Il 19 giugno del 1865 è stata abolita la schiavitù nell’ultimo Stato in cui vigeva, il Texas.
Era
il culmine della “guerra civile” che aveva visto contrapposti gli Stati
secessionisti del Sud – che avevano dato vita alla Confederazione – e
gli Stati dell’Unione al Nord, con l’attiva partecipazione degli
afro-americani, resisi protagonisti della propria liberazione.
Le
truppe dell’Unione, entrate il giorno primo in Texas, di fatto
decretarono la fine della guerra e dell’esperienza secessionista
iniziata in Carolina del Sud il 6 dicembre del 1960.
Un quotidiano dell’epoca la definì: “la più grande rivoluzione politica e sociale di quel periodo”.
Prima
del 1960 l’aristocrazia latifondista del Sud, ed il sistema
schiavistico di cui erano espressione, tenevano saldamente in mano le
redini del potere politico degli Stati Uniti con la ferma volontà di
perpetuare un regime entrato complessivamente in crisi.
Quel
sistema era fondamentale nella coltivazione di tabacco, caffè, canapa e
soprattutto del cotone, vero “oro bianco” per i proprietari delle
piantagioni, nonché una delle merci più esportate degli Stati Uniti a
quei tempi.
Due
terzi di tutto il cotone commerciato al mondo, l’80% circa della
mastodontica industria tessile britannica, venivano coltivati nel Sud
degli Stati Uniti.
Era
una particolare forma di sfruttamento centrale nello sviluppo
capitalismo dell’epoca, o come si espresse ai tempi un cronista di
Montgomery, nell’Alabama: “l’istituzione dello schiavismo è semplicemente un ramo collaterale della grande questione politica del capitale e del lavoro”.
Negli
Stati del Sud infatti una persona su tre era ridotta allo stato di
schiavitù, circa 4 milioni di uomini; un regime in cui regnava il
terrore, la negazione dell’istruzione ed un controllo capillare della
vita degli schiavi che vivevano in baracche e che erano alla mercé del
proprio padrone.
Una
società comunque stratificata, quella del Sud, dove solo un quarto dei
bianchi possedeva uno schiavo ed un padrone su otto – 46.000 persone in
tutto – godeva del vantaggio competitivo datogli dal possedere almeno
una ventina di schiavi.
Il
rendimento del regime schiavistico era tre volte superiore, in termini
di produttività, rispetto al “lavoro libero”, e questa particolare
“merce” aveva un valore difficilmente immaginabile all’oggi.
L’elezione
di Lincoln – il 6 novembre del 1860 – e l’affermazione del neo partito
repubblicano cambiò l’ordine dei fattori, anche se proprio il nuovo
presidente si dimostrerà pronto a tutto per salvare l’integrità degli
Stati Uniti.
Nel
giro di meno di un trentennio la sensibilità delle élites politiche del
Sud era maturata al punto che, nella loro visione del mondo, era meglio
separarsi dagli Stati Uniti piuttosto che vedere minato il proprio
potere politico, anche solo in prospettiva; non intravedevano quindi più
alcuna possibilità di compromesso, com’era avvenuto invece nel 1850.
La
partita in gioco era quindi il mantenimento o la conquista della
leadership sul corso politico degli Stati Uniti nel suo complesso, tra
due differenti frazioni del potere economico.
Nella
maturazione di questa scelta di rottura dei “sudisti” influivano molti
aspetti della lotta abolizionista – fatta anche “armi in pugno” – che
avevano particolarmente spaventato l’oligarchia sudista.
Lo
sviluppo di quella che veniva chiamata “ferrovia sotterranea” era
giunta ad un tale livello che i cacciatori di schiavi che andavano al
Nord per riacciuffare i fuggiaschi – una pratica consentita dal
“compromesso” del 1850 – venivano attaccati dai membri di
quell’organizzazione interrazziale che assicurava la fuga al Nord e/o in
Canada agli schiavi fuggiaschi.
La
collera sudista raggiunse livelli parossistici quando in alcuni
tribunali diverse giurie si rifiutarono di punire queste aggressioni.
Nel
1959 Il tentativo di lanciare una rivolta armata di bianchi e di neri
contro la schiavitù in Virginia da parte di un abolizionista del New
England, John Brown, nonostante il suo fallimento concretizzò uno degli
incubi peggiori per l’oligarchia sudista: gli abolizionisti del Nord che
fomentavano una sommossa di schiavi nelle proprie terre.
L’elezione
di Lincoln, il 6 novembre del 1860, sembrava concretizzare questi
incubi nonostante il nuovo presidente, come riporta uno dei maggiori
storici della guerra civile – Bruce Levine – fosse “pronto a tutto per evitare la secessione”.
Dopo
quel sanguinoso conflitto (1860-1865) iniziò il periodo detto della
“Ricostruzione”, in cui gli afro-americani liberati cercarono di dare
vita ad una società nuova con istituzioni proprie (scuole, chiese ed
attività economiche, tra l’altro) e sviluppare appieno i propri diritti
politici.
A questo si contrapposero l’omicidio mirato dei leader neri, il linciaggio e i race riots in cui squadre di bianchi, istigate dall’establishment politico locale “revanchista”, attaccavano ed uccidevano gli afro-americani.
Uno
di questi episodi, forse il più famigerato, si verificò a Tulsa, circa
100 anni fa. La città dove Donald Trump ha voluto tenere il suo primo
comizio elettorale dopo il lock-down. Il 19 giugno – che non è una festa
federale – per la comunità afro-americana ha sempre avuto una
importanza particolare e quest’anno, dopo le mobilitazioni successive
alla morte di George Floyd, ha assunto una valenza ancora più rilevante.
Quel
percorso di “integrazione”, iniziato allora, è di fatto tutt’ora
incompiuto. Come ha affermato giustamente l’attivista ed intellettuale
afro-americano Cornell West: “l’America è un esperimento sociale fallito”.
*****
Due eventi di cui avevamo già dato notizia restituiscono la dimensione dell’attuale polarizzazione politica negli Stati Uniti.
Da
un lato il comizio di Donald Trump a Tulsa, cui è stata data abbondante
esposizione mediatica, nonostante non sia stato particolarmente un
successo come si augurava il presidente.
Trump a Tulsa
Dei
19.000 posti usufruibili, un terzo è rimasto vuoto, i suoi sostenitori
che da giorni affollavano la città – per la stragrande maggioranza
bianchi tra i 40 e i 60 anni – provenivano da altri Stati, nonostante
proprio nell’Oklahoma Trump abbia vinto, distanziando i democratici 36
punti percentuali nel 2016.
Il
suo discorso non ha fatto alcun riferimento a George Floyd, né al
movimento che sta caratterizzando gli States, né al 19 giugno, né allo
storico massacro di Tulsa, ma solo all’abbattimento delle Statue dei
confederati, in senso ovviamente negativo…
Ha
però rinfocolato la sua paranoia contro gli attivisti di sinistra
secondo un canovaccio consolidato; ha parlato del “Kung Flu” – cioè del
Covid-19 – con la sua forte declinazione anti-cinese ed ha spiegato di
come sia stato fatto un lavoro eccellente nel suo contenimento.
In generale non proprio un discorso che passerà alla storia, se non per la sua stupidità.
Lo sciopero dei portuali della Costa Ovest
L’altro
avvenimento caratterizzante – di fatto ignorato dai media “liberal” che
stanno dando molto spazio all’attuale movimento sorto dopo la morte di
George Floyd – è stato lo sciopero di otto ore nei 29 scali della Costa
Ovest, promosso dal sindacato dei lavoratori portuali dell’ILWU, la
storica organizzazione degli scaricatori creata negli anni ’30.
Più
di 10 mila lavoratori hanno incrociato le braccia nell’azione più
significativa fatta dal movimento operaio in questa storica giornata – i
lavoratori del sindacato dell’automobile si sono fermati per 9 minuti –
che ha declinato praticamente la questione di “razza” in una più ampia
questione di classe.
È
stata superata quella “gabbia narrativa” che la stampa liberal ha
voluto dare fin qui agli avvenimenti, ed è stato ribadito come l’azione
dei lavoratori e delle lavoratrici sia uno dei perni su cui basare le
proprie rivendicazioni complessive.
Questi
lavoratori – come ha ricordato Angela Davis, che ha tenuto uno degli
interventi più significativi nella mobilitazione a Oakland – si sono
sempre caratterizzati per un sindacalismo che andasse per così dire
oltre quello “bread and butter”, cioè legato a questione spicciole.
La
fondazione della ILWU avvenne in seguito ad una mobilitazione di
protesta per due portuali uccisi dalla polizia. È stato il primo
sindacato a “de-segregare”, negli anni Trenta, le squadre di lavoro e ad
imporre garanzie per il lavoro “a chiamata” che caratterizza
l’organizzazione del lavoro portuale, attraverso l’istituzione della hiring hall, che non permette l’assunzione discrezionale da parte del padrone.
Ha
manifestato contro l’internamento degli americani di origine giapponese
durante la Seconda Guerra mondiale. Dalla parte di Martin Luther King
jr e del movimento per i diritti civili, si è mobilitato contro
l’Apartheid in Sud Africa ed in Palestina, contro la guerra in
Afghanistan ed in Iraq e, più recentemente, al fianco di Occupy con il “Wall Street on Waterfront”.
Uno sciopero politico,
quindi, che si inserisce in una tradizione di lotta quasi secolare e in
un contesto dove ha cominciato forma un “nuovo movimento operaio” negli
Stati Uniti.
Una conferma ed una rielaborazione del vecchio motto operaio: “un offesa fatta ad uno, è una offesa fatta a tutti!”.
Nel suo intervento ad Oakland, lo storico attivista ed artista afro-americano Boots Riley ha detto: “Qual
è il prossimo passo? Una buona parte di questa domanda riguarda il
potere. Il nostro potere deriva dal fatto che creiamo la ricchezza. La
ricchezza è potere. Abbiamo la capacità di maneggiarlo. Abbiamo il
potere di gestire il nostro lavoro, e shut shit down!”
L’ex cantante dei The Coup non poteva essere più chiaro.
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