Quando gli esponenti dei partiti usciti
malconci dalle elezioni del 4 marzo scorso, cercano di far credere agli
italiani di essere in possesso di ricette salvifiche per il Paese,
occorrerebbe mettere una mano sul portafoglio e raggiungere alla svelta
un luogo sicuro. I numeri che tanto piacciono ad alcuni redivivi
benefattori della partitocrazia del Nazareno, ne bocciano senza appello
l’operato, facendo apparire anche fin troppo lieve il calcio nel sedere
rifilatogli dagli elettori.
Il lascito dell’ultimo governo
Berlusconi e di quelli guidati da Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, è
terrificante. Anche per il settore dell’artigianato. Se nell’ultimo anno
(2018 su 2017) lo stock complessivo presente in Italia è sceso di oltre
16.300 unità (-1,2 per cento), negli ultimi 10 anni, invece, la
contrazione è stata pesantissima: -165.500 attività (-11,3 per cento).
Una caduta che non ha registrato
soluzioni di continuità in tutto l’arco temporale analizzato
(2018-2009). Al 31 dicembre scorso, invece, il numero totale delle
imprese artigiane attive in Italia si è attestato poco sopra 1.300.000
unità. Di queste, il 37,7 per cento nell’edilizia, il 33,2 per cento nei
servizi, il 22,9 per cento opera nel settore produttivo e il 6,2 per
cento nei trasporti. L’analisi è stata realizzata dall’Associazione
Artigiani e Piccole Imprese Mestre Cgia.
“La caduta dei consumi delle famiglie e
la loro lenta ripresa, l’aumento della pressione fiscale e l’esplosione
del costo degli affitti hanno spinto fuori mercato molte attività,
dichiara il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo, senza contare
che l’avvento delle nuove tecnologie e delle produzioni in serie hanno
relegato in posizioni di marginalità molte professioni caratterizzate da
un’elevata capacità manuale. Ma oltre al danno economico causato da
queste chiusure, c’è anche un aspetto sociale molto preoccupante da
segnalare. Quando chiude definitivamente la saracinesca una bottega
artigiana, si perdono conoscenze e cultura del lavoro difficilmente
recuperabili e la qualità della vita di quel quartiere peggiora
notevolmente. Altresì, c’è meno sicurezza, più degrado e il rischio di
un concreto impoverimento del tessuto sociale”.
A livello territoriale è il Mezzogiorno
la macro area dove la caduta è stata maggiore. Tra il 2009 e il 2018 in
Sardegna la diminuzione del numero di imprese artigiane attive è stata
del 18 per cento (-7.664). Seguono l’Abruzzo con una contrazione del
17,2 per cento (-6.220), l’Umbria, che comunque è riconducibile alla
ripartizione geografica del Centro, con – 15,3 per cento (-3.733), la
Basilicata con il 15,1 per cento (-1.808) e la Sicilia, sempre con il
-15,1 per cento, che ha perso 12.747 attività. Nell’ultimo anno, invece,
la regione meno virtuosa d’Italia è stata la Basilicata con una
diminuzione dello stock dell’1,9 per cento.
“Il 57 per cento della contrazione delle
imprese artigiane registrata in questi ultimi 10 anni, fa notare il
segretario della CGIA Renato Mason, riguarda attività legate al comparto
casa. Edili, lattonieri, posatori, dipintori, elettricisti, idraulici,
etc. stanno vivendo anni difficili e molti sono stati costretti a
gettare la spugna. La crisi del settore e la caduta verticale dei
consumi delle famiglie sono stati letali. Certo, molte altre professioni
artigiane, soprattutto legate al mondo del design, del web, della
comunicazione, si stanno imponendo. Purtroppo, le profonde
trasformazioni in atto stanno cancellando molti mestieri che hanno
caratterizzato la storia dell’artigianato e la vita di molti quartieri e
città”.
Il settore artigiano più colpito dalla
crisi è stato l’autotrasporto che negli ultimi 10 anni ha perso 22.847
imprese (-22,2 per cento). Seguono le attività manifatturiere con una
riduzione pari a 58.027 unità (- 16,3 per cento) e l’edilizia che ha
visto crollare il numero delle imprese di 94.330 unità (-16,2 per
cento). Sono in forte aumento, invece, imprese di pulizia, giardinaggio e
servizi alle imprese (+43,2 per cento), attività cinematografiche e
produzione software (+24,6 per cento) e magazzinaggio e corrieri (+12,3
per cento). Tra le aziende del settore produttivo quelle più in
difficoltà sono state quelle che producono macchinari (-36,1 per cento),
computer e elettronica (-33,8 per cento) e i produttori di mezzi di
trasporto (-31,8 per cento).
La CGIA, infine, ha elencato 25 vecchi
mestieri artigiani che negli ultimi decenni sono pressoché scomparsi
dalle nostre città e nei paesi di campagna, o professioni che sono in
via di estinzione a causa delle profonde trasformazioni tecnologiche che
li hanno investiti: Arrotino (molatore o affilatore di lame), Barbiere
(addetto al taglio dei capelli su uomo e alla rasatura della barba),
Calzolaio (riparatore di suole, tacchi, borse e cinture), Casaro
(addetto alla lavorazione, preparazione e conservazione dei latticini),
Canestraio (produttore di canestri, ceste, panieri, etc.), Castrino
(figura artigianale tipica del mondo mezzadrile con il compito di
castrare gli animali), Ceraio (produttore di torce, lumini e candele con
l’uso della cera), Cocciaio (produttore di piatti, ciotole e vasi),
Cordaio (fabbricante di corde, funi e spaghi), Corniciaio, Fotografo,
Guantaio (produttore e riparatore di guanti), Legatore (rilegatore di
libri), Norcino (addetto alla macellazione del maiale e alla lavorazione
delle carni), Materassaio (colui che confeziona o rinnova materassi,
trapunte, cuscini, etc.), Mugnaio (macinatore di grano e granaglie),
Maniscalco (addetto alla ferratura dei cavalli, degli asini e dei muli),
Ombrellaio (riparatore/rattoppatore di ombrelli rotti), Ricamatrice
(decoratrice del tessuto con motivi ornamentali), Sarto/a (colui o colei
che confeziona abiti maschili o femminili), Selciatore (addetto alla
posa in opera di cubetti di porfido), Sellaio (produttore di selle per
animali), Scopettaio (produttore di spazzole e scope), Scalpellino
(colui che sgrossa e lavora la pietra o il marmo con lo scalpello),
Seggiolaio (produttore o riparatore di seggiole impagliate).
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