Non c'è limite alla ferocia, è risaputo. Le
prese di posizione dopo la sentenza d'appello sull'uccisione di Stefano
Cucchi stanno facendo salire a galla i
liquami mentali peggiori. Sempre esistiti, naturalmente, ma per alcuni
decenni confinati al "foro interno" o alla pelosa omertà tra "colleghi".
Prendiamo quest'altro sindacatino corporativo di polizia, che evidentemente ha temuto di essere scavalcato a destra dal Sap.
Il suo segretario, Franco Maccari, ha emesso la dichiarazione che segue:
« Basta con questa illogica ed insostenibile ricerca del colpevole ad
ogni costo, perché a dire la vera verità le morti realmente violente che
oltre tutto non hanno trovato giustizia né responsabili a cui far
pagare il conto sono ben altre. Basta con questa non più sopportabile
cantilena dell'inspiegabilità di un evento sia pur triste e luttuoso, se
si vogliono sondare le ragioni di certe sciagure si guardi prima di
tutto altrove, magari in famiglia». «È ora che le persone che
normalmente cercano attorno a sé i capri espiatori per spiegare tutto
quello che non funziona nella loro vita comincino ad assumersi le
proprie responsabilità».
La prosa è scomposta in modo
imbarazzante, ma il senso si capisce egualmente. In pratica, dopo un
appello al necessario "garantismo" ("Basta con questa illogica ed
insostenibile ricerca del colpevole ad ogni costo"), il signore in
questione ripete quel che già aveva detto il Sap (Stefano Cucchi sarebbe
morto perché tossicodipendente, non perché pestato dalle guardie e mal
soccorso dai sanitari), aggiungendovi quel "tocco personale" utile a
farsi notare di più: "se si vogliono sondare le ragioni di certe
sciagure si guardi prima di tutto altrove, magari in famiglia"
La sequenza logica - riconosciamo che scomodare la logica può sembrare
eccessivo - è dunque la seguente: Cucchi è morto perché si drogava, e se
si drogava è colpa della famiglia, noi sbirri non c'entriamo niente.
Anzi, non ci sono neanche dei "colpevoli da cercare". Punto e basta.
Quindi, quel corpo stracolmo di lividi non starebbe ad indicare - su questo ci sono certezze sia giudiziarie che mediche un pestaggio selvaggio "ad opera di ignoti" (comunque agenti delle
varie polizie che lo hanno avuto in custodia finché era in vita, in
quanto detenuto), ma soltanto imprecisati "problemi familiari". Non
consiglieremmo a nessuno di rivolgersi a uno psicologo formato in questa
scuola di pensiero...
Ma lasciamo da parte la pretesa di
esercitare liberamente la ferocia sui prigionieri più deboli (qualcuno
ha mai sentito parlare di botte in carcere a Totò Riina?), e ritorniamo
per un attimo sulla sentenza d'appello.
Il presidente della
Corte d'Appello di Roma, Luciano Panzani, ha chiesto di fermare la
"gogna mediatica" dei giudici sotto la sua direzione, responsabili
dell'assoluzione generale degli imputati, perché:
«Il giudice
penale deve accertare se vi sono prove sufficienti di responsabilità
individuali e in caso contrario deve assolvere. È quello che i miei
giudici hanno fatto anche questa volta».
Nulla da eccepire in
linea di principio. Però. Senza voler mettere alla gogna i giudici
d'appello, tutta la vicenda processuale sull'uccisione di Stafano Cucchi
è giudiziariamente e amministrativamente uno scandalo.
Vediamo
perché. Stefano Cucchi era detenuto. L'amministrazione penitenziaria
conosce gli "stati di servizio" di tutti gli agenti entrati in contatto
con Stefano in ogni ora della sua detenzione (peraltro breve, nel
periodo che ha preceduto la morte; insomma, non è un'indagine troppo
complicata da fare). Altrettanto vale per l'amministrazione
dell'ospedale Pertini, che oltretutto ha dedicato un piccolissimo
reparto isolato proprio al trattamento dei detenuti; pochi medici e
pochi infermieri, insomma. E anche qui con orari, date, firme sulle
cartelle cliniche, medicinali somministrati, analisi e interventi
effettuati, ecc.
Qualcuno potrebbe ricordare l'ipotesi che
Stefano sia stato picchiato nelle celle d'attesa del tribunale di Roma.
Ma anche in questo caso hanno avuto a che fare con lui soltanto
carabinieri e agenti di polizia penitenziaria. Di cui l'Arma e
l'amministrazione penitenziaria conoscono nomi, orari di servizio,
turni, rapporti.
Cosa vogliamo dire? Che in un "ambiente
chiuso" e totalmente controllato come un carcere, comprese le limitate
"uscite autorizzate" (tribunale e ospedale), non c'è un solo attimo in
cui Stefano - come ogni altro detenuto - non sia stato tenuto sotto
osservazione. E non c'è "osservatore" che non sia stato a sua volta
registrato in ogni attimo.
Ammettiamo dunque, per ipotesi, che i
giudici d'appello abbiano le loro ragioni, e non ci siano negli atti
sufficienti prove per condannare quei nomi che dovevano giudicare. Ma se
i "nomi giusti" o le prove non vengono fuori è perché le
amministrazioni di controllo - Ministero di grazia e giustizia e arma
dei carabinieri, in primo luogo - si rifiutano di metterli integralmente
a disposizione degli inquirenti. Fin dal giorno in cui è stata aperta
l'inchiesta.
E nessuno può dire che queste amministrazioni - per potere e pratica storica - non siano in grado di "inquinare le prove".
E' del resto questa la domanda fondamentale che sta ponendo la famiglia
di Stefano: "la Procura di Roma ha fatto davvero tutto per raggiungere
la verità? e, se ha trovato ostacoli, da quale parte sono stati posti?
Domani mattina, lunedì, tutta la famiglia Cucchi - padre, madre e
sorella - si presenterà davanti alla procura di Roma con maxi-cartelloni
raffiguranti Stefano. "Andremo solo noi tre - ha detto Ilaria - senza
alcun sit-in, presidio o altro. Vogliamo far vedere come Stefano è morto
e le condizioni con le quali ce lo hanno riconsegnato".
Chiederanno anche un incontro col Procuratore capo di Roma, Giuseppe
Pignatone (arrivato soltanto nel 2012, molto dopo i fatti e la prima
inchiesta). "Voglio chiedere al dottor Pignatone - dice Ilaria - se è
soddisfatto dell'operato del suo ufficio, se quando mi ha detto che non
avrebbe potuto sostituire i due pm che continuavano a fare il processo
contro di noi, contro il mio avvocato, e contro mio fratello, ha fatto
gli interessi del processo e della verità sulla morte di Stefano".
La famiglia Cucchi, infatti, prepara un'azione legale nei confronti del
ministero della Giustizia, presumibilmente per la "scarsa
collaborazione" offerta durante le indagini e in ogni caso per
"responsabilità oggettiva".
L'avvocato Fabio Anselmo ha
spiegato infatti che "intraprenderemo anche un'azione legale nei
confronti del ministero affinché si possa riconoscerne la responsabilità
rispetto alla morte di Stefano". Secondo la difesa, da entrambi i
processi emergerebbe che comunque un pestaggio nelle celle del Tribunale
c'è stato e quindi si chiama ora in causa il ministero della Giustizia
affinché riconosca la sua responsabilità dal punto di vista di un
risarcimento danni.
L'altro passo sarà un ricorso alla Corte Europea dei diritti dell'uomo.
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