È notizia di pochi giorni fa la scalata dell’alta velocità ferroviaria spagnola da
parte di Ferrovie dello Stato italiane (FS). Dal prossimo anno le
frequentate tratte AVE (Alta Velocidad Espanola) Madrid-Barcellona,
Madrid-Siviglia, Madrid-Valencia e Madrid-Alicante verranno coperte non
più soltanto dalla storica compagnia pubblica spagnola RENFE, ma anche
da FS e dai francesi di SNCF. La Spagna, per farla breve, spalanca le porte alla liberalizzazione del mercato ferroviario, esattamente come avvenne in Italia nel 2011 quando Nuovo Trasporto Viaggiatori (ai più noto come Italo) entrò nel ricchissimo mercato dell’alta velocità.
Non
si tratta, tuttavia, di episodi industriali slegati dal contesto
politico-economico di riferimento: da diversi anni l’Unione europea patrocina e impone la liberalizzazione dei servizi pubblici infrastrutturali a rete – elettricità,
distribuzione del gas, trasporti e telefonia – al fine di costruire un
mercato integrato europeo. Al suono del ritornello liberista ‘i monopoli
pubblici sono dei carrozzoni burocratizzati strutturalmente
inefficienti’, si è voluta imporre la regola della libera concorrenza
sull’erogazione di tutti i servizi pubblici in due modalità: lasciando
operare più attori nella fornitura di un servizio pubblico (concorrenza sul mercato),
oppure – laddove impossibile o economicamente troppo inefficiente –
mettendo i servizi a gara concedendone la gestione monopolistica a tempo
determinato al vincitore della gara pubblica (concorrenza per il mercato).
Le
direttive che hanno gradualmente imposto la liberalizzazione del
trasporto ferroviario si sono susseguite dal 1991 fino agli anni più
recenti per arrivare, infine, alla piena liberalizzazione del trasporto
passeggeri (oltre al già liberalizzato trasporto merci) che dovrà
essere obbligatoriamente applicata dal dicembre 2020.
Numerosi
paesi europei ad oggi hanno già adottato forme e gradi diversi di
liberalizzazione ferroviaria, per lo più seguendo la strada della messa a
gara di una parte limitata dei servizi di trasporto su ferro. Solo in
pochi casi sono state aperte alla concorrenza sul mercato alcune tratte
con più operatori in esercizio simultaneo: unicamente in Italia e in
Spagna ciò è avvenuto sul ricco mercato dell’alta velocità.
L’Italia,
pioniera del processo di apertura del mercato ferroviario, viene spesso
considerata la prova evidente del successo della liberalizzazione del
trasporto su ferro nel rilanciare la modalità ferroviaria rispetto ai
più inquinanti mezzi su gomma e all’aereo. Indubbiamente si è verificata
negli ultimi anni una certa crescita del trasporto ferroviario rispetto
ai mezzi su strada e agli aerei su quei segmenti dove il treno è
oggettivamente divenuto un mezzo competitivo.
Ma è stata davvero la concorrenza a produrre questo rilancio? A
ben vedere, il vero motivo della crescita del trasporto ferroviario è
assai più semplice: da quanto esiste l’alta velocità, i tempi di
percorrenza su diverse tratte si sono quasi dimezzati, e ciò rende ad
oggi il treno estremamente appetibile. Pertanto, le ragioni della
crescita dell’alta velocità sono da attribuire principalmente al
completamento della linea nella sua interezza (la ‘T’ del collegamento
Salerno-Torino-Venezia completata dal 2010), che ha aumentato la
possibilità di utilizzo dell’alta velocità su tratte prima inesistenti.
Al
contrario, sulle linee non ad alta velocità, per le quali non sono
stati effettuati investimenti importanti, il traffico passeggeri è
stabile (o, in alcuni casi, persino in calo), e le criticità associate
agli scarsi investimenti pubblici dedicati al segmento sono sotto gli occhi di tutti i pendolari italiani.
Mentre
le reti delle tratte minori e periferiche sono rimaste sostanzialmente
immutate, per l’alta velocità lo Stato ha speso, tramite la costituzione
della società pubblica-privata TAV, una quantità vertiginosa di denaro
pubblico. La costruzione dell’alta velocità, peraltro, ha rappresentato
un caso emblematico di intrecci perversi tra soldi pubblici e interessi
privati, di natura industriale e finanziaria, che ha contribuito ad
accrescere esponenzialmente i costi dell’opera.
Secondo
varie stime da un costo previsto di 15 miliardi di euro per l’intero
progetto si sarebbe arrivati ad una spesa finale di circa 60-70
miliardi, tutti a carico dello Stato a dispetto delle promesse del project financing a
parziale carico dei privati. Una lievitazione dei costi in buona parte
legata agli interessi milionari dovuti alle banche compartecipanti e
prestatrici che riscosso l’obolo si sono defilate dall’impresa e agli
appalti gonfiati per diversi progetti dell’infrastruttura.
Al
di là della controversa commistione di interessi pubblici e privati
nella fase dell’investimento, ciò che qui preme sottolineare è che
un’infrastruttura pagata in toto con i soldi della collettività, di
importanza strategica e dotata di altissimo potenziale di uso con
margini elevatissimi di crescita della domanda, è stata data rapidamente in pasto al capitale privato.
La
NTV, società di Montezemolo, Punzo e Della Valle, con il 20% della SNCF
francese e fondi di investimento lussemburghesi ebbe strada spianata
già dal 2006 per entrare nel lucroso segmento dell’alta velocità
ferroviaria costruita con i soldi pubblici. Con effetti evidenti e
facili da prevedere: in primo luogo, in termini di efficienza economica,
la competizione di vettori diversi sugli stessi binari provoca una
chiara perdita di economie di densità rispetto alla domanda potenziale,
ovvero tassi di riempimento dei treni non ottimali, nonché una perdita
parziale dei vantaggi legati al coordinamento organizzativo favorito
dall’integrazione societaria tra gestore della rete e gestore del
servizio (Trenitalia e RFI sono società dello stesso gruppo, mentre NTV è
una società terza); in secondo luogo la concorrenza esercitata sull’ex
monopolista pubblico nel segmento più profittevole avrebbe sottratto
quote di mercato ad alta domanda riducendo così gli utili di Ferrovie
dello Stato.
Quest’ultima,
a seguito del processo di conversione in società per azioni nel corso
degli anni ’90, si era già trasformata in azienda giuridicamente
privatizzata (e, pertanto, rispondente ad espliciti obiettivi di
massimizzazione del profitto), mantenendo però la peculiarità propria
dell’azienda di proprietà pubblica: quella di poter redistribuire i profitti a fini sociali finanziando le tratte considerate servizio universale,
strutturalmente in perdita, con gli utili conseguiti sulle tratte più
redditizie praticando la tipica solidarietà di rete delle imprese
integrate, oppure devolvendo gli utili a campagne di investimento
finalizzate a rendere il servizio più capillare ed efficace.
Liberalizzare
l’alta velocità ha così significato erodere profitti laddove estraibili
lasciando in carico al soggetto pubblico tutte le tratte in perdita o
perché catalogate come servizio universale da offrire ai cittadini a
prezzi inferiori ai costi o perché a bassa domanda in quanto tratte poco
frequentate.
Negli
anni, gli effetti deleteri di questo processo si sono puntualmente
manifestati. Il settore dell’alta velocità ferroviaria genera oggi utili
molto elevati sia per Trenitalia (Ferrovie dello Stato) che per NTV –
Italo, pari nel 2018 rispettivamente a 560 milioni e a oltre 100 milioni
di euro. Gli utili di Italo risultano – dopo un periodo di forte
indebitamento – in crescita esponenziale, e cresceranno in modo
continuativo negli anni a venire. La sottrazione di quote di mercato
all’ex monopolista del resto è stata intensa: la quota di mercato
dell’alta velocità di Italo ha superato, nel 2018, il 30%.
Gli
entusiasti del processo di liberalizzazione obiettano che grazie alla
concorrenza di Italo vi è stato uno spettacolare aumento della domanda e
una contestuale riduzione dei costi, e che ciò compenserebbe di gran
lunga la perdita di quote di mercato relative dell’ex monopolista.
La contro-obiezione risulta però altrettanto immediata: in primo luogo, la
crescita della domanda sull’alta velocità non è legata alla concorrenza
in sé, ma risulta costante e continua da quando è stata creata (2006) e
successivamente potenziata (2010-11) la rete esistente.
Sicuramente
una parte dell’aumento della domanda può essere legata ad
un’indubitabile diminuzione dei prezzi, ma occorre qui tenere a mente
che l’adozione di tariffe relativamente elevate nei primi anni di
fornitura del servizio ad alta velocità (2006-2011) è stata una scelta
eminentemente politica adottata da Ferrovie dello Stato al fine di
recuperare, in un contesto di scarsi finanziamenti pubblici, gli enormi
costi sostenuti per la costruzione dell’infrastruttura.
Pertanto,
la politica di abbassamento dei prezzi avrebbe potuto essere adottata
da FS, come azienda di proprietà pubblica, in maniera del tutto
indipendente dalla concorrenza di Italo. Inoltre, va ricordato il
neo-arrivato Italo ha praticato prezzi più competitivi riducendo il
costo del lavoro del 30%: per farlo, ha applicato ai ferrovieri l’assai
conveniente contratto del commercio con stipendi ben più ridotti di
quelli pagati da FS (si veda la Figura seguente).
Inoltre, la società di Montezemolo, Punzo e Della Valle, venduta nel 2018 realizzando utili milionari al
fondo di investimento nord-americano GIP, ha goduto da subito di
vantaggi e regali di ogni sorta da parte dello Stato, tra i quali:
esenzione dal contributo di solidarietà per il finanziamento del
servizio universale; applicazione di regole diverse per l’affidamento di
lavori e opere meno costose di quelle sopportate da Ferrovie dello
Stato; concessione senza oneri dei terreni dove sorge il centro di
manutenzione NTV; un clamoroso sconto del 37% sul pedaggio da pagare al gestore della rete a decorrere dal 2015.
Sconto,
va detto, che vale per tutte le compagnie ferroviarie erogatrici del
servizio (compresa Trenitalia), ma che va a discapito del gestore
pubblico della rete (integrato, ma contabilmente separato da Trenitalia)
e si è scaricato sugli inevitabili maggiori sussidi che deve versare lo
Stato per ammortizzare i costi infrastrutturali. Insomma, la classica liberalizzazione-privatizzazione con i soldi dei contribuenti e lo sfruttamento dei lavoratori.
L’apertura
dei mercati ferroviari ha di fatto accelerato, in Italia come altrove,
quel processo di privatizzazione formale già avviato con lo snaturamento
delle imprese ferroviarie trasformate in società per azioni tese alla
massimizzazione del profitto anziché all’erogazione di un servizio
pubblico.
Messe
in concorrenza con attori privati o attori pubblici di altri paesi a
seguito della liberalizzazione, le compagnie ferroviarie hanno compiuto
quella definitiva mutazione genetica che le ha trasformate in vere e
proprie multinazionali alla ricerca del massimo profitto sui mercati
internazionali con conseguente pressione al ribasso sul costo del
lavoro.
Mentre
Italo sottrae quote di mercato a Trenitalia nelle ferrovie patrie,
Ferrovie dello Stato, come i suoi omologhi europei SNCF e Deutsche Bahn,
si lancia nella sua conquista dei mercati europei a caccia dei lauti
guadagni attesi sui segmenti più profittevoli, sottraendo così risorse
alle imprese pubbliche operanti storicamente ciascuna nel proprio paese.
L’ultimo caso quello della scalata all’alta velocità spagnola.
Un
processo perverso che si basa sulla definitiva spaccatura della
solidarietà di rete che caratterizzava il tradizionale servizio pubblico
e la rigida separazione tra tratte profittevoli, su cui si scatenano
gli appetiti dei concorrenti internazionali, e le tratte in perdita a
carico degli Stati che dispongono di risorse sempre più scarse stretti
nella morsa dell’austerità imposta da quella stessa Unione Europea che
spinge per la liberalizzazione dei servizi a rete.
A
coronamento del tutto si accrescono le spinte sempre più pressanti per
la privatizzazione sostanziale dei gruppi pubblici già trasformati da
tempo in SpA. Nel 2015, Ferrovie dello Stato era sul punto di essere ceduta ad investitori privati per il 40% del capitale: la vicenda fu poi congelata, ma viene costantemente minacciata come imminente.
Sarebbe
questa l’ultima ciliegina sulla torta di quel processo di snaturamento
profondo di un settore che da servizio pubblico teoricamente orientato a
favorire la qualità e la capillarità del trasporto a favore dell’utente
diviene affare privato da cui estrarre lauti profitti dove la domanda
di mercato lo consente, lasciando a risorse pubbliche sempre più scarse
il residuo e decadente servizio universale. Il tutto, sulle spalle degli
utenti, dei contribuenti e dei lavoratori.
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