venerdì 28 novembre 2014

Piano Juncker. Promesse, fiducia, speranze, niente soldi

Chiacchiere e distintivo. La funzione “positiva” del governo europeo – la Commissione, affidata alla guida di Jen-Claude Juncker, lussemburghese sotto tiro per aver favorito l'evsione fiscale di ben 550 multinazionali globali – è ridotta a ben poca cosa.

Promesse, speranze, fiducia, futuro, giovani... Parole che avevano un senso e che vengono svuotate giorno dopo giorno da un uso compulsivo, distraente, truffaldino. Non solo dal guitto di Pontassieve o dal suo indiscusso maestro arcoriano, ma persino da questo grigio fiscalista la cui unica capacità riconosciuta si esprime nell'arte del galleggiamento tra navi ben più potenti (Germania e Francia, da sempre).

La promessa con cui si era presentato era a suo modo forte: 300 miliardi per investimenti da effettuare in tutta l'Unione Europea, per rilanciare la crescita economica e assorbire alemno in parte la devastante disoccupazione. Un programma semi-keynesiano, avevano detto molti; una “ocsa di sinistra”, aveva twitteggiato Renzi, dicendo di vole prenotare 40 di quei miliardi.

Col passare dei giorni la bolla delle aspettative salvifiche si è andata sgonfiando. Molte indiscrezioni riducevano a molto meno la cifra disponibile pronta cassa (30 miliardi appena, giuravano le fonti di Bruxelles), il resto da trovare attivando la “leva finanziaria” e incrociando le dita.

Ieri, infine, la presentazione ufficiale del piano di investimenti davanti al Parlamento di Strasburgo. Chiacchiere e distintivo, panna montata e speranze. Persino il confindustriale Sole24Ore ha avuto un moto d'orrore, o comunque di stizza, davanti alla solare presa per i fondelli (al contrario dei media “progressisti”, a partire dal Tg3, gli industriali sanno distinguere tra soldi e parole).

Neanche 30 miliardi, ma appena 21. Anzi. Neanche quelli, solo 5. Ce li mette la Banca Europea degli Investimenti (la Bei, che proprio questo dovrebbe fare, ma non fa, comportandosi come una banca qualsiasi), per “non perdere la tripla A” assegnata fin qui dalle agenzie di rating (tutte statunitensi). Se ne mettesse di più i suoi bilanci andrebbero sotto gli standard.

Gli altri 16 non sono soldi veri, ma “garanzie” fornite dagli stati membri dell'Unione. Questa briciola messa sul piatto davanti a quasi mezzo miliardo di cittadini continentali, alle prese con la crisi più lunga della storia moderna, dovrebbe magicamente mobilitare risorse private e pubbliche levitando così fino a 315 miliardi. E in base a quale meccanismo economico dovrebbe mettersi in moto una leva finanziaria nella proporzione di 15 a 1? La “fiducia”.

È quasi divertente vedere come l'armamentario teorico che supporta le decisioni di politica economica e finanziaria, che viene presentato al pubblico come una “verità scientifica senza alternative”, si riduca alla fin fine in una paroletta da sciamani o da Scientology. Chi dovrebbe emanare questo clima di “fiducia”? Non la Commissione, che non ha soldi da investire e chiede siano altri a farlo; non la Bei, non gli imprenditori privati (l'avrebbero già fatto), non gli stati nazionali obbligati al pareggio di bilancio e alla riduzione del debito pubblico.

Anche questi ultimi, infatti, restano ammanettati alla logica dell'”austerità”. Da un lato la Commissione promette che gli eventuali investimenti produttivi inseriti nel “piano Juncker” non verrano computati ai fini delle manovre correttive; dall'altro la Merkel, ancora ieri, a pochi minuti di distanza e nella stessa aula, pur dicendosi “d'accordo il linea di principio”, fissava paletti invalicabili: «la Commissione e Jean Claude Juncker [devono proseguire] nella verifica severa dei piani di bilancio degli Stati membri». Perché «L'affidabilità delle regole comuni del patto di crescita è di grande significato per la fiducia nell'eurozona». La traduzione è semplice: non cedete soldi a noi, che ne abbiamo, ma tagliate le vostre spese pubbliche e sperate che il mercato vi premi. Punto.

Non è difficile prevedere un futuro gramo per questo piano. Che oltretutto parte mettendo al centro delle “priorità” due settori come energia e trasporti. Certamente strategici, specie il primo, visto che l'Europa dipende per oltre il 60% del suo fabbisogno energetico dalle importazioni. Ma si tratta anche di due settori in cui il fattore occupazionale è quasi marginale.

Anche qui “si spera” in una sorta di effetto leva? E in quanti anni si potrebbe realizzare la magia di trasformare 5 miliardi in 315, sviluppando settori a bassa intensità di lavoro che a loro volta mettono in moto settori meno strategici e competitivi ma ad alta intensità di manodopera? Silenzio, ovviamente. O meglio: chiacchiere. Il distintivo potrebbe venir sostituito dal manganello.

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