mercoledì 27 luglio 2016

Da Charlie a Nizza: un anno di bugie

Il 18 giugno 2015, infatti, è calato il segreto di Stato sulla strage al settimanale satirico. Molti giudici hanno protestato apertamente chiedendo la possibilità di investigare sul passato dei fratelli Kouachi e, soprattutto, su quello di Amedy Coulibaly. Non possono più. Tutto è stato coperto dal segreto di Stato.
Ad agosto 2015,la Voix du Nord, quotidiano di Calais, scopre che Coulibaly, l’attentatore dell’Hyper Cacher, sarebbe riuscito ad ottenere le armi per compiere la strage al supermercato ebraico grazie a Claude Hermant, 52 anni, un passato da paracadutista e da mercenario in Africa. Hermant è stato anche un attivista del Front National. Ma non solo: dal 2013 è l’uomo che si occupa, per i servizi segreti francesi, di investigare sul traffico d’armi che entrano ed escono dalla Francia. Un infiltrato, insomma. Che però, non si sa se per interessi personali oppure per coprire chi lo dirige, fa un gioco che non è chiaro. Interrogato, Hermant dice di non voler fare la fine di Marc Fievet. Una allusione fin troppo chiara – scrive la Voix du Nord – “all’ex ispettore doganale francese arrestato dalle autorità canadesi e abbandonato dai suoi superiori”. Se questa pista dovesse rivelarsi vera, dovremmo supporre che, seppur indirettamente, il governo francese ha armato le mani di chi poi ha colpito Parigi. Ma sul traffico di armi che ha permesso la carneficina al settimanale satirico non si potrà più investigare. Segreto di Stato.
Nel luglio del 2016 si è registrato – quasi in concomitanza con la strage di Nizza – l’ennesimo scivolone del governo Valls. La polizia avrebbe taciuto – non si sa ancora su ordine di chi – sui crimini degli attentatori al teatro Bataclan (13 novembre 2015). La notizia viene data dal Daily Mail del 16 luglio 2016, quindi otto mesi dopo la strage in cui è morta la nostra connazionale Valeria Solesin. Il quotidiano inglese pubblica parte del rapporto della Commission Fenech-Pietrasanta, ovvero l’organo parlamentare competente in materia di terrorismo islamico e prevenzione di nuovi attacchi.
Sono pagine durissime in cui si parla apertamente di “torture abominevoli” compiute dai terroristi. Non solo: vengono anche mostrati gli errori compiuti dall’intelligence francese, completamente impreparata davanti ad un attacco simile.
Come riporta il Daily Mail, un poliziotto della brigade anti-criminalité (Bac), intervenuto sul luogo del massacro, ha raccontato: “Dopo la strage ero al passage Saint-Pierre-Amelot (nei pressi del teatro NdA) con i colleghi quando ho visto uno di loro piangere e vomitare, mi ha raccontato quello che aveva visto al secondo piano del Bataclan”.
E cosa aveva visto quel poliziotto? I segni di tortura avvenuti al secondo piano del teatro, dove i terroristi avrebbero decapitato e sventrato a proprio piacimento i malcapitati. Il padre di una delle vittime, chiamato a riconoscere il cadavere del figlio, ha affermato di aver fatto fatica a riconoscerlo perché “gli hanno perforato l’occhio destro e rimosso mezzo volto”. Di tutto questo non si è parlato per otto mesi. Tutto insabbiato, ancora una volta.

martedì 26 luglio 2016

Lo specchio infranto dell'ansia perenne

Le notizie su attacchi omicidi-suicidi rimbalzano da una parte del pianeta all'altra. L’assuefazione collabora silenziosamente dentro di noi con una rassegnazione angosciosa, creando uno stato psichico stuporoso, terreno fertile per le interpretazioni schematiche e sbrigative.
Il rischio più pernicioso che corriamo è l’adesione inconsapevole (la più acritica e forte) a un pensiero di massa che legge la realtà in modo altrettanto folle e irresponsabile di quello degli attentatori.
Si fa presto a dire che l’imperversante violenza nichilista favorisca le «emozioni di pancia». Le emozioni sono vere, autentiche, quanto più sono viscerali. Hanno la loro radice nel corpo, nel punto in cui il vissuto corporeo diventa vissuto psichico, affettivo. Assumono leggibilità e configurazione comunicabile mescolandosi con il pensiero.
Legate al pensiero onirico (dove i confini tra noi e l’altro sono più aperti), assumono una forma più elaborata e precisa (che le rende più complesse e significative) se hanno il tempo necessario per essere sedimentate e connesse a un pensiero condiviso. Se tutto va per il verso giusto le nostre emozioni diventano il luogo in cui la nostra particolarità incontra la fraternità universale.
Fino a che punto siamo consapevoli della necessità politica di riappropriarsi come cittadini del nostro spazio onirico (l’immaginazione che incontra l’inconsueto) e del nostro tempo (quello necessario per la sedimentazione, la sperimentazione dei nostri vissuti e per il godimento che rispetta il suo oggetto)?
Il vivere in una dimensione di perenne urgenza (che trasforma l’inefficienza dell’amministrazione degli interessi collettivi in un efficace macchina di potere) porta la gestione delle nostre emozioni verso due direzioni ugualmente disastrose. Nella prima direzione le emozioni si dissociano dal pensiero, diventando un ammasso indistinto, un accumulo di tensione che può essere solo scaricato.
Nella direzione opposta il pensiero si dissocia dalle emozioni e, perdendo il suo fondamento nei sensi, nel sogno-immaginazione e nel gesto, misura la realtà con schemi astratti in cui il disimpegno sposa l’arbitrio e diventa dogma costrittivo.
Ci devasta il fenomeno impressionante della moltiplicazione incontrollabile di distruttori folli. Tuttavia sono solo schegge impazzite di un processo di identificazione di massa (che la comunicazione digitale accelera fortemente) con un processo di liberazione dalle nostre impasse emotive che trova il suo strumento più efficace in un agire violento (psichico o fisico).
La violenza scarica bruscamente le emozioni e al tempo stesso si sbarazza della sensibilità che le genera. Nulla è più contagioso di questa evacuazione dell’imbarazzo a vivere, in cui si sta riducendo la nostra esistenza, che trova nel pensiero automatico il suo più grande alleato.
Tra coloro che uccidono, pedine impersonali della forma più insensata della forza distruttiva, e coloro che reagiscono invocando il rigetto altrettanto violento dello «xenos», si è stabilita una completa simmetria.

lunedì 25 luglio 2016

Porte girevoli a Bruxelles

La credibilità del sistema politico è messa ogni giorno alla berlina al punto da minare non solo l’autorevolezza ma la stessa sopravvivenza di strutture e livelli amministrativi che ormai i cittadini avvertono nella loro natura oppressiva, non come espressioni ma come ostacoli ad un esercizio democratico del potere. Quello che emerge è un’insofferenza sempre maggiore nei confronti dei partiti e delle figure politiche tradizionali, formazioni che assumono varie declinazioni nelle singole realtà statuali ma che si possono facilmente riconoscere nella tendenza bipolare degli ultimi trent’anni, forze divise su tutto tranne su quello che più conta cioè nel sostegno acritico alle politiche economiche neoliberiste.
Tutto questo ha prodotto una crescita di forze che sotto l’astratta e poco utile definizione di populismo coagulano un consenso che variegate leggi elettorali, larghe intese, appelli alla responsabilità non sembrano in grado di contenere. Anche se è lecito nutrire dubbi sulla loro capacità di produrre modifiche strutturali data la carenza o ambiguità delle loro analisi, il desiderio di cambiamento che le sostiene preoccupa chi ha interesse nel mantenere l’attuale stato di cose. Un’onda lunga che in un modo o nell’altro sembra destinata a modificare l’assetto politico degli ultimi trent’anni rischia di far cadere la fragile costruzione europea già sul bordo di un precipizio nel momento in cui uno o più di questi partiti dovesse prendere il potere, ipotesi sempre più probabile ad ogni tornata elettorale. Particolarmente critica risulta essere la legittimazione degli organismi europei che svolgono un ruolo sempre maggiore nello stabilire e indirizzare le politiche dei singoli stati nazionali. La grande coalizione messa in campo al Parlamento Europeo per fermare le cosiddette forze euro-scettiche, che comprende socialisti, popolari e liberali rende trasparente l’illusione di una competizione democratica che, data la totale interscambiabilità delle politiche proposte, rende a sua volta superfluo ogni esercizio elettorale.
Palesare l’evidenza di come la scelta elettorale non vada a influenzare la sostanza del processo decisionale mina la sostanza stessa della democrazia e con essa la legittimazione del sistema, anche perché questa conclusione apre al legittimo interrogativo di stabilire a chi rispondono le logiche politiche ed economiche messe in atto dall’Unione Europea. La facile risposta ce la può suggerire la nomina nelle scorse settimane dell’ex presidente della Commissione Europea José Barroso a presidente della banca d’affari Goldman Sachs. La reazione imbarazzata dello stesso J.C. Junker, uomo che non ha certo un passato da educanda sull’opportunità di tale nomina, è rivelatrice degli intrecci tra potere politico ed economico. L’affrettarsi a formulare una condanna unanime da parte di parlamentari e membri della commissione, nonostante non siano state violate le regole di quel codice di condotta che loro stessi hanno contribuito a scrivere, ovvero la pratica delle porte girevoli tra politica ed economia, di cui Barroso è solo l’ultimo di una lunga serie, è una reazione sospetta. Quello che preoccupa i parlamentari non è tanto l’inaccettabile sostanza di un rapporto dove il conflitto d’interessi è tale da fare apparire Berlusconi un paladino della trasparenza, ma il fatto che il palesarsi di queste dinamiche tende a rafforzare i partiti euro-scettici all’interno dell’opinione pubblica. Non si comprende in altro modo una reazione così veemente quando la lista di personaggi inseriti in questo sistema definito a porte girevoli sarebbe talmente lunga da occupare il resto di quest’articolo. Per limitarci alle italiche glorie che direttamente sono collegati alla sola banca sopracitata ricordiamo Romano Prodi, Mario Draghi, Mario Monti, Gianni Letta e la lista potrebbe facilmente allungarsi allargando le maglie della ricerca a collegamenti appena meno espliciti o ad altre banche. Non si può servire contemporaneamente Dio e Mammona e la scelta delle élite europee sembra chiara nei fatti e poco valore hanno dichiarazioni retoriche al di là della falsa coscienza dei singoli parlamentari.
La costruzione europea rimane un processo d’integrazione spesso portato avanti ignorando volontà dei cittadini dei singoli stati e condotto sotto la guida di grandi interessi economici prima che delle persone. Per la sua fragile sopravvivenza nelle forme e nei modi come la conosciamo, in cui il controllo delle politiche messe in atto non è determinato da una legittimazione democratica ma risponde a interessi ristretti, è necessaria quella redistribuzione di ricchezza premessa implicita o esplicita a tutti i processi comunitari. Nel momento in cui nemmeno questa può essere garantita e non può essere garantita perché l’Unione non è stata pensata con questa funzione, emergono con tutta la loro forza dirompente le crepe causate dalle contraddizioni di una struttura costruita sulla testa dei popoli nell’interesse del grande capitale e nel solco dell’ideologia neoliberista che esso sostiene.

venerdì 22 luglio 2016

ITALIA. ALLA POVERTÀ PENSIAMO DOMANI

Ogni anno il rapporto Istat sulla povertà in Italia ricorda ai media che una parte non trascurabile della popolazione si trova al di sotto della soglia minima di sussistenza. L’edizione 2016, pubblicata il 14 luglio, rivela un dato sconfortante: più di un milione e mezzo di famiglie, per un totale di oltre quattro milioni e mezzo di individui, in condizione di povertà assoluta nel 2015.
Come osserva lo stesso RAPPORTO, si tratta del dato più alto dal 2005, espressione di un fenomeno in crescita da anni. Già nel 2010 Poveri, noi di Marco Revelli, docente presso l’Università del Piemonte Orientale, riprendeva i dati Istat per denunciare il progressivo impoverimento dell’Italia, con un milione 126mila famiglie al di sotto della soglia della povertà assoluta e una diffusa vulnerabilità sociale. Le conseguenze di tale impoverimento e dell’emarginazione e frustrazione che ne conseguono sono sotto gli occhi di tutti, riportate con dolorosa regolarità dalla cronaca e dalle analisi di più ampio respiro.
I DATI PIÙ INTERESSANTI PRESENTATI DALL’ISTAT SI TROVANO BEN SINTETIZZATI NEL RIASSUNTO IN PRIMA PAGINA.
L’aumento della povertà assoluta – ossia di coloro che non riescono a coprire le spese minime per la sussistenza (soglia diversa dal cosiddetto “dollaro al giorno” delle analisi internazionali, essendo basata su criteri definiti domesticamente) – riguarda in particolare le famiglie con due figli (da 5,9 a 8,6%), con una significativa incidenza fra le famiglie di stranieri, tendenzialmente più numerose (da 23,4% a 28,3%). Le famiglie in condizione di povertà assoluta sono in crescita sia al Sud (da 8,6% al 9,1%) sia al Nord (da 4,2% a 5%), soprattutto nelle aree urbane (da 5,3% a 7,2%). Infine, a essere più colpite da questa erosione delle condizioni di vita sono le famiglie con una sola persona di riferimento occupata, in particolare se operaio (da 9,7% a 11,7%).
Anche alla luce di una rassegna sommaria, questo quadro di esclusione mostra con una certa chiarezza come le famiglie e gli individui più vulnerabili siano i perdenti delle dinamiche economiche degli ultimi decenni, dallo sgretolamento del tessuto produttivo italiano a un sistema di welfare e di ridistribuzione che ha abdicato al suo ruolo di garante della giustizia sociale e della dignità. Scelte politiche prima ancora che economiche che non hanno saputo fare fronte in modo adeguato alle sfide di questo mondo sempre più globalizzato, finanziarizzato e concentrato sui soli servizi ad alto valore aggiunto, dimentico delle condizioni di chi in questi settori non trova posto.
L’URGENZA DEL FENOMENO NON È COMUNQUE PIÙ TRASCURABILE, STIMOLANDO NEGLI ULTIMI ANNI UN DIBATTITO SULLE POSSIBILI MISURE DI RISPOSTA DA METTERE IN ATTO.
È stato in particolare il Movimento Cinque Stelle a insistere sulla questione, facendo del cosiddetto “REDDITO DI CITTADINANZA” una delle sue principali battaglie politiche, rispetto alla quale numerose sono state per altro le polemiche riguardanti la copertura finanziaria e il rischio di incoraggiare “comportamenti parassitari” a danno della produttività del Paese.
Dall’altra parte, ritenendo le disposizioni previste largamente insufficienti, il Movimento Cinque Stelle si è astenuto con altri esponenti dell’opposizione dalla votazione che alla Camera dei Deputati han sancito l’approvazione del disegno di legge sul contrasto alla povertà, votazione che han avuto luogo lo stesso giorno della pubblicazione del rapporto Istat.

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Il PROVVEDIMENTO, presentato dal Partito Democratico, prevede l’introduzione di un “reddito di inclusione sociale”, ossia – citando il testo del ddl – “un’unica misura di nazionale di contrasto alla povertà, consistente in un sostegno economico condizionato all’adesione a un progetto personalizzato di attrazione e inclusione sociale e lavorativa volto all’affrancamento dalla condizione di povertà, inclusivo di una componente di servizi alla persona […]”.
L’idea, semplificando, è quella di corrispondere una somma di denaro che permetta all’individuo o alla famiglia – di nazionalità italiana o straniera ma con residenza in Italia da alcuni anni – di ottenere le risorse necessarie – o integrare quelle già a disposizione – per poter raggiungere la soglia della sussistenza. Per chi è in età lavorativa, sarà richiesto di inserirsi in un percorso di formazione o riqualificazione che renda possibile l’ingresso o il reintegro nel mondo del lavoro. I dettagli verranno definiti dal Ministero del Lavoro se il ddl sarà approvato anche in Senato e non è al momento possibile scendere più nel dettaglio nell’analisi.
Le critiche mosse dal Movimento Cinque Stelle e da Sinistra Italia – che invece ha votato contro l’approvazione del ddl – considerano il reddito di inclusione sociale (REIS) una brutta copia del reddito di cittadinanza, simile alla social card, introdotta nel 2012, che si limitava all’elargizione di modesti contributi economici per sostenere i consumi delle fasce più vulnerabili della popolazione. Una misura pertanto insufficiente a fare fronte ai reali problemi di queste famiglie e di questi individui e accompagnarli in un percorso di effettiva re-inclusione nella società.
È BENE PRECISARE A QUESTO PUNTO QUANTO CONFUSO SIA SPESSO IL DIBATTITO SU REDDITO MINIMO GARANTITO E REDDITO DI BASE O DI CITTADINANZA.
Il primo, di cui il REIS rappresenta un esempio, prevede che a cittadini o residenti (a seconda delle disposizioni di legge) al di sotto di una determinata soglia considerata “minima” per una vita dignitosa venga assicurato un reddito che permetta loro di raggiungere tale soglia. Il secondo implica che tutti i cittadini o residenti – indipendentemente dal livello di reddito e dal patrimonio e in modo illimitato nel tempo – percepiscano un reddito minimo sufficiente per la sussistenza, in modo da garantire uno standard di vita minimo a tutti. Chi vorrà (e potrà), integrerà tale reddito di base con altre entrate.
Nonostante il suo nome, la proposta del Movimento Cinque è più simile al reddito minimo garantito che non a un reddito di cittadinanza. Quanto suggerito dal MOVIMENTO CINQUE STELLE è più ambizioso rispetto al REIS, perché la soglia di riferimento è calcolata, seguendo criteri dell’Unione europea, a 6/10 del reddito mediano (ossia la soglia tra il primo 50% della popolazione, classificata per livelli crescenti di reddito, dal secondo 50%) per la categoria di riferimento. Riprendendo per amor di chiarezza l’esempio portato dalla proposta del Movimento, il reddito mediano per un singolo individuo è di 9.360 euro annui e 780 euro mensili. Tale cifra non solo garantisce al suddetto individuo di assicurarsi la sussistenza, ma contribuisce parzialmente a livellare le disuguaglianze in termini di spesa tra le diverse categorie di reddito.
Non si tratta tuttavia di un reddito di cittadinanza perché non universale: a poterne beneficiare sono infatti solo gli individui e le famiglie i cui redditi sono al di sotto di questa soglia. Inoltre, la misura concerne i cittadini dell’Unione Europea e gli stranieri provenienti da Paesi che hanno stipulato accordi di reciprocità sulla sicurezza sociale, escludendo di fatto molte situazioni di vulnerabilità ed emarginazione fra diverse categorie di migranti economici (che, come evidenzia il rapporto Istat, sono invece particolarmente a rischio).
Non si tratta nemmeno di una contribuzione elargita in modo incondizionato, perché ai beneficiari potenziali in età lavorativa viene richiesto di seguire dei programmi di formazione o riqualificazione professionale e di cercare attivamente un posto di lavoro (il terzo rifiuto a una proposta lavorativa implica la perdita del reddito di cittadinanza); una disposizione sostanzialmente simile a quella prevista nel quadro delle iniziative per il REIS.

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Tornando a quest’ultimo, le polemiche sul suo contenuto non hanno riguardato unicamente il dibattito con il Movimento Cinque Stelle. L’economista Tito Boeri, presidente dell’INPS, ha espresso negli ultimi mesi alcune perplessità sulla struttura del provvedimento, basato risorse troppo modeste rappresentate dal miliardo di euro stanziato dalla Legge di Stabilità 2016 per il Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale che sarò attivo dal prossimo anno (e con una dotazione prevista di un miliardo all’anno). Un miliardo di euro per quasi quattro milioni e seicentomila individui sotto la soglia della sussistenza (potenziali beneficiari delle misure di lotta alla povertà) e i calcoli sono presto fatti ed evidenti nella loro insufficienza.
Al momento, infatti, si prevede che a beneficiare del REIS saranno circa un milione di persone, cosa che pone il rischio – espresso anche da Boeri – di creare “poveri di serie A e serie B”. Lo stesso tipo di perplessità sono state mosse dall’ALLEANZA CONTRO LA POVERTÀ (rete di oltre sessanta associazioni, create nel 2013 e molto spesasi per il reddito di inclusione sociale), la quale ritiene che siano necessari almeno 7 miliardi all’anno per attuare dei dispositivi realmente efficaci. Sette volte di più.
La questione della disponibilità delle risorse è indubbiamente cruciale (il Movimento Cinque Stelle calcola addirittura 17 miliardi necessari per il primo anno) e pone complesse questioni di finanza pubblica, teoria economica e priorità macroeconomiche nell’era della globalizzazione e del Fiscal Compact europeo. Al di là delle misure per alleviare le situazioni di povertà, rimane cruciale interrogarsi sulle cause di questa e sulle relazioni che la legano a modelli economici, crescita e disuguaglianza.
NEGLI ULTIMI ANNI IL MONDO DELLA RICERCA HA ELABORATO SEMPRE PIÙ RAFFINATE METODOLOGIE PER MISURARE CON PRECISIONE QUESTO FENOMENO: SOGLIE, COEFFICIENTI, FORMULE, ETC. MA LA RIFLESSIONE SULLE CAUSE È RIMASTA INDIETRO, LIQUIDATA A TONI CHE STRIZZANO L’OCCHIO A UN PIETISMO OTTOCENTESCO SEMPRE LATENTE, IN ITALIA SPECIALMENTE.
Si è poveri perché non si trova lavoro, perché non si riesce a trovare un altro impiego, perché la propria occupazione è malpagata e priva di garanzie, perché il welfare non fa il suo dovere, percepito con fastidio come un erogatore di privilegi per fannulloni e non come il cuore pulsante di un sistema che promuove la giustizia sociale. Si è poveri perché una società diventa più diseguale e una società diseguale – lo sostengono persino FMI e OCSE – non cresce, avvitandosi in un circolo vizioso in cui impoverimento porta ad altro impoverimento.
Nessun assegno di sostegno al reddito potrà arrestare questo circolo vizioso da sé e per quante famiglie e quanti individui si possano aiutare a raggiungere la soglia fissata, altri ancora saranno lasciati indietro.
Il reddito minimo garantito – in qualunque sua forma – a poco serve se non inserito in un profondo ripensamento della distribuzione di redditi e ricchezza all’interno di una società, del modello produttivo su cui questa si basa e della sua dipendenza dalle dinamiche internazionali. Per quanto apprezzabile, la (ri)qualificazione professionale non serve a niente se non ci si mobilita per creare opportunità di impiego dignitoso.
In una situazione economica così intricata e difficile il REIS previsto dal ddl era il massimo che si poteva offrire? Purtroppo, di questi tempi, sembra che l’unico percorso possibile – addirittura ritenuto l’unico ragionevole – sia quello di accontentarsi, non di impegnarsi per chiedere e realizzare obiettivi più ambiziosi. Per esempio una distribuzione più giusta e la dignità del lavoro.
Invece si sono scelte modeste misure fondate su magre risorse, meglio questo anziché niente ci diciamo. Teniamolo a mente per l’estate prossima quando verrà pubblicato il nuovo rapporto Istat sulla povertà, per ricordarci – tutti inclusi: semplici cittadini, società civile, partiti politici, giornalisti, accademici e imprenditori – che anche questa volta abbiamo perso un’occasione per domandarci in che tipo di mondo e società scegliamo di vivere. E con quali conseguenze.

giovedì 21 luglio 2016

Scuola Diaz, Italia condannata per la ‘macelleria messicana’

Mi sdraio sul pavimento in legno e dopo qualche minuto dormo come un bambino, stanco della giornata. Alle 23.30 sento un baccano infernale provenire dalla porta che si sfonda dopo poco, vedo entrare panchine. Penso ai Black Block, ad un gruppo di fascisti. Era la nostra Polizia. Si è scatenato l’inferno mentre cantavano Faccetta Nera”.
Così Arnaldo Cestaro, che all’epoca dei fatti aveva già 62 anni ed era un pensionato militante, ha raccontato in passato la terribile esperienza della violenta irruzione delle forze dell’ordine nella scuola Diaz di Genova durante il G8 del 2001. Ed è in base al suo ricorso che nei giorni scorsi la Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo ha condannato l’Italia per tortura.
I giudici della Corte europea hanno stabilito all’unanimità pochi giorni fa che l’Italia violò l’articolo 3 della Convenzione sui diritti dell’uomo, che vieta la tortura. L’Italia dovrà versare a Cestaro un risarcimento di 45mila euro.
Il bilancio del pestaggio da “macelleria messicana” operato dalle forze dell’ordine, come venne definito dal vicequestore Michelangelo Fournier, condannato in primo grado e poi prescritto, fu pesante: 82 attivisti feriti, 4 dei quali finiti in ospedale in prognosi riservata.
La notte del 21 luglio, dopo due giorni di proteste di centinaia di migliaia di manifestanti contro il g8 in corso in una Genova blindata e militarizzata, centinaia di poliziotti fecero irruzione con la forza nell’edificio scolastico dove era stato allestito il dormitorio del Genoa Social Forum e aggredirono gli attivisti e i giornalisti che trovarono al suo interno, la maggior parte dei quali stavano già dormendo. Durante il violentissimo blitz, furono fermati 93 manifestanti provenienti da varie città italiane e dall’estero. Tra gli attivisti arrestati, 63 furono trasferiti in ospedale e una ventina furono portati nella caserma della polizia di Bolzaneto, dove vennero sottoposti ad ulteriori violenze e torture. Ragazze denunciarono molestie sessuali e in molti raccontarono che i poliziotti cantavano inni fascisti.
Tra i feriti più gravi, il giornalista inglese Mark Covell, che finì in coma dopo essere stato assalito e picchiato dagli agenti. Per giustificare la mattanza, alcuni dei responsabili delle forze dell’ordine decisero di portare all’interno della scuola Diaz delle bottiglie molotov trovate in città durante gli scontri e degli attrezzi da lavoro recuperati in una cantiere vicino, per utilizzarli come prove della presenza di numerosi black block nell’edificio.
Un poliziotto, Massimo Nucera, affermò anche di essere stato aggredito con un coltello da uno degli ospiti della struttura, mostrando un taglio sul proprio giubbotto antiproiettile ma la sua versione si rivelò falsa e fu successivamente accusato di calunnia. Alla fine Nucera se l’è cavata con una piccola e insultante multa.
Complessivamente furono 125 i poliziotti finiti sotto accusa per il violento blitz. Il processo penale per i fatti della Diaz si è concluso con la sentenza della Cassazione che ha confermato in via definitiva le condanne per falso aggravato: 4 anni per Francesco Gratteri, capo del dipartimento centrale anticrimine della Polizia; 4 anni per Giovanni Luperi, vicedirettore Ucigos ai tempi del G8; 3 anni e 8 mesi a Gilberto Caldarozzi, attuale capo servizio centrale operativo. Condannato in via definitiva anche il capo della squadra mobile di Firenze Filippo Ferri a 3 anni e 8 mesi e all’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni e convalidata in parte anche la condanna per Vincenzo Canterini, ex dirigente del reparto mobile di Roma. Condanne poco più che simboliche, mentre alcuni dei massimi responsabili di quelle violenze da parte degli uomini in divisa sono stati nel frattempo addirittura promossi ad incarichi di prestigio negli apparati statali e di sicurezza.

mercoledì 20 luglio 2016

La fabbrica Fiat in Serbia e il senso per gli affari di Sergio Marchionne

Una Fiat Punto percorre in retromarcia il ponte che collega la città serba di Kragujevac -170mila abitanti, 140 chilometri a Sud della capitale Belgrado-, allo stabilimento della “FCA Serbia d.o.o. Kragujevac”. Dal finestrino abbassato spunta un uomo, sorriso di circostanza e polo a marchio Fiat; l’invito è quello di non fare altre fotografie alla facciata dove c’è un’enorme “500L” -la monovolume compatta che la multinazionale dell’auto con la sede centrale in Olanda (Fiat Chrysler Automobiles NV) produce qui in Serbia- la cui sagoma è rappresentata dalle figure di tanti suoi colleghi. Accanto agli operai verniciati c’è una scritta: “Mi smo ono što stvaramo”, siamo quello che produciamo.
L’atteggiamento dell’uomo sul ponte è prassi quando si guarda alla “FCA Serbia d.o.o. Kragujevac”, controllata al 67% circa dall’italiana FCA Italy Spa e per il resto dal governo serbo. Da Torino, l’ufficio stampa ha negato la possibilità di un sopralluogo in quella che dal 2008 è una zona franca, consegnata senza oneri dal governo guidato all’epoca da Boris Tadic all’allora e attuale amministratore delegato di Fiat (poi FCA), Sergio Marchionne. Oltre ad incentivi economici per ogni operaio assunto, l’accordo prevedeva l’azzeramento delle imposte o dei dazi doganali fino al 2018.
Un trafiletto uscito sul Corriere della Sera nel settembre di otto anni fa illustrava le prospettive di partenza: “Nel 2010 dovranno uscire 200mila auto, destinate a diventare 300mila l’anno successivo”. I modelli sulle linee sarebbero dovuti essere tre: Punto, 500 e una “nuova city car che Fiat sta progettando”. L’entusiasmo aveva contagiato anche Il Sole 24 Ore, che nel luglio 2010 titolava “Fiat in Serbia: 30mila posti”.
“Come è andata finire?”, è la domanda scontata che l’interprete ripropone in serbo a Zoran Markovic, segretario generale del sindacato Samostalni nonché vice-segretario della Fiom serba. Rispetto all’indotto, e cioè quei 30mila posti promessi dall’Agenzia serba per gli investimenti citata dal Sole, Markovic è sarcastico: “Si tratta di un errore, forse è scappato uno zero in più”. Sommando i dipendenti dei sette fornitori di FCA da queste parti, infatti, si superano di poco le 1.500 unità.
Il sindacato di Markovic è il più rappresentativo nello stabilimento di FCA, con 1.850 iscritti su 3.200 lavoratori. “È in base a questa forza che abbiamo firmato il contratto collettivo con la Fiat e conduciamo tutte le trattative nell’interesse degli operai”, spiega intorno al tavolo di una sala del Samostalni -la porta d’ingresso è foderata e un calendario è fermo al 2004-, nella vecchia palazzina cadente, tinteggiata all’esterno d’azzurro, dove un tempo batteva il cuore della contrattazione della Zastava, la storica fabbrica di automobili e armamenti di Kragujevac, bombardata dalla NATO neanche vent’anni fa, durante la guerra.
Qui, oggi, salvo la branca della Zastava Kamioni e altre filiere minori, non si produce più nulla. Il polo industriale adiacente alla ferrovia, che corre senza barriere, è diventato un grande parcheggio a pagamento a pochi passi dalle vetrine del centro, tra aiuole abbandonate, immensi spazi coperti lasciati al degrado, scritte e due cannoni incrostati che vegliano un ingresso buio.
Anche Markovic ha la polo d’ordinanza, ma lo spirito aziendalista si è affievolito rispetto a qualche anno fa. Precisamente da tre anni, da quando cioè i salari sono stati congelati. Lo sanno bene i rappresentanti dell’associazione italiana “Mir Sada” di Lecco, che ogni anno, da quindici anni, tornano da queste parti in giugno e in ottobre per consegnare oltre 70 adozioni ad altrettante famiglie in condizioni di necessità.
Siedo con loro mentre il sindacalista ordina le tessere dell’attuale mosaico: “Dal luglio 2012, Fiat produce qui la 500L nelle sue tre versioni: classic, living e trekking. Lavoriamo su tre turni, dalle 6 alle 14, dalle 14 alle 22, dalle 22 alle 6, per cinque giorni alla settimana esclusi sabato e domenica”. I numeri del 2008 sono lontani. Le 300mila auto prodotte promesse per il 2011 sono state in realtà 91.769 nel 2015. “A causa della richiesta diminuita nel mercato europeo e mondiale lo scorso anno abbiamo avuto 85 giorni non lavorativi e quest’anno se ne prevedono oltre 100” spiega Markovic. E quando gli operai vanno in cassa integrazione il salario percepito è il 65% di quello base, che a seconda del mansionario è compreso tra i 270 e i 320 euro al mese.
Il livello dei salari -che non è al di sotto della media nazionale serba- spiega perché non sia affatto semplice incontrare una 500L per le strade di Kragujevac, a parte nella versione taxi, fucsia. “Il potere d’acquisto è così basso -prosegue Markovic- che il prezzo attuale in dinari del modello con motore a benzina, pur con tutte le sovvenzioni, non scende sotto ai 10mila euro. Quindi per un cittadino serbo è del tutto inimmaginabile acquistarlo”. Immaginabile, invece, che i salari restino inchiodati.
Nella relazione al bilancio 2015 di FCA Italy Spa -la controllante principale della succursale serba- c’è un paragrafo dedicato alla “Contrattazione collettiva”. “In Serbia -si legge-, è stata raggiunta un’intesa che riconosce la mancanza degli elementi di contesto e aziendali per procedere ad aumenti collettivi dei salari mentre è stata definita l’entità del ‘Premio di Natale’, il cui importo è stato riconosciuto in funzione dell’effettiva prestazione lavorativa dei dipendenti interessati”. Markovic ascolta la traduzione guardando l’interprete -Rajka Veljovic, il punto di riferimento del Samostalni per tutte le associazioni di volontariato che fanno adozioni a distanza-, poi torna a sorridere e si limita a un’annotazione: “Il ‘Premio di Natale’ è la vostra tredicesima”.
Gli “elementi di contesto” non sono altro che i 100 giorni non lavorativi messi in conto quest’anno. “Eravamo a un bivio -racconta Markovic-: accettare i licenziamenti oppure mantenere gli operai, rinunciando però agli aumenti”.
Il compromesso al ribasso (per i lavoratori) ha apparentemente retto, al contrario di quanto accaduto nello stabilimento nel maggio di tre anni fa. Allora diversi veicoli uscirono dalle linee con una scritta incisa con dei cacciavite in cui si “invitava” l’ex capo reparto italiano ad andarsene a casa. I lavoratori lamentavano turni massacranti. Rimosso il capo reparto sono stati deposti i cacciavite.
Ma il compromesso è naufragato a fine giugno, quando FCA ha annunciato -e già avviato- nuovi tagli all'organico.
Nonostante i risultati sotto le attese, però, la filiale serba di FCA -o meglio, una delle sette società che la multinazionale ha domiciliato nel Paese- è stata nominata nel 2015 “Azienda socialmente responsabile dell’anno” dalla “Serbian association of managers”. Un riconoscimento gradito per l’azienda, che qui lo scorso anno ha registrato un fatturato netto di 1,15 miliardi di euro e utili per 19,6 milioni (-3% rispetto al 2014), ma mai quanto il finanziamento pubblico di 500 milioni di euro della Banca europea degli investimenti (BEI) -di cui la multinazionale ha dato conto nell’ultimo “annual report” del Gruppo-. Maturerà nel 2021 e dovrà contribuire alla “modernizzazione ed espansione” dello stabilimento di Kragujevac.
Non è dato sapere se FCA abbia realmente intenzione di portare a Kragujevac la produzione di un nuovo modello -a precisa domanda il Gruppo ha risposto infatti “no comment”-, che pure era stato previsto nell’accordo, secondo Markovic. “Il contratto originario stipulato nel 2008 prevedeva che già nel 2014 dovesse partire la produzione di un nuovo modello -spiega il segretario del sindacato-, che invece non mai è stato realizzato”. Quella del nuovo modello non è l’unica clausola mancata, come dimostra l’elenco schematico formulato dal sindacalista: “La Fiat doveva produrre il 5% dei pezzi di ricambio qui, e non è successo. La Serbia doveva terminare l’autostrada E75, che non è stata realizzata. La Serbia doveva rafforzare la ferrovia, non è stato fatto. La Serbia doveva fare la circonvallazione, non è stata fatta”. È stato fatto un asilo, questo sì, all’interno dello stabilimento, dove la retta non è azzerata ma scontata di un quinto rispetto alla città; sono state organizzate partite di pallone, realizzato un rondò all’ingresso della città dove sorge un enorme ovale deformato e lo stemma Fiat -è il secondo entrando a Kragujevac, dopo quello con la grande croce ortodossa- e un quiz tra gli operai: “Il vincitore andrà a Rio per le Olimpiadi”, racconta Markovic, alzando gli occhi verso il cielo.
Invece la “Nuova Tipo”, la berlina compatta a tre volumi annunciata nel maggio 2015 da Sergio Marchionne, è già andata in Turchia -uno dei 28 Paesi al mondo in cui FCA ha spostato la produzione, dal Venezuela alla Corea del Sud-. Da settembre scorso viene prodotta nello stabilimento Tofas di Bursa, che è in capo alla società Tùrk Otomobil Fabrikasi A.S., di cui FCA Italy Spa detiene il 37,8% in joint venture con il Gruppo Koc. Lì, FCA produce anche Fiat Linea, Fiat Fiorino, Fiat Qubo, RAM Promaster City e Fiat Doblò (oltre a Peugeot Bipper, Citroen Nemo e, per conto di Opel, Vauxhall Combo). Poteva essere la Nuova Tipo il modello promesso alla Serbia? “Lo Stato turco ha investito 1 miliardo di dollari e per questo la Fiat ha deciso di portare lì la Tipo, una berlina che nasce sulla stessa piattaforma della 500L -replica Markovic, a differenza di FCA che anche su questo punto non ha voluto rispondere-. La politica del nostro datore di lavoro, per quanto ne possa capire da sindacalista, e quella di andare laddove le sovvenzioni siano più alte. Qualche tempo fa fu lo stesso Marchionne ad annunciare due nuovi modelli sulla piattaforma di 500L. Disse che c’erano due ‘capacità’, in Polonia (a Tychy FCA ha prodotto nel 2015 303mila veicoli tra Fiat 500, Lancia Ypsilon e Ford Ka, nda) e in Serbia. Era il suo segnale al miglior offerente”.
Tra due anni scadrà il contratto decennale tra FCA e la Serbia. Markovic e il suo sindacato non possono partecipare ad alcuna trattativa. “Nella commissione chiamata a decidere le nuove condizioni siedono cinque italiani e due serbi. Speriamo di riuscire ad esercitare una qualche pressione indiretta”. L’obiettivo principale è il salario.

martedì 19 luglio 2016

Le "purghe" di Erdogan arrivano a 18 mila. E dall'Ue: "Sembra che almeno qualcosa fosse preparato"

Prosegue il contro-colpo di stato di Erdogan. Le cifre delle “purghe” del dittatore assumono livelli incredibili: migliaia di agenti di polizia sono stati rimossi oggi.
Un breve bollettino da Reuters: 9,000 poliziotti, 1500 dipendenti del ministero delle finanze trenta governatori regionali e oltre 50 alti funzionari sono stati licenziati, questo dopo le migliaia di membri delle forze armate e le migliaia di giudici. Totale: oltre a 9 mila soldati, Erdogan ha già arrestato 6,000 militari oltre a 3,000 giudici e procuratori, per un totale di circa 18 mila oppositori purgati poco dopo la conclusione del colpo di stato fallito.
Dall'Europa arrivano le prime reazioni. Il Commissario che affronta la questione dell'adesione della Turchia, Hahn, ha affermato lunedì che le liste di proscrizioni sembravano già preparate. "Sembra che almeno qualcosa fosse preparato. Le liste erano a disposizione. Il che indica che era preparata per essere utilizzata ad un certo momento”.
Di fatto siamo nella situazione che Erdogan sicuramente sperava, tanto che ha definito un “dono di Dio” il colpo di stato.
Il suo obiettivo è ora quello di concentrare in tutte le sue mani il potere e ci potrebbe riuscire.

Altra dichiarazione di rottura contro la Turchia arriva da Volker Kauder, capogruppo al Parlamento tedesco del partito di Angela Merkel, che dichiara che la Turchia deve obbedire allo stato di diritto. “In caso di introduzione della pena di morte cessino immediatamente le negoziazioni con Ankara”, ha dichiarato in un'intervista a ZDF. “Non dovrebbero permettere che non paghi per non rispettare lo stato di diritto”.
Il ministro degli esteri austriaco Sebastian Kurz ha ribadito che sarebbe inaccettabile la reintroduzione della pena di morte, abolita nel 2004 come pre-requisito per l'ingresso nell'Unione Europea. Nella Turchia di oggi, quello che è chiaro, scrive correttamente il blog Zero Hedge, è che la legge è quello che Erdogan decide.
I due milioni di profughi siriani sono l'arma fatale che può utilizzare contro l'Europa in qualunque momento.

lunedì 18 luglio 2016

Il Parlamento britannico chiede chiarezza sui finanziamenti all’Isil

L’Arabia Saudita e gli altri regimi arabi dovrebbero fare di più per garantire che le loro famiglie non stiano segretamente finanziando l’Isil, ha raccomandato una commissione parlamentare britannica.
The Guardian ha citato una relazione sullo stato delle finanze dell’Isil secondo la quale il comitato per gli affari esteri dice che l’organizzazione terroristica con sede in Iraq e in Siria è sempre più disperata per la mancanza di finanziamenti, e sta ricorrendo al “gangsterismo e al racket” mascherati da tassazione. Il quotidiano britannico ha aggiunto che il finanziamento dell’Isil è diminuito a causa del crollo del prezzo del petrolio, per gli attacchi aerei contro le sue strutture e a causa di una stretta sulla sua capacità di operare all’interno del sistema bancario iracheno formale e informale.
Ma nel suo passaggio più controverso, il Comitato sottolinea che il ministero degli Interni dell’Arabia Saudita ha approvato solo nel marzo 2015 un sistema di norme che rende illegale per i residenti sauditi fornire supporto finanziario all’Isil.
Dal 2015 l’Onu ha concesso all’ambasciatore saudita la guida del Gruppo Consultivo del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, una decisione che è stata sostenuta dagli Stati Uniti e dai Paesi occidentali.
L’Arabia Saudita è considerata uno dei principali alleati dell’Occidente in Medio Oriente, ma questo Paese “è attivo a tutti i livelli del terrorismo: dalla pianificazione al finanziamento, all’ideologia alla militanza”, come descritto nel 2002 dal politico francese Laurent Murawiek. Il rapporto tra la famiglia reale saudita e il terrorismo internazionale resta grave. “Nei 14 anni che sono trascorsi dagli attacchi dell’11 settembre 2001, i sauditi sono diventati più aggressivi. Finanziano le organizzazioni terroristiche e le loro azioni, promuovono dottrine che prevedono punizioni per donne e bambini, e ignorano i principi democratici. Stanno portando avanti una crudele campagna militare in Yemen che ha già causato migliaia di morti civili e ridotto molti altri in una situazione disperata”, riferisce il quotidiano Independent in un articolo di Yasmin Alibhai-Brown. Secondo l’articolo, i governi occidentali non affrontano l’Arabia Saudita a causa del petrolio e dei benefici ottenuti dalla vendita di armi. “I politici vigliacchi e coloro che sono interessati ai vantaggi economici sono una vera e propria minaccia per la nostra sicurezza nazionale”, conclude l’autore.
Quindi ogni sforzo di chiarezza chiesto dal Parlamento Britannico all’Arabia Saudita suonerebbe vagamente ipocrita.

venerdì 15 luglio 2016

Ministro ceco: “Crisi banche italiane peggio di Brexit”

Tutti parlano di Brexit come di un grosso problema, ma è solo speculazione. Un problema più grande per l’Europa potrebbe essere la salute di alcune banche italiane”.
Le dichiarazioni del vice primo ministro e numero uno delle Finanze ceco Andrej Babis sul suo account Twitter rimbombano e fanno rumore nelle sale del vertice dell’Ecofin, la riunione tra i ministri delle Finanze dell’area euro in corso ieri a Bruxelles.
Il Capo del Tesoro italiano Pier Carlo Padoan non ci sta e rivendica la solidità complessiva del settore nonostante la montagna di crediti deteriorati, pari a quasi il 17% del totale dei prestiti in portafoglio, e la carenza di liquidità di alcuni istituti come MPS e Unicredit.
Alla riunione “non si è parlato di banche italiane”, secondo Padoan. L’affermazione pesante viene definita da un arrabbiato Padoan come “totalmente infondata”. Il politico italiano ex Ocse osserva come ci sia “una percezione del sistema bancario italiano che è totalmente distorta“.
Padoan ha spiegato che durante l’Ecofin è stata fatta una “valutazione generale sugli impatti di Brexit” che “ha fatto emergere instabilità in tutto il sistema bancario europeo e non solo”, ma pertanto “non soltanto sul sistema italiano”.
Secondo Padoan non c’è preoccupazione in Europa, ma semplicemente interesse per i nuovi sviluppi e per il possibile piano di aiuti pubblici a sostegno del comparto: c’è “curiosità per quello che si sta facendo sia a livello di mercato che di intervento pubblico” e si troveranno soluzioni e misure precauzionali “entro il sistema delle regole” con l’obiettivo di “salvaguardare i risparmiatori” evitando il ricorso alregime di bail-in come invece avvenuto alla fine del 2015 per le quattro banche regionali.
A essere preoccupati sono sicuramente i mercati, con il titolo Unicredit che nonostante i rialzi più recenti ha perso il 59% circa da inizio anno. Le azioni MPS fanno segnare un +10% oggi, sulla speranza di accelerazione del processo di smaltimento delle sofferenze, ma la perfomance negli ultimi sei mesi in Borsa è negativa del -63%.

giovedì 14 luglio 2016

Gli apocalittici del Sì

Un tempo c’erano i gufi, gli oppositori prevenuti di ogni cambiamento. Costoro – secondo quanto veniva propagandato dai costruttori del nuovo – utilizzavano toni apocalittici, inaccettabili. Perché strillare se tutto veniva svolto entro il solido recinto della nostra democrazia? Ora il vento è cambiato e l’apocalisse appare nei discorsi dei promotori della riforma. Le conseguenze di una mancata approvazione della riforma sarebbero drammatiche. Non solo cade il governo, ma non se ne potrebbe fare nessun altro; non solo l’attuale – peraltro risicata e ondivaga – maggioranza parlamentare verrebbe sconfessata, ma l’intero parlamento verrebbe delegittimato; non solo si esprimerebbe la contrarietà a questa riforma della Costituzione, ma ci si precluderebbe la possibilità di ogni cambiamento futuro.
Forse è il caso di tornare a ragionare con misurata serenità. Qualora dovesse vincere il No al referendum non avverrebbe nulla di drammatico.
Se il governo dovesse ritenere concluso il suo mandato e rassegnare le dimissioni nelle mani del presidente Mattarella, questi – come sempre avviene – svolgerà le sue consultazioni per individuare un successore che possa ottenere una nuova maggioranza parlamentare. Un governo pienamente politico ovvero un governo con profilo più segnatamente istituzionale. Sarà possibile perseguire la prima ipotesi qualora una nuova maggioranza parlamentare possa formarsi sulla base di un programma di governo innovativo.
In fondo è già avvenuto in questa legislatura con il governo Renzi che ha sostituito quello Letta, nella precedente con la successione di Monti a Berlusconi. Nessuna ragione d’ordine costituzionale può ostacolare una simile soluzione anche in questo caso. Vero è che potrebbero non esservi le condizioni “politiche”: a questo si attaccano gli apocalittici di oggi. Come in ogni scenario drammatizzato si vuol far credere che non vi siano alternative, ma è questa una previsione priva di fondamento. Chi può onestamente dire quali saranno le concrete condizioni politiche che si verranno a creare dopo il referendum? Al più si può prevedere un sobbalzo, l’apertura di una dinamica che porterà a mutamenti radicali, poco prevedibili. Altro che stasi.
È, allora, possibile ma non scontato che dopo il referendum non si riesca a trovare una maggioranza politica alternativa all’attuale. In tal caso, il capo dello stato, cui spetta salvaguardare l’assetto costituzionale complessivo dei poteri, potrà (dovrà?) verificare le condizioni perché si possa varare un “governo istituzionale”. Con molte possibilità di successo. Sarebbe in effetti difficile per delle forze politiche responsabili negare il sostegno ad un governo che si proponesse di modificare la legge elettorale divenuta – a seguito del referendum – irrazionale e che predisponesse la legge finanziaria in scadenza. Un governo di scopo diretto dalla seconda carica dello Stato o dal ministro dell’Economia, per poi giungere alle elezioni in una situazione di normale dialettica democratica.
Si scongiurerebbe così anche la seconda drammatizzazione. Che il nostro parlamento stia vivendo una fase di crisi della propria legittimazione non può essere negato. Ciò che appare sfrontato è l’individuare la causa nel rifiuto del corpo elettorale di una modifica della costituzione che ha tra i suoi caratteri quello di ridurre il ruolo autonomo del parlamento. Non voglio neppure qui ripetere le ragioni che fanno ritenere esattamente l’opposto: la delegittimazione del parlamento ha origine proprio nell’utilizzazione forzata delle regole parlamentari e nell’incapacità di rappresentanza politica autonoma dell’organo che le vicende della riforma costituzionale hanno messo in drammatico rilievo. Il fallimento della riforma costituzionale può ben essere letta come un tentativo di ridare dignità ad un parlamento offeso.
Certo, una nuova legge elettorale dopo il referendum fallito s’imporrebbe. Ed è proprio da lì che può iniziare una risalita, una ri-legittimazione della rappresentanza politica, altro che drammatizzare la crisi.
Che dire poi della “minaccia” di non poter più cambiare. Dopo questa riforma si chiuderebbe per sempre ogni possibilità di trasformazione. Condannati ad un futuro di declino e impotenza. Una serie veramente cospicua di argomenti valgono a confutare questa torva prospettiva. C’è da chiedersi anzitutto se il rischio di non riuscire più a cambiare possa comunque giustificare un peggioramento. È la logica del cambiamento per il cambiamento che non può essere condivisa.
Perché tanti fautori dell’attuale riforma si opposero allo stravolgimento della costituzione nel 2005? Solo perché a proporla erano le forze del centrodestra? Ovvero perché era una riforma anch’essa fortemente innovativa, e però di segno regressivo? Se – come dev’essere – è il senso del cambiamento che deve essere valutato e non certo la mera capacità di cambiare (in peggio) è chiaro che l’argomento di non riuscire più a modificare l’assetto costituzionale perde molta della sua forza. Ma poi è questa una previsione priva di riscontro storico. Se ci volgiamo al passato non può dirsi che dopo i fallimenti delle “grandi” revisioni del testo costituzionale si sia arrestata la capacità dei parlamenti di modificare il testo costituzionale. Dalla riscrittura del Titolo V all’introduzione del pareggio di bilancio, non è mai mancata la spinta al cambiamento del testo costituzionale. E non sempre è stato in meglio.
Infine, c’è scarso senso della storia in questa presunzione di far terminare la stagione delle riforme con quest’ultima revisione. È la logica dell’ultima spiaggia che appare una visione miope, non in grado di guardare oltre al proprio orizzonte. Ed è proprio per trovare nuovi lidi che è necessario opporsi a questo mesto tramonto che ci viene proposto in nome del nuovo.

mercoledì 13 luglio 2016

IL FANTASMA DELL’INTERESSE NAZIONALE

La Brexit ha infranto il tabù europeo, specialmente in un Paese come l’Italia, dove l’anglolatria costituisce una vera religione; quindi la Brexit ha suscitato in molti, che prima non avrebbero osato, la voglia di riportare nel dibattito l’espressione “interesse nazionale”. Un esempio di “interesse nazionale” dovrebbe essere rappresentato dall’istruzione pubblica, soprattutto nel versante tecnico e professionale. In un articolo del gennaio scorso sul quotidiano confindustriale “Il Sole-24 ore”, l’ex Presidente del Consiglio Romano Prodi ha perorato la causa dell’istruzione tecnica nella Scuola, esaltando la sua funzione nello sviluppo industriale di un Paese e lamentando la sua decadenza, dato che il numero di iscritti nei licei tecnici tende a calare paurosamente. L’articolo è piuttosto generico e meramente esortativo, evitando accuratamente di smascherare gli interessi che hanno portato allo smantellamento dei gloriosi istituti tecnici così decisivi in passato.
Prodi mette sì in evidenza l’assurda dilatazione delle competenze universitarie a scapito di quelle scolastiche, ma si trova a parlare di corda in casa dell’impiccato, sia perché dimentica le responsabilità del suo primo governo e del ministro Berlinguer nell’affossare la Scuola, sia perché Confindustria non ha mai levato una protesta nei confronti delle riforme Moratti e Gelmini, tutte rivolte a liquidare l’istruzione tecnica pubblica, e ciò perché Confindustria ha anteposto gli interessi della sua Università, la LUISS, alla produttività che l’istruzione tecnica della Scuola pubblica determinava. Lo studente oggi deve pagare a prezzi sempre più elevati all’Università ciò che una volta otteneva gratuitamente dalla Scuola statale, quella stessa Scuola statale oggi invece costretta a sperperare i fondi per l’istruzione per mantenere la costosa farsa dell’alternanza Scuola-lavoro, che è una mera distribuzione di soldi pubblici alle aziende. La Scuola non svolge oggi più alcuna funzione sociale riconoscibile, anzi, costituisce un mero luogo di dissoluzione antropologica, sia dei docenti che degli studenti.
L’interesse nazionale quindi non ha mai sfiorato la mente di Confindustria, e tantomeno l’interesse produttivo, mentre quello finanziario sì. L’istruzione pubblica non era nata per “interesse nazionale” ma per la spinta sociale dei ceti lavoratori, che volevano un avvenire migliore per i propri figli. Il padronato si è giovato di questa spinta in termini di produttività del sistema, ma non ha gradito né favorito questa spinta. L’odio di classe anzitutto. Oggi Confindustria è preoccupata per le sofferenze bancarie determinate dalla austerità e spera in un salvataggio delle banche con denaro pubblico, ciò dopo il terrorismo del “Bail in”, che non avrebbe altro esito che la cannibalizzazione delle banche italiane da parte di quelle tedesche e francesi. Il quotidiano confindustriale “Il Sole-24 ore” sta quindi conducendo una campagna per indurre il governo a rifinanziare le banche. Il “Financial Times” ha diffuso la notizia secondo cui il governo Renzi sarebbe già pronto a foraggiare direttamente le banche, anche in presenza di un veto tedesco e della Commissione Europea. Renzi però ha smentito, e il quotidiano confindustriale spera che la smentita di Renzi sia solo tattica diplomatica.
In fondo si tratta dell’interesse nazionale. Ma “interesse nazionale” sarebbe stato anche evitare il “Jobs Act” con i suoi effetti depressivi sulla domanda interna; anzi, interesse nazionale sarebbe stato soprattutto impedire ad uno come Renzi di mettere piede a Palazzo Chigi. Il problema è che il padronato non ha una visione generale dei propri interessi, ed il suo riflesso condizionato è l’aggiotaggio sociale, cioè deprimere con ogni mezzo, soprattutto illecito, il valore della merce lavoro. Confindustria estende l’aggiotaggio sociale all’intera nazione, paventando il rischio del caos politico e persino dell’arretramento del Prodotto Interno Lordo in caso di vittoria dei no al referendum costituzionale di ottobre. Affermare l’insostituibilità di Renzi e presentarlo come l’ultima spiaggia suona assolutamente ridicolo e si risolve in un mero discredito nei confronti di un intero sistema istituzionale, anzi di un intero Paese. Siamo sempre nella “logica” del vittimismo padronale, cioè della convinzione dei sedicenti “imprenditori” di vivere in un Paese che non li merita, troppo arretrato per le loro lungimiranti visioni.
A proposito di persone di cui l’Italia non ha saputo dimostrarsi all’altezza, c’è l’ex Governatore della Banca d’Italia, ex Presidente del Consiglio ed ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, il quale ha scritto un libro dal titolo in cui traspare tale delusione: “Non è il Paese che sognavo”. Ciampi è noto anche per la decisione, presa nel 1981 insieme con il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, del “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, cioè la cessazione dell’obbligo da parte della banca centrale di sottoscrivere i titoli di Stato rimasti invenduti. Grazie a quella eroica decisione il Tesoro fu costretto a cercare di vendere i suoi titoli sui “mercati”, facendo quindi schizzare alle stelle gli interessi da pagare agli investitori e facendo lievitare il debito pubblico. Il solito “Sole-24 ore” riporta le vanterie di Ciampi su quella sua storica bravata.
Risulta però chiaro che Ciampi si sopravvaluta, poiché ciò che Andreatta aveva fatto, un altro ministro del Tesoro avrebbe potuto poi disfarlo, magari senza neppure andare a bussare al portone della Banca d’Italia, ma semplicemente adottando, come già si era fatto nel 1977, i cosiddetti “prestiti forzosi”, magari pagando i fornitori della Pubblica Amministrazione e gli scatti di stipendio degli alti funzionari direttamente con titoli di Stato. Non si è fatto perché del cosiddetto “interesse nazionale” non fregava nulla a Ciampi ma nemmeno agli altri. Il colonialismo trova infatti il suo vero punto di forza nel collaborazionismo dei ceti dirigenti locali.
Molti ricordano il discorso di Craxi alla Camera nel 1993, quando chiamò tutti i partiti alla corresponsabilità nel fenomeno delle tangenti. Lo “statista” Craxi non trovò di meglio per giustificarsi che uno squallido “così fan tutti”. Eppure Craxi aveva ben altro da denunciare che gli spiccioli delle tangenti, poiché nel 1992, Ciampi, da governatore della Banca d’Italia, aveva sperperato migliaia di miliardi in riserve valutarie per sostenere un insostenibile cambio della lira, che all’epoca era sotto attacco da parte del solito George Soros. La lira poi fu svalutata ugualmente, ma giusto in tempo per consentire a coloro che avevano esportato i loro capitali di farli rientrare rivalutati del 30%. Ma forse Craxi aveva pensato che queste cose la “gente” non le avrebbe capite. In fondo si trattava di denunciare il colonialismo, e la “gente” pensa che si tratti di roba che riguarda l’Africa. Meglio ridurre tutto il dibattito all’infanzia della questione morale.
Ciampi ha sempre goduto di ottima stampa, “nonostante” che lo si trovi coinvolto spesso in vicende losche, tra cui anche il sacco del Banco di Napoli e del suo patrimonio immobiliare. Viene da chiedersi se esista una Scuola tecnica per formare Presidenti della Repubblica del tipo di Ciampi o Napolitano, o se invece le loro siano virtù innate.

martedì 12 luglio 2016

Pensioni, la mappa degli assegni: il 60% è sotto i 750 euro

Dopo l’incontro interlocutorio avvenuto al tavolo tra Governo e sindacati, risultano ancora diverse le questioni lasciate in sospeso in tema di pensioni: possibile estensione della no-tax area, Ape (Anticipo pensionistico) e ipotesi di estensione del bonus di 80 euro anche ai pensionati (quest’ultimo tema non ancora affrontato).
Il tema caldo del confronto è stato l’introduzione dell’Ape con il ricorso al prestito pensionistico-bancario, ma ha tenuto banco anche il possibile ampliamento della no-tax area che, al momento, sembra essere prevista per i percettori di redditi fino a 8mila euro e per i soli pensionati “over 75”.
La mappa degli assegni pensionistici fotografa la situazione italiana dal 1 gennaio 2016 a oggi.
Ben oltre il 60% delle pensioni non supera quota 749,99 euro mensili, di cui il 26% arriva al massimo a 499,99 euro. Il 27%, invece, va dai 750 euro ai 1.749,99. La restante percentuale comprende quelle che vanno dai 1.750 ai 3mila euro. Infine, l’1,8% si aggira intorno ai 3mila/3.500 euro e oltre.
In Italia, l’importo medio mensile della pensione è di 839,01 euro.

lunedì 11 luglio 2016

Un mese di sangue e terrore

E’ possibile iniziare a parlare di ‘offensiva di Ramadan’ dopo quanto accaduto a cavallo tra i mesi di giugno e luglio, con una scia di sangue senza precedenti e numerosi attentati a cui è stato apposto il marchio del califfato islamico. Un’offensiva annunciata da molti miliziani, i quali hanno colpito tanto nel mondo occidentale quanto in quello arabo, così come anche in paesi finanziatori dell’ISIS, quali ad esempio la Turchia.
Da Orlando ai poliziotti uccisi a Parigi, dall’aeroporto di Istanbul alle bombe posizionate a Medina in Arabia Saudita, per passare alla strage di Dacca che ha visto l’Italia colpita per via dell’uccisione di nove connazionali; molti episodi di sangue, una lunga seria di attentati che pone degli interrogativi: esiste una regia del terrore oppure si tratta di casi singoli aventi in comune soltanto il richiamo alle armi durante il mese più importante per la religione islamica? L’ISIS, che nella sua follia in questo mese ha ucciso, tra le altre cose, in numero pari musulmani e persone appartenenti ad altre religioni (dimostrando quindi come essa sia un’organizzazione terroristica che miete vittime a prescindere dalla fede), viene considerata come un’associazione da un lato gerarchica tanto da costituirsi in Stato a cavallo tra Siria ed Iraq, dall’altro lato però non sembra aver mai dato ordini diretti alle cellule del terrore sparse nel resto del pianeta.
Difficile quindi ipotizzare che gli attentati di questo ultimo mese siano frutto di un’unica regia, anche perché a Raqqa e Mosul tanto Al Baghdadi quanto i suoi principali collaboratori sono braccati dagli eserciti siriani ed iracheni; come si spiega quindi questa molteplicità di attacchi in un lasso di tempo relativamente molto breve? L’ISIS, questo lo si è detto già all’indomani della strage di Parigi del novembre 2015, agisce in maniera coordinata soltanto dove è ben radicata sul territorio; nel resto del mondo, sono presenti delle cellule che, tanto per convenienza quanto per il richiamo dell’ideologia estremista trasmessa lungo la rete web, indossano il marchio del califfato pur non avendo mai avuto formalmente contatti con i suoi leader. In molti, tornando dalla Siria o dall’Iraq, non chiedono alcun ‘permesso’ per poter mettere in piedi un gruppo terroristico ed affibbiarlo alle insegne dell’ISIS, semplicemente si rifanno all’ideologia che vi è dietro il califfato per compiere attacchi contro i civili; allo stesso modo, gruppi ribelli presenti in Libia, nei mesi scorsi hanno cambiato casacca dichiarandosi membri dell’ISIS e soltanto dopo uomini che hanno attivamente partecipato alla costituzione dello Stato Islamico si sono recati a Sirte per dar manforte; infine, altri gruppi in Europa come in Africa od in Asia, combattono in nome dell’ISIS senza però avere in comune nemmeno le strategie terroristiche con i miliziani del califfato, ma vi è il solo intento di recare terrore nella popolazione locale.
In poche parole quindi, la vicinanza temporale degli ultimi attentati è la prova che se da un lato lo Stato Islamico sta per collassare, dall’altro lato la capacità di reclutare adepti per il califfato non è mai stata così forte; in molti singoli soggetti oppure all’interno di singole cellule terroristiche, è bastato il semplice richiamo all’opportunità di effettuare attacchi nel mese del Ramadan, per mettersi in moto e passare alle nefaste e violente azioni che purtroppo sono state compiute. Ecco, per esempio, come mai la Polizia del Bangladesh ufficialmente ancora oggi dichiara che non sussistono prove certe dell’appartenenza dei cinque attentatori all’ISIS, pur essendo state diffuse sul web le foto di tali terroristi con alle loro spalle una bandiera nera del califfato; questi ragazzi, molto probabilmente, non hanno mai avuto a che fare con l’ISIS vero e proprio, non esistono tracce di un’appartenenza ben radicata e svolta entro un lungo arco temporale, semplicemente hanno aderito all’ideologia estremista ed hanno compiuto la strage in un luogo simbolo (un ristorante frequentato da occidentali) ed in un momento altrettanto simbolico (la fine del mese sacro del Ramadan). Si può ben osservare, stando almeno a quanto dichiarato dalle ricostruzioni della Polizia del Bangladesh, che anche le modalità terroristiche sono state diverse rispetto a quelle più tragicamente conosciute del fondamentalismo islamico: non erano infatti presenti kamikaze imbottiti di tritolo, nessuno si è fatto saltare in aria come a Parigi o ad Istanbul, bensì vi erano attentatori armati di spade che hanno ucciso gli ostaggi uno ad uno tra chi non conosceva versetti del Corano.
E’ questo quindi il fenomeno che preoccupa maggiormente: l’ISIS come organizzazione verticistica e militare si sta spegnendo e l’autoproclamato califfato è destinato a scomparire nei prossimi mesi, ma al tempo stesso gli estremisti riescono a reclutare in giro per il mondo numerosi adepti che agiscono in solitaria e quindi in un modo anche meno controllabile dagli apparati di sicurezza. L’uccisione da parte di un ragazzo di una coppia di poliziotti a Parigi, ne è un altro drammatico esempio; se gli attentati del 13 novembre scorso sono stati effettuati da combattenti ben addestrati di rientro dalla Siria, lo scorso mese di giugno ad agire per l’appunto è stato un singolo soggetto che è entrato in contatto con la galassia estremista tramite il web.
Un discorso a parte, può essere fatto forse solo per l’attentato presso l’aeroporto di Istanbul; al di là della metodologia ‘classica’ degli attacchi dei miliziani (attentati kamikaze svolti da una cellula ben addestrata), i terroristi in questo caso hanno agito in un paese che sta voltando le spalle all’ISIS. Forse quindi, nel caso turco è possibile intravedere un messaggio che da Raqqa i principali rappresentanti del califfato hanno voluto lanciare ad Erdogan; inoltre, e questa è senza dubbio una grande anomalia, nessuno (nemmeno l’ISIS) ha rivendicato ufficialmente quell’attacco e questo anche a dieci giorni di distanza. Difficile interpretare questa circostanza, c’è chi avanza sospetti circa un complotto tutto interno alla Turchia alla luce dei nuovi risvolti in politica internazionale ed in special modo con riferimento al riavvicinamento con Russia ed Israele, c’è chi invece interpreta questo silenzio come un ulteriore monito dell’ISIS ad Erdogan affinché torni sui suoi passi.
Di certo, le ultime vicende legate al terrorismo in tutto il mondo, permettono di evidenziare soprattutto due aspetti: in primo luogo la capacità di reclutamento dell’ISIS, in secondo luogo la vicinanza temporale di numerosi attacchi in un momento in cui il quadro mediorientale a livello diplomatico è stravolto e ribaltato rispetto all’equilibrio che ha imperato per diversi anni. Evidentemente, sia l’ISIS che chi ha permesso la nascita e la solidificazione di questa organizzazione, hanno interesse ad ‘avvertire’ ed a lasciare numerose impronte in medio oriente prima che i nuovi assetti regionali risultino stravolti una volta e per sempre.

venerdì 8 luglio 2016

In quale brutale regime si può morire in questo modo?

Il capo della polizia locale, Jon Mangseth, ha dichiarato di non conoscere il motivo per cui l'agente di polizia abbia sparato, ad un controllo normale per il traffico, contro Castile.
La ragazza di Castile e la figlia di 7 anni erano nell'auto. La donna ha mandato in diretta Facebook il momento della morte del ragazzo (video altamente sconsigliato alle persone particolarmente sensibili).
Secondo la ricostruzione del WSJ e di tutti i principali quotidiani del paese, il video mostra una donna nella macchina con un uomo ricoperto di sangue a fianco. Un poliziotto armato si trova al finestrino della vettura. “Gli ha sparato 4 proiettili addosso. Stava solo prendendo la sua patente e il libretto”, grida la donna.
La ragazza ha dichiarato che l'uomo avesse la licenza per portare una pistola e stava cercando di prendere i suoi documenti quando il poliziotto gli ha sparato.
La polizia ha dichiarato che una pistola è stata ritrovata sul posto.
Secondo StarTribune, il video di 10 minuti mostra diversi agenti che hanno intimato alla donna di uscire dalla macchina, uno di loro ha preso la figlia. “Per favore non ditemi che il mio ragazzo è morto. Non lo merita, lavora per la St. Paul Public Schools. Non è mai stato in prigione, non ha mai commesso un crimine". Ad un certo momento si sente anche la bimba piangere. “Ho paura mamma”.
“La polizia ha ucciso il mio ragazzo senza apparente ragione”, ha dichiarato la donna, una studentessa infermiera di 28 anni.
Diverse persone dall'ora dell'omicidio di Philando Castile si stanno riunendo nella scena del crimine a Falcon Heights, intonando cori contro la polizia. Alcuni, un centinaio secondo Zero Hedge, sono arrivati alla residenza del Governatore a St. Paul, intonando "No justice, no peace".
Con la protesta che potrebbe montare dopo Ferguson, Baltimore e gli altri innumerevoli casi di brutale violenza del regime nord-americano, il governatore del Minnesota è stato appena evacuato dalla sua abitazione e la situazione potrebbe ora degenerare.
La domanda che rimane ancora senza risposta e che vi chiediamo spesso: dove sono le famigerate Ong dei diritti umani pronte a pontificare su tutto il mondo e non dicono una parola mai sulla crisi umanitaria e di violenza in corso negli Stati Uniti?

giovedì 7 luglio 2016

Da Istanbul a Dacca: il sospetto di una regia

L’attacco islamista che ieri ha seminato il terrore a Dacca, capitale del Bangladesh, e ha visto tra gli ostaggi diversi nostri connazionali, fa per istinto sospettare l’esistenza di una regia internazionale del terrore. Troppo ravvicinate e anche troppo simili le operazioni all’aeroporto di Istanbul e nel locale del quartiere diplomatico perché non venga spontaneo pensarlo. Non dobbiamo però dimenticare che il terrorismo islamico è un parassita. Una bestia che, per crescere e svilupparsi, ha bisogno di un organismo “ospite”, di una crisi già aperta.
E’ il caso della Siria, della Libia E dell’Iraq con il Daesh. Della Nigeria con Boko Haram, del Mali con la rivolta tuareg infiltrata da al-Qaeda. Ancor prima della Somalia degli shabaab e dell’Afghanistan dei taleban. Il Bangladesh non fa eccezione. Il Paese, nato poverissimo nel 1971 dopo una guerra che fece milioni di morti e di rifugiati, ha finora compiuto, con l’aiuto della comunità internazionale, una rimonta almeno sorprendente. Il tasso di povertà è sceso da metà della popolazione a un terzo, grandi progressi sono stati fatti anche nel campo della mortalità infantile e della salute delle madri. L’economia è cresciuta per molti anni al ritmo del 6% annuo e l’indipendenza alimentare è ormai acquisita.
A tutto questo, però si è accompagnata una grande instabilità politica. I colpi di Stato militari si sono susseguiti a partire già dal 1975. La democrazia parlamentare è tornata in vigore solo dal 2008 dopo che nel 2007 l’ennesimo regime d’emergenza era stato dichiarato dai generali allo scopo di sradicare la corruzione. I due fattori (rincorsa economica e instabilità politica), combinati, hanno chiesto alla popolazione sacrifici pesantissimi, con un’inquietudine sociale che l’anno scorso si è espressa in una serie di scioperi e in un blocco dei trasporti su scala nazionale durato mesi. In questo quadro ha assunto un valore molto particolare il lungo dibattito sulla natura dello Stato.
Nel 1947, quando India e Pakistan si separarono, il Bengala venne diviso in due: la parte occidentale, a maggioranza induista, rimase all’India; quella orientale, a maggioranza musulmana, rimase al Pakistan per diventare appunto Bangladesh nel 1971. Da allora non si è mai smesso di discutere. Il secolarismo era uno dei quattro principi fondamentali della Costituzione approvata nel 1972 ma nel 1977 fu sostituito, nella stessa Costituzione, da una dichiarazione di «fiducia totale nell’onnipotente Allah». Nel 1988, poi, l’islam fu dichiarato religione di Stato. Finché, nel 2010, la Corte Suprema ha fatto rivivere il principio del secolarismo. In un Paese con tante difficoltà e dove il 90% della popolazione è di fede islamica, è stato facile, per i maestri del terrore, trovare aree di insoddisfazione e sfruttarle. Anche perché il Bangladesh, in virtù dei molti rapporti politici ed economici con l’Arabia Saudita, è uno dei Paesi dell’Asia più infiltrato dalla predicazione radicale wahhabita. Negli anni scorsi marce gigantesche si sono svolte per protestare contro il secolarismo.
Leggi la testimonianza di padre Franco Cagnasso Missionario del PIME in Bangladesh: " Ecco la mia valutazione di 'come vanno le cose'. Decenni di impegno dell’Arabia Saudita e altri Paesi arabi, inteso a “rieducare” i musulmani del Bangladesh ad un islam a loro parere più autentico, depurandolo da tradizioni e da commistioni con culture non islamiche o con la modernità, stanno dando frutti. Migliaia di ‘madrasse’, scuole coraniche gratuite, hanno instillato il loro Islam chiuso e duro in milioni di ragazzi e giovani, che ora rifiutano la tolleranza e l’apertura dei loro padri...."
Le durissime condizioni di lavoro nell’industria dei tessuti, che da sola garantisce l’80% delle esportazioni, sono diventate quasi un manifesto dello sfruttamento occidentale, o comunque come tale sono state usate. Almeno tre grandi organizzazioni di estremismo armato si sono sviluppate negli ultimi quindici anni: Jamaat-ul-Mujahidin, Ansar al-Islam Bangla e Arkat-ul-Jihad al Islami, che hanno lanciato una serie di atti terroristici mirati contro gli stranieri, in particolare missionari e operatori delle Ong, ma anche contro giornalisti, blogger e attivisti locali colpevoli, appunto, di “secolarismo”. Il governo del Bangladesh ha sempre smentito l’esistenza sul territorio nazionale di una cellula del Daesh. Ma come sappiamo, ormai poco importa se si tratti di un “pezzo” del gruppo terroristico originale trasportato altrove o di una sua emanazione locale.
Sappiamo qual è il suo stile, da Parigi a Istanbul a Dacca. E soprattutto qual è il suo obiettivo: trasformare un Paese in una serie di brandelli lacerati e ingovernabili. Com’è avvenuto appunto in Libia, Siria, Iraq, Mali, Somalia, Afghanistan.

mercoledì 6 luglio 2016

Banche protette per sei mesi con 150 miliardi di fondi pubblici

Le banche italiane in sofferenza avranno un paracadute per i prossimi sei mesi. La Commissione Europea ha autorizzato, dopo giorni di incertezze e trattative, l’introduzione di uno schema di garanzia da 150 miliardi di euro (stima il Wall Street Journal) fino al 31 dicembre 2016. Il paracadute si potrà aprire in caso di onde sismiche prodotte da una speculazione finanziaria sul rischio rappresentato dai titoli tossici pari a 200 miliardi presenti nella «pancia» degli istituti di credito. Il coniglio pescato dal cappello ieri è stato presentato come una «misura precauzionale» dato che il governo ammette che la situazione è «grave», ma non «drammatica». La soluzione è stata trovata all’indomani del consiglio dei capi di Stato e di governo durante il quale l’esecutivo italiano ha avanzato l’ipotesi di una «flessibilità» di spesa rispetto al patto di Stabilità. Il «Brexit» peggiorerà le previsioni della crescita economica per il 2016 – lo hanno ammesso sia il presidente del Consiglio Renzi che il ministro dell’Economia Padoan.
Il problema è anche quello di rifinanziare il fondo «Atlante» creato dalle banche per affrontare la spesa per l’acquisizione della Popolare Vicenza e di Veneto Banca, quasi fallite. Servono 5 miliardi in più, oltre ai 4,2 a disposizione, 2,5 miliardi dei quali già spesi. Al momento ci sono 1,75 miliardi destinati all’acquisto di «Non performing Loans» (Npl), i crediti deteriorati che non ripagano capitale e interessi ai creditori.
Costi che hanno reso necessaria una nuova richiesta italiana di «flessibilità» del patto di stabilità, respinta dalla Cancelliera Merkel: «Non possiamo cambiare le regole ogni due anni» ha detto. Affermazione che ha innescato le recriminazioni da parte italiana. Renzi ha ricordato a Merkel che la Germania e la Francia sono gli unici paesi che hanno beneficiato, fino ad oggi, della «flessibilità». Nel 2003, ad esempio, quando alla presidenza di turno dell’Ue c’era Berlusconi. Un favore che Merkel non sembrava intenzionata a restituire.
La portavoce del vicepresidente della Commissione Ue Dombrovskis non ha commentato le «speculazioni» su una richiesta italiana di «bail-in» alla luce degli effetti del «Brexit» sulle borse. L’approvazione della garanzia pubblica per le banche è un punto a favore del governo sostenuto dal presidente della Commissione Juncker, dopo il via libera definitivo al decreto banche con il rimborso all’80% ai risparmiatori di Banca Etruria, Marche, Carife e Carichieti.
La sospensione temporanea arrivata da Bruxelles è un lasciapassare alle manovre già in atto in Italia per rifinanziare «Atlante» senza incorrere nelle procedure contro gli aiuti di Stato. Restano da sciogliere le perplessità diffuse tra i banchieri – ad esempio il presidente dell’Abi Patuelli e l’amministratore delegato di Intesa San Paolo Carlo Messina sull’ipotesi di un intervento del governo nel capitale delle banche in difficoltà. In questo uso del denaro pubblico per sostenere, in maniera precauzionale, le perdite delle banche c’è anche il rischio di mobilitare le risorse della Cassa Depositi e Prestiti (6-700 milioni), frutto del risparmio postale degli italiani. La Cassa dovrebbe distogliere una parte del suo capitale destinato all’«economia reale» nelle banche. In più dovrebbe probabilmente modificare il suo statuto per partecipare all’operazione.
Perplessità, e opposizioni, sono arrivate dai fondi previdenziali privati, come Inarcassa (la cassa di ingegneri e architetti) che si è detta contraria all’investimento in «Atlante». «Non siamo mucche da mungere – ha detto il presidente Giuseppe Santoro – mettiamo, allora, sul tavolo la questione della tassazione al 26% sui rendimenti finanziari» che grava sugli Enti. Noi paghiamo pensioni, non facciamo speculazione». «Bisogna vedere prima le condizioni» ha detto il presidente del’Adepp (l’Associazione nazionale degli enti previdenziali privati) Alberto Oliveti. Davanti alla richiesta del governo di impiegare le pensioni dei professionisti, Oliveti ha ribadito che l’imperativo dei fondi è garantire le pensioni in un’ottica prudente. Al fondo del barile resta un’altra ipotesi: rianimare la «Sga» che negli anni Novanta aveva gestito i titoli tossici del Banco di Napoli. Il problema è che ha pochi centinaia di milioni. Per finire c’è l’idea di ripescare i «Monti Bond»

martedì 5 luglio 2016

Renzi vuol farci indebitare per salvare le banche. Ci riuscirà?

Quanto sta costando, e a chi, il referendum sulla Brexit? Non lo si capisce dai movimenti delle compagnie di volo, magari alla ricerca di nuove sedi all’interno dell’area Ue per motivi fiscali e di licenza. Neanche dal mezzo punto in meno di pil europeo pronosticato da Draghi, una previsione che torna utile per far emergere qualche perdita o per potersi tener bassi sulle aspettative di crescita. E nemmeno dalle prime sedute di borsa dove, specie a Londra, in fondo c’è stata una correzione dei valori azionari rispetto alle speculazioni raggiunte nei giorni precedenti. E la decisione dei conservatori britannici, soprattutto se assecondata in sede Ue, di rinviare al 2017 ogni trattativa sul risultato del referendum, sembra di quelle adatte a stemperare le tensioni e a diluire i conflitti, specie se gli altri paesi, come la Germania, hanno bisogno di vendere prodotti a Londra come le auto (già toccate dal rallentamento cinese) e del peso politico inglese tenere su un profilo liberista del continente.
E’ quindi presto per valutazioni, ma anche per tante previsioni, sul costo del referendum inglese per l’Europa. Costi e conseguenze ci saranno ma ci vuole anche tempo, se non si vuol speculare, per individuare le tendenze reali. Altrimenti è come scambiare gli exit poll, che esistono per esigenze televisive, con i risultati elettorali. Chi invece i conti con la Brexit li ha fatti, immediati e dolorosi è proprio l’Italia. Certo la propaganda a reti unificate si è scatenata contro l’Inghilterra come non accadeva dagli anni ’30. In materia si ricorda che l’espressione “perfida Albione”, ripresa da Mussolini, è di origine giacobina. Ai Tg è mancato giusto quella: l’Inghilterra è stata rappresentata come il luogo deputato di ubriaconi, bizzarri, analfabeti e bolliti dove si prendono decisioni in modo folkloristico. E si che, visti gli esempi domestici, si dovrebbe essere ben preparati alla complessità e a saper valutare il folklore per cosa davvero è.
Ed è proprio la complessità che ci dice che la ferita più grossa, nelle prime sessioni di borsa post referendum Brexit, è stata proprio inferta alla borsa di Milano e ai titoli bancari nazionali. Non solo uno spettacolare -12% al primo giorno, con i bancari che hanno perso anche il 20% in una sessione, ma una diminuzione dei titoli bancari anche nei giorni successivi, quelli dove il ribasso sarebbe dovuto essere almeno più contenuto. I motivi sono sia speculativi, anche indipendenti da un desiderio di acquistare titoli bancari a bassissimo prezzo, che di reale prospettiva. Perchè le banche italiane, sottocapitalizzate, con modelli di business superati, forti detentrici di un debito pubblico che rischia di deterioriare chi lo detiene, non stanno in piedi e non supportano una economia di per sè anemica. Se ci mettiamo che da gennaio, come abbiamo già fatto notare, l’intero valore di capitalizzazione delle banche italiano si era già dimezzato, si capisce come la Brexit abbia fatto, alle banche italiane, l’effetto di uno schiaffo forte ad una persona che si regge sulle stampelle. Ecco quindi che il governo Renzi si è trovato di fronte ad un problema serissimo, sterilizzato nella sua pericolosità politica da media piuttosto capaci di allontanarsi da dove il fuoco brucia davvero: l’incendio delle banche italiane.
Nei giorni successivi alla Brexit hanno rischiato tutti: imprese, famiglie, sistema economico, sotto i colpi di un deprezzamento azionario degli istituti bancari molto forte anche in presenza di un secco dimezzamento dei valori nei primi sei mesi. Questione per analisti, e scommettitori, visto che la politica italiana vive del trip infinito della legge elettorale e degli appelli all’Europa unita. Il governo Renzi ha provato a mettere in piedi un piano, di 40 miliardi di euro, per ricapitalizzare banche alla frutta. Sarebbe stato un bailout, soldi che vengono messi in conto ai cittadini nel debito pubblico, invece di un bailin, soldi che vengono sottratti ai correntisti modello banca Etruria. Insomma, una cosa tra la Scilla del sottrarre servizi ai cittadini, col bailout, e la Cariddi del sottrarre soldi a conti correnti che servono per pagare servizi, fatture, stipenti funzionamento di piccole piccolissime imprese spesso a conduzione familiare, mutui etc. Fa bene anche ricordare che 40 miliardi di euro, da “recuperare” con piani ferrei di tagli, non sono uno scherzo in un bilancio dello stato già sinistrato, servizi sociali all’osso, e con una reale stagnazione economica. In ogni caso la Germania ha posto il veto a questa operazione, tanto per far capire, oltretutto, quali spazi reali di sovranità goda questo paese. Nel giro di poche ore, dopo il veto tedesco sul bailout da 40 miliardi, è arrivato invece un altro genere di visto per l’esecutivo Renzi: il governo italiano ha ottenuto dalla Commissione europea di poter assicurare garanzie pubbliche alle banche quando queste raccolgono liquidità sul mercato. Cosa significa? Significa, in estrema sintesi, che il governo italiano ha il permesso della commissione Ue, anche qui quando si dice l’autodeterminazione, per emettere obbligazioni, raccogliere fondi –in sostanza fare debiti- per garantire e sostenere le banche del nostro paese se queste vanno in difficoltà nel reperire liquidità. Detto in altre parole, fino al 31 dicembre il governo può indebitarsi, mettendo i fondi a carico del debito pubblico, per garantire la liquidità di cassa delle banche italiane. Si capisce che, a parte le formule di rito burocratico e politico che qui risparmiamo, si tratta di una misura di emergenza per evitare che il sistema bancario nazionale imploda.
Tutto bene? Anche se i fondi messi a disposizione da Bruxelles, che altro non sono che un permesso al governo Renzi di far debiti da far pagare ai cittadini italiani, non sono pochi (il fondo complessivo raggiunge la cifra di 150 miliardi) si tratta solo di un inizio, peraltro incerto. Prima di tutto perché Bruxelles ha tutta una storia costellata di fondi che appaiono e scompaiono nemmeno fossero ombre cinesi. Poi perché ci sono già stime che calcolano che lo smaltimento dei crediti inesigibili delle banche italiane potrebbe avere un effetto benefico sull’economia del nostro paese solo dal 2018 se non dal 2020 (generando incertezze di ogni tipo). Poi, basta vedere la sessione di borsa successiva all’annuncio del fondo di 150 miliardi. Unicredit, top banca nazionale e di livello europeo, ha perso il 5 per cento in un colpo solo. E c’erano due buone notizie sul tavolo: il fondo ed il nuovo management. Perché è accaduto? Per farla semplice perché le banche italiane, compresa Unicredit, in questa seria crisi attendono fondi freschi per ricapitalizzare. E perchè si è fatta la complessa la partita che vede il governo italiano ne con la Commissione europea eventuali operazioni di ricapitalizzazione degli istituti di credito più in difficoltà (si veda il Sole 24 dei giorni scorsi che ha seguito seriamente la vicenda).
La trattativa è complicata, al di là dell’euforia mediale del fondo di 150 miliardi, perché iniezioni di denaro pubblico nel capitale delle banche sono previste dalle regole europee solo in circostanze eccezionali e a specifiche condizioni. E, non ci sarebbe da stupirsi, se queste specifiche condizioni fossero l’accesso a fondi, tipo l’ESM che è un mostro liberista e dittatoriale assieme, che blindano ferocemente il governo della spesa pubblica. Insomma, il governo Renzi sta provando ad indebitarsi, perché i fondi di Bruxelles altro non sono che una concessione ad indebitarsi, per comprare l’aspirina (l’intervento a sostegno della liquidità bancaria). Se se la fara’ad indebitarsi, perché le regole europee sono barocco normativo non certezza, allora è tutto da capire quanto sarà il prezzo della cura ovvero la capitalizzazione delle banche italiane. Se sarà bailout, se sarà un tipo particolare di bailin, con un intervento dello stato ad ammortizzarne gli effetti più duri, se sarà un fondo che commissaria l’Italia è tutta questione da vedere. Del resto tutto è possibile in un paese dove la crisi sistemica della banche più grossa dal dopoguerra viene, all’attenzione politica, dopo la legge elettorale.
Di sicuro il governo Renzi, dopo queste settimane, avrà molte più difficoltà nel programmare il taglio delle tasse e nel poterlo sbandierare in qualche tornata referendaria o elettorale. E di sicuro il carico di tagli e tasse sulle spalle della popolazione non è destinato a scendere. Quanto conterà la Brexit in Inghilterra è quindi ancora questione da discutere ed analizzare. L’Italia invece il conto, della Brexit, lo sta già pagando. Ma non perché Albione è perfida, come suggerisce la propaganda da Tg3, ma perché il sistema paese è debole in modo da prendere una bronchite ad ogni spiffero. Nel frattempo Crozza tremi: qualcuno gli sta rubando il posto. Il presidente del consiglio continua con i suoi bollettini di vittoria, con posti di lavoro che aumentano di mese in mese, tratti dai comunicati Istat. E’ la stessa Istat, sul suo sito a pubblicare, il calo dell’indice di fiducia dei consumatori. Che aumenti il lavoro e cali l’indice di fiducia dei consumatori appare bizzarro. Ma è il modo con il quale si fanno i dati in Italia che andrebbe ripensato: si guardi al fatto che nei mesi scorsi in cui il lavoro ufficialmente calava aumenta l’indice di fiducia dei consumatori.
Ma che il renzismo voglia andare alla guerra dei numeri è palese. Repubblica l’ha già cantata. Secondo il foglio militante del renzismo più sguaiato sono stati già contabilizzati gli effetti economici di una sconfitta del generale di Rignano al referendum di autunno. Si legga d’un fiato: < il "no" provocherebbe un calo del Pil dello 0,7% nel 2017, dell'1,2% nel 2018 e un +0,2% nel 2019, in totale un -1,7% mentre nello stesso periodo sarebbe salito del 2,3%, quindi un differenziale del 4%. Gli investimenti scenderebbero del 12,1% cumulato nei tre anni contro un +5,6%, quindi un differenziale del 16,8%. Gli occupati sono visti in diminuzione di 258mila unità, mentre altrimenti salirebbero di 319mila unita, quindi una differenza di quasi 600mila unità. Infine il debito pubblico sul il salirebbe dal 131,9% al 144% e il Pil pro capite calerebbe di 589 euro, con 430mila persone in più in condizioni di povertà>. Con il “no”quindi, secondo la propaganda renziana, mancherebbero quindi solo le cavallette, gli scorpioni che piovono dal cielo e le piaghe d’Egitto. Beati gli inglesi che la stagione dei numeri tirati ad effetto, quella prima di un referendum, nel male e nel bene l’hanno già passata.
Intanto si prepara un altra infornata di soldi pubblici per le banche. E pensare che qualcuno pensa che la nostra rovina siano i profughi e non parla d'altro.

lunedì 4 luglio 2016

LA PRIGIONE NEOLIBERALE: L’ISTERIA DEL BREXIT E L’OPINIONE LIBERALE

La furiosa reazione liberale al voto sul Brexit è un fiume in piena. La rabbia è patologica – e aiuta a far luce sul motivo per cui la maggioranza dei cittadini britannici ha votato per lasciare l’Unione Europea, così come precedentemente la maggioranza dei membri del partito laburista ha votato per Jeremy Corbyn come leader.
Alcuni anni fa lo scrittore americano Chris Hedges ha scritto un libro che ha intitolato “La morte della classe liberale“. La sua argomentazione non era tanto che i liberali erano scomparsi, ma che erano stati così cooptati dalla destra e dai suoi obiettivi – dal sovvertimento degli ideali economici e sociali progressisti da parte del neoliberismo, all’abbraccio entusiastico della dottrina neo-conservatrice nel perseguire guerre aggressive ed espansionistiche oltremare sotto la parvenza di “intervento umanitario” – che il liberalismo era stato svuotato di ogni contenuto.
Gli opinionisti liberali ci si angosciano sopra con sensibilità, ma invariabilmente finiscono per sostenere politiche a beneficio di banchieri e produttori di armi, e quelle che creano il caos nel paese e all’estero. Sono gli “utili idioti” delle moderne società occidentali.
I media liberali britannici attualmente sono traboccanti di articoli di commentatori sul voto del Brexit che potrei scegliere per illustrare al mia argomentazione, ma questo del Guardian, scritto della giornalista Zoe Williams, credo che isoli questa patologia liberale in tutto il suo sordido splendore.
Eccone una parte rivelatrice, scritta da una mente così confusa da decenni di ortodossia neo-liberale che ha perso il senso dei valori che sostiene di abbracciare:
“C’è un motivo per cui, quando Marine Le Pen e Donald Trump si sono congratulati con noi per la nostra decisione, è stato come prendere un pugno in faccia – perché sono razzisti, autoritari, meschini e rivolti al passato. Incarnano l’energia dell’odio. I principi su cui si fonda l’internazionalismo – cooperazione, solidarietà, unità, empatia, apertura -, questi sono tutti elementi soltanto dell’amore “
Un’Unione Europea piena di amore?
Ci si chiede dove, nei corridoi della burocrazia dell’UE, Williams identifichi quell'”amore” che ammira così tanto. Lo ha visto quando i greci venivano calpestati e costretti alla sottomissione, dopo essersi ribellati alle politiche di austerità che sono esse stesse un’eredità delle politiche economiche europee, che hanno prescritto alla Grecia di vendere l’ultimo dei gioielli di famiglia?
E’ innamorata di questo internazionalismo quando la Banca Mondiale e il FMI vanno in Africa e costringono le nazioni in via di sviluppo alla schiavitù del debito, in genere dopo che un dittatore ha distrutto il paese, decenni dopo essere stato insediato e appoggiato dalle armi e dai consiglieri militari degli Stati Uniti e delle nazioni europee ?
Che cosa pensa dell’internazionalismo pieno di amore della NATO, che ha fatto affidamento sull’UE per espandere i suoi tentacoli militari in tutta Europa, ad un pelo dalla gola dell’orso russo? Questo è il tipo di cooperazione, di solidarietà e di unità a cui stava pensando?
Williams poi fa quello che molti liberali britannici stanno facendo in questo momento. Chiede sottilmente il sovvertimento della volontà democratica:
“La rabbia del fronte progressista del Remain, però, ha un posto dove andare: sempre inclini all’ottimismo, ora abbiamo la forza per mettere da parte l’ambiguità al servizio della chiarezza, di mettere da parte le differenze al servizio della creatività. Senza più imbarazzo o distacco ironico, abbiamo indietreggiato di fronte a questa lotta per troppo tempo. “
Questo include cercare di cacciare Jeremy Corbyn, naturalmente. I sostenitori “progressisti” del Remain, a quanto pare, ne hanno avuto abbastanza di lui. Il suo crimine è provenire dall'”aristocrazia di sinistra” – a quanto pare anche i suoi genitori erano di sinistra, e avevano anche principi internazionalisti così forti che si incontrarono per la prima volta in un comitato sulla guerra civile spagnola.
Ma il maggiore crimine di Corbyn, secondo Williams, è che “non è a favore dell’UE”. Sarebbe troppo affanno per lei cercare di districare lo spinoso problema di come un sommo internazionalista come Corbyn, o Tony Benn prima di lui, abbia potuto essere così contrario all’UE piena di amore. Quindi non se ne preoccupa.
Ribaltare la volontà democratica
Non sapremo mai da Williams come un leader che sostiene le persone oppresse e svantaggiate in tutto il mondo sia fatto della stessa pasta di razzisti come Le Pen e Trump. Richiederebbe il tipo di “pensiero agile” di cui accusa Corbyn di essere incapace. Potrebbe insinuare il fatto che c’è una tesi di sinistra del tutto separata da quella razzista – anche se a Corbyn non è stato permesso di sostenerlo dal suo partito – per abbandonare l’Unione Europea. (Potete leggere le mia argomentazioni a favore del Brexit qui e qui.)
Ma no, ci assicura Williams, il Labour ha bisogno di qualcuno con una eredità di sinistra molto più recente, qualcuno in grado di adattare le sue vele ai venti dominanti dell’ortodossia. E quel che è ancora meglio è che c’è un partito laburista pieno di seguaci di Blair tra cui scegliere. Dopo tutto, le loro credenziali internazionali sono state dimostrate più volte, anche nei campi di morte in Iraq e Libia.
E qui, avvolta in un unico paragrafo, c’è una pepita d’oro della patologia liberale proveniente dalla Williams. La sua furiosa richiesta liberale è di strappare i fondamenti della democrazia: sbarazzarsi di Corbyn, democraticamente eletto, e trovare un modo, qualsiasi modo, per bloccare l’esito sbagliato del referendum. Nessun amore, solidarietà, unità o empatia per coloro che hanno tradito lei e la sua classe.
“Non c’è stato momento più fertile per un leader laburista dagli anni ’90. L’argomentazione a favore di rapide elezioni generali, già forte, si intensificherà soltanto nelle prossime settimane. Mentre l’assoluta menzogna della tesi del Leave diventa chiara – non ha mai avuto intenzione di frenare l’immigrazione, non ci saranno soldi in più per il servizio sanitario nazionale, non c’era nessun piano per compensare i fondi UE verso le aree svantaggiate – ci sarà un argomento potente per inquadrare le elezioni generali come una rivincita. Non un altro referendum, ma un freno all’articolo 50 e alla prossima mossa decisa dal nuovo governo. Se volete ancora lasciare l’UE, votate per i conservatori. Se avete capito o sapevate quale atto di vandalismo sia stato, votate Labour”.
La prigione neoliberale
Il voto sul Brexit è una grande sfida alla sinistra perché affronti i fatti. Vogliamo credere che siamo liberi, ma la verità è che siamo stati a lungo in una prigione chiamata neoliberalismo. I partiti conservatori e laburisti sono legati col cordone ombelicale a questo ordine neoliberale. L’UE è una istituzione chiave in un club neoliberale transnazionale. La nostra economia è strutturata per far rispettare il neoliberismo, chiunque apparentemente governi il paese.
Ecco perché il dibattito sul Brexit non è mai stato sui valori o sui principi – era una questione di soldi. Lo è ancora. I sostenitori del Remain stanno parlando soltanto della minaccia alle loro pensioni. I sostenitori del Brexit stanno parlando soltanto del ruolo degli immigrati nel far scendere i salari. E c’è una buona ragione: perché l’UE è parte delle mura della prigione economica che è stato costruita intorno a noi. Le nostre vite sono ormai solo una questione di soldi, come i giganteschi salvataggi delle banche troppo-grandi-per-fallire ci dovrebbero aver mostrato.
C’è una differenza fondamentale tra le due parti. La maggior parte dei sostenitori del Remain vuole far finta che la prigione non esista perché ha ancora il privilegio dell’ora d’aria. I sostenitori del Brexit non possono dimenticare che esiste perché non è mai permesso loro di lasciare le loro piccole celle.
La sinistra non può chiamarsi sinistra e continuare a frignare sui suoi privilegi perduti, mentre denuncia quelli intrappolati all’interno delle loro celle come “razzisti”. Il cambiamento richiede che prima riconosciamo la nostra situazione – e quindi di avere la volontà di lottare per qualcosa di meglio.