lunedì 2 dicembre 2019

La campagna elettorale in Gran Bretagna e il “Manifesto” del Partito Laburista

Il 12 dicembre si svolgeranno elezioni politiche in Gran Bretagna.
La sfida tra il partito laburista e quello conservatore ha caratterizzato fin qui la campagna elettorale.
Da un lato Boris Johnson leader dei tories ed ex primo ministro, succeduto a Theresa May, ha giocato quasi tutto sulla sua supposta capacità di avere raggiunto un accordo con i 27 dell’UE rispetto alla Brexit prima dell’indizione delle elezioni anticipate.
Dall’altro, Jeremy Corbyn ha puntato tutto sui contenuti di un programma politico di riforme radicali esposto nel nuovo Manifesto – il nome è in italiano – del Labour.
Tale documento è forse l’esposizione più organica che una forza politica continentale abbia fin qui espresso rispetto alle sfide che attendono chi vuole dare rappresentanza alle classi subalterne, tartassate da – almeno in Gran Bretagna – quasi 40 anni di politiche neo-liberiste, ed aspira a governare un Paese del “Primo Mondo” accettando le sfide poste globalmente.

Luci ed ombre del Manifesto

Il Manifesto non è il libro dei sogni, ma un’organica sistemazione di soluzioni concrete.
Affronta di petto la necessità della transizione ecologica, anzi ne fa l’asse principale per la trasformazione della società nel suo insieme a cominciare dai gangli vitali del sistema economico.
La declina con la questione di classe, in termini di creazione di posti di lavoro, formazione professionale, garanzie sindacali e riequilibrio delle storture territoriali del “vecchio” modello di sviluppo.
L’autonomia e il risparmio energetico all’interno dei criteri di eco-compatibilità sono alla base della ricetta laburista.
C’è una visione complessiva che potremmo sintetizzare con la formula “più pubblico, meno privato” come risultato del processo di riappropriazione dei settori strategici dell’economia e dei beni indispensabili per la collettività, a cominciare dalla settore manifatturiero, altro che de-industrializzazione!
Si prevedono per questo grandi investimenti pubblici di lungo periodo. L’orizzonte è la pianificazione economica di lungo corso, non lagaranzia dell’aumento dei dividendi per gli azionisti delle oligarchie economiche su tutto ciò che può essere “mercificato”.
C’è una radicale messa al centro dei bisogni umani, dalle necessità basilari: casa, cibo, istruzione, cure sanitarie e sicurezza ambientale complessiva, ecc. tutto ciò insieme ad un ampliamento dei diritti civili sostanziali, a cominciare dall’effettiva parità uomo/donna – le donne prendono in media il 13% meno degli uomini – e la fine della discriminazioni sessuali e razziali, verso una società che valorizzi le differenze.
C’è una attenzione alla comprensione della natura sociale del crimine e a prospettare soluzioni che mirino alla prevenzione, alla de-carcerazione, all’inclusione, in assoluto contrasto con quaranta anni di neo-liberismo che hanno imbarbarito il tessuto sociale collettivo e favorito la guerra di tutti contro tutti, in cui la “sicurezza” delle classi popolari era l’ultima delle preoccupazioni per l’establishment.
In generale c’è una attenzione particolare alle fasce più sfavorite dalle politiche neo-liberiste, che hanno visto azzerate le più elementari garanzie vitali. In special modo donne, anziani e bambini sono stati i più colpiti in questo processo di “pauperizzazione” che ha ricacciato la Gran Bretagna in una situazione simile alla Prima Rivoluzione Industriale, con una “umanità eccedente” trattata come scarto.
C’è, potremmo definirla, una chiara identificazione del nemico cui fare pagare il prezzo di questa transizione politico-sociale: quella manciata di privilegiati – come viene detto nell’introduzione del Manifesto – a cui i Conservatori hanno lasciato mano-libera in questi anni.
È il laissez-faire ad essere messo radicalmente in discussione.
I grandi inquinatori, gli speculatori finanziari, gli evasori fiscali delle multinazionali, nelle parole di Corbyn, sono il vero volto della classe dominante e sulle loro spalle graverà il peso di un cambiamento inderogabile, perché le contraddizioni accumulate rendono questo sistema in crisi prossimo al collasso.
Certamente nell’elaborazione del Manifesto alcune questioni rilevanti – che sarebbe disonesto non sottolineare – costituiscono per così dire delle “pietre d’inciampo” sulla strada di una trasformazione complessiva della Gran Bretagna, e soprattutto della sua possibile collocazione internazionale.
È ribadita infatti la propria fedeltà alla NATO; le proposte sul dopo Brexit del Labour tendono a perpetuare il legame con il dispositivo economico-commerciale del Mercato Comune Europeo, non dando seguito al desiderio di de-connessione rispetto alla UE espresso inequivocabilmente con il referendum del 2016.
Sarebbe altrettanto disonesto non sottolineare come le riforme, e anche alcuni importanti orientamenti di politica internazionale, neghino alla radice ciò che il processo di integrazione europea è stato per le classi subalterne, e ciò che ha significato per alcune popolazioni, in specie del Nord-Africa e del Medio-Oriente (Palestina e Yemen, per esempio); oltre che alcune responsabilità della NATO, per esempio nel conflitto libico.
Allo stesso tempo sarebbe miope – a differenza di ciò che emerge dal Manifesto – non considerare come corresponsabili dell’attuale sfacelo della condizione della working class britannica e della “tendenza alla guerra” portata avanti da Londra, quella parte del partito laburista – ora marginalizzata e sconfitta politicamente, ma assolutamente non scomparsa – che si è riconosciuta nel progetto politico di Tony Blair e del suo New Labour.
Lo zoccolo duro dell’ex New Labour è la vera “Quinta Colonna” di qualsiasi progetto di inversione di tendenza nelle politiche del Partito.
Certo i Conservatori sono il primo nemico da battere, ma il nemico – per così dire – ha per lungo tempo marciato alla testa della compagine laburista, fino all’elezione di Corbyn nel 2015, che ha dovuto faticare non poco per “disinnescare” i tentativi di defenestrarlo o quanto meno di sbarrargli la strada da parte della destra interna…

Una campagna elettorale inedita

Questa settimana il Manifesto ha avuto l’endorsement di 163 economisti di fama, che hanno sottoscritto una lettera in cui spiegano sinteticamente le ragioni della loro scelta in favore del Labour, partendo dalla constatazione di una decennale stagnazione economica e di relative condizioni di vita peggiori dei livelli pre-crisi: i salari britannici sono inferiori a quelli percepiti nel 2008, per esempio.
Una decisa scelta in favore della transizione ecologica, con la “green industrial revolution”. Una politica di forti investimenti pubblici a lungo termine, in settori strategici, è considerata positivamente anche per ciò che comporta l’impatto occupazionale e l’inversione di tendenza nei servizi pubblici.
La lettera indirizzata al Financial Times e ripresa da altre testate si conclude con le seguenti affermazioni:
“A noi sembra chiaro che il Labour Party ha non solo compreso i profondi problemi che stiamo affrontando, ha fornito proposte serie per trattarli. Crediamo che meriti di formare il nuovo governo”.
Sempre questa settimana è stata caratterizzata da un vero e proprio coupe de theatre del leader laburista, che ha mostrato le più di 450 pagine di documenti ora desecretati che provano inconfutabilmente come la privatizzazione completa del sistema sanitario nazionale britannico – NHS – sia stata uno dei nodi delle trattative sulla Brexit intraprese tra il governo conservatore e l’amministrazione statunitense.
Boris Johnson ha ripetutamente e pervicacemente negato che ci fosse stato questo tipo di trattativa, giurando e spergiurando che le accuse formulate dal Labour erano pure invenzioni.
Secondo quando è stato reso pubblico da Corbyn, invece, questa trattativa è andata avanti per ben due anni – dal luglio 2017 al luglio 2019 – con sei sessioni di incontri.
Da ciò che si evince, nessun settore è stato escluso a priori dall’accessibilità al “mercato” inglese da parte degli Stati Uniti e la questione dei farmaci viene menzionata come una dei punti nodali della trattativa.
Il sistema sanitario nazionale britannico, sull’orlo del collasso per i tagli operati dai Conservatori, fa gola ai big della white economy statunitense, in particolare alle grosse case farmaceutiche.
Il differenziale di spesa pro capite tra Gran Bretagna – che ha un sistema sanitario pubblico – e quello degli Stati Uniti (totalmente in mano ai privati) rende bene l’idea di quanto l’ulteriore apertura ai privati possa essere vettore di profitti: 365 sterline in UK contro le 946 in USA.
Vista la vera censura mediatica, occorre ricordare che proprio una parte rilevante dell’industria farmaceutica statunitense è al centro di uno dei più grossi scandali e relativi processi penali della storia contemporanea, avendo incentivato – con una politica di “marketing aggressivo” – la prescrizione di oppioidi come gli anti-dolorifici, sviluppando così una dipendenza su larga scala che ha fatto un vero e proprio massacro.
Non proprio dei filantropi, quindi…
Secondo le carte ottenute  dal gruppo “Global Justice Now”, grazie al Freedom of Information Law, il ministro del commercio britannico George Hollingbery – come ha rivelato The Daily Mirror – ha incontrato i giganti dell’industria farmaceutica durante il periodo di discussione degli accordi post-brexit nel quartier generale di Elli Lilly, ad Indianapolis, nell’agosto del 2018.
Un clamoroso pugno nello stomaco ai Conservatori, considerando che proprio la questione del diritto alla salute è diventata nel corso di queste settimane la prima preoccupazione politica dell’elettorato, secondo quanto riportano i sondaggi, di fatto superando le polemiche aulla “Brexit”.
Un’altra inchiesta del  Guardian, pubblicata venerdì 29 novembre, a cura di Denis Campbell – esperto di politiche sanitarie del quotidiano – ha rivelato alcune cifre della privatizzazione “strisciante” del comparto.
Dal 2015 vi è stato un aumento dell’89% del valore dei contratti dei fornitori non NHS del Sistema Sanitario Nazionale, passati da 1,9 miliardi a 3,6 di sterline…
Di questo processo di esternalizzazione si sono avvantaggiate particolarmente due aziende: Care UK (una azienda del “privato sociale”) e la Virgin Care, del miliardario Richard Branson. La prima ha accumulato 17 contratti di fornitura per il valore di 731 miliardi sterline dal 2015, mentre nello stesso periodo la seconda si è aggiudicata 13 contratti del valore di 579 di miliardi.
Un processo che sembra intensificarsi come ha dimostrato una altra inchiesta del quotidiano britannico del luglio di quest’anno: per l’anno 2018-19 i privati si sono aggiudicati contratti per 9,2 miliardi!
Un altro punto nodale su cui si è incentrata la campagna elettorale del Labour questa settimana è stato il “cambiamento climatico”, uno degli aspetti tra l’altro più importanti dell’impalcatura del Manifesto, che avuto il suo appoggio dalla nota intellettuale ed attivista statunitense Naomi Klein, con un video di alcuni minuti…
L’impianto del partito laburista e le affermazioni del capo del Labour sono molto chiare e sposano l’urgenza nel dovere adottare soluzioni adeguate – queste elezioni sono the last chance, cioè l’ultima possibilità per porvi rimedio – identificando chiaramente i veri responsabili: “100 aziende sono responsabili del 70% delle emissioni inquinanti a livello globale e non si deve pagare il prezzo della transizione a net zero economy.”
Il messaggio è chiaro, la soluzione non è l’austerità ecologica fatta pagare ai più, ma va addebitata ai veri responsabili, cioè l’esatto contrario delle ricette che oligarchie europee stanno apparecchiando e di cui Macron è stato il più risoluto interprete (come per l’aumento delle accise sui carburanti che ha ispirato il movimento delle “gilet gialli”, dal novembre dell’anno scorso).
La “marea gialla” e questa radicalizzazione del Labour sono figlie delle stesse dinamiche – certamente con modalità e sbocchi diversi – ma sono comunque entrambe espressione del riemergere della lotta di classe e del processo di politicizzazione della contraddizioni nella convulsa epoca della fine dell’egemonia neo-liberista.
Andiamo a vedere nel dettaglio, facendo una sintesi ragionata dei maggiori aspetti presenti nelle 107 pagine del Manifesto, mettendo in corsivo le traduzioni di alcuni passaggi salienti.
Per agevolare la lettura abbiamo diviso l’esposizione in due parti, riservandoci di pubblicare in un successivo contributo l’analisi dettagliata della seconda metà del programma laburista di cui abbiamo qui trattato solo dei primi due capitoli.

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