mercoledì 7 dicembre 2016

Solo l’inizio

Erano sostenuti dalle oligarchie economiche al completo. Hanno diffuso una propaganda imponente e senza precedenti. Avevano il monopolio su tutte le trasmissioni televisive. Hanno potuto contare sul supporto della maggior parte della stampa. Hanno usato innumerevoli artifici (come scrivere il quesito referendario in modo non imparziale). Avevano uno stuolo di giornalisti, intellettuali, artisti, personaggi dello spettacolo. Hanno avuto persino il sostegno degli Stati Uniti d’America. Avevano, insomma, denaro, mezzi e potere senza limitazioni. Hanno adoperato ogni strumento, metodo, tattica possibili. Hanno perso. Quasi il 60% di italiani ha cancellato una riforma che avrebbe stravolto l’attuale Costituzione e indebolito l’ordinamento parlamentare per rendere le direttive delle élite finanziarie più semplici, di quanto già non fossero, da ratificare. Nonostante molti pensavano, alla vigilia, a un possibile “testa a testa”, e a un recupero del “sì”, i contrari a questa riforma hanno prevalso nettamente, al punto da spingere Renzi ad annunciare le dimissioni anticipate da Presidente del Consiglio. Le previsioni dei media sono state ancora una volta, come ormai da qualche tempo succede, sconfessate.
Si è registrata un’affluenza relativamente elevata (intorno al 68%) come non accadeva da tempo in Italia, considerando anche il periodo storico di generale distacco dalla politica. Gli italiani, anche quelli che prima non votavano, si sono recati in massa ai seggi per respingere la riforma firmata da Renzi e scritta dalla JP Morgan. Se si eccettuano Trentino, Emilia e Toscana, il “no” ha prevalso ovunque al centro-nord, mentre ha stravinto nelle regioni del centro-sud. Al di là delle possibili conseguenze di questo voto – se ci saranno elezioni nell’immediato o un governo di transizione – un fatto emerge chiaramente: per la terza volta in Occidente gli elettori hanno espresso una preferenza contraria a quella dei poteri economici e delle oligarchie. Essi, come già accaduto col voto “sovranista” in Gran Bretagna e con le presidenziali negli Stati Uniti, per la terza volta si sono contrapposti al “fuoco incrociato” dei grandi media e a un’impressionante macchina di propaganda. Per la terza volta il ceto intellettuale, oltre che schierarsi a favore delle oligarchie e contro i ceti popolari, non ha compreso le reali dimensioni del fenomeno che aveva di fronte.
Non avveniva da due decenni un fallimento così clamoroso e così ripetuto della strategia comunicativa delle élite e dei poteri finanziari, abituati ormai a servirsi dei vari governi “democratici” come “comitati d’affari”, per usare la locuzione marxiana, senza trovare un’opposizione efficace che glielo potesse impedire. Certo, non bisogna esagerare gli effetti del voto; il governo che verrà non sarà probabilmente migliore di quello appena terminato; continuiamo, per ora, a vivere nell’epoca del neoliberismo, della globalizzazione, dei mercati ubiqui, della politica detronizzata e ridotta a farsa e dell’incapacità di formulare un progetto di società differente. Ma c’è un’altra aria, una tendenza diversa e inedita, una tensione accumulata in tutti questi anni di riformismo oligarchico che non può più essere scaricata attraverso i canali tradizionali, dirottata nella guerra tra poveri o scongiurata attraverso il finto realismo del TINA (“non c’è alternativa”) variamente coniugato, da Thatcher a Renzi; o, perlomeno, non del tutto. La cosmesi pubblicitaria, quella che garantiva vittorie schiaccianti e che faceva gridare alcuni alla “fine della storia”, improvvisamente sembra aver smesso di funzionare.
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