L’ultimo
rapporto demografico Istat sull’evoluzione della popolazione italiana
certifica in modo evidente una tendenza in atto ormai da anni: il forte
declino della popolazione residente in Italia. Vediamo infatti il crollo
delle nascite, l’aumento dell’emigrazione all’estero con contestuale
diminuzione dell’immigrazione e addirittura un tasso di mortalità in
lieve aumento.
I
dati ci dicono che negli ultimi cinque anni la popolazione dell’Italia è
diminuita di ben 551mila unità. Una caduta davvero significativa su una
popolazione di 60 milioni di persone. In particolare, nell’ultimo anno,
diminuisce il numero di immigrati residenti (-8,6% dal 2018 al 2019)
aumenta quello delle emigrazioni (+16,1% nell’ultimo anno) e dopo il
minimo storico di nuovi nati già raggiunto nel 2018 il 2019 segna un
ulteriore calo delle nascite del 4,5%.
Ogni
estate, puntualmente, a seguito della pubblicazione del rapporto Istat,
il triste dato del declino demografico italiano, tra i più intensi in
Europa, viene commentato da molti con rassegnazione, come tendenza
inarrestabile dovuta a stravolgimenti culturali irreversibili.
Pochi
interpretano seriamente la variabile demografica come endogena rispetto
al funzionamento del sistema socio-economico nel suo complesso. Al
netto di invocazioni generiche dei politici di turno su un maggior
sostegno alle famiglie, meno tasse per i nuclei familiari con figli, più
asili nido per le classi meno abbienti e via elencando, manca una seria
analisi della struttura sociale e culturale di fondo in cui viviamo che
determina le scelte esistenziali più importanti (come quelle legate
alla vita familiare o al luogo in cui si decide di vivere).
Ovviamente
non vogliamo proporre un bieco inquadramento economicista della
questione, che è intrinsecamente imbevuta di forti connotati sociali, e
può variare nella sua fenomenologia a seconda dei diversi ambiti
culturali e geografici. Tuttavia, nella lettura dei fenomeni demografici
i fattori culturali, senza dubbio decisivi, si intrecciano in modo
indissolubile con la struttura economica della società.
Chi
punta il dito genericamente contro l’individualismo dilagante, la
scarsa propensione a dedicare la propria vita alla famiglia e al
sacrificio della cura dei figli dimentica totalmente quanto siano
cruciali le condizioni materiali di vita nella determinazione delle scelte esistenziali.
Le
trasformazioni che hanno portato al calo di natalità nelle nostre
società occidentali sono a grandi linee classificabili sotto due
differenti ambiti.
Da
un lato, c’è stata una trasformazione della società a cavallo tra anni
’60 e ’70 con profondi cambiamenti della struttura familiare, un
crescente accesso delle donne al mercato del lavoro, la possibilità di
un maggior controllo della nascite. Tali cambiamenti sono la parte buona
del processo che ci ha portato sino ai giorni odierni. Essi hanno
consentito di liberare le donne, seppur in maniera graduale e ancora
incompleta, dal giogo patriarcale che le voleva inquadrate solo in una
ottica di mogli e madri recluse nelle quattro mura domestiche, intente a
badare al focolare domestico.
Con
l’ascesa del neo-liberismo lungo gli anni ’80 e ’90 si è però anche
assistito ad un secondo fenomeno. Si sono infatti create e sviluppate le
fondamenta di una società basata sulla precarietà e la discontinuità
del lavoro, su orari di lavoro massacranti e su un’elevata
disuguaglianza economica tra classi sociali.
Il
crollo della natalità può dunque essere visto come il prodotto di
questi due aspetti. Il primo non è preoccupante, anzi andrebbe sempre
attentamente tutelato e rafforzato, consentendo così alle donne una
piena realizzazione personale e tutelandone la libertà di scegliere se
avere o no dei figli. La seconda invece è uno degli aspetti meschini
sotto i quali l’ascesa del neoliberismo mostra i suoi effetti
distruttivi.
Quella
che poteva essere una transizione storica verso un modello di famiglia
diverso da quello patriarcale, basato sulla parità dei sessi ma non per
questo caratterizzato da un crollo della natalità, è divenuta una
transizione verso un mondo con culle sempre più vuote, con un
conseguente invecchiamento progressivo della popolazione, prima, e un
vero e proprio declino demografico, poi, a partire dagli anni più
recenti anche a dispetto dell’aumento dei flussi migratori.
Quando
si parla di declino demografico, lo si fa spesso strumentalmente spesso
per denunciare la presunta insostenibilità dei sistemi previdenziali
pubblici invocando il necessario taglio delle pensioni e l’aumento
dell’età pensionabile come unici antidoti agli squilibri generazionali.
Non si attaccano mai le cause profonde del fenomeno, ovvero la
disoccupazione e la precarietà di massa che in alcuni settori anche
qualificati raggiunge in Italia livelli così elevati da scoraggiare
molti giovani a rimanere nel proprio Paese.
A
livello politico-economico quel che conta è la scelta deliberata della
stagnazione causata dall’austerità e dalla distribuzione del reddito a
sfavore dei lavoratori. Questo porta, come conseguenza collaterale un
declino demografico dovuta alla bassa natalità e all’emigrazione.
Si
dimentica o si vuole dimenticare che occupazione e stato sociale da un
lato, e scelte esistenziali dall’altro (dalla procreazione al luogo in
cui vivere), sono tutte facce di una stessa medaglia e sono tutti
aspetti legati ad un’unica matrice. Disoccupazione e assenza di servizi
pubblici, causate da una carenza cronica della domanda aggregata dovuta a
precise scelte di politica economica, non possono che influenzare
profondamente le più importanti scelte di vita degli individui.
É
forse pensabile che un sistema che, a dispetto dello straordinario
progresso tecnologico avvenuto negli ultimi decenni, costringe le
persone a dedicare la gran parte della propria giornata al lavoro, possa
davvero stimolare la libera crescita delle famiglie? Quale tempo di
vita dedicare ai figli negli anni più delicati dell’inserimento
lavorativo schiacciati dalla frenesia della ricerca continua di un
lavoro o di una posizione stabile e dalla precarietà di lavori
sottopagati e discontinui?
Invertire
l’ordine dei fattori ci permette di ristabilire una verità semplice
eppure ogni giorno impietosamente insultata o ignorata: la buona e piena
occupazione unita ad una drastica riduzione degli orari di lavoro e ad
una maggior realizzazione effettiva sul lavoro libererebbe tempo ed
energie fisiche e mentali da dedicare alla vita e quindi anche alla
famiglia come sua componente essenziale.
Si
immagini che a ciò si accompagni un contestuale mutamento culturale
favorito dagli stessi cambiamenti economici dove al mito
individualistico dell’affermazione economica si sostituisca la
valorizzazione del lavoro e delle competenze di ciascuno e la
solidarietà interpersonale e alla visione di un’economia che si muove
per il profitto si sostituisca quella di un’economia che soddisfa i
bisogni.
Tutto
questo, insieme, favorirebbe senza dubbio scelte orientate alla
conciliazione tra vita personale e lavoro e darebbe la possibilità di
pensare e progettare una famiglia grazie alla stabilità economica.
In
conclusione, se si vogliono davvero meno culle vuote e meno emigrazioni
forzate, fuori dai moralismi parziali e dagli economicismi angusti, si
cominci a prendere il toro per le corna e a combattere per un sistema di
relazioni economiche e sociali radicalmente diverso rispetto a quello
presente.
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