La rapida ed improvvisa avanzata dell’ISIS in terra di Libia ha
suscitato una serie di nuove paure in Europa ed in Italia in
particolare. Vediamo, in quest’articolo, di soppesarle una per una in
modo da saggiarne l’attendibilità.
La prima è che l’ISIS possa sommergerci d’ondate umane e migratorie, di barconi carichi di poveri disperati tra i quali potrebbero infiltrarsi anche i suoi uomini allo scopo di seminare lo scompiglio anche da noi. Per quanto non impossibile, resta comunque un’ipotesi piuttosto improbabile. L’ISIS sicuramente gradirebbe approfittare di una simile possibilità, ma l’Italia già alla fine degli Anni ’90 ha dimostrato di saper affrontare una simile situazione. A quell’epoca il governo italiano inaugurò un’operazione che portò all’affondamento di molte imbarcazioni direttamente nei porti albanesi, allo scopo di prevenire le partenze dall’Albania verso la Puglia. La strategia, malgrado tutto, funzionò; e del pari funzionò anche l’operazione, avviata sempre in quegli anni, mirata a stroncare il passaggio tra le due sponde dell’Adriatico dei contrabbandieri albanesi e montenegrini, che erano ormai giunti ad un tale livello di potenza da minacciare seriamente l’ordine pubblico e la sicurezza in alcune aree del paese. Il nostro paese potrebbe quindi replicare, su vasta scala, quest’operazione già attuata con successo quasi vent’anni fa, affondando le imbarcazioni direttamente nei porti libici in maniera da prevenire o quantomeno minare alle radici la tratta dei migranti. Certo, non sarebbe un’operazione semplice, per due immediati motivi. Il primo è che la Libia non è l’Albania, avendo una costa ed un numero di porti e quindi anche d’imbarcazioni di gran lunga superiore, il che richiederebbe pertanto uno sforzo ed un’organizzazione altrettanto maggiori. Il secondo è che in Albania c’era pur sempre un governo abbastanza solido e presente sul territorio, per quanto corrotto e viziato dalla presenza e dall’interferenza di mafiosi vari, mentre in Libia l’autorità statale è in pratica assente, ed al suo posto ci sono gruppi di fondamentalisti che aspirano per motivi religiosi ed ideologici allo scontro coi nostri uomini, cosa che aumenterebbe il livello di rischio della missione. Pertanto quest’ultima non si presenterebbe come un’operazione facile ed indolore, e men che meno di semplice attuabilità. Ma, se vorremo evitare una proliferazione degli sbarchi, molto probabilmente ci troveremo costretti ad aprire una riflessione sull’opportunità di metterla in pratica.
La seconda paura è che gli uomini dell’ISIS possano raggiungere Misurata e da lì giungere con gran facilità anche a Tripoli. Premesso che prendere Misurata non è uno scherzo, visto che si trova sotto il controllo di milizie ben agguerrite e che rappresentavano la spina nel fianco anche per l’esercito di Gheddafi, giungere a Tripoli è probabilmente ancora più difficile. Al momento a Tripoli l’ISIS è infiltrata coi suoi uomini e gode anche di tifosi e sostenitori che scorrazzano per le strade agitando le sue bandiere, ma di qui a parlare di un controllo effettivo della capitale ce ne corre. Qualora gli uomini dell’ISIS dovessero realmente impadronirsi di Tripoli, in termini pratici non vi sarebbero cambiamenti sostanziali, giacché il governo legittimamente riconosciuto della Libia già da tempo s’è rifugiato a Tobruk e quello “ribelle” insediato nella capitale non gode della fiducia e dell’ascolto della cosiddetta “comunità internazionale”. E’ però vero che a Tripoli c’è un bel po’ d’armamenti che potrebbero cadere nelle mani dell’ISIS, a cominciare da una buona frazione dei caccia dell’aviazione militare libica, ereditati dalla Jamahiriya. Qualcuno ha già insinuato l’ipotesi che a quel punto gli uomini dell’ISIS potrebbero usarli per compiere qualche spedizione sull’Italia. Mi si permetta di dire che anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una paura tanto eccessiva quanto immotivata. Gli aerei in questione sono vecchi e malandati, ed in ogni caso per guidarli in maniera presentabile è richiesto un addestramento di ore ed ore che gli uomini dell’ISIS non hanno. Qualora quest’ultimi avessero il coraggio di decollare alla volta dell’Italia, o anche dell’Egitto o dell’Algeria, verrebbero prontamente abbattuti senza troppo problemi: ammesso poi che riescano anche solo ad avvicinarsi alla meta. Casomai, questi aerei potrebbero usarli per scopi interni, per esempio per bombardare i loro nemici delle fazioni opposte o le milizie gheddafiane attestate nel sud del paese. Era ciò che facevano anche i Talebani coi vecchi caccia lasciati dai sovietici e dalla defunta aviazione afghana a Kabul: partivano dalla capitale per sorvolare e colpire maldestramente le postazioni dell’Alleanza del Nord. Quando giunsero gli americani, quei caccia ovviamente rimasero fermi sulle piste, poiché intuibilmente i Talebani non avrebbero avuto alcuna possibilità di sfidare i ben più preparati piloti occidentali. Nel caso dell’ISIS in Libia, succederebbe la stessa cosa: qualora nel paese entrassero gli egiziani, o la NATO, i vecchi caccia ereditati da Gheddafi rimarrebbero a terra.
Forse un po’ più temibili potrebbero essere i missili, anche in questo caso vecchi e malandati, di cui la Libia possiede una grande quantità. Anche questi sono un retaggio della Jamahiriya, di cui nel nostro paese viene sopravvalutata la pericolosità. Il fatto è che siamo stati segnati dalla rappresaglia del 1986, ovvero dai due missili scagliati dalla Libia subito dopo il bombardamento aglo-americano su Tripoli e Bengasi. Per questo motivo viviamo con l’ossessione che possano arrivarne altri. Ma la realtà è che anche in questo caso difficilmente l’ISIS potrà tirarci addosso qualcuno di quei vecchi “petardoni”. Già nel 1986 essi non riuscirono a raggiungere Lampedusa, inabissandosi prima, ed erano belli nuovi; come potrebbero farcela adesso, che sono in avanzata fase d’obsolescenza? C’è il rischio che possano esplodere per strada, o addirittura alla partenza. Inoltre sono tecnologicamente molto vecchi e possono essere intercettati e neutralizzati con gran facilità. Già nel 2011, proprio per questi motivi, ne tirarono pochi.
In definitiva, l’ISIS almeno per il momento non deve farci paura per la sua capacità di pilotare aerei o di lanciare missili, quanto piuttosto per altre cose. Una di queste è la sua capacità d’ispirare simpatie ed adesioni anche nel cuore dell’Europa, presso strati della società che, sentendosi rifiutati o non integrati nella loro civiltà d’appartenenza, finiscono per cercarsene un’altra altrove, magari proprio nel Califfato. E che quindi possono, ovviamente non tutti, darsi anche alla lotta armata ed al terrorismo. O per le capacità di comunicazione, in grado di suscitare nell’opinione pubblica europea un’inquietudine per non dire un panico costanti, complici in questo caso anche i nostri media che devono battere il tamburo di guerra per indurre la popolazione a tifare per la guerra. O ancora per la capacità di distorcere e strumentalizzare la religione, seminando incomprensioni e scavando solchi che dividono ancor di più le componenti di una società come la nostra, ormai sempre più lacerata e sfilacciata, e fomentando quello scontro di civiltà che del resto anche i nostri governi alimentano tanto volentieri.
La prima è che l’ISIS possa sommergerci d’ondate umane e migratorie, di barconi carichi di poveri disperati tra i quali potrebbero infiltrarsi anche i suoi uomini allo scopo di seminare lo scompiglio anche da noi. Per quanto non impossibile, resta comunque un’ipotesi piuttosto improbabile. L’ISIS sicuramente gradirebbe approfittare di una simile possibilità, ma l’Italia già alla fine degli Anni ’90 ha dimostrato di saper affrontare una simile situazione. A quell’epoca il governo italiano inaugurò un’operazione che portò all’affondamento di molte imbarcazioni direttamente nei porti albanesi, allo scopo di prevenire le partenze dall’Albania verso la Puglia. La strategia, malgrado tutto, funzionò; e del pari funzionò anche l’operazione, avviata sempre in quegli anni, mirata a stroncare il passaggio tra le due sponde dell’Adriatico dei contrabbandieri albanesi e montenegrini, che erano ormai giunti ad un tale livello di potenza da minacciare seriamente l’ordine pubblico e la sicurezza in alcune aree del paese. Il nostro paese potrebbe quindi replicare, su vasta scala, quest’operazione già attuata con successo quasi vent’anni fa, affondando le imbarcazioni direttamente nei porti libici in maniera da prevenire o quantomeno minare alle radici la tratta dei migranti. Certo, non sarebbe un’operazione semplice, per due immediati motivi. Il primo è che la Libia non è l’Albania, avendo una costa ed un numero di porti e quindi anche d’imbarcazioni di gran lunga superiore, il che richiederebbe pertanto uno sforzo ed un’organizzazione altrettanto maggiori. Il secondo è che in Albania c’era pur sempre un governo abbastanza solido e presente sul territorio, per quanto corrotto e viziato dalla presenza e dall’interferenza di mafiosi vari, mentre in Libia l’autorità statale è in pratica assente, ed al suo posto ci sono gruppi di fondamentalisti che aspirano per motivi religiosi ed ideologici allo scontro coi nostri uomini, cosa che aumenterebbe il livello di rischio della missione. Pertanto quest’ultima non si presenterebbe come un’operazione facile ed indolore, e men che meno di semplice attuabilità. Ma, se vorremo evitare una proliferazione degli sbarchi, molto probabilmente ci troveremo costretti ad aprire una riflessione sull’opportunità di metterla in pratica.
La seconda paura è che gli uomini dell’ISIS possano raggiungere Misurata e da lì giungere con gran facilità anche a Tripoli. Premesso che prendere Misurata non è uno scherzo, visto che si trova sotto il controllo di milizie ben agguerrite e che rappresentavano la spina nel fianco anche per l’esercito di Gheddafi, giungere a Tripoli è probabilmente ancora più difficile. Al momento a Tripoli l’ISIS è infiltrata coi suoi uomini e gode anche di tifosi e sostenitori che scorrazzano per le strade agitando le sue bandiere, ma di qui a parlare di un controllo effettivo della capitale ce ne corre. Qualora gli uomini dell’ISIS dovessero realmente impadronirsi di Tripoli, in termini pratici non vi sarebbero cambiamenti sostanziali, giacché il governo legittimamente riconosciuto della Libia già da tempo s’è rifugiato a Tobruk e quello “ribelle” insediato nella capitale non gode della fiducia e dell’ascolto della cosiddetta “comunità internazionale”. E’ però vero che a Tripoli c’è un bel po’ d’armamenti che potrebbero cadere nelle mani dell’ISIS, a cominciare da una buona frazione dei caccia dell’aviazione militare libica, ereditati dalla Jamahiriya. Qualcuno ha già insinuato l’ipotesi che a quel punto gli uomini dell’ISIS potrebbero usarli per compiere qualche spedizione sull’Italia. Mi si permetta di dire che anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una paura tanto eccessiva quanto immotivata. Gli aerei in questione sono vecchi e malandati, ed in ogni caso per guidarli in maniera presentabile è richiesto un addestramento di ore ed ore che gli uomini dell’ISIS non hanno. Qualora quest’ultimi avessero il coraggio di decollare alla volta dell’Italia, o anche dell’Egitto o dell’Algeria, verrebbero prontamente abbattuti senza troppo problemi: ammesso poi che riescano anche solo ad avvicinarsi alla meta. Casomai, questi aerei potrebbero usarli per scopi interni, per esempio per bombardare i loro nemici delle fazioni opposte o le milizie gheddafiane attestate nel sud del paese. Era ciò che facevano anche i Talebani coi vecchi caccia lasciati dai sovietici e dalla defunta aviazione afghana a Kabul: partivano dalla capitale per sorvolare e colpire maldestramente le postazioni dell’Alleanza del Nord. Quando giunsero gli americani, quei caccia ovviamente rimasero fermi sulle piste, poiché intuibilmente i Talebani non avrebbero avuto alcuna possibilità di sfidare i ben più preparati piloti occidentali. Nel caso dell’ISIS in Libia, succederebbe la stessa cosa: qualora nel paese entrassero gli egiziani, o la NATO, i vecchi caccia ereditati da Gheddafi rimarrebbero a terra.
Forse un po’ più temibili potrebbero essere i missili, anche in questo caso vecchi e malandati, di cui la Libia possiede una grande quantità. Anche questi sono un retaggio della Jamahiriya, di cui nel nostro paese viene sopravvalutata la pericolosità. Il fatto è che siamo stati segnati dalla rappresaglia del 1986, ovvero dai due missili scagliati dalla Libia subito dopo il bombardamento aglo-americano su Tripoli e Bengasi. Per questo motivo viviamo con l’ossessione che possano arrivarne altri. Ma la realtà è che anche in questo caso difficilmente l’ISIS potrà tirarci addosso qualcuno di quei vecchi “petardoni”. Già nel 1986 essi non riuscirono a raggiungere Lampedusa, inabissandosi prima, ed erano belli nuovi; come potrebbero farcela adesso, che sono in avanzata fase d’obsolescenza? C’è il rischio che possano esplodere per strada, o addirittura alla partenza. Inoltre sono tecnologicamente molto vecchi e possono essere intercettati e neutralizzati con gran facilità. Già nel 2011, proprio per questi motivi, ne tirarono pochi.
In definitiva, l’ISIS almeno per il momento non deve farci paura per la sua capacità di pilotare aerei o di lanciare missili, quanto piuttosto per altre cose. Una di queste è la sua capacità d’ispirare simpatie ed adesioni anche nel cuore dell’Europa, presso strati della società che, sentendosi rifiutati o non integrati nella loro civiltà d’appartenenza, finiscono per cercarsene un’altra altrove, magari proprio nel Califfato. E che quindi possono, ovviamente non tutti, darsi anche alla lotta armata ed al terrorismo. O per le capacità di comunicazione, in grado di suscitare nell’opinione pubblica europea un’inquietudine per non dire un panico costanti, complici in questo caso anche i nostri media che devono battere il tamburo di guerra per indurre la popolazione a tifare per la guerra. O ancora per la capacità di distorcere e strumentalizzare la religione, seminando incomprensioni e scavando solchi che dividono ancor di più le componenti di una società come la nostra, ormai sempre più lacerata e sfilacciata, e fomentando quello scontro di civiltà che del resto anche i nostri governi alimentano tanto volentieri.
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