, quella, é una vera e propria catastrofe. Essa mina alle basi tanto il benessere delle nazioni quanto quello di coloro che, in prima persona, si trovano ad affrontare la difficile e frustrante situazione di non riuscire a trovare un lavoro. In nessun report o documento pubblicato dalle Istituzioni troverete mai gli effetti veri e profondi della disoccupazione. Leggerete che sono in calo i consumi, che gli Italiani non vanno più in vacanza o che hanno rinunciato alle visite mediche specialistiche. Non leggerete invece degli effetti della disoccupazione sulla psiche umana, che poi sono gli unici effetti che davvero importino alla luce dei fatti.
Il legame tra disoccupazione e depressione è stato ampiamente studiato e documentato. Molti depressi vengono accusati di fingersi tali per comodità, altri ritengono che le nuove generazioni siano cresciute viziate e per questo di fronte alle prime difficoltà cadono facili preda della tristezza mortale. Di fatto, la depressione priva l’individuo della sua vitalità e lo rende praticamente incapace di svolgere qualsiasi lavoro. Senza essere uno psichiatra o un medico, è facile intuire che i milioni di disoccupati attuali, vessati dalle condizioni lavorative al limite dello sfruttamento, sentendosi inadeguati e a volte già troppo vecchi, finiscano presto per cadere vittime della depressione. Ma anche per chi resiste con coraggio, lo stato di disoccupazione- specie se di lungo periodo- apre di fronte un baratro, che è il vuoto che avverte chi vede passare gli anni senza trovare un posto nel mondo del lavoro, passando da uno stage all’altro. Senza più speranza nel proprio futuro e nelle proprie capacità, il disoccupato finisce per rassegnarsi a un’esistenza che si fa sopravvivenza. In sostanza, per i disoccupati è difficile trovare un senso alla propria vita e molti, purtroppo, ritengono che sia meglio uscire di scena. Definitivamente.
Stiamo assistendo ad uno scenario apocalittico. E’ come se un virus altamente mortale si stesse propagando per il globo, solo che nessuno la mette in questi termini.
Renzi, con il suo Jobs Act, ha affermato di voler rilanciare l’occupazione e la stessa ferma intenzione hanno espresso gli altri governi nazionali. A parte qualche fuggevole servizio sul telegiornale, il dibattito pubblico sembra incentrato su questioni più importanti: i tassi applicati dalla Federal Reserve, l’Isis ed i suoi video, i fondi per l’Erasmus+ e così via. Il fatto stesso che, quando si parli di disoccupazione, ci si limiti a riportare statistiche, dati ed odiose percentuali – numeri che non sono capaci di fornire la reale dimensione del fenomeno, risentendo di un’intrinseca astrattezza- è indicativo della sistematica sottovalutazione del fenomeno disoccupazione.
Appare ormai evidente che la disoccupazione non è un problema né un fenomeno transitorio e non si risolverà nel breve-medio periodo. E’ una vera e propria catastrofe. Come in un film di fantascienza, in cui lo scienziato solitario scopre quasi per caso l’avvicinamento di un asteroide al pianeta Terra e il governo americano si adoperi per scongiurare l’impatto (tramite la costruzione di un complicato marchingegno che distrugga l’asteroide), allo stesso modo dovremmo adoperarci per sconfiggere questo virus. Senza limitarci a compiangere chi non ha un lavoro o esortare i giovani italiani a cercare un’occupazione all’estero.
In tempi non sospetti, ci siamo già trovati ad affrontare situazioni di emergenza (o presunte tali): dalla mucca pazza all’aviaria, al recente allarme Ebola. La nostra società è una società fondata sulla paura, sull’allarmismo, sulla caccia al nemico presunto o dichiarato. “La diffusa e impalpabile paura che satura il presente è usata da molti leader politici come una merce da capitalizzare al mercato politico. Si comportano come dei commercianti che pubblicizzano le merci e i servizi che vendono come formidabili rimedi all’abominevole senso di incertezza e per prevenire innominabili e indefinibili minacce” ha affermato Zigmun Bauman in un’intervista di qualche anno fa . Se ci hanno abituati ad avere paura di ogni cosa mini in qualche modo la nostra presunta stabilità, perché la disoccupazione- che sta assumendo proporzioni spaventose- non desta lo stesso allarmismo che desta, ad esempio, l’Ebola?
La risposta, ahimè, è fin troppo scontata. La disoccupazione fa molta paura solo a coloro che si trovano a scontare sulla propria pelle le conseguenze di questo terribile fenomeno. La disoccupazione fa paura al laureato che, dopo una decina di stage, ancora non ha uno straccio di contratto decente, fa paura alle generazioni che si immatricolano all’università disillusi e già stanchi, fa paura ai genitori che sanno di rappresentare, per i loro figli, l’unica forma di sostegno economico in una società che tanto poco peso dà al lavoro e alla dignità dei lavoratori. Se per molti la disoccupazione è un virus altamente mortale, per molti altri – quelli che contano davvero, nelle cui mani stanno le sorti di molte persone- la crisi economica e la possibilità di rilanciare al ribasso tutele è stipendi è stata un’occasione fortuita di arricchirsi dimezzando o addirittura annullando i costi del lavoro. Per questo sentirete ancora per molto tempo parlare della disoccupazione come di un problema e mai come di una catastrofe.

venerdì 13 marzo 2015

UNA "BUONA SCUOLA", MA PER I BANCHIERI

Alcuni commentatori hanno già messo in evidenza l'ossimoro contenuto nello slogan renziano della "Buona Scuola". Idealizzare la Scuola è sempre stato infatti il modo più sicuro per delegittimarla. Per il resto nel "progetto di riforma" di Renzi non c'è nulla che non sia stato già fatto o detto dai governi precedenti. Uno studio diffuso dalla UIL ha posto in evidenza che anche i famosi, e fumosi, premi al "merito" dei docenti annunciati da Renzi si riducono in effetti a spiccioli.
Ma il concetto di premio al "merito" va valutato in base al contesto. In un lager il premio consisteva nel sopravvivere, e lo stesso vale per la "Buona Scuola", dove si è ormai accesa una guerra per bande per poter accedere all'olimpo dei "tutor", dei "mentor" e del mitico "staff" dirigenziale, in vista del consolidamento di una mafia carrieristica intenta a giudicare gli altri per non essere giudicata essa stessa.
Per pagare gli insegnanti il meno possibile si è sempre avvolto l'insegnamento di retorica missionaria, ma in passato un sistema di potere più interessato all'effettivo funzionamento dell'istruzione, aveva elaborato la tronfia espressione della "libertà di insegnamento", per garantire anche al più timido dei docenti quel minimo di autonomia che gli consentisse di sfuggire alle ingerenze di dirigenti, colleghi e genitori. Il demagogico slogan del "merito" si risolve invece in un generalizzato diritto all'ingerenza; ciò in nome di una finta didattica ideale che serva a distruggere quella reale.
Mentre la gestione della risorsa docenti è affidata al basso costo del terrore mafioso all'interno delle scuole, i veri soldi, tanto per cambiare, vanno all'assistenzialismo per le imprese private. Le leggi e gli stanziamenti di fondi per i progetti per l'alternanza Scuola-Lavoro non sono neppure questi una novità introdotta da Renzi, il quale, anche per il settore-Scuola, si allinea sul percorso già tracciato da decenni dai protocolli del Fondo Monetario Internazionale e della sua filiazione OCSE, le grandi centrali del lobbying finanziario mondiale. Da notare il fatto che l'OCSE ha potuto rifarsi una verginità presso l'opinione degli insegnanti semplicemente con qualche generico appello ad aumentare gli stipendi degli stessi insegnanti; un richiamo ambiguo e del tutto funzionale alla linea dei premi al "merito".
Renzi non inventa nulla neppure quando si atteggia a vittima e incompreso ogni volta che deve varare una cosiddetta "riforma". La scomparsa della politica e di ogni progettualità sociale riduce i politici a lobbisti, che trovano nel vittimismo il paravento ideologico con cui mascherare le loro sordide intenzioni. La morte della politica in Italia risale addirittura al 1976, con il primo inchino del governo Andreotti di allora ai diktat del Fondo Monetario Internazionale.
Era pressoché scontato che negli anni '70, in un contesto di scontri sociali ed a fronte di un assoluto monopolio informativo da parte del potere, una frazione del movimento di opposizione desiderosa di "visibilità" adottasse la linea della propaganda armata; senza considerare però che proprio quel monopolio informativo avrebbe consentito di rovesciare la propaganda armata nel suo contrario, cioè nel costante lamento vittimistico dello Stato e dei padroni. Oggi il vittimismo dei potenti è diventato il principale collante ideologico ed il fattore identitario del Sacro Occidente, dominato da un lobbying che ha come unica prospettiva il saccheggio del denaro pubblico.
Ancora una volta, per farsi un alibi ideologico, il lobbying può parassitare i discorsi di parte dell'opposizione, che si batte contro una mitica, quanto inesistente, "aziendalizzazione" della Scuola. In realtà i vecchi istituti tecnici e professionali erano già delle aziende, che si confrontavano alla pari con i gruppi industriali, i quali si presentavano umilmente nella Scuola a reclutare i loro quadri. Se l'ENI e l'ENEL sono potuti sorgere da un giorno all'altro, lo devono a quegli istituti tecnici liquidati dalla Gelmini senza clamore di titoli di giornali; ciò a riprova del fatto che i veri cambiamenti sfuggono al cosiddetto "dibattito democratico" e sono dissimulati tra le notizie-esca.
Attualmente la "Scuola Azienda" è solo uno slogan di copertura per il solito assistenzialismo per ricchi. Dal 2003 i governi italiani già riservano una costante pioggia di soldi per le imprese private che fingano di impegnarsi nella "formazione" degli studenti. Il Decreto 761 dello scorso ottobre va nella stessa direzione. Gli undici milioni di euro stanziati ultimamente possono forse apparire poca cosa, ma è la somma che fa il totale.
Assistenzialismo per ricchi oggi significa anzitutto assistenzialismo per banchieri, e infatti tra le aziende favorite da questi progetti di "alternanza Scuola-Lavoro" ci sono le banche. Non poteva mancare Unicredit, che si fa pagare dallo Stato per addestrare gli studenti alla tecnica bancaria. Almeno questo è l'alibi ufficiale.
Ci si è accorti però che, a spese dello Stato (o, meglio, del contribuente), banche come Unicredit possono soprattutto usare la Scuola per pubblicizzare e vendere i loro prodotti finanziari, come i famosi prestiti agli studenti in stile americano, che ridurranno i laureati a degli indebitati a vita. L'aspetto grottesco è che questi prestiti agli studenti siano stati battezzati "prestiti d'onore", forse per illudere gli stessi studenti che al momento di pagare potranno sempre cavarsela raccontando quattro balle, come avviene a Scuola. Al contrario, gli studenti, ed a volte anche i loro genitori, sono vincolati da firme sotto clausole-capestro che li schiavizzano per l'intera esistenza.

giovedì 12 marzo 2015

Lavoro e felicità

Durante l’epoca romana non esistevano né documenti digitali né carte d’identità, l’unico modo per individuare una persona era associarla al mestiere che esercitava. Questo era il processo sociale utilizzato per identificare i soggetti. Non a caso, sulle antiche tombe romane erano frequenti gli epitaffi come: “Carpenter, Aurelio x”, per ricordare la propria identità con quel che si faceva in vita.
Ma il concetto di lavoro è cambiato nel tempo, molti sono i sociologi che hanno ripensato la nostra società moderna fondata sul lavoro. Uno fra tutti: Zygmunt Bauman. Nel pensiero del sociologo polacco, le persone sono principalmente dei consumatori. “Consumo, dunque sono” , adattando il celebre aforisma di Cartesio, Zygmunt Bauman ci indica la struttura di una società dove gli uomini mirano a lavorare di più (per guadagnare di più) al fine di soddisfare ogni loro desiderio di consumo che, ingenuamente, porterebbe loro felicità. Dunque, se prima il lavoro era un modo di realizzare il proprio essere e citando Marx: la possibilità di plasmare la natura umanizzandola, oggi, il lavoro si è trasformato in un processo di accrescimento della nostra potenza d’acquisto, la quale ci permette di soddisfare i bisogni indotti. Nel libro di Stefano Bartolini “Manifesto per la felicità” viene evidenziato che con la crescita economica, la felicità tende a diminuire. Questo a causa di un meccanismo di privatizzazione dei beni e dei servizi che prima erano gratuiti, per esempio, la qualità dell’ambiente in cui viviamo, oggi particolarmente inquinato, oltre all’impoverimento delle relazioni sociali a causa della crescente quantità di tempo impiegato nel lavoro. Si forma così un circolo vizioso: lavoriamo per acquistare beni che prima erano gratuiti ma ora privati (per esempio una vacanza in un luogo incontaminato), cercando, nel frattempo, di incrementare le relazioni sociali fonti di felicità che però non riusciamo a sviluppare a causa dell’impegno lavorativo sempre crescente finalizzato ad acquistare più prodotti. Nel campo lavorativo inoltre gli stati d’animo come: angoscia, pressione, ansia da competizione sono ormai prassi, dove prima vi era la fiducia, oggi, ci sono telecamere che monitorano gli impiegati. Osserviamo facilmente come il lavoro, deumanizzato, e la felicità tendono a prendere due strade diverse. Questo fenomeno in Europa, per fortuna o perché ancora incompleto il processo, non si è accentuato come negli Stati Uniti. Negli States,infatti,malattie come depressione, schizofrenia, stress sono in aumento vertiginosamente, senza soffermarsi sui numerosissimi casi criminali di follia che ascoltiamo in TV. Purtroppo gli USA sono il faro dell’Occidente, il modello da seguire senza se e senza ma; non ci accorgiamo però che la crescita economica, programmata in questo senso, porterà a un calo del nostro benessere.
Quindi cosa fare? Diviene quasi un rompicapo trovare una risposta a un quesito così importante, ma la nostra felicità (unico vero scopo delle nostre vite) dipende da ciò, dipende da noi. Non possiamo che condurre la situazione attuale su un piano politico, luogo delle decisioni. E’ necessario un cambiamento di pensiero nell’establishment dominante. Serge Latouche, in La scommessa della decrescita, propone un cambiamento di rotta: sostituire al PIL (Prodotto Interno Lordo), il FIL (Felicità Interna Lorda). Un tentativo (spesso preso come un’idea meramente ironica) di cambiare gli attuali paradigmi economici. Ridare al lavoro la sua dignità e soprattutto il suo significato intrinseco: una passione attraverso la quale possiamo contribuire alla nostra felicità. Il piccolo paese del Bhutan, ai piedi dell’Himalaya, ha adottato il FIL come parametro principale della Nazione. Anche se il Bhutan sembra essere sul piano economico uno dei Paesi più poveri dell’Asia, risulta essere la nazione più felice del continente, nonché l’ottava al mondo. Qui, il lavoro e la felicità sono davvero un binomio possibile.