Quello
che segue è un breve riassunto riguardante una delle pagine più nere
delle tante che contrassegnano da molti anni il malgoverno italiano al
centro come in periferia.
Si tratta della vera e propria “sciagura dei derivati”, sulla quale non ci si deve stancare di riferire e indagare.
L’inserto “Affari e Finanza” di Repubblica
del 7 maggio ospita un ampio servizio di Luca Pinna sul processo alla
Corte dei Conti per il buco di 3,9 miliardi provocato al bilancio dello
Stato dall’incauto comportamento dei dirigenti del Ministero del Tesoro
tra il 1994 e il 2007.
Tra
i soggetti implicati addirittura due ex-ministri, Siniscalco e Grilli,
oltre all’ex-responsabile della direzione del debito pubblico.
I
documenti elaborati dalla procura della Corte dei Conti per la
richiesta danni ricostruiscono con dettagli inediti le operazioni fatte
con Morgan & Stanley dai dirigenti del Ministero e rivelano che gli
errori generavano perdite colossali già anni prima della crisi del 2011,
quella che provocò con la vicenda dello “spread” la caduta del governo
Berlusconi e l’avvento del dicastero di (apparente) “economia fino
all’osso di Monti.
Nell’articolo
però non compare nessun accenno all’estensione della vicenda agli Enti
Locali. Situazione nella quale un nugolo di assessori incompetenti e
presuntuosi hanno finito con l’accumulare un debito enorme in nome di
goffi tentativi di speculazione.
Magra consolazione che dal 2009 Regioni, Province ed enti locali non possano più stipulare contratti derivati, con l’eccezione delle “protezioni” contro il rialzo dei tassi di interesse sui mutui.
Verifichiamo allora questo tipo di situazione esaminata qualche tempo fa:
Perché prima del 2009 le autonomie territoriali si sono riempite la pancia di questi strumenti, per un valore poco inferiore ai 25 miliardi di euro sui 160 complessivi che sono nel portafoglio dello Stato italiano. E lo hanno fatto non per gestire meglio il proprio debito, ma per ottenere incassi immediati che sono poi stati segnati disinvoltamente a bilancio tra le entrate. Il tutto, in molti casi, senza essere in grado di valutare rischi e potenziali conseguenze. A metterlo nero su bianco è la Corte dei Conti,
che mercoledì ha presentato alla commissione Finanze alla Camera
un’indagine conoscitiva sui derivati basata sui rilievi delle Sezioni
regionali di controllo. Le quali, esaminando i rendiconti degli enti
locali, hanno individuato “gravi anomalie“.
Secondo
i magistrati contabili, il valore nozionale dei derivati sottoscritti
dagli enti territoriali ammontava, al momento del blocco, appunto a
quasi 25 miliardi, “il 60% dei quali imputabili ai contratti
sottoscritti da Regioni e Province autonome”. Una cifra che vale il 28% dei 52,77 miliardi di debito delle Regioni, con punte del 91% in Campania e del 73,9% in Liguria. Ma, a fronte di questa scorpacciata di prodotti con “profili di criticità piuttosto elevati”, gli “apparati preposti alla loro gestione” sono “inadeguati“. Peggio ancora, le contabilizzazioni risultano spesso “errate” ed emergono “violazioni normative e notevoli squilibri contrattuali in danno agli enti per la mancata valutazione della convenienza economica dei contratti”.
Non mancano i casi limite: per esempio contratti sottoscritti “in lingua inglese in assenza delle traduzioni” o, com’è successo in tre comuni pugliesi, “afferenti mutui già estinti”
o “per la concessione di delegazioni di pagamento in violazione
dell’art. 206 del Testo unico degli enti locali”. Ma gli esempi sono
numerosi. In Campania i
magistrati contabili hanno scoperto che i consulenti scelti dal comune
di Scafati per avere consigli sui contratti “coincidevano con la figura
dell’intermediario finanziario, in palese conflitto d’interessi“.
La Sezione regionale di controllo per la Liguria ha scovato operazioni “non conformi alla normativa all’epoca
vigente, dal momento che contrastavano con il principio di contenimento
del rischio di mercato che risultava, invece, incrementato essendovi
il rischio di perdere le somme versate in caso di bancarotta, ripudio o
ristrutturazione del debito da parte degli Stati e degli enti pubblici i
cui titoli sono stati immessi nel fondo”.
In Emilia Romagna i
comuni di Modena e Forlì – Cesena non avevano creato il fondo di
accantonamento necessario per coprire eventuali perdite future legate ai
derivati. Venezia deve fare i conti con “una situazione di forte incertezza sulla
tenuta degli equilibri di bilancio” a causa di “quattro contratti di
finanza derivata che soltanto nell’esercizio 2011 hanno prodotto flussi
negativi per un totale di 5,1 milioni”.
Non stupisce, davanti a questo panorama, che il risultato delle operazioni giudicato sulla base del valore di mercato dei
derivati sia “costantemente negativo”. Come, del resto, quello
complessivo dei derivati sottoscritti dal Tesoro a partire dagli anni
Novanta: la perdita teorica nel caso fossero stati chiusi alla fine del
2014, hanno ricordato gli esponenti della Corte, sarebbe stata di circa 42 miliardi.
Nel
complesso i dati dell’indebitamento da derivati è così riassunto dal
report n.3 del MEF per il 2018: Totale. 11.261. 460.421 per 166 enti
coinvolti e 331 contratti.
Non
ci stancheremo ogni qual volta potremo averne l’occasione di denunciare
questo stato di cose che segnala, prima di tutto, la superficialità e
l’impreparazione di chi – strombazzando – si candida a delicate cariche
pubbliche soltanto in nome della propria “visibilità”.
Questo
deteriore stato di cose e di comportamenti è stato reso possibile dalla
permeabilità di soggetti politici che ormai hanno smarrito l’idea di
una preparazione specifica per gli amministratori degli Enti Locali e,
più in generale, di un minimo di rapporto serio tra la politica, la
cultura, la conoscenza dei problemi.
E’
questo il dato che si è perduto probabilmente in una dimensione
irrimediabile, nel corso degli anni, e che rende ormai completamente
deteriorato il rapporto tra amministrazione pubblica e cittadini.
Un vuoto che non può essere colmato da cosiddetti “tecnici”.
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