Ogni
guerra si sa come comincia, mai come finisce. Spesso inizia per
sbaglio, per una scommessa o un rilancio fondato sulla “sicurezza” che
l’avversario avrebbe fatto buon viso a cattivo gioco.
Sembra
così anche per l’attuale “guerra dei dazi” innescata da Donald Trump
contro la Cina (e l’Unione Europea, in primo luogo la Germania). Neanche
l’ostentata assenza di investitori cinesi alle ultime due aste di
titoli di Stato a stelle-e-strisce ha distolto i vertici statunitensi a
recedere dalla propria offensiva. La partita, come si sa, è del resto
vitale: riportare negli Usa buona parte delle produzioni sparse in giro
per il mondo, ricreando produzione e mercato interni, devastati da
delocalizzazioni e corsa alla speculazione finanziaria.
La
Cina ha risposto alla sua maniera, dicendo di non volere la guerra e
attendendo qualche giorno prima di rispondere, con misure comunque
inferiori a quelle decise – o minacciate, visto che si applicheranno
solo alle merci in partenza, ma non a quelle già in viaggio –
dall’immobiliarista col ciuffo.
Dazie
esattamente simmetrici – 25% – ma su un parco merci inferiore (60
miliardi contro gli oltre 300 colpiti dagli Usa). Mentre The Donald prepara un’altra infornata altrettanto colossale.
In
teoria tutto si può ancora fermare all’improvviso, facendo spuntare di
nuovo il sole sui mercati e il commercio globale. Così come tutto può
sfuggire di mano. Del resto, la pretesa Usa che Pechino renda
“scalabili” le proprie società più importanti (sotto la dizione “fine
degli aiuti di Stato”) è decisamente inaccettabile per i cinesi, che
vedrebbero sconvolti propri assetti di sistema economico.
Non
paradossalmente, a soffrire di più – al momento – è proprio la sponda
statunitense. Ad affrontare i ribassi, infatti, sono soprattutto le
borse e soprattutto il mercato delle materie prime. I semi di
soia, per esempio, uno dei principali prodotto esportati da Washington a
Pechino, registrano scorte a livelli record (non vengono venduti,
insomma) e stanno calando velocemente di prezzo: sotto gli 8 dollari per
bushel, come ai tempi della recessione globale, dieci anni fa. Idem per
il cotone, che ha perso oltre il 4%.
A
rimetterci è insomma la fascia dei produttori agricoli Usa, il cuore di
quell’America profonda che ha sollevato Trump dalle truffe immobiliari
alla presidenza degli Stati Uniti.
Ma
una possibile frenata generale dell’economia mondiale – impossibile
rispettare le già non rosee previsioni, se i primi due giganti
cominciano a darsele – trascina con sé anche i prezzi del petrolio,
ferro e gas, che pure non entrano mai nella lista dei prodotti
“sovra-tariffati”.
Al contrario, i treasury bond
della Federal Reserve – considerati il più sicuro dei prodotti
finanziari sicuri – hanno recuparato un po’ di prezzo (e dunque
diminuito i rendimenti – dopo la gelata derivante dal disinteresse
cinese.
Sembra
una buona notizia per Trump (diminuisce il costo del debito), ma in
realtà allontana l’obbiettivo dichiarato: diminuire il peso della
finanza e aumentare quello dell’economia reale.
Senza contare i disastri che potrebbero nascere a ridosso di una guerra tariffaria “vera” e non sono minacciata.
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