Le legislature hanno un vantaggio: che una volta ogni cinque anni
cambino. Ossia, che a cadenza quinquennale venga offerto il privilegio
di poter rimaneggiare – o di auspicare in un rimaneggiamento, come nel
caso delle recenti stagioni, “grazie” ad un’inconcepibile legge
elettorale – l’apparato governativo ed istituzionale. Un rincalzo che
goda principalmente di credibilità intellettuale, prima ancora che
amministrativa ed organizzativa. Perché fondamentale è ritagliarsi
attendibilità agli occhi dell’elettorato. Indipendentemente dai simboli,
dai programmi, dai proclami, dalle facce. Complementari e speculari, al
netto di qualsiasi obiezione si voglia avanzare. D’altronde, le
intricate questioni di questo Paese sono ampiamente note. Sanità,
ricerca e istruzione sono stati gli ambiti in cui i vari esecutivi hanno
preferito lesinare, evitando che le consuete guarentigie remunerative
dei burocrati capitolini venissero adeguate al drastico periodo
socioeconomico. Le ipotesi di risoluzioni si sono susseguite in un
accelerato valzer di fandonie irrefrenabili, ove chiunque si proponesse
di ristabilire un ordine che tutelasse l’efficienza di taluni servizi,
ha finito per essere inghiottito dalle fauci dell’ingordigia romana. Una
fame di potere e di quattrino che si è tradotta in decenni di cattiva
politica, di malaffare e di vergognoso silenzio assenso.
La necessità di aggrapparsi all’opportunità è urgente. Per qual motivo, allora, irridere la sorte che, dall’alto della sua magnanimità, ci ha donato la grazia di vantare i servigi “lungimiranti” di un dissacrante ed irriverente “statista” gigliato? Matteo Renzi, appunto, è un caratterista mancato. Personalità letteralmente sradicata agli onori delle plaudenti folle su uno spalto teatrale ed atterrata nella cloaca parlamentare con il pretesto di rivoltarla dall’alto, scardinando l’incancrenito apparato della nomenclatura partitocratica. L’oggettività dei fatti è, però, lì, pronta a dar vigore ad una tesi che di opinabile non ha proprio nulla. Tralasciando l’irruenza e la presunzione con le quali ha presentato il suo piano di governo un anno fa e che ha sommessamente dovuto ammainare, Renzi ha fornito l’ultima inconcludente uscita sul servizio scolastico, che si è prefigurato di ricostituire per mezzo del progetto “Buona Scuola”. Nella teoria, un valido insieme di propositi sensati, propedeutico allo sviluppo di un settore che per troppo tempo ha perito sotto le grinfie della crisi: sostegno della formazione culturale, tutele occupazionali ai docenti temporanei, struttura burocratica che non interferisca. Nella pratica, il centesimo capriccio di un commissario europeista, mascherato da politico, per indurre a credere che l’agenda di Palazzo Chigi pensi soprattutto all’interesse supremo dell’Italia. In quanto, per volere realmente che la cultura si destreggi nella selva dell’attuale pochezza didattica, sarebbe indispensabile prediligere contenuti ed argomenti che vadano all’opposto della consuetudine accettata dall’élite benpensante. In quanto, per volere realmente che professori flessibili si consacrino nella stabilità dell’insegnamento, bisognerebbe ammettere che legittimare i dirigenti scolastici a sancire chi sia adatto a ricoprire lo spazio dietro ad una scrivania sia completamente fuori da ogni logica. In quanto, per volere realmente che il Leviatano della burocrazia non ingerisca nelle dinamiche della scuola, non ci si dovrebbe chiamare Matteo Renzi.
Primato alla cultura, maggiori garanzie ai precari, burocrazia al minimo. Formalmente, ecco i tre cardini fondanti dell’ex sindaco toscano, intenzionato – all’apparenza, in misura esponenzialmente superiore ai suoi predecessori – a dare una sterzata notevole alla scolasticità nostrana. Sostanzialmente, l’ennesimo pretesto impacchettato a dovere per consentire al fiorentino Savonarola de Noantri di adattare il suo processo di centralizzazione statale nelle strutture educative, istituendo gruppi di amministratori che assumano deleghe per ottundere le giovani menti a perseguire fini utilitaristici e funzionali al pensiero unico. Che “buona”, ‘sta “scuola”!”.
La necessità di aggrapparsi all’opportunità è urgente. Per qual motivo, allora, irridere la sorte che, dall’alto della sua magnanimità, ci ha donato la grazia di vantare i servigi “lungimiranti” di un dissacrante ed irriverente “statista” gigliato? Matteo Renzi, appunto, è un caratterista mancato. Personalità letteralmente sradicata agli onori delle plaudenti folle su uno spalto teatrale ed atterrata nella cloaca parlamentare con il pretesto di rivoltarla dall’alto, scardinando l’incancrenito apparato della nomenclatura partitocratica. L’oggettività dei fatti è, però, lì, pronta a dar vigore ad una tesi che di opinabile non ha proprio nulla. Tralasciando l’irruenza e la presunzione con le quali ha presentato il suo piano di governo un anno fa e che ha sommessamente dovuto ammainare, Renzi ha fornito l’ultima inconcludente uscita sul servizio scolastico, che si è prefigurato di ricostituire per mezzo del progetto “Buona Scuola”. Nella teoria, un valido insieme di propositi sensati, propedeutico allo sviluppo di un settore che per troppo tempo ha perito sotto le grinfie della crisi: sostegno della formazione culturale, tutele occupazionali ai docenti temporanei, struttura burocratica che non interferisca. Nella pratica, il centesimo capriccio di un commissario europeista, mascherato da politico, per indurre a credere che l’agenda di Palazzo Chigi pensi soprattutto all’interesse supremo dell’Italia. In quanto, per volere realmente che la cultura si destreggi nella selva dell’attuale pochezza didattica, sarebbe indispensabile prediligere contenuti ed argomenti che vadano all’opposto della consuetudine accettata dall’élite benpensante. In quanto, per volere realmente che professori flessibili si consacrino nella stabilità dell’insegnamento, bisognerebbe ammettere che legittimare i dirigenti scolastici a sancire chi sia adatto a ricoprire lo spazio dietro ad una scrivania sia completamente fuori da ogni logica. In quanto, per volere realmente che il Leviatano della burocrazia non ingerisca nelle dinamiche della scuola, non ci si dovrebbe chiamare Matteo Renzi.
Primato alla cultura, maggiori garanzie ai precari, burocrazia al minimo. Formalmente, ecco i tre cardini fondanti dell’ex sindaco toscano, intenzionato – all’apparenza, in misura esponenzialmente superiore ai suoi predecessori – a dare una sterzata notevole alla scolasticità nostrana. Sostanzialmente, l’ennesimo pretesto impacchettato a dovere per consentire al fiorentino Savonarola de Noantri di adattare il suo processo di centralizzazione statale nelle strutture educative, istituendo gruppi di amministratori che assumano deleghe per ottundere le giovani menti a perseguire fini utilitaristici e funzionali al pensiero unico. Che “buona”, ‘sta “scuola”!”.
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