Il primo elemento è dato dalla progressiva politicizzazione del consumo.
Il fascismo non vedeva di buon occhio una società dei consumi, ma
contribuì quantomeno ad affermare l’importanza dell’acquisto di prodotti
italiani. L’italianità di una merce divenne sinonimo di
qualità; il suo acquisto e consumo venivano paragonati ad un vero
compito patriottico. Sfogliando riviste e manifesti dell’epoca emergono
prodotti come il Fernet-Branca o la Lenasel, quest’ultima celebrata come il tessile dell’indipendenza.
Indipendenza dalla riduzione delle importazioni cui l’Italia dovette
far fronte come conseguenza delle sanzioni per l’occupazione
dell’Etiopia nel 1936. Il prodotto italiano divenne inoltre motivo di
vanto e di orgoglio etnico-razziale nelle numerose comunità di migranti
italiani nel mondo, ad esempio mediante trasmissione di ricette
culinarie tipiche.
L’idea di italianità investì anche la moda, i profumi e il vestiario. Scrive Emanuela Scarpellini come l’accorgimento, in questo caso, fosse quello di
La moda femminile ci permette di osservare un altro tassello delle politiche sui consumi fasciste: il ruolo della donna. All’interno della famiglia la donna diveniva elemento organizzatore dell’economia domestica. Si trattò certamente di una svolta il fatto che, oltre al ruolo già stabilito nella precedente Italia liberale, si affiancassero incentivi a consumi positivi come quello per l’assistenza sociale e per gli aiuti alla maternità. Pensate per la donna furono numerose riviste e consigli per raggiungere la completa autosufficienza abitativa, attraverso conservazione del cibo, ricette, rimozione macchie, precetti di igiene e cura dei giardini. Una simile politica, oltre a riflettere in scala minore una certa idea autarchica dello spazio già apparentemente sperimentata a livello nazionale, rispondeva anche agli studi legati all’eugenetica, secondo i quali l’igiene e la salute della donna erano elementi vitali per la sopravvivenza dell’intera razza.
La particolare attenzione tutta italiana per la salute (di cui gli italiani godono, stando ad una recente classifica, in una qualità superiore a quella di qualsiasi altra nazione nel mondo) e per la cura della casa sono tra le conseguenze più durature di una tale politica dei consumi fascista.
Andiamo però al secondo elemento dell’Italia dei consumi in periodo fascista: la nascita del turismo di massa. La definizione è ovviamente impropria e la cerchia dei fortunati avanguardisti di uno dei più imponenti fenomeni di massa dell’Italia attuale era molto ristretto. Il mercato automobilistico è ancora molto limitato (sono circa 289.000 le autovetture in Italia nel 1938). Quello aereo si limita a 100.000 passeggeri alla vigilia della Seconda Guerra mondiale. Il treno e la bicicletta sono i mezzi più utilizzati. Certamente, tuttavia, il mezzo più lussuoso resta quello navale. Le prime “crociere” si svolgevano tra balli, cene ed esibizioni.
Proprio le “crociere” furono alla base della nascita del moderno turismo mediterraneo italiano. Un turismo inaugurato dalla prima guida gastronomica d’Italia, edita dal Touring Club nel 1931. L’Italia fu celebrata come sintesi di meraviglie gastronomiche e turistiche. A giovarne fu soprattutto il Sud Italia, valorizzato nelle sue spiagge e nei suoi sapori. Quasi contemporaneamente e procedendo ancora verso Sud, l’Italia celebrava come una scintillante vetrina i suoi domini coloniali e mediterranei.
Punta di diamante era ovviamente la Libia, la quale divenne una meta turistica privilegiata, sintesi di meraviglie archeologiche e vita mondana in lussuosi alberghi, tra esplorazioni nel deserto e crociere che dalle coste libiche muovevano verso l’altra “perla” dell’imperialismo italiano nel Mediterraneo, il Dodecaneso, per poi muovere verso l’Impero dell’Africa Orientale Italiana attraverso il Mar Rosso. Tale turismo, in nulla diverso dal turismo inglese o francese che già investiva le rispettive colonie, dal Marocco all’India, passando per l’Egitto, anticipava il “fascino esotico”, in buona parte artificioso, del turismo di massa moderno. Un’idea di turismo al cui centro era la stessa Italia, trasformata in quello che è oggi una sorta di grandioso museo archeologico e gastronomico per milioni di turisti da tutto il mondo.
All’effetto consumistico si affianca attualmente l’orgoglio tutto italiano per le bellezze e la storia artistica e culinaria dello Stivale. Una parte considerevole dell’identità nazionale italiana poggia su tali basi, per la prima volta implementate secondo una certa progettualità durante il regime fascista e destinate ad esplodere, tra mille contraddizioni, dopo la nascita della Repubblica.
L’idea di italianità investì anche la moda, i profumi e il vestiario. Scrive Emanuela Scarpellini come l’accorgimento, in questo caso, fosse quello di
Richiamare la “romanità”: così troviamo gli eleganti abiti maschili Caesar (“stile, eleganza, distinzione”) l’acqua di colonia Etrusca (“essenza millenaria d’erbe sacre in una limpida anfora”) o quella “Impero” (“l’italianissima! La migliore!”), mentre la Radiomarelli propone modelli come il Vertumno; in alternativa, fioriscono statue e riferimenti mitologici sullo sfondo.Furono anche tali campagne pubblicitarie, unite alle innovazioni e alla volontà di prendere le distanze dalla dominante moda francese a porre le basi per il Made in Italy. La moda femminile fu quella maggiormente investita e la donna stessa fu oggetto di particolari attenzioni da parte del regime. Le politiche autarchiche in materia di tessuti ebbero come effetto quello di favorire una straordinaria stagione di innovazioni e la nascita di un sistema di produzione e confezionamento di abiti, anche a prezzi contenuti, soprattutto tra Milano, Torino, Roma e Firenze.
La moda femminile ci permette di osservare un altro tassello delle politiche sui consumi fasciste: il ruolo della donna. All’interno della famiglia la donna diveniva elemento organizzatore dell’economia domestica. Si trattò certamente di una svolta il fatto che, oltre al ruolo già stabilito nella precedente Italia liberale, si affiancassero incentivi a consumi positivi come quello per l’assistenza sociale e per gli aiuti alla maternità. Pensate per la donna furono numerose riviste e consigli per raggiungere la completa autosufficienza abitativa, attraverso conservazione del cibo, ricette, rimozione macchie, precetti di igiene e cura dei giardini. Una simile politica, oltre a riflettere in scala minore una certa idea autarchica dello spazio già apparentemente sperimentata a livello nazionale, rispondeva anche agli studi legati all’eugenetica, secondo i quali l’igiene e la salute della donna erano elementi vitali per la sopravvivenza dell’intera razza.
La particolare attenzione tutta italiana per la salute (di cui gli italiani godono, stando ad una recente classifica, in una qualità superiore a quella di qualsiasi altra nazione nel mondo) e per la cura della casa sono tra le conseguenze più durature di una tale politica dei consumi fascista.
Andiamo però al secondo elemento dell’Italia dei consumi in periodo fascista: la nascita del turismo di massa. La definizione è ovviamente impropria e la cerchia dei fortunati avanguardisti di uno dei più imponenti fenomeni di massa dell’Italia attuale era molto ristretto. Il mercato automobilistico è ancora molto limitato (sono circa 289.000 le autovetture in Italia nel 1938). Quello aereo si limita a 100.000 passeggeri alla vigilia della Seconda Guerra mondiale. Il treno e la bicicletta sono i mezzi più utilizzati. Certamente, tuttavia, il mezzo più lussuoso resta quello navale. Le prime “crociere” si svolgevano tra balli, cene ed esibizioni.
Proprio le “crociere” furono alla base della nascita del moderno turismo mediterraneo italiano. Un turismo inaugurato dalla prima guida gastronomica d’Italia, edita dal Touring Club nel 1931. L’Italia fu celebrata come sintesi di meraviglie gastronomiche e turistiche. A giovarne fu soprattutto il Sud Italia, valorizzato nelle sue spiagge e nei suoi sapori. Quasi contemporaneamente e procedendo ancora verso Sud, l’Italia celebrava come una scintillante vetrina i suoi domini coloniali e mediterranei.
Punta di diamante era ovviamente la Libia, la quale divenne una meta turistica privilegiata, sintesi di meraviglie archeologiche e vita mondana in lussuosi alberghi, tra esplorazioni nel deserto e crociere che dalle coste libiche muovevano verso l’altra “perla” dell’imperialismo italiano nel Mediterraneo, il Dodecaneso, per poi muovere verso l’Impero dell’Africa Orientale Italiana attraverso il Mar Rosso. Tale turismo, in nulla diverso dal turismo inglese o francese che già investiva le rispettive colonie, dal Marocco all’India, passando per l’Egitto, anticipava il “fascino esotico”, in buona parte artificioso, del turismo di massa moderno. Un’idea di turismo al cui centro era la stessa Italia, trasformata in quello che è oggi una sorta di grandioso museo archeologico e gastronomico per milioni di turisti da tutto il mondo.
All’effetto consumistico si affianca attualmente l’orgoglio tutto italiano per le bellezze e la storia artistica e culinaria dello Stivale. Una parte considerevole dell’identità nazionale italiana poggia su tali basi, per la prima volta implementate secondo una certa progettualità durante il regime fascista e destinate ad esplodere, tra mille contraddizioni, dopo la nascita della Repubblica.
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