Follow the money,
quando vuoi capire come c’è in ballo al di sotto di mosse altrimenti
incomprensibili. Ma segui anche il percorso delle armi, quando il
minuetto della diplomazia palesemente non determina più le relazioni tra
Paesi o frammenti di questi.
La
Libia è esplosa quando quell’imbecille ambizioso di Nicolas Salkozy ha
deciso di buttar giù militarmente Muammar Gheddafi per prendere possesso
in via privilegiata dei terminali di petrolio e gas fin lì gestiti
prevalentemente dall’Eni. Il “geniale” e ricattatissimo Silvio
Berlusconi gli andò dietro (contro “gli interessi dell’Italia”), in
un’operazione folle che non prevedeva nessun regime change credibile.
Destabilizzare un equilibrio – gestito con indubbia “durezza” – in un
mosaico di tribù è dar via a una guerra civile infinita, non certo a una
“più avanzata democrazia”.
Da
allora è successo di tutto. E siamo arrivati al vertice di Mosca, ieri,
in cui il padrone della situazione sul piano militare – il generale
Haftar – si è rifiutato di sottoscrivere un cessate il fuoco contrattato
tra Vladimir Putin e Reyyip Erdogan, neo sponsor principale del
“sindaco di Tripoli”, Al Serraj.
Sui
media mainstream si sprecano le interpretazioni interessate,
univocamente orientate a dimostrare che “gli altri” (Russia, Turchia,
Egitto, Emirati, ecc) agiscono solo sulla base degli “interessi”, mentre
l’Italia e l’Unione Europea avrebbero come faro la “legalità
internazionale” e naturalmente “la pace”.
Menzogne.
Da anni la Libia è vista da tutti come un forziere,
un tesoro pressoché indifeso ma pericoloso. Sembra una contraddizione,
ma non lo è. La libia è indifesa perché lì è stato distrutto lo Stato,
con l’abbattimento violento di Gheddafi. E’ stata con lui annientata
l’infrastruttura amministrativa, l’esercito, la polizia, l’autonomia
decisionale – ripetiamo – in una società fatta di tribù, dove l’appartenenza si misura su una base simil-familiare estesa.
Ma è anche un posto pericoloso
perché ogni tribù ha le sue milizie armate. Certamente in modo
insufficiente per ricostruire l’unità del Paese o contrastare
un’invasione straniera. Ma abbastanza da rendere la vita degli occupanti
molto difficile, se non impossibile.
Haftar
è il più forte dei “capi-milizia”, è riuscito federare di nuovo tribù
diverse, ma anche lui dipende per le armi dai rifornimenti stranieri –
Egitto e Russia, in primo luogo; ma anche Francia (alla faccia
dell’unità europea…) – che dovrà ripagare con contratti di sfruttamento
delle risorse energetiche.
Al
Serraj è invece solo un fantoccio portato lì dalle truppe Usa ed
europee, fatto sbarcare dopo giorni perché nessuno – neanche a Tripoli –
era disposto ad accettarlo come “capo”. Lui, ancora più di Haftar, deve
ripagare l’appoggio straniero con promessa di contratti di sfruttamento
delle stesse risorse.
Peggio.
La sua debolezza politica, tribale e militare lo ha condotto a cercare
l’appoggio della Turchia, l’unico paese, per il momento, disposto a
mandare proprie truppe sul terreno, oltre che a rifornimenti militari.
Un
“tradimento” degli sponsor occidentali che ha momentaneamente congelato
gli appoggi sia diplomatici che in armi, e che sembra costringere ora
l’Unione Europea a un intervento militare vero e proprio: il primo in
completa autonomia anche dal tradizionale leader delle avventure
militari, gli Stati Uniti.
Sono
quasi costretti a farlo perché il “traditore” Al Serraj ha promesso a
Erdogan qualcosa che stravolge la “legalità internazionale”, estendendo
la propria “sovranità” (concetto ridicolo per un fantoccio che controlla
a malapena una città sotto assedio) sulle acque territoriali fino a
farle confinare con quelle turche (altrettanto estese arbitrariamente).
Il che pesta ovviamente i piedi a mezzo Mediterraneo, a cominciare dai
paesi membri dell’Unione Europea che a questo punto chiedono una tutela
militare dei propri interessi: Grecia, Cipro, Malta.
Per
non parlare dell’Egitto e persino di Israele, che stava procedendo
nello stesso senso (espropriando di fatto la fascia costiera di Gaza e
“invadendo” la Zee destinata a Cipro).
Come
si vede, nulla di quel che viene raccontato sui media mainstream
corrisponde a quel che avviene davvero. Solo propaganda per preparare la
popolazione al “fatto nuovo”: stiamo entrando in una spirale di guerra estremamente pericolosa,
in un paese “alle porte di casa” di cui qualche “geniale”
fascioleghista di era occupato solo ai fini di “limitare gli sbarchi”
(come del resto il “democratico” Minniti prima di lui).
Per chi vuole seguire nei dettagli the money, a proposito del bubbone libico, consigliamo l’analisi di Guido Salerno Aletta, come sempre chiaro ed efficace.
*****
La questione della Libia è esplosa
Guido Salerno Aletta – Milano Finanza
La
questione libica investe ormai gli equilibri di tutto il Mediterraneo:
non si tratta più solo della instabilità interna, del conflitto tra le
fazioni e le tribù e della rivalità tra Italia e Francia, che risale
allo “schiaffo di Tunisi” di fine Ottocento; è tutto il contesto
geopolitico delle alleanze in corso ad essere cambiato.
Gli
Usa si sono ritirati dallo scacchiere, mentre la Russia si è messa
comoda al tavolo. La Turchia si sta mettendo in mezzo, non solo in senso
politico ma geografico, dacché cerca di creare un vero e proprio asse
marittimo che taglia in due il Mediterranei centrale, con ambizioni
neo-ottomane.
Non
solo Ankara ha proceduto alla formalizzazione di un accordo di
assistenza militare con il governo di Tripoli, ma ha manifestato
unilateralmente la pretesa di sfruttare le risorse energetiche
sottomarine che invece spettano a Cipro e Grecia, con un accordo
contestualmente raggiunto con Tripoli sulle rispettive giurisdizioni
marittimi. Passando per meridiani, si crea una zona economica esclusiva
che congiunge senza soluzione di continuità le coste turche a quelle
libiche, in violazione delle Convenzioni internazionali.
La
Turchia si attribuisce autonomamente non solo la possibilità di
estrazione di gas e petrolio in un’area strategica per più nazioni del
Mediterraneo orientale, ma soprattutto un potere decisionale sui
gasdotti che attraverseranno quei tratti di mare. Ostacola da subito il
passaggio dell’Eastmed, proveniente dai giacimenti israeliani già in
produzione, per il quale l’Accordo doveva essere firmato ad Atene il 2
gennaio scorso, alla presenza del premier greco Kyriakos Mitsotakis, di
quello israeliano Benjamin Netanyahu e del presidente cipriota Nikos
Anastasiades. Successivamente anche l’Italia dovrebbe congiungersi al
progetto.
La
reazione di Atene all’accordo turco-libico sulla giurisdizione
marittima è stata violentissima: l’ambasciatore di Tripoli ad Atene è
stato espulso, per quella che il Ministro degli Esteri ellenico ha
definito “un’aperta violazione del diritto di navigazione e dei diritti
sovrani di Grecia e di altri Paesi”.
Il
titolare della Farnesina, Luigi Di Maio, ha stigmatizzato gli accordi,
definendoli non legittimi: è inaccettabile che due Stati come la Turchia
e il Governo libico decidano quali siano i limiti delle acque
territoriali.
Come
sempre, l’Unione europea traccheggia: Josep Borrell, Alto
Rappresentante per la politica estera, ha detto di aspettarsi “una
posizione comune dopo l’analisi del memorandum d’intesa. La priorità
principale è l’unità. Non possiamo pensare di essere un attore globale,
se non abbiamo posizioni comuni”.
L’Italia
si trova a che fare con due questioni nuove, parimenti spinose: da una
parte, l’arroganza turca; dall’altra, il voltafaccia del Presidente
libico al Serraij, che pure ha solitariamente sostenuto per anni.
Non
solo costui ci ha rimproverato di non avergli fornito il supporto
militare che ci aveva richiesto per contenere gli attacchi del generale
Khalif Haftar, talché alla fine si è dovuto affidare all’aiuto turco, ma
addirittura, piccato per la presenza a Roma di quest’ultimo, questa
settimana non si è fermato a Roma, di ritorno da Bruxelles, per
incontrare il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che lo aveva
invitato.
L’errore
non è stato quello protocollare, d’aver ricevuto prima di lui, che è il
Presidente legittimo della Libia, il suo rivale ed aggressore Haftar,
ma il fatto stesso di averlo invitato nonostante il voltafaccia nei
nostri confronti, consumato con il duplice Accordo con Ankara: non ci
può più essere equidistanza di fronte ad atteggiamenti così impudenti.
Della
intenzione della Turchia di essere protagonista nella soluzione della
vicenda libica, ostacolando le pretese di Haftar, c’era stata una chiara
avvisaglia già nel corso della Conferenza di Palermo tenutasi a metà
novembre del 2018: dopo che Haftar aveva manifestato la sua
insoddisfazione lasciando in anticipo i lavori della Conferenza, che
infatti si concluse senza giungere ad una dichiarazione finale, anche la
delegazione turca decise di abbandonarli “con profondo disappunto” per
non essere stata coinvolta alla riunione informale del mattino con al
Serraj e Haftar, sottolineando lo sgarbo compiuto da quest’ultimo nei
nostri confronti: “Qualcuno all’ultimo minuto ha abusato dell’ospitalità
italiana”, affermò il vicepresidente turco, Fuat Oktay, senza però
nominare Haftar.
Ed
aggiunse: “Non si può pensare di risolvere la crisi in Libia
coinvolgendo le persone che l’hanno causata ed escludendo la Turchia.
Per questo lasciamo questo incontro profondamente delusi”.
E’
la politica estera italiana ad essere inadatta ai tempi di cambiamento
in cui viviamo. Si trastulla, percorrendo tutte le strade possibili,
anche se sono contraddittorie e ci portano ad un vicolo cieco.
Il
coro che si leva più numeroso è quello di coloro che invocano una
soluzione da parte di Bruxelles, a cominciare dal Commissario europeo
Paolo Gentiloni e dal Presidente dell’Europarlamento David Sassoli. Il
fallimento europeo, nonostante le ripetute sollecitazioni italiane ad
affrontare i temi di nostra preoccupazione, è sotto gli occhi di tutti: a
partire dal Migration Compact, il non paper che fu presentato da
Matteo Renzi nel suo ruolo di Presidente di turno del Consiglio europeo
nel 2016, e che dedicava alla stabilizzazione della Libia il paragrafo
conclusivo. Nulla si è fatto sulla questione delle quote migranti, nè
sulla revisione dell’Accordo di Dublino.
Se
le soluzioni politiche europee non arrivano mai, le proposte di azione
militare congiunta arrivano quando è ormai troppo tardi: il generale
Claudio Graziano, presidente del Comitato militare dell’Unione, in
questi giorni ha avanzato l’ipotesi di rivitalizzare la missione Sophia
Eunavformed, che fu già messa in campo per garantire la sicurezza
marittima europea: “sarebbe importantissima come segnale europeo e come
effetto deterrenza”.
Pro
domo sua, ha ripreso una posizione già sostenuta a margine della
Conferenza di Berlino sulla sicurezza, svoltasi il 26-27 novembre nella
capitale tedesca: Sophia è “una risposta europea a una crisi
internazionale” Inoltre, grazie all’operazione, “attraverso un comando
in Italia che rappresenta l’Europa, è possibile avere rapporti con un
paese certamente in grave crisi” come la Libia. Servirebbe innanzitutto
per contrastare chi intende violare l’embargo delle armi per e dalla
Libia, creando una sorta di “blocco navale”: peccato che ci siano alcuni
Paesi, anche europei, che fanno arrivare aiuti militari di straforo e
che ora c’è addirittura la Turchia che vanta un accordo formale con il
governo di Tripoli.
Abbiamo
già visto che cosa è successo al largo di Cipro, quando una nave
militare turca ha costretto una piattaforma di prospezione petrolifera
italiana ad allontanarsi: prima di mandare le cannoniere, bisogna
attivare una serie di contromisure legali, economiche e finanziarie.
Solo una azione politica fondata su forti interessi può sostenere
successive prove di forza.
E’
parimenti illusorio, da parte italiana, appoggiare il cosiddetto
processo di Berlino che dovrebbe approdare ad una Conferenza sulla
Libia, che era stata inizialmente prevista per la metà del mese in
corso. La Germania, soprattutto dopo l’entrata in scena della Turchia
nello scacchiere libico, ha una triplice debolezza negoziale. per via
della cospicua colonia di turchi e di tedeschi di recente ascendenza
turca che vivono colì, ed a cui lo stesso Presidente Erdogan ha rivolto
appelli di solidarietà in qualche occasione; a motivo delle
interdipendenze commerciali e finanziarie strettissime; a causa
dell’ospitalità offerta dalla Turchia a centinaia di migliaia di
profughi non solo siriani, che sono pronti a riprendere la via balcanica
per cercare asilo in Germania. Con la Turchia di mezzo, la Germania non
ha perso solo la terzietà, ma è sotto ricatto politico.
C’è
invece l’occasione per creare un fronte unico mediterraneo per
contrastare le iniziative turche, mettendo l’Italia in asse con la
Grecia, Cipro, l’Egitto e la Francia, considerando il comune interesse
di Israele. E’ il generale Haftar che può trovare ora nell’Italia un
punto di riferimento.
D’altra
parte, neppure la Russia appare in grado di fare tutto da sola,
chiedendo congiuntamente alla Turchia il cessate il fuoco alle parti in
conflitto in Libia, con decorrenza da questa prossima domenica, visto
che il Presidente Vladimir Putin manovrerebbe entrambi i contendenti:
non solo il generale Haftar, che da anni beneficia di aiuti russi, ma
indirettamente anche il Presidente al Serraj per il tramite della
Turchia, dove ha appena inaugurato quella parte del gasdotto che in
passato era stato immaginato come South Stream.
Il
diniego che è stato già espresso da Haftar alla richiesta di cessate il
fuoco la dice tutta sul fatto che in Libia i giochi sono più aperti che
mai: per Haftar, nel nuovo contesto, il sostegno della Russia si palesa
insufficiente, al pari di quello ricevuto dalla Francia. D’altra parte,
nessun Paese europeo, e di certo non l’Egitto, è disponibile a
sostenere una presenza turca così prepotente nel Mediterraneo.
La
mossa di al Serraj, per le violazioni del diritto internazionale
marittimo che derivano dall’Accordo stretto con Ankara, gli ha fatto
perdere quel poco di credibilità che ancora aveva. Per di più, si è
alienato il sostegno del nostro governo, che pure in questi ultimi
giorni si era prodigato con un incontro recentissimo ad Ankara per
aprire un tavolo tecnico con Turchia e Russia, e che neppure aveva
firmato le conclusioni dell’incontro tenutosi in Egitto, in quanto
critiche verso il governo di Tripoli per via dell’accordo stretto con la
Turchia. L’arroganza non paga.
Può
essere che stavolta Francia e Italia, da tempo in competizione sulla
questione libica, siano costrette a mettersi d’accordo per delineare i
nuovi equilibri nel Mediterraneo. D’altra parte, furono loro ad iniziare
lo smantellamento dell’Impero Ottomano su queste sponde: prima l’una
con la Tunisia, e poi l’altra con la Libia. L’interesse comune è di
stabilizzare l’area nel rispetto dei diritti di tutti i popoli, evitando
vecchie e nuove prepotenze.
*****
QUELLA
PAZZA VOGLIA DI LIBIA. (Milano Finanza sabato 11 gennaio) D’altra
parte, neppure la Russia appare in grado di fare tutto da sola,
chiedendo congiuntamente alla Turchia il cessate il fuoco alle parti in
conflitto in Libia, con decorrenza da questa prossima domenica, visto
che il Presidente Vladimir Putin manovrerebbe entrambi i contendenti:
non solo il generale Haftar, che da anni beneficia di aiuti russi, ma
indirettamente anche il Presidente al Serraj per il tramite della
Turchia, dove ha appena inaugurato quella parte del gasdotto che in
passato era stato immaginato come South Stream.
Il
diniego che è stato già espresso da Haftar alla richiesta di cessate il
fuoco la dice tutta sul fatto che in Libia i giochi sono più aperti che
mai: per Haftar, nel nuovo contesto, il sostegno della Russia si palesa
insufficiente, al pari di quello ricevuto dalla Francia. D’altra parte,
nessun Paese europeo, e di certo non l’Egitto, è disponibile a
sostenere una presenza turca così prepotente nel Mediterraneo
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