Stati
generali a porte chiuse. E se non è difficile capire il “clima” delle
discussioni, c’è invece una blindatura molto severa sul “cosa” si stia
discutendo lì dentro.
Sul
piano politico, la scelta di Conte di mettere in scena una “dieci
giorni” di confronto sulle scete economiche da fare nei prossimi mesi è
sicuramente un tentativo di mettere al riparo l’esecutivo dalle tensioni
quotidiane e perciò dalla perdurante icertezza sulla sua stabilità.
Per
riuscirci, è stata convocata “L’Europa” – nelle persone di Ursula von
der Leyen, presidente della Commissione, e Cristine Lagarde, alla guiida della Bce. Ma anche il presidente del Consiglio europeo, Charles
Michel, il segretario generale dell’Ocse, Ángel Gurría, e la direttrice
del Fondo Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva.
Uscire
dalle secche dello sterile battibecco tra deficienti, tipico dello
scambio di battute quotidiane della “politica italiana”, era del resto
l’unico modo per “alzare l’asticella” della discussione, chiarendo che
la posizione dell’Italia è inchiavardata in un sistema internazionale
che ne determina sia il destino che le scelte quotidiane.
Non
è deto però che alla fine questa scelta sia anche quella giusta perché,
sul “cosa” bisogna fare per “far ripartire” questo Paese, dagli ospiti
più importanti sono arrivati ammonimenti e velate minacce, più che
testimonianze di solidarietà.
La
circostanza non è sorprendente, perché solo gli imbecilli che credono
alle favole della “informazione mainstream” potevano cullarsi
nell’illusione che stessero per arrivare un fiume di soldi a fondo
perduto, con cui fare un po’ quello che ti pare. Ma soprattutto perché
la comunità di riferimento cui l’Italia è sottomessa – per libera scelta
di qualche decennio fa, ma sottomessa – non è affatto un “circolo di
amici che si danno una mano”, a un insieme rissoso perché competitivo all’interno. Ossia fra partner che si fregano a vicenda.
Mettiamo in fila gli ammonimenti più seri.
Il governatore della Banca d’ Italia, Ignazio Visco, ha subito smontato il pilastro principale della narrazione ottimistica: “I
fondi europei non potranno mai essere ‘gratuiti’: un debito dell’Unione
europea è un debito di tutti i paesi membri e l’Italia
contribuirà sempre in misura importante al finanziamento delle
iniziative comunitarie, perché è la terza economia dell’Unione“.
Detto più cautamente, è quello che andiamo spiegando fin dall’inizio della discussione sul Recovery Fund:
i “fondi europei” sono messi direttamente dagli Stati, oppure chiesti
in prestito sui “mercati” con la garanzia che saranno gli stessi Stati a
restituirli. Non nascono insomma dal nulla. Quindi l’Italia, come tutti
gli altri Paesi, con una mano versa fondi dentro il “bilancio europeo” e
con l’altra ritira una quota che può essere in tutto o in parte uguale a
quella versata (secondo molti calcoli saranno almeno 14 miliardi in meno rispetto al contributo versato).
Il
vero problema è che questa “restituzione del versato” non è affatto
scontata, perché deve sottostare a condizioni precise e vincolanti poste
dall’Unione Europea.
Non è un’illazione “sovranista”, ma quanto spiegato in modo neppure tanto soft da Paolo Gentiloni, ex premier Pd e ora Commissario europeo agli affari economici: “So che il governo italiano è pienamente consapevole che non si tratta di spese facili, tesoretti o libri dei sogni ma di un impegno che ci metterà alla prova”, ha commentato il commissario Gentiloni.
“Ora
dobbiamo dirci che queste ingenti risorse metteranno alla prova tanto
la Commissione che il sottoscritto nelle sue responsabilità, quanto i
singoli Paesi e governi. Per l’Italia si tratta di un’occasione
irripetibile per riforme che eliminano le strozzature che hanno limitato la crescita e per investimenti per rendere l’Italia più competitiva. Si tratta di risorse senza precedenti”.
Insomma,
quei soldi che saranno versati anche dall’Italia torneranno (in parte)
indietro sotto forma di “fondi europei” se, e solo se, saranno
effettuate quelle “riforme” che la stessa Ue pretende da molti prima che
il coronavirus facesse strage e aprisse ufficialmente lo stato di
crisi.
Nulla è cambiato, se non la tempistica con cui si chiedono “riforme” e “aggiustamento di bilancio”.
Altrettanto esplicita Christine Lagarde: “Il recovery fund raggiungerà il suo pieno potenziale solo se sarà saldamente inserito in riforme strutturali concepite e attuate a livello nazionale”.
“Le raccomandazioni specifiche per l’Italia” stilate dalla Commissione Ue identificano “gli investimenti in infrastrutture digitali per l’istruzione e la formazione, la promozione della produzione di energia rinnovabile, lo sviluppo di modelli di e-business e la modernizzazione della pubblica amministrazione. Queste riforme sono indispensabili per capitalizzare questo momento”.
Inoltre “la mobilitazione degli investimenti richiede soprattutto un quadro economico favorevole alle imprese, con servizi pubblici e privati efficienti e flessibili, adeguate infrastrutture fisiche e digitali, un sistema giudiziario ben funzionante e un settore finanziario forte”.
Tutti
obiettivi formalmente asettici, perché generici. Chi potrebbe
contestare che infrastrutture digitali o la modernizzazione del diritti
civile, per esempio, non siano obbiettivi desiderabili?
I
problemi diventano più chiari quando di nominano il “quadro economico
favorevole alle imprese”, o “il mercato del lavoro” (ampiamente
massacrato nel corso degli ultimi 20 anni, tanto che non esistono
praticamente più diritti esigibili).
Non
si parla ancora di tagli, ufficialmente, ma dovrebbe suonare
sinistramente la notizia che diversi giornali riportano stamattina: “Le pensioni decorrenti dal 1° gennaio 2021 avranno una quota contributiva più leggera.
A stabilirlo è stato il decreto 1° giugno 2020 di revisione triennale
dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo”. Pochi spiccioli in meno, per ora, ma la direzione è chiara…
Qualcuno
potrebbe pensare: “Sì, va bene, c’è un prezzo da pagare, però almeno
saremo obbligati a fare quel che ci serve e altrimenti non faremmo…”.
E’
sempre la stessa idiozia ripetuta dal 1981 – quaranta anni fa! – quando
il ministro Nino Andreatta decretà il “divorzio” tra la Banca d’Italia e
il Tesoro, per vietare alla prima di comprare in asta i titoli di Stato
emessi da Tesoro stesso; pratica che contribuiva a tenere alto il
prezzo e quindi bassi gli interessi da pagare. L’intento era anche lì
“virtuoso”; ossia “costringere lo Stato a spendere meno, eliminando
sprechi e ruberie”.
Sprechi
e ruberie sono rimasti, com’è noto. Sanità, pensioni e istruzione sono
state massacrate e sue di loro si adensano altre nubi tempestose.
In
ogni caso, ha spiegato Charles Michel, presidente del Consiglio europeo
(il certice dei capi di Stato e di governo della Ue), “Vorrei mettere tutti in guardia dal sottovalutare la difficoltà dei negoziati che stanno per iniziare”.
Sul Recovery fund “c’è ancora strada da fare. Come sapete, su vari punti chiave del progetto esistono divergenze significative: sulla dotazione globale, sulla ripartizione tra prestiti e sovvenzioni, sui
criteri di distribuzione delle risorse finanziarie, sulle condizioni di
assegnazione dei fondi… Ora più che mai, questi negoziati sono irti di difficoltà, poiché
costringono tutti gli Stati membri a riconsiderare determinati principi
cui sono fedeli da così lungo tempo. Non tutti condividono la stessa
interpretazione di cosa sia nel concreto la solidarietà. Così come non tutti sono istintivamente d’accordo sulle implicazioni pratiche che derivano necessariamente dal principio di responsabilità. Potremo riuscire solo se sia gli uni che gli altri faranno lo sforzo di mettersi nei panni dei rispettivi interlocutori”.
Niente
è certo, tranne il fatto che le “condizionalità” per avere in prstito
parte dei fondi che il Paese deve versare (o impegnarsi a farlo)
potranno solo essere peggiori di quelle fin qui prospettate. Olanda,
Austria, Finlandia e il “gruppo di Visegrad” (Polonia, Cechia,
Slovacchia, Ungheria) pretendono infatti che nulla venga “regalato” ai
paesi mediterranei. Per ragioni diverse, oltretutto. Perché i prmi tre
paesi dovrebbero vesare un po’ di più di quel che riceverebbero; gli
altri quattro perché vedrebbero in parte scendere il contributo europeo
al loro sviluppo.
Ecco,
dato questo contesto, la formulazione di un “Piano nazionale di
riforme” – indispensabile per poter cominciare a chiedereed ottenere
almeno la prima rata del Recovery
Fund a gennaio (o più in là, probabilmente) – diventa per il governo
Conte un letto di Procuste che quanto prima dovrà far vedere i chiodi al
posto della pelliccia.
Decisamente,
quanti ieri si sono presentati fuori Villa Pamphili per contestare un
vertice-fregatura, hanno messo in campo l’unica risposta possibile:
l’organizzazione di un fronte di lotta popolare, che unisca i settori
sociali colpiti dalla crisi e che le politiche europee – che Conte chiama a protezione del suo governo – vogliono peggiorare oltre ogni immaginazione.
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