Tangentopoli
nel 1992 ed oggi la diffusione del Covid 19 sono due eventi del tutto
diversi, dirimenti nella storia del nostro paese, ma che hanno un punto
in comune: si sono materialmente manifestati a Milano e nel Nord ovvero
nell’area più sviluppata del paese.
Per
capire se c’è un “filo rosso” che li unisce, bisogna andare più a fondo
nell’analisi di un modello di sviluppo che ha caratterizzato il nostro
Stato nazionale fin dalla sua costituzione. Infatti il dualismo Nord/Sud
che caratterizza il paese è stato costruito dalla monarchia Sabauda ed è
stato perseguito dalla grande borghesia italiana, lasciando al Sud il
ruolo subalterno di serbatoio della forza lavoro e gerarchizzando le
funzioni produttive delle diverse regioni italiane.
Su
questo aspetto ovviamente non entriamo nel merito, in quanto la verità
storica è stata detta ed analizzata, in generale e nel pensiero
comunista, con il contributo decisivo di Gramsci e con il ruolo che il
PCI ha avuto negli anni ‘50 nell’organizzazione delle masse contadine al
Sud.
In
apparente controtendenza è stato il periodo del secondo dopoguerra,
dove sono stati fatti tentativi di sviluppo del meridione con
l’intervento pubblico e l’industrializzazione, per altro devastando
l’agricoltura che fino a quel momento aveva sostenuto le economie
locali. Naturalmente gli interessi del capitale privato sono rimasti
sempre al centro delle attenzioni dei governi democristiani come è
accaduto, ad esempio, con la nazionalizzazione dell’energia elettrica e
la nascita dell’Enel, la quale in realtà ha salvato i capitali dei
padroni delle imprese in crisi di quel settore (nascerà così la
Montedison) e successivamente “nazionalizzato”.
Quei
governi però avevano dovuto mediare anche con il conflitto politico e
sociale che si andava delineando dai primi anni ’60 – già dalla caduta
dell’esecutivo Tambroni sostenuto dai fascisti del MSI – quando la lotta
di classe che si era sviluppata nel paese andava contenuta tenendo
conto anche dello scontro internazionale tra le due superpotenze
dell’epoca: Usa e Urss. Dunque un paese di frontiera come l’Italia non
poteva essere lasciato alle prese con contraddizioni sociali troppo
esplosive, pena l’affermazione sempre più forte dei comunisti in tutta
la società.
Il
tentativo di industrializzare il Sud e di caratterizzare in modo
diverso l’economia nazionale entra in crisi negli anni ’70 e in una
nuova fase strettamente legata alle dinamiche internazionali. Infatti la
crisi economica di quel decennio è una crisi da sovrapproduzione di
merci, dove le fabbriche hanno una capacità produttiva che va ben oltre
le possibilità di assorbimento del mercato, all’epoca limitato solo
all’occidente capitalistico.
Di
conseguenza i profitti, accumulati nella precedente fase di boom
economico, non possono essere reinvestiti nell’economia reale ma nella
speculazione finanziaria ed da lì che si sviluppano i processi di
finanziarizzazione che partono dagli USA e si estendono nel corso degli
anni ’80 al resto dell’occidente.
Si è entrati così nella “classica” fase in cui ci si aspetta che dal denaro nasca denaro
e la speculazione diviene l’asse portante dell’economia internazionale e
nazionale. Sono infatti gli anni del rampantismo craxiano, del governo
del CAF (Craxi, Andreotti, Forlani), dei capital gain in Borsa,
della Milano “da bere” come diceva la pubblicità di un famoso amaro.
Sono gli anni della commistione economia/finanza/politica. la quale
aveva ancora una funzione centrale nello Stato nazionale, per quanto
questo fosse subalterno agli USA e dentro una dimensione continentale
rappresentata dalla CEE – non ancora Unione Europea- e precedente alla
nascita dell’Euro.
Il
contesto in cui matura la vicenda di Tangentopoli e che spazzerà via
una intera classe politica, è caratterizzato anche nella nuova fase
“finanziaria” dalla centralità del Nord, addirittura della sola Milano
con l’accentuato ruolo della Borsa, dal foraggiamento diretto e
reciproco della grande industria e delle banche alla politica. Craxi
stesso in un momento conflittuale con la famiglia Agnelli denunciò come
la FIAT avesse ricevuto dallo Stato 50.000 miliardi di lire. Un attacco
così esplicito veniva da un governo “decisionista” come quello craxiano,
intenzionato ad utilizzare tutti gli strumenti per affermare le proprie
scelte, anche in scontro frontale con l’accentuato riformismo del PCI
di quel periodo.
Questo
andamento si protrae fino agli inizi degli anni ’90, quando, dopo la
caduta del muro di Berlino e la nascita dell’Europa di Maastricht ‘92,
esplode l’inchiesta su Tangentopoli che apre un conflitto tra
magistratura e politica. Uno scontro inedito per il paese, in quanto
queste istituzioni avevano sempre marciato all’unisono fino a quel
periodo, e mai il potere giudiziario aveva contrastato apertamente il
mondo politico. Quando si palesavano problemi interveniva la Procura di
Roma avocando a sé le inchieste più scomode e depotenziandole,
guadagnandosi così la definizione di “porto delle nebbie”
E’ utile riportare un passaggio dell’articolo su Tangentopoli pubblicato nel numero zero di Contropiano del 2 Aprile 1993:
“Ma
il mantenimento di questo patto consociativo alimentava i costi del
debito pubblico e costringeva il blocco di potere DC/PSI ad allargare i
cordoni della borsa per finanziare la rendita parassitaria, garantire
l’evasione fiscale ad un crescente ceto rampante nel terziario,
alimentare la loro alleanza storica con i padroni attraverso i
finanziamenti pubblici alle imprese e il gonfiamento dei prezzi degli
appalti in Italia e all’estero negando però ogni integrazione tra
industria e finanza (da sempre obiettivo degli industriali) per
mantenere le mani dell’apparato politico il controllo delle banche e del
credito.
La
brusca gerarchizzazione imposta dalle dinamiche internazionali
dell’economia e del comando ha fatto saltare questo patto consociativo
sul piano economico e politico.
L’iniziativa
dei magistrati milanesi è partita così parallelamente alla campagna per
le riforme istituzionali e la privatizzazione dell’economia. Lo
scenario sembrava abbastanza definito: il settore più integrato e
internazionalizzato del capitalismo apriva in grande stile la resa dei
conti con il settore clientelare, parassitario più integrato con il
vecchio apparato politico”
Dunque
Tangentopoli è il “picco” di una crisi del modello di sviluppo storico
del nostro paese, nella accezione finanziaria affermatasi dopo gli anni
’70, nato dalla presa d’atto da parte del grande capitale che, con la
fine dell’Urss, si stava aprendo una nuova ed ampia possibilità di
crescita dei mercati mondiali, per cui era giunto il momento di
liberarsi degli “orpelli” politici nazionali che avevano fino ad allora
garantito comunque la tenuta del profitto e la difesa dal conflitto
politico e sociale rimasto vivo in Italia fino agli anni ’80, nonostante
le sconfitte subite per l’accentuarsi dei processi di ristrutturazione
ad ampio raggio a partire dalla seconda metà degli anni settanta.
Sfuggiva
però a “lor signori” un particolare, cioè che per tenere il livello di
feroce competizione globale che si andava determinando, con la
mondializzazione del capitalismo, avrebbero dovuto anche adeguare il
loro “retroterra” strategico nazionale. Da tale punto di vista il
modello duale su cui avevano costruito e lucrato fino ad allora non
aveva più la dimensione necessaria per tenere nel tempo, sul piano
internazionale ma nemmeno nell’ambito dell’Unione Europea che si andava
configurando in quel periodo con il Trattato di Maastricht.
Anche
lo Stato, perciò, si sarebbe dovuto riqualificare per affrontare la
profonda trasformazione che si profilava negli anni ’90, assumendo una
visione “lungimirante”, rafforzando la scuola e la ricerca, tenendo sul
welfare, raggiungendo un minimo di equità fiscale per il lavoro
dipendente e tentando di contenere la corruzione che dopo Tangentopoli
la faceva da padrona anche con le “nuove” forze politiche.
Ma poiché la borghesia italiana è stata sempre parvenu
e stracciona, non ha mai avuto un disegno lungimirante ma ha lavorato
solo per i profitti immediati trasferendo interi impianti produttivi e
le sedi legali in funzione del non pagamento delle tasse, come ha fatto,
anche recentemente, la FCA ex FIAT, salvo poi tornare a “bussare cassa”
come in queste settimane di emergenza/Covid.
La
borghesia italiana ha speculato in modo indecente sulle privatizzazioni
e la spesa pubblica, dove il modello degli imprenditori “democratici”
alla Benetton ha fatto scuola, ha investito i profitti nella
speculazione internazionale e non ha capito, che per lo sviluppo delle
dinamiche generali, prima o poi si sarebbe arrivati alla resa dei conti.
Tale
evidente miopia strategica si è riflettuta ed ha trovato sponda nel
degrado del ceto politico della Seconda Repubblica, in cui sia il
PDS/DS/PD che il centro destra, all’epoca ancora berlusconiano, hanno
dimostrato la propria inconsistenza e subalternità ai centri finanziari
nazionali ed europei.
Eppure
proprio in Europa erano presenti modalità diverse per attrezzarsi alla
nuova condizione. La Germania, ha sempre rafforzato il rapporto e
l’interazione tra Stato e produzione. La Francia non ha mai abdicato al
ruolo strategico dello Stato nazionale nei settori centrali
dell’economia seppure dentro la cornice dell’UE.
Come
pure un campanello di allarme era già suonato nella crisi del
2007/2008, avvisando che la finanziarizzazione avviata negli anni ’80
era giunta al capolinea. Un segnale forte suonato per i detentori di
capitali, a cominciare dalle banche, che si ritrovavano a chiedere soldi
allo Stato per evitare la bancarotta.
Parimenti
questo campanello è suonato per il ceto politico nazionale, ormai
totalmente inadeguato a leggere i processi reali che si andavano
manifestando,ma si era palesato anche per i nostrani intellettuali
organici al potere, molti dei quali ancora oggi continuano a blaterare
nei talk show televisivi, siano essi di destra o di sinistra, senza
crederci veramente e non convincendo più nessuno.
Il
Covid 19 precipita esattamente in questa condizione dove il sistema
industriale e finanziario riconvertito in funzione della competizione
globale e di quella dentro la UE, si trova concentrato sostanzialmente
al Nord, non avendo utilizzato risorse e potenzialità materiali ed umane
presenti nella dimensione nazionale e avendo puntato ad aumentare la
precarietà, lo sfruttamento, le devastazioni ambientali e le
diseguaglianze solo per incentivare i profitti “qui ed ora”, a spese
della forza lavoro e degli abitanti dei territori.
In
questi decenni abbiamo assistito ad una sorta “vendetta di classe” dove
le imprese hanno spinto sui rapporti di lavoro e sulla privatizzazione
dello stato sociale per distruggere le conquiste ottenute nel ‘900 dai
lavoratori, ed in particolare nella sanità divenuta una greppia degli
interessi privati. Da Formigoni fino alla odierna gestione della Lega in
Lombardia, non si era vista una tale “frenesia alimentare” dai tempi di Craxi.
Mantenendo
il vecchio assetto produttivo e concentrando nel “ridotto” territoriale
del Nord la gran parte della produzione, del valore aggiunto,
dell’export, delle infrastrutture, degli investimenti, della logistica,
dei servizi alla finanza e alle imprese, ed “immergendo” il tutto
nell’inquinamento e degrado ambientale che ha investito tutta la
cosiddetta “Padania”, si è creato quel brodo di coltura necessario alla
devastante diffusione del coronavirus.
Insomma
il modello duale tenuto in vita dai nostri capitalisti non si presenta
più come possibilità di crescita, magari con l’emigrazione dalle aree
arretrate, ma come un danno generale fatto all’insieme della società.
Questo
secondo picco di crisi del nostro sviluppo distorto si manifesta in un
momento in cui i margini di ripresa generali sono limitati e comunque
tutti da conquistare in una brutale competizione a livello globale, che
vede i nostri capitalisti in una condizione di netto svantaggio.
Tale
assenza di strategia prodotta dal peso della piccola e media impresa,
avendo costruito ben poche grandi imprese in grado di competere, ha
prodotto un boomerang vero e proprio, in quanto se è vero che il
capitalismo italiano ha partecipato alla crescita economica dopo il
1991, è anche vero che, con l’integrazione nei confini economici della
UE, la distinzione tra Nord e Sud è diventata molto relativa, perché
quello che era una volta il Nord in Italia oggi rischia di diventare il
Sud di qualcun altro. Il diffuso shopping di imprese italiane da parte
delle multinazionali straniere sta li a dimostrarlo.
E’
qui, dunque, che ritroviamo l’elemento comune tra Tangentopoli ed il
Covid 19, ovvero uno sviluppo sociale basato storicamente sulle
ineguaglianze dove quella tra Nord e Sud diventa la principale e la più
stridente.
La
possibilità di funzionalizzare tutto il paese alle esigenze di una
industria centralizzata al Nord, ci dicevano essere un punto di forza
per “l’azienda Italia” con un polo pluriregionale (che qualcuno ha
definito “la Baviera del Sud”) ed ora invece diviene un elemento di
debolezza strategica dell’intero paese.
Di
questo sembra rendersene ben conto la Confindustria che ha nominato un
falco come Bonomi suo presidente, perché evidentemente i padroni
ritengono necessaria una politica più aggressiva nelle relazioni interne
alla UE ma soprattutto nei confronti dei lavoratori e di ciò che
residua del vecchio compromesso Capitale/Lavoro. Si capisce e si
teme, infatti, che si possa riaprire una pericolosa fase conflittuale
che potrebbe impedire il recupero economico necessario alle imprese per
non soccombere nel confronto con i capitali europei.
La
crisi sanitaria non è nient’altro che il prodotto di una competizione
che negli ultimi decenni ha falcidiato milioni di posti di lavoro,
distrutto welfare e diritti sociali, ha automatizzato la produzione nei
centri imperialisti e nelle periferie produttive e soprattutto ha
velocizzato la circolazione delle merci e delle informazioni
incrementando infrastrutture e mezzi di comunicazione.
Il
turbo capitalismo sta saturando i margini di crescita del mercato
mondiale e riducendo la forza lavoro, manuale e mentale, nella
produzione di valore, riverbera i propri limiti nell’incremento delle
tensioni internazionali sul piano economico, finanziario e monetario,
politico ed infine anche militare.
In
questa dimensione appare chiaro che la nostra borghesia stracciona,
ormai “incardinata” nell’Europa Carolingia, ha pochi margini di
autodeterminazione e questo molto brutalmente significa che i lavoratori
e le classi sociali subalterne pagheranno i costi di uno sviluppo miope
e piegato a fini privati.
Questa
volta tutto ciò non riguarderà solo il Meridione o le aree arretrate
del paese ma anche il Nord, come ha documentato una interessantissima inchiesta fatta da Potere al Popolo proprio nelle regioni settentrionali,
e da dove emerge già un livello di diseguaglianza prima non rilevato ma
che dentro la crisi sanitaria e sociale aumenterà inevitabilmente.
“Nulla
sarà come prima” non è uno slogan ma è la realtà che si sta
snocciolando sotto i nostri occhi nell’ambito dell’economia e della
struttura ed anche in quello della politica e delle istituzioni.
Nello
scenario nazionale già si vede come le forze emerse dalla crisi del
2011, il M5S e la Lega salviniana, stanno perdendo colpi o perché al
governo col PD a difesa della UE oppure perché incapaci, come Salvini,
di rappresentare una prospettiva politica credibile.
Lo
snodo che abbiamo di fronte pone seri problemi strategici. Uno di
questi è certamente quello della Rappresentanza Politica che si
ripropone ora con la evidente crisi di quella che si è affermata nelle
elezioni del 2018. I comunisti ed il movimento di classe si devono far
carico di questa necessità cercando di capire ed operare su come
ricostruire una rappresentanza organizzata dei settori sociali
subalterni oggi penalizzati da un capitalismo sempre più regressivo.
Sappiamo anche che questo è facile a dirsi ma complicato a farsi, ma
quando si aprono delle opportunità per animare una controtendenza
occorre fare tutto il possibile – e il necessario – per coglierle
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