Nella tradizione islamica taqiyya
significa “paura, stare in guardia, circospezione, ambiguità o
dissimulazione” e ha indicato storicamente la possibilità per gli sciiti
di rinnegare esteriormente la fede per sfuggire alla persecuzione
sunnita e salvare sia la fede sia la propria integrità fisica. E da qui
che è partito nel 2009 il mio viaggio in Iran, un paese sospeso tra
passato e presente, crocevia di culture e luogo d’origine di imperi
millenari, e ancora oggi ritenuto un paese poco sicuro e troppo
integralista. Ma quando la taqiyya si dissolve, riemerge il
vissuto profondo, il ricchissimo patrimonio artistico, culturale, umano
ed etnografico di un paese unico al mondo, che l’Occidente non può
continuare ad ignorare, mostrando i pregiudizi e le false prospettive
dell’oggi. Il libro che nacque dal mio viaggio (e fu il primo di una
lunga serie) fu un reportage sulla Persia che guidava il lettore in un
mondo affascinante, dove cultura, arte, architettura e archeologia
rappresentano una miscela stimolante.
Dopo 40 anni dalla Rivoluzione Khomeinista,
oggi (11 febbraio 2019) si sono tenute a Teheran imponenti
celebrazioni. Presso la torre Azadi (Libertà) che svetta sulla più
grande piazza di Teheran, si sono radunate migliaia di persone per
l’ultima delle celebrazioni ufficiali per il quarantesimo anniversario
della Rivoluzione Islamica. Ironia della sorte, la torre era stata
progettata nel 1971 per le sontuose celebrazioni dei 2500 anni
dell’impero persiano volute dall’ultimo Shah Mohammad Reza Pahlavi,
ma è diventata l’icona di una Rivoluzione che ha strappato l’Iran al
controllo delle potenze post-coloniali. “La presenza del popolo in
questa celebrazione prova che i complotti dei nostri nemici sono stati
sventati. Non permetteremo agli Stati Uniti di vincere questa guerra”.
Lo ha detto oggi il presidente iraniano Hassan Rohani, parlando alla folla nella citata piazza Azadi (Libertà) di Teheran.
L’attuale Consigliere per la sicurezza nazionale Usa John Bolton
aveva annunciato nel 2017 che la Repubblica Islamica non sarebbe
arrivata a festeggiare il suo 40esimo anniversario. I media ufficiali
iraniani lo ricordano in questi giorni con soddisfazione, nonostante lo
stesso Bolton sia ora fra i falchi più agguerriti dell’amministrazione
Trump e l’autorevole sostenitore della politica di “massima pressione”
esercitata dalla Casa Bianca sull’Iran. Le nuove sanzioni Usa riesumate
da Washington dopo l’uscita unilaterale dall’accordo sul nucleare del
giugno 2015, ma concepite in modo da colpire anche le imprese europee
che vogliano continuare a cogliere le opportunità offerte dalle risorse
petrolifere e dal mercato iraniano, non sono certo una novità per i
cittadini della Repubblica Islamica, abituati a conviverci appunto da 40
anni.
Ma la tenuta della Repubblica islamica, a
40 anni dalla sua fondazione e nonostante le sanzioni USA, non si può
spiegare soltanto con l’apparato repressivo dello stato, e in
particolare di quei poteri più legati alla Guida Suprema
e alle forze ultraconservatrici – dai servizi di intelligence delle
Guardie della rivoluzione (i Pasdaran) alla magistratura e ai giudici
delle Corti rivoluzionarie. I Pasdaran, inizialmente concepiti da Khomeini
solo come una forza militare a difesa della rivoluzione, si sono negli
ultimi decenni innervati anche nel sistema economico iraniano, creando
insieme alle potenti fondazioni religiose (bonjad) una
oligarchia capace di controllare quasi tutto, dai grandi appalti alla
distribuzione dei posti di lavoro. È contro questo nuovo potere
oligarchico e contro una diffusa e dilagante corruzione che la società
civile iraniana ha protestato in questi ultimi mesi, riformulando in
altri modi quella stessa richiesta di giustizia sociale che i diseredati
e degli oppressi (mostazafin) era stata propria dei primi rivoluzionari iraniani.
Le sanzioni non stanno inoltre colpendo
l’oligarchia al potere, bensì una classe media sempre più impoverita e
delusa. È vero: la rivoluzione di Khomeini non ha raggiunto i suoi
obiettivi di equità e giustizia sociale, e al vecchio apparato legato
allo Shah si è sostituito un nuovo sistema oligarchico ormai
profondamente radicato. Ma quale cambiamento vogliono gli iraniani? Non
si è ancora assistito alla nascita di una nuova leadership di
opposizione, capace magari di capitalizzare il malcontento e le proteste
di natura economica di questo ultimo anno: una leadership alternativa a
quella dell’Onda verde del 2009, decapitata dalla repressione, e alle
forze riformiste rimaste che hanno scelto il patto con i conservatori
moderati di Rouhani. E soprattutto è ancora tutto da
verificare se effettivamente la società iraniana voglia effettivamente
quel cambiamento laico e liberale che vorrebbero USA e Occidente.
Con tutta probabilità la resilienza, il
trasformismo e il pragmatismo del clero sciita e degli iraniani saranno
capaci di prevenire ancora per anni un movimento radicale simile alla
rivoluzione del 1979. Le forze militari dell’Iran
ascoltano sempre i loro leader politici e l’Iran ha un controllo di
intelligence su tutto il Medio Oriente che manca perfino agli Usa. Un
attacco militare esterno farebbe altri disastri, e finirebbero col
rinserrare e rafforzare ancora di più il regime khomeinista. È la storia
della guerra Iran-Iraq a dircelo: senza l’attacco di Saddam Hussein
l’attuale regime non avrebbe probabilmente avuto la meglio sulle
istanze laiche e democratiche che erano emerse dopo la caduta di Reza Pahlavi.
Davanti alle reiterate reazioni
americane, la UE ha lanciato ora l’Instex, il canale finanziario
finalmente ideato per permettere le legittime interazioni economiche con
l’Iran, e garantire appunto a Teheran i benefici del Jcpoa. Il governo
di Rohani farà probabilmente nei prossimi giorni la voce grossa anche con gli europei, percepiti come troppo succubi delle politiche di Trump.
Alla fine la strategia USA della “massima pressione” potrebbe
addirittura contribuire a puntellare indirettamente il regime, con
l’effetto di impedire quel progressivo movimento di riforma interna e
non traumatica della Repubblica islamica che la maggioranza dei suoi
cittadini vorrebbe, e che forse il pieno rispetto del Jcpoa avrebbe
potuto favorire.
L’Iran è oggi un paese popolato da giovani
nati dopo la Rivoluzione Khomeinista e che non hanno vissuto la
devastante guerra con l’Iraq. Migliaia di loro coetanei morirono
entrando nei campi minati inneggiando ad Allah: durante le mie visite al
cimitero dei martiri di Teheran ricordo le madri che pulivano le tombe
dei loro figli adolescenti con l’acqua di rose, le loro grida
strazianti, il loro dolore inconsolabile. Questi giovani iraniani sono
diversi dai loro padri, e forse sono troppo viziati dalle loro famiglie
che hanno vissuto una Rivoluzione e hanno contato i morti della guerra
Iran-Iraq. Questi giovani non sono probabilmente pronti né per un’altra
guerra né per un’altra fuga verso l’ignoto. Non vogliono che in Iran
accada quello che sta accadendo in Siria, in Yemen, in Afghanistan.
Preferiscono convivere dignitosamente accettando compromissioni alla
libertà politica e di espressione, e fanno ogni giorno esercizio di taqiyya.
Non sono giovani che scenderanno in strada nelle manifestazioni contro
il regime, e quando è sera tornano quasi sempre a casa, dove le madri
hanno preparato la cena. Del resto, quando non si può avere il meglio si
può sempre scegliere il meno peggio.
Sotto questo punto di vista, la situazione dell’Iran appare molto simile a quella dell’Algeria.
Ancor più che economico, il problema dell’Algeria è soprattutto
politico e sociale. Il paese è ancora amministrato dalla famiglia del
presidente Abdelaziz Bouteflika e da un entourage
ristretto e clientelare. La disillusione degli algerini riguardo alla
possibilità di un cambiamento radicale ai vertici del regime resta
diffusa, così come la speranza che possa realizzarsi un’effettiva
apertura democratica. La possibilità di una rivolta aperta degli
algerini nei confronti del regime attuale resta comunque bassa.
Indipendentemente dalla pervasività dei controlli dei militari e
dell’intelligence, gli algerini sono infatti ancora negativamente
condizionati dal Decennio nero e dai traumi psico-sociali degli eccidi,
dagli orrendi crimini contro l’umanità subiti e dal fatto che molti dei
criminali hanno goduto in seguito dell’impunità e dell’amnistia. È stata
ristabilita la pace interna ma non la verità di quegli anni terribili.
Nessun commento:
Posta un commento