Quanto a lungo dovremmo lavorare? La proposta di Jeremy Corbyn di
una politica di giornata lavorativa di sei ore dimostra che la risposta a
questa domanda non è un fatto stabilito da Dio. In realtà ciascuna
società prende una decisione volontaria e le risposte sono soggette a
grandi fluttuazioni storiche e a lotte sociali, cui continuiamo ad
assistere oggi. Quando François Hollande ha annunciato quest’anno che la
settimana di 35 ore sarebbe stata aumentata si è scontrato con gli
scioperi di #LoiTravail,
che sono stati abbastanza feroci da vedere l’esausta polizia francese
pregare i sindacati per un cessate il fuoco. Con il maggior partito
socialdemocratico d’Europa che propone le sei ore, si tratta oggi di una
mossa che potrebbe essere concretamente realizzata. Ma quali sono gli
argomenti a favore e contro? Com’era la giornata lavorativa in passato? E
come potrebbe essere in futuro?
Innanzitutto guardiamo alla storia. Uno dei miti del capitalismo è che esso riduce il fardello della fatica umana, ma ciò che in realtà è stato fatto è creare un vasto potenziale per tale riduzione. Il fine del profitto mutila e devia l’innovazione tecnologica sotto il capitalismo, e ciò nonostante il progresso prosegue a rotta di collo. Possiamo produrre più di quanto generazioni precedenti abbiano mai sognato, usando solo una frazione della forza-lavoro. Keynes notoriamente previde che all’alba del ventunesimo secolo questa tendenza ci avrebbe lasciato a lavorare solo 15 ore la settimana. Ma che cosa ha in realtà fatto, storicamente, il capitalismo alla giornata lavorativa? Nel corso della rivoluzione industriale era in media di 12-14 ore, a volte estendendosi sino a 16 ore. Si trattava di un cambiamento di scala quasi inimmaginabile rispetto al mondo pre-capitalista.
Spesso immaginiamo che la vita dei servi nel feudalesimo fosse di miseria e stenti e non è che in questo non ci sia un elemento di verità. Ma una delle durezze che tendiamo a immaginare, l’immagine di un contadino che fatica pesantemente nei campi dall’alba al tramonto è un mito. Secondo il professore di Harvard James Rogers la giornata lavorativa medievale non superava le otto ore. La partecipazione dei lavoratori alla lotta per le otto ore nel corso della fine del diciannovesimo secolo, perciò, stava “semplicemente sforzandosi di recuperare quanto lavoravano gli antenati quattro o cinque secoli prima”. Ciò è proseguito nel primo periodo moderno, in cui i lavoratori si sono rifiutati di venerare più del dovuto il loro lavoro e hanno tenuto duro quanto alle pause nella giornata lavorativa che rendevano le loro vite più tollerabili, come dimostrano le osservazioni di James Pilkington. E’ stato l’avvento del capitalismo industriale che ha visto i lavoratori precipitare in giornate lavorative estreme da parte di quelle che erano, nell’espressione di Eric Hobsbawm, “molto chiaramente le forze dell’inferno”. La resistenza della classe operaia ha gradualmente riportato indietro la durata della giornata lavorativa, dapprima con la Legge delle Dieci Ore (una conquista del Cartismo) e alla fine attraverso la famosa richiesta: “otto ore per lavorare, otto ore per riposare e otto ore per far quello che ci pare”. Da ciò potremmo presumere che il capitalismo sia stato storicamente domato quanto alle ore lavorative. Ma che cosa è successo da allora? I lavoratori britannici oggi restano al lavoro quasi nove ore al giorno e siamo quelli che in Europa accumulano il maggior numero di ore lavorative l’anno. Siamo tornati indietro. Quali sono gli argomenti a favore di un cambiamento di corso?
Innanzitutto gli argomenti contro che, in verità, oggi sono esili sul campo. Persino una ricerca su Google di “argomenti contro le 6 ore al giorno” producono una lunga lista di articoli che ne cantano le lodi, compresi datori di lavoro e altri segmenti dell’élite. Segnalano il successo di particolari imprese o regioni, quali Göteborg, Svezia, nell’attuarle.
Ma alla fine si trovano i critici. Maria Ryden, vicesindaco di Göteborg, obietta argomentando che “il governo non dovrebbe interferire nel luogo di lavoro”. Forse la Ryden si è persa le migliaia di intrusioni che i governi già operano sul luogo di lavoro: il salario minimo, remunerazione uguale per le donne, pause obbligatoria e, naturalmente, le otto ore esistenti. Kyle Smith ha scritto sul New York Times paragonando le sei ore al giorno alla pretesa di “cuccioli di unicorno per tutti”, e segnalando che “ogni ora in cui non lavorate vi costa soldi”. Ma le otto ore al giorno sono esse stesse il risultato di una riduzione volontaria e Smith non offre spiegazioni sul perché ciò sia irrealistico mentre le sei ore sono una fantasia utopistica. Quando alla perdita di remunerazione, a Göteborg le sei ore sono state attuate senza cambiamenti dei salari.
I tipici argomenti a favore di una riduzione sono semplici. Commentatori segnalano i dimostrati aumenti di produttività, il ridotto assenteismo e la migliorata salute dei lavoratori. Sono tutte cose preziose, ma sono solo i relativamente ristretti vantaggi dell’aumentata efficienza del luogo di lavoro e noi dovremmo guardare oltre essi. Dovremmo guardare alla massiccia riduzione della nostra impronta carbonica, al miglioramento della salute mentale di cui godiamo e al maggior tempo di cui disporremmo da dedicare alle nostre famiglie e ai nostri amici. Dovremmo porre domande dure riguardo al lavoro nel suo complesso. Che cosa facciamo che è necessario e che cosa che è superfluo?
Chiaramente ci sono vasti segmenti dell’economia globale che sono francamente industrie di spreco e che dovrebbero essere lasciate cadere o essere massicciamente ridimensionate. David Graeber è lieto di fare i nomi nel suo saggio “On Bullshit Jobs” [Lavori stronzi]: servizi finanziari, telemarketing, espansione senza precedenti di settore come la legge societaria, amministrazione accademica e sanitaria, risorse umane e pubbliche relazioni. Graeber segnala che persino lavoratori impiegati in tali industrie tendono a considerare stronzate i loro lavori; che sono “del tutto privi di significato, che non offrono nulla al mondo e, nella loro valutazione, non dovrebbero esistere”.
L’industria del confezionamento [packaging], gran parte della quale è dedicata alla commercializzazione di prodotti, è la maggiore industria del pianeta, dopo quella energetica e quella alimentare. Il confezionamento costa in media tra il 10 e il 40 per cento dei prodotti non alimentari acquistati e il confezionamento dei cosmetici può costare fino a tre volte quello del contenuto. I costi della pubblicità arrivano a un importo simile. I soli Stati Uniti hanno speso un trilione di dollari nel 2005; il costo totale per por fine alla povertà estrema è stimato in 3,5 miliardi di dollari. Dedichiamo uno sforzo, risorse e manodopera colossali in un’attività che non contribuisce ad altro che ai margini di profitto. E lo stiamo facendo in un mondo che sfreccia verso il precipizio di un cambiamento climatico irreversibile, in un mondo in cui la metà di noi afferma che il superlavoro danneggia le nostre relazioni con i nostri figli e i nostri partner. Eliminando il lavoro superfluo, automatizzando dove possibile i lavori esistenti e riducendo la durata della giornata lavorativa libereremmo un’enorme quantità di tempo per la manodopera globale, concedendoci un’occhiata al mondo del FALC: Fully Automated Luxury Communism [Comunismo di lusso interamente automatizzato].
Quel tempo potrebbe essere dedicato all’ozio, al miglioramento di sé o semplicemente a progetti di lavoro più significativi e più soddisfacenti. Lottare per una riduzione delle ore di lavoro non significa prendere una posizione contro il lavoro in sé, bensì contro la compulsione a un lavoro non necessario e a favore della sua sostituzione con qualcosa di meglio. Dovremmo lottare per una giornata lavorativa di sei ore e poi dovremmo spingerci molto oltre e lottare, nell’espressione di James Butler, per “un mondo dove siamo lasciati seduti in giro a condividere nuove varietà di formaggio scoperte, a creare più night club di nicchia e a esplorare gli oceani, o qualsiasi altra cosa contribuisca a un’umanità felice e realizzata”
Innanzitutto guardiamo alla storia. Uno dei miti del capitalismo è che esso riduce il fardello della fatica umana, ma ciò che in realtà è stato fatto è creare un vasto potenziale per tale riduzione. Il fine del profitto mutila e devia l’innovazione tecnologica sotto il capitalismo, e ciò nonostante il progresso prosegue a rotta di collo. Possiamo produrre più di quanto generazioni precedenti abbiano mai sognato, usando solo una frazione della forza-lavoro. Keynes notoriamente previde che all’alba del ventunesimo secolo questa tendenza ci avrebbe lasciato a lavorare solo 15 ore la settimana. Ma che cosa ha in realtà fatto, storicamente, il capitalismo alla giornata lavorativa? Nel corso della rivoluzione industriale era in media di 12-14 ore, a volte estendendosi sino a 16 ore. Si trattava di un cambiamento di scala quasi inimmaginabile rispetto al mondo pre-capitalista.
Spesso immaginiamo che la vita dei servi nel feudalesimo fosse di miseria e stenti e non è che in questo non ci sia un elemento di verità. Ma una delle durezze che tendiamo a immaginare, l’immagine di un contadino che fatica pesantemente nei campi dall’alba al tramonto è un mito. Secondo il professore di Harvard James Rogers la giornata lavorativa medievale non superava le otto ore. La partecipazione dei lavoratori alla lotta per le otto ore nel corso della fine del diciannovesimo secolo, perciò, stava “semplicemente sforzandosi di recuperare quanto lavoravano gli antenati quattro o cinque secoli prima”. Ciò è proseguito nel primo periodo moderno, in cui i lavoratori si sono rifiutati di venerare più del dovuto il loro lavoro e hanno tenuto duro quanto alle pause nella giornata lavorativa che rendevano le loro vite più tollerabili, come dimostrano le osservazioni di James Pilkington. E’ stato l’avvento del capitalismo industriale che ha visto i lavoratori precipitare in giornate lavorative estreme da parte di quelle che erano, nell’espressione di Eric Hobsbawm, “molto chiaramente le forze dell’inferno”. La resistenza della classe operaia ha gradualmente riportato indietro la durata della giornata lavorativa, dapprima con la Legge delle Dieci Ore (una conquista del Cartismo) e alla fine attraverso la famosa richiesta: “otto ore per lavorare, otto ore per riposare e otto ore per far quello che ci pare”. Da ciò potremmo presumere che il capitalismo sia stato storicamente domato quanto alle ore lavorative. Ma che cosa è successo da allora? I lavoratori britannici oggi restano al lavoro quasi nove ore al giorno e siamo quelli che in Europa accumulano il maggior numero di ore lavorative l’anno. Siamo tornati indietro. Quali sono gli argomenti a favore di un cambiamento di corso?
Innanzitutto gli argomenti contro che, in verità, oggi sono esili sul campo. Persino una ricerca su Google di “argomenti contro le 6 ore al giorno” producono una lunga lista di articoli che ne cantano le lodi, compresi datori di lavoro e altri segmenti dell’élite. Segnalano il successo di particolari imprese o regioni, quali Göteborg, Svezia, nell’attuarle.
Ma alla fine si trovano i critici. Maria Ryden, vicesindaco di Göteborg, obietta argomentando che “il governo non dovrebbe interferire nel luogo di lavoro”. Forse la Ryden si è persa le migliaia di intrusioni che i governi già operano sul luogo di lavoro: il salario minimo, remunerazione uguale per le donne, pause obbligatoria e, naturalmente, le otto ore esistenti. Kyle Smith ha scritto sul New York Times paragonando le sei ore al giorno alla pretesa di “cuccioli di unicorno per tutti”, e segnalando che “ogni ora in cui non lavorate vi costa soldi”. Ma le otto ore al giorno sono esse stesse il risultato di una riduzione volontaria e Smith non offre spiegazioni sul perché ciò sia irrealistico mentre le sei ore sono una fantasia utopistica. Quando alla perdita di remunerazione, a Göteborg le sei ore sono state attuate senza cambiamenti dei salari.
I tipici argomenti a favore di una riduzione sono semplici. Commentatori segnalano i dimostrati aumenti di produttività, il ridotto assenteismo e la migliorata salute dei lavoratori. Sono tutte cose preziose, ma sono solo i relativamente ristretti vantaggi dell’aumentata efficienza del luogo di lavoro e noi dovremmo guardare oltre essi. Dovremmo guardare alla massiccia riduzione della nostra impronta carbonica, al miglioramento della salute mentale di cui godiamo e al maggior tempo di cui disporremmo da dedicare alle nostre famiglie e ai nostri amici. Dovremmo porre domande dure riguardo al lavoro nel suo complesso. Che cosa facciamo che è necessario e che cosa che è superfluo?
Chiaramente ci sono vasti segmenti dell’economia globale che sono francamente industrie di spreco e che dovrebbero essere lasciate cadere o essere massicciamente ridimensionate. David Graeber è lieto di fare i nomi nel suo saggio “On Bullshit Jobs” [Lavori stronzi]: servizi finanziari, telemarketing, espansione senza precedenti di settore come la legge societaria, amministrazione accademica e sanitaria, risorse umane e pubbliche relazioni. Graeber segnala che persino lavoratori impiegati in tali industrie tendono a considerare stronzate i loro lavori; che sono “del tutto privi di significato, che non offrono nulla al mondo e, nella loro valutazione, non dovrebbero esistere”.
L’industria del confezionamento [packaging], gran parte della quale è dedicata alla commercializzazione di prodotti, è la maggiore industria del pianeta, dopo quella energetica e quella alimentare. Il confezionamento costa in media tra il 10 e il 40 per cento dei prodotti non alimentari acquistati e il confezionamento dei cosmetici può costare fino a tre volte quello del contenuto. I costi della pubblicità arrivano a un importo simile. I soli Stati Uniti hanno speso un trilione di dollari nel 2005; il costo totale per por fine alla povertà estrema è stimato in 3,5 miliardi di dollari. Dedichiamo uno sforzo, risorse e manodopera colossali in un’attività che non contribuisce ad altro che ai margini di profitto. E lo stiamo facendo in un mondo che sfreccia verso il precipizio di un cambiamento climatico irreversibile, in un mondo in cui la metà di noi afferma che il superlavoro danneggia le nostre relazioni con i nostri figli e i nostri partner. Eliminando il lavoro superfluo, automatizzando dove possibile i lavori esistenti e riducendo la durata della giornata lavorativa libereremmo un’enorme quantità di tempo per la manodopera globale, concedendoci un’occhiata al mondo del FALC: Fully Automated Luxury Communism [Comunismo di lusso interamente automatizzato].
Quel tempo potrebbe essere dedicato all’ozio, al miglioramento di sé o semplicemente a progetti di lavoro più significativi e più soddisfacenti. Lottare per una riduzione delle ore di lavoro non significa prendere una posizione contro il lavoro in sé, bensì contro la compulsione a un lavoro non necessario e a favore della sua sostituzione con qualcosa di meglio. Dovremmo lottare per una giornata lavorativa di sei ore e poi dovremmo spingerci molto oltre e lottare, nell’espressione di James Butler, per “un mondo dove siamo lasciati seduti in giro a condividere nuove varietà di formaggio scoperte, a creare più night club di nicchia e a esplorare gli oceani, o qualsiasi altra cosa contribuisca a un’umanità felice e realizzata”
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