martedì 21 maggio 2019

L’Europa delle disuguaglianze sotto la sferza dell’Unione Europea

Il voto europeo è alle porte. Non servirà a nulla, per quanto riguarda la direzione di marcia dell’Unione Europea – il parlamento di Strasburgo è tale solo di nome, visto che non ha potere legislativo autonomo – ma ridisegnerà la mappa delle “famiglie politiche” nei 27 paesi membri.
Il dato comune, a quattro giorni dall’apertura delle urne, è la crisi politica che attraversano tutti i paesi, soprattutto quelli più grandi e “importanti”. La Francia si è ribellata a Macron, ma non sembra aver individuato la possibile alternativa. La Spagna continua a votare e a non avere una maggioranza di governo accettabilmente stabile. La stessa Germania guarda con preoccupazione a una ulteriore possibile sconfitta della Grosse Koalition (i democristiani della Merkel e i “socialdemocratici” dell’Spd). Sulla Gran Bretagna verrebbe da stendere un velo pietoso, mentre il ghigno di quel pagliaccio di Farage emerge dallo sfondo.
In Italia si attendono i risultati solo per determinare chi sarà il “timoniere” del superamento del governo gialloverde. E se fino a qualche settimana fa sembrava certo che lo scettro sarebbe stato in mano a Salvini e all’ultradestra che lo sostiene, col passare dei giorni la stella ducesca del “Capitano” si è drasticamente offuscata.
Terremoto ovunque, ma neanche questo sembra sufficiente a far emergere un’idea progettuale di sviluppo di quella che non è più solo una comunità economica ma non è in grado di diventare una comunità politica sovranazionale. Solo chiacchiere, distintivo e procedure di infrazione…

Nella competizione globale, ufficializzata da Trump con la “guerra dei dazi” ma ripresa fin dall’inizio dell’”era Obama”, l’Unione Europea sembra destinata a essere il vaso di coccio. Troppo indietro nell’innovazione tecnologica, troppo povera di risorse energetiche proprie, troppo fragile sul piano militare, troppo lenta nel reagire agli input esterni (sia positivi che negativi), troppo sparagnina nella visione economica, segnata negativamente dall’austera e suicida visione ordoliberista, che ha imposto tagli di spesa in piena crisi e competizione interna fondata sulla compressione dei salari (e quindi sulla distruzione del mercato interno).
L’unica reazione degna di nota, che getta però una luce orrenda sul prossimo futuro, consiste nella centralizzazione ulteriore dei processi decisionali continentali. Il Trattato di Aquisgrana trasforma l’asse franco-tedesco nel motore unico della futura Unione Europea, unificando in prospettiva i campioni industriali e finanziari, ma anche i rispettivi Parlamenti ed eserciti (la velocità e la qualità tecnologica del riarmo tedesco è l’unica vera incognita nell’equazione relativa al prossimo decennio).
Prevedibili, in questa chiave, ondate di “revisioni dei trattati” o stipulazione di nuovi trattati secondo la formula “prendere o lasciare”, con i paesi della “serie B” esonerati anche dalla fatica di dover elaborare una risposta.
La reazione “istintiva” di questo organismo continentale malpensato, malprogettato e malgestito (almeno ai fini dichiarati di una “riduzione delle disuguaglianze” tra i diversi paesi e popolazioni) è stata insomma quella di una concentrazione del potere e un incremento delle disuguaglianze. Nelle relazioni economiche e quindi anche nelle condizioni vita delle varie popolazioni.
Chi ancora farfuglia frasi senza senso su possibili “riforme dell’Unione Europea” (“la sinistra”, insomma) dovrebbe perlomeno dare un’occhiata a quel che sta accadendo nelle “stanze che contano”. Se non altro per evitare di essere additato ancora una volta dal popolo come complice dei veri nemici. Ma non nutriamo illusioni, su questo punto…

Il paese in cui è più netta e chiara la contrapposizione tra le possibili “vie d’uscita” è al momento la Francia, non a caso il luogo in cui il conflitto sociale – come sempre “imprevisto” nelle sue forme fenomeniche concrete – è esploso con maggiore intensità, superando la lunga fase di incubazione del “malessere” che si esprime poi nelle urne con un tasso altissimo di volatilità (il 4 marzo 2018 sembra ormai un’altra era geologica…).
E in effetti l’”uscita a destra” rappresentata dalla destra lepenista, altrettanto neoliberista di quella “europeista” di Macron, è radicalmente opposta quella “di sinistra” de La France Insoumise. Non a caso, anche lì, la destra ha progressivamente azzerato le proprie critiche alla Ue per adottare invece la classica “prospettiva riformatrice” in chiave razzista e nazionalista. Proprio come Salvini qui da noi.
Al fondo del turbinio politico, come sempre, stanno le differenze sociali, di classe, le disuguaglianze sempre più forti che rendono intollerabile – per strati sempre più larghi delle popolazioni – l’accettazione dello status quo.

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