Domenica 5 gennaio il Parlamento iracheno ha chiesto al governo di «mettere fine alla presenza delle truppe straniere nel Paese», cominciando con il «ritirare la sua richiesta d’aiuto» indirizzata alla comunità internazionale per combattere l’organizzazione dello Stato Islamico.
Nel
Paese Arabo sono presenti tra l’altro 5.200 militari nord-americani che
da alcuni mesi sono tornati ad essere l’obiettivo di azioni armate che
il governo di Washington attribuisce alle milizie filo-iraniane
integrate nelle forze di sicurezza irachene, com’è avvenuto per un lungo
periodo dopo l’occupazione a guida anglo-americana del 2003.
Durante
una sessione straordinaria, trasmessa in diretta dalla televisione di
Stato, ed in presenza del Primo Ministro dimissionario Adel Abdel Mahdi,
i deputati hanno approvato una decisione che «costringe il governo a preservare la sovranità del Paese ritirando la sua richiesta d’aiuto».
Prima
del voto, il primo ministro dimissionario aveva consigliato al
Parlamento di prendere una decisione per il ritiro definitivo di tutte
le forze straniere del Paese.
Il
giorno stesso, il Ministro degli Esteri iracheno ha accusato gli Stati
Uniti d’avere violato la sovranità del Paese e diverse leggi
internazionali che inquadrano le relazioni tra Stati, secondo le quali è
proibito approfittare del territorio di un Paese per attaccare i Paesi
vicini.
Come ha dichiarato alla “Reuters”, prima del voto, un parlamentare iracheno – Ammar al-Shibli -: «Non c’è bisogno della presenza delle forze americane dopo la sconfitta di Daesh (Isis). (…) Abbiamo le nostre forze armate che sono capaci di proteggere il nostro Paese».
Lunedì
6 gennaio il Primo Ministro ha convocato l’ambasciatore a Bagdad per
informarlo delle disposizioni che dovrebbero facilitare il ritiro delle
truppe statunitensi.
Sempre
lunedì, un portavoce dell’esercito iracheno, ha annunciato che i
preparativi per il ritiro delle truppe straniere sono in marcia.
Secondo quanto riporta RT: «Il governo iracheno ha iniziato la riduzione del movimento terrestre e marittimo delle forze della coalizione» anti-ISIS.
Sebbene
il Primo Ministro si auguri e si adoperi per un sforzo congiunto tra i
due Paesi nel ritiro, Trump ha minacciato in risposta all’iniziativa
irachena: «sanzioni come mai viste fino ad ora», se non venisse pagato l’investimento militare nord-americano, concludendo in tono minaccioso «Non ce ne andremo finché non ci pagheranno per questo».
L’omicidio
extra-giudiziario da parte degli USA del maggior stratega iraniano per
la politica estera, il Generale Qassem Soleimani, e di Abou Mehdi
Al-Mouhandis – numero due della coalizione delle milizie sciite
filo-iraniane Hachd al-Chaabi, universalmente riconosciute tra le
maggiori artefici della vittoria sull’ISIS – nella notte tra giovedì e
venerdì ha rinfocolato l’odio anti-americano in Iraq e ricompattato il
fronte politico del paese arabo contro gli Stati Uniti.
La
folla che ha partecipato al funerale del generale in Iran è stata
paragonata a quella che ha salutato il leader della rivoluzione islamica
nel 1989, l’Ayatollah Ruhollah Khomeini.
Da segnalare alle esequie la presenza del leader di Hamas. Ismail Haniyeh ha definito Soleimani: «martire di Gerusalemme»
Bisogna
ricordare che l’Iran ad inizio ottobre aveva denunciato di aver
stroncato il tentativo di assassinio, in Iraq, per mano di Israele e dei
“Servizi Segreti di Stati arabi”, senza specificare quali, ma
dettagliando i particolari del piano, come ha riportato “Al Jazeera”.
Il
ministro degli esteri israeliano Israel Katz aveva “implicitamente”
ammesso la volontà del regime sionista dichiarando che stava lavorando
per “sradicare” (“uproot”) il Generale…
La contraddizione principale
è tornata quindi ad essere, per il popolo iracheno, l’occupazione
statunitense, anche per le forze critiche nei confronti del leader
militare iraniano ucciso.
Questo conflitto è divenuto in Iraq uno scontro a tutto campo tra due entità contrapposte, e non una semplice “proxy war” tra due soggetti allogeni.
***
Prima
dell’arrivo in Iran del corpo del Generale per i funerali, Donald Trump
ha nuovamente minacciato la Repubblica Islamica con un tweet che conferma il profilo da criminale di guerra con cui sta caratterizzando la fine del suo mandato.
In caso di rappresaglia iraniana, gli Stati Uniti hanno «identificato 52 obiettivi», alcuni «ad un livello molto alto e importanti per l’Iran e la cultura iraniana, e questi targets, e l’Iran stesso, SARANNO COLPITI MOLTO RAPIDAMENTE E MOLTO DURAMENTE».
Una
dichiarazione in barba alle più elementari disposizioni del diritto
internazionale, già oltre la definizioine di “crimine di guerra”…
I
52 obiettivi sono stati un riferimento esplicito ai 52 nord-americani
presi in ostaggio in Iran per 444 giorni dopo “la presa” dell’ambasciata
USA a Teheran nel novembre 1979.
Una ferita ancora aperta, che il revanscismo dei falchi di Washington ed il Deep State
statunitense avrebbe voluto sanare con un cambio di regime prima della
celebrazione dell’anniversario della fondazione della Repubblica
Islamica.
Ma non hanno per ora regolato i conti.
Intanto il 4 gennaio “la Green Zone” a Bagdad è stata attaccata, così come la base aerea di Balad sede delle truppe statunitensi.
Si è trattato per la “Green Zone” di lanci di mortaio e del lancio di razzi per ciò che concerne la base americana, che non hanno causato feriti.
***
Nella rimozione colpevole compiuta dalla narrazione tossica dei media mainstream è meglio ricordare il perché dell’odio contro gli Stati Uniti da parte delle popolazioni iraniane ed irachene…
Iran
Bisogna
ricordare che la Rivoluzione in Iran aveva rovesciato il regime
sanguinario insediatosi dopo il colpo di Stato orchestrato da USA e Gran
Bretagna che nella prima metà degli Anni Cinquanta – il 19 agosto 1953 –
con l’Operazione Ajax (boot per gli inglesi) – aveva deposto il Primo Ministro Mohammad Mossadeq eletto nel 1951.
Mossadeq aveva da poco nazionalizzato l’industria petrolifera – l’inglese Anglo-Iranian Oil Company – fondata nel primo decennio del secolo, tenendo fede alle promesse elettorali.
Godeva
di un altissimo consenso popolare, vista la prospettiva di riscatto che
stava dando ad un popolo umiliato da una “doppia occupazione” durante
la Seconda Guerra Mondiale.
L’immagine dell’anziano Mossadeq asserragliato a casa insieme a pochi fedelissimi, e ferito dai colpi dei carri armati Sherman che la assediavano, rimane ben impressa nella memoria degli iraniani e nella loro coscienza politica.
Anche
un Presidente “liberale” come Mossadeq, educato in Occidente, che aveva
studiato in Francia ed in Svizzera, era diventato un nemico
dell’Occidente quando aveva rivendicato la sovranità sulle risorse
petrolifere.
Gli
Stati Uniti avevano implicitamente riconosciuto la propria
responsabilità nel colpo di stato declassificando dei documenti
secretati a riguardo poco tempo fa.
Il golpe era stato allora accolto anche dalla stampa liberal americana come un monito positivo
per tutti coloro che avrebbero voluto rivendicare una sovranità per il
proprio Paese che mettesse in discussione gli interessi di Washington.
Come scrisse il “New York Times” nel 1954:
«Paesi
sottosviluppati ricchi di risorse ora hanno una lezione obiettiva dei
pesanti costi che devono essere pagati da uno di loro a causa del lorio
frenetico nazionalismo. (…) è forse troppo sperare che
l’esperienza iraniana prevenga l’ascesa di Mossadeqhs in altri Paesi, ma
quell’esperienza può almeno rafforzare l’operato dei leader più
ragionevoli e dotati di maggiore prospettiva».
Il
messaggio rivolto al “Tricontinente” era chiaro: chi avesse intralciato
gli interessi strategici degli Stati Uniti, sarebbe stato rimosso dallo
Zio Tom.
L’Iran,
insieme all’Iraq prima della rivoluzione baathista, sarà uno dei perni
della politica “medio-orientale” anglo-americana, fino alla caduta dello
regime dello scià.
Da
allora, a parte la parentesi nell’Era Obama che ha visto l’accordo sul
nucleare iraniano del 2015 – da cui è uscita l’amministrazione Trump nel
maggio del 2018 – la politica statunitense nei confronti dell’Iran – e
non solo – non è propriamente mutata.
Trump quindi è un problema, ma non “il” problema.
Gli
assassini mirati con l’uso di droni sono aumentati in maniera
esponenziale nell’era Obama, ma persino i membri del governo Reagan –
quando cercarono di uccidere il leader libico Muhammar Gheddafi,
bombardandone l’abitazione nel 1986, negarono che fosse un obbiettivo
esplicito…
L’attuale
amministrazione statunitense sembra andare più in là ora, spostando
pericolosamente l’asticella della “legittimità delle uccisioni mirate”
non solo a coloro che sono ritenuti responsabili di minacce imminenti ed
espressioni di organizzazioni “terroristiche” non statali, ma colpendo
un diplomatico d’alto rango di una potenza ufficialmente non in guerra
con gli Stati Uniti senza fornire uno straccio di prova delle sue
supposte responsabilità che ne farebbe un “obiettivo legittimo”, come il
generale Yamamoto durante la seconda Guerra Mondiale, per intenderci.
Un
precedente inquietante che sfarina ulteriormente il quadro normativo
che gli stessi Stati Uniti stessi si erano dati e le garanzie
internazionali nel loro complesso.
Iraq
Per ciò che riguarda la popolazione irachena, basta ricordare che il “Nuovo Ordine Mondiale” viene inaugurato dagli States
con la fine del mondo bi-polare proprio con la Prima Guerra del Golfo,
ad inizio anni Novanta, contro l’Iraq, seguita ad un feroce embargo che
ha mietuto migliaia di vittime. Nel 2003 una coalizione anglo-americana
guidò l’invasione del Paese, a cui seguì una strenua resistenza, che
ebbe un sostegno nullo dall’Occidente.
Washington
pensava di realizzare un vecchio progetto sionista, con la divisione
dell’Iraq in differenti “patrie” etnico-confessionali, e renderlo un
specie di protettorato spartendone le ricchezze con chi – con una
complicità differente – aveva contribuito alla sua aggressione ed
acetato cambiamento dello “status quo”.
Gli
USA pensavano di subordinare a sé l’Iraq post-Saddam, ma hanno
incontrato una strenua resistenza che l’ha reso un pantano per i propri
progetti, fino alla nemesi di uno Stato Islamico trans-cresciuto in
grado di minacciarne in parte gli interessi vitali.
L’Iran
ha avuto un ruolo centrale nell’organizzare la resistenza all’ISIS, e
la coalizione delle milizie sciite filo-iraniane ora integrate nelle
forze di sicurezza irachene.
L’Iran
ha aiutato cioè a ripristinare la sovranità irachena contro un prodotto
della strategia del “Caos Creativo” statunitense finalizzato a
destabilizzare la vicina Siria, scappatogli di mano.
L’Iraq
è uscito provato dalla lotta contro l’ISIS, con una situazione
economica piuttosto difficile e con una “corruzione” ereditata dai
fantocci posti al governo del Paese sotto occupazione militare.
L’Iraq
è il quarto Paese al mondo per le riserve di greggio stimate, ma più di
40 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà!
Così,
già da ottobre, le legittime rimostranze del popolo iracheno sono state
sfruttate da USA, Israele e Arabia Saudita per “destabilizzare” una
leadership, quella del dimissionario Abdel Mahdi, che consideravano
troppo vicina all’Iran.
Ripercorriamo
le tappe che hanno portato alla decisione di “accelerare” la spinta per
il defenestramento dello statista iracheno con il supporto di un
contributo del sito di informazione indipendente “Investig’ation”,
apparso lo scorso ottobre, che ci aiuta a decostruire le interpretazioni
abbastanza fallaci circolate anche all’interno della “sinistra
radicale”.
Abdel
Mahdi ha accusato Israele d’essere responsabile della distruzione di
cinque siti delle forze di sicurezza irachene (Hachd al-Chaabi) e di
avere ucciso un comandante alla frontiera Siro-irachena. Ha aperto il
sito frontaliero ad Al-Qaem tra l’Iraq e la Siria, a danno
dell’ambasciata americana a Bagdad, il cui personale ha espresso il suo
malessere ai responsabili iracheni.
Ha
espresso la volontà di acquistare degli S-400 e altri equipaggiamenti
militari dalla Russia. Abdel Mahdi si è accordato con la Cina per la
ricostruzione delle infrastrutture essenziali dell’Iraq in cambio di
petrolio, si è inoltre accordato con una azienda tedesca per un
contratto per la fornitura dell’elettricità per un il valore di 284
milioni di dollari, piuttosto che stipularlo con una azienda americana.
Il
Primo ministro iracheno ha rifiutato di rispettare le sanzioni degli
USA continuando a comprare l’elettricità dall’Iran e autorizzando scambi
commerciali che hanno portano un gran beneficio all’Iran. Infine, Abdel
Mahdi ha rifiutato “l’accordo del secolo” proposto dagli USA sulla
questione palestinese e tenta una mediazione tra l’Arabia Saudita e
l’Iran, svelando così la sua intenzione di non conformarsi agli
obiettivi delle politiche degli USA in Medio-Oriente».
***
L’Iran
ha affermato il 5 gennaio che non rispetterà più i criteri fissati
negli accordi firmati precedentemente, non accettando più dei limiti
all’arricchimento dell’uranio, anche se continuerà a sottomettersi alle
ispezioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, come in
precedenza.
La
UE, sebbene Francia, Germania e Gran Bretagna fossero co-firmatari
dell’accordo, non ha fatto nessun passo concreto per dargli seguito ed
impedire lo strangolamento economico della Repubblica Islamica, a
differenza di Cina e Russia che sono diventati sempre più gli unici veri
partner del Paese.
Le
cancellerie occidentali, insieme a Trump, sono egualmente responsabili
per l’azzeramento di una ipotesi diplomatica che avrebbe potuto scrivere
una pagina diversa per l’Occidente, ma anche questa volta l’Unione si è
dimostrata più incline a soddisfare i voleri di Israele ed Arabia
Saudita – acerrimi nemici del trattato – che a determinare un proprio
piano politico che spianasse la strada a differenti relazioni politiche,
in grado di sviluppare una vera politica di pace.
L’editoriale del 5 gennaio di Le Monde in parte centra il punto quando afferma:
«Questo
accordo imperfetto aveva almeno il merito d’esistere e, con lui, uno
spazio per la negoziazione. Questo spazio si è richiuso, venerdì, sulla
carcassa fumante della vettura che trasportava la guida militare
iraniana a Bagdad. Non c’è più né diplomazia, né strategia di pressione o
di sanzioni. Solamente lo scontro».
Il
quotidiano francese ha parzialmente ragione perché la strada
diplomatica è perseguita dall’Iran insieme alle legittime dichiarazioni
bellicose, con una grande prova di assennatezza tanto da ribadire per
l’ennesima volta di poter fare marcia indietro rispettando l’accordo sul
nucleare, nel caso gli USA togliessero le sanzioni.
«La nostra leadership ha annunciato ufficialmente che non abbiamo mai cercato la guerra e non la cercheremo», ha affermato sabato Dehghan, adviser di Ali Khamenei, dichiarando che gli Stati Uniti devono aspettarsi reazioni appropriate al loro atto.
Gli
fanno eco i maggiori leader della “Mezzaluna Sciita” nel mondo arabo,
rinfocolando un odio mai sopito contro la presenza militare statunitense
e il suo alleato sionista.
Tutta
la diplomazia internazionale è “in fibrillazione”, con una riunione
della NATO tenutasi a Bruxelles il 6 gennaio ed un incontro ad alto
livello tra la Merkel e Putin questo sabato a Mosca.
La NATO, con una decisione presa con l’incontro in Belgio, ha sospeso temporaneamente l’addestramento in Iraq.
Stoltenberg – il suo segretario – ha preso le distanze dall’uccisione di Suleimani: «Questa
è una decisione statunitense. Non una decisione presa dalla coalizione
globale né dalla NATO. Ma tutti gli alleati sono preoccupati
dell’attività di destabilizzazione dell’Iran nella regione»
I
ministri degli esteri della UE si incontreranno questo venerdì per un
incontro d’emergenza sull’Iran. Macron, Merkel e Johnson avevano fatto
una dichiarazione congiunta piuttosto “cerchiobottista”, ma non proprio
favorevole all’Iran in cui condannano di fatto sia l’operato
statunitense sia “l’operato negativo” dell’Iran nella regione attraverso
le IRGC e Al-Qods.
Fanno
appello affinché l’Iran rientri nelle misure decise nell’accordo sul
nucleare – di fatto divenuta lettera morta anche a causa loro -, e
sostengono espressamente il mantenimento della Coalizione in Iraq, a cui
il Paese deve dare il supporto necessario, quando il Parlamento ha
votato tutt’altro, dimostrando di voler calpestare ulteriormente la
sovranità irachena.
Sta
a noi far comprendere che nel Vecchio Continente la volontà dei
“governati” non è quella dei “governanti”, chiedendo l’immediato ritiro
delle truppe dall’Iraq e la fine della criminalizzazione del popolo
iraniano, cui le cancellerie occidentali – con il loro comportamento –
hanno lasciato cadere il “Ramoscello d’Ulivo” che tenevano in mano, e
non riconosciuto il contributo fondamentale nella sconfitta del cancro
jihadista.
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