Quanto sta costando, e a chi, il referendum sulla Brexit? Non lo si
capisce dai movimenti delle compagnie di volo, magari alla ricerca di
nuove sedi all’interno dell’area Ue per motivi fiscali e di licenza.
Neanche dal mezzo punto in meno di pil europeo pronosticato da Draghi,
una previsione che torna utile per far emergere qualche perdita o per
potersi tener bassi sulle aspettative di crescita. E nemmeno dalle prime
sedute di borsa dove, specie a Londra, in fondo c’è stata una
correzione dei valori azionari rispetto alle speculazioni raggiunte nei
giorni precedenti. E la decisione dei conservatori britannici,
soprattutto se assecondata in sede Ue, di rinviare al 2017 ogni
trattativa sul risultato del referendum, sembra di quelle adatte a
stemperare le tensioni e a diluire i conflitti, specie se gli altri
paesi, come la Germania, hanno bisogno di vendere prodotti a Londra come
le auto (già toccate dal rallentamento cinese) e del peso politico
inglese tenere su un profilo liberista del continente.
E’ quindi presto per valutazioni, ma anche per tante previsioni, sul costo del referendum inglese per l’Europa. Costi e conseguenze ci saranno ma ci vuole anche tempo, se non si vuol speculare, per individuare le tendenze reali. Altrimenti è come scambiare gli exit poll, che esistono per esigenze televisive, con i risultati elettorali. Chi invece i conti con la Brexit li ha fatti, immediati e dolorosi è proprio l’Italia. Certo la propaganda a reti unificate si è scatenata contro l’Inghilterra come non accadeva dagli anni ’30. In materia si ricorda che l’espressione “perfida Albione”, ripresa da Mussolini, è di origine giacobina. Ai Tg è mancato giusto quella: l’Inghilterra è stata rappresentata come il luogo deputato di ubriaconi, bizzarri, analfabeti e bolliti dove si prendono decisioni in modo folkloristico. E si che, visti gli esempi domestici, si dovrebbe essere ben preparati alla complessità e a saper valutare il folklore per cosa davvero è.
Ed è proprio la complessità che ci dice che la ferita più grossa, nelle prime sessioni di borsa post referendum Brexit, è stata proprio inferta alla borsa di Milano e ai titoli bancari nazionali. Non solo uno spettacolare -12% al primo giorno, con i bancari che hanno perso anche il 20% in una sessione, ma una diminuzione dei titoli bancari anche nei giorni successivi, quelli dove il ribasso sarebbe dovuto essere almeno più contenuto. I motivi sono sia speculativi, anche indipendenti da un desiderio di acquistare titoli bancari a bassissimo prezzo, che di reale prospettiva. Perchè le banche italiane, sottocapitalizzate, con modelli di business superati, forti detentrici di un debito pubblico che rischia di deterioriare chi lo detiene, non stanno in piedi e non supportano una economia di per sè anemica. Se ci mettiamo che da gennaio, come abbiamo già fatto notare, l’intero valore di capitalizzazione delle banche italiano si era già dimezzato, si capisce come la Brexit abbia fatto, alle banche italiane, l’effetto di uno schiaffo forte ad una persona che si regge sulle stampelle. Ecco quindi che il governo Renzi si è trovato di fronte ad un problema serissimo, sterilizzato nella sua pericolosità politica da media piuttosto capaci di allontanarsi da dove il fuoco brucia davvero: l’incendio delle banche italiane.
Nei giorni successivi alla Brexit hanno rischiato tutti: imprese, famiglie, sistema economico, sotto i colpi di un deprezzamento azionario degli istituti bancari molto forte anche in presenza di un secco dimezzamento dei valori nei primi sei mesi. Questione per analisti, e scommettitori, visto che la politica italiana vive del trip infinito della legge elettorale e degli appelli all’Europa unita. Il governo Renzi ha provato a mettere in piedi un piano, di 40 miliardi di euro, per ricapitalizzare banche alla frutta. Sarebbe stato un bailout, soldi che vengono messi in conto ai cittadini nel debito pubblico, invece di un bailin, soldi che vengono sottratti ai correntisti modello banca Etruria. Insomma, una cosa tra la Scilla del sottrarre servizi ai cittadini, col bailout, e la Cariddi del sottrarre soldi a conti correnti che servono per pagare servizi, fatture, stipenti funzionamento di piccole piccolissime imprese spesso a conduzione familiare, mutui etc. Fa bene anche ricordare che 40 miliardi di euro, da “recuperare” con piani ferrei di tagli, non sono uno scherzo in un bilancio dello stato già sinistrato, servizi sociali all’osso, e con una reale stagnazione economica. In ogni caso la Germania ha posto il veto a questa operazione, tanto per far capire, oltretutto, quali spazi reali di sovranità goda questo paese. Nel giro di poche ore, dopo il veto tedesco sul bailout da 40 miliardi, è arrivato invece un altro genere di visto per l’esecutivo Renzi: il governo italiano ha ottenuto dalla Commissione europea di poter assicurare garanzie pubbliche alle banche quando queste raccolgono liquidità sul mercato. Cosa significa? Significa, in estrema sintesi, che il governo italiano ha il permesso della commissione Ue, anche qui quando si dice l’autodeterminazione, per emettere obbligazioni, raccogliere fondi –in sostanza fare debiti- per garantire e sostenere le banche del nostro paese se queste vanno in difficoltà nel reperire liquidità. Detto in altre parole, fino al 31 dicembre il governo può indebitarsi, mettendo i fondi a carico del debito pubblico, per garantire la liquidità di cassa delle banche italiane. Si capisce che, a parte le formule di rito burocratico e politico che qui risparmiamo, si tratta di una misura di emergenza per evitare che il sistema bancario nazionale imploda.
Tutto bene? Anche se i fondi messi a disposizione da Bruxelles, che altro non sono che un permesso al governo Renzi di far debiti da far pagare ai cittadini italiani, non sono pochi (il fondo complessivo raggiunge la cifra di 150 miliardi) si tratta solo di un inizio, peraltro incerto. Prima di tutto perché Bruxelles ha tutta una storia costellata di fondi che appaiono e scompaiono nemmeno fossero ombre cinesi. Poi perché ci sono già stime che calcolano che lo smaltimento dei crediti inesigibili delle banche italiane potrebbe avere un effetto benefico sull’economia del nostro paese solo dal 2018 se non dal 2020 (generando incertezze di ogni tipo). Poi, basta vedere la sessione di borsa successiva all’annuncio del fondo di 150 miliardi. Unicredit, top banca nazionale e di livello europeo, ha perso il 5 per cento in un colpo solo. E c’erano due buone notizie sul tavolo: il fondo ed il nuovo management. Perché è accaduto? Per farla semplice perché le banche italiane, compresa Unicredit, in questa seria crisi attendono fondi freschi per ricapitalizzare. E perchè si è fatta la complessa la partita che vede il governo italiano ne con la Commissione europea eventuali operazioni di ricapitalizzazione degli istituti di credito più in difficoltà (si veda il Sole 24 dei giorni scorsi che ha seguito seriamente la vicenda).
La trattativa è complicata, al di là dell’euforia mediale del fondo di 150 miliardi, perché iniezioni di denaro pubblico nel capitale delle banche sono previste dalle regole europee solo in circostanze eccezionali e a specifiche condizioni. E, non ci sarebbe da stupirsi, se queste specifiche condizioni fossero l’accesso a fondi, tipo l’ESM che è un mostro liberista e dittatoriale assieme, che blindano ferocemente il governo della spesa pubblica. Insomma, il governo Renzi sta provando ad indebitarsi, perché i fondi di Bruxelles altro non sono che una concessione ad indebitarsi, per comprare l’aspirina (l’intervento a sostegno della liquidità bancaria). Se se la fara’ad indebitarsi, perché le regole europee sono barocco normativo non certezza, allora è tutto da capire quanto sarà il prezzo della cura ovvero la capitalizzazione delle banche italiane. Se sarà bailout, se sarà un tipo particolare di bailin, con un intervento dello stato ad ammortizzarne gli effetti più duri, se sarà un fondo che commissaria l’Italia è tutta questione da vedere. Del resto tutto è possibile in un paese dove la crisi sistemica della banche più grossa dal dopoguerra viene, all’attenzione politica, dopo la legge elettorale.
Di sicuro il governo Renzi, dopo queste settimane, avrà molte più difficoltà nel programmare il taglio delle tasse e nel poterlo sbandierare in qualche tornata referendaria o elettorale. E di sicuro il carico di tagli e tasse sulle spalle della popolazione non è destinato a scendere. Quanto conterà la Brexit in Inghilterra è quindi ancora questione da discutere ed analizzare. L’Italia invece il conto, della Brexit, lo sta già pagando. Ma non perché Albione è perfida, come suggerisce la propaganda da Tg3, ma perché il sistema paese è debole in modo da prendere una bronchite ad ogni spiffero. Nel frattempo Crozza tremi: qualcuno gli sta rubando il posto. Il presidente del consiglio continua con i suoi bollettini di vittoria, con posti di lavoro che aumentano di mese in mese, tratti dai comunicati Istat. E’ la stessa Istat, sul suo sito a pubblicare, il calo dell’indice di fiducia dei consumatori. Che aumenti il lavoro e cali l’indice di fiducia dei consumatori appare bizzarro. Ma è il modo con il quale si fanno i dati in Italia che andrebbe ripensato: si guardi al fatto che nei mesi scorsi in cui il lavoro ufficialmente calava aumenta l’indice di fiducia dei consumatori.
Ma che il renzismo voglia andare alla guerra dei numeri è palese. Repubblica l’ha già cantata. Secondo il foglio militante del renzismo più sguaiato sono stati già contabilizzati gli effetti economici di una sconfitta del generale di Rignano al referendum di autunno. Si legga d’un fiato: < il "no" provocherebbe un calo del Pil dello 0,7% nel 2017, dell'1,2% nel 2018 e un +0,2% nel 2019, in totale un -1,7% mentre nello stesso periodo sarebbe salito del 2,3%, quindi un differenziale del 4%. Gli investimenti scenderebbero del 12,1% cumulato nei tre anni contro un +5,6%, quindi un differenziale del 16,8%. Gli occupati sono visti in diminuzione di 258mila unità, mentre altrimenti salirebbero di 319mila unita, quindi una differenza di quasi 600mila unità. Infine il debito pubblico sul il salirebbe dal 131,9% al 144% e il Pil pro capite calerebbe di 589 euro, con 430mila persone in più in condizioni di povertà>. Con il “no”quindi, secondo la propaganda renziana, mancherebbero quindi solo le cavallette, gli scorpioni che piovono dal cielo e le piaghe d’Egitto. Beati gli inglesi che la stagione dei numeri tirati ad effetto, quella prima di un referendum, nel male e nel bene l’hanno già passata.
Intanto si prepara un altra infornata di soldi pubblici per le banche. E pensare che qualcuno pensa che la nostra rovina siano i profughi e non parla d'altro.
E’ quindi presto per valutazioni, ma anche per tante previsioni, sul costo del referendum inglese per l’Europa. Costi e conseguenze ci saranno ma ci vuole anche tempo, se non si vuol speculare, per individuare le tendenze reali. Altrimenti è come scambiare gli exit poll, che esistono per esigenze televisive, con i risultati elettorali. Chi invece i conti con la Brexit li ha fatti, immediati e dolorosi è proprio l’Italia. Certo la propaganda a reti unificate si è scatenata contro l’Inghilterra come non accadeva dagli anni ’30. In materia si ricorda che l’espressione “perfida Albione”, ripresa da Mussolini, è di origine giacobina. Ai Tg è mancato giusto quella: l’Inghilterra è stata rappresentata come il luogo deputato di ubriaconi, bizzarri, analfabeti e bolliti dove si prendono decisioni in modo folkloristico. E si che, visti gli esempi domestici, si dovrebbe essere ben preparati alla complessità e a saper valutare il folklore per cosa davvero è.
Ed è proprio la complessità che ci dice che la ferita più grossa, nelle prime sessioni di borsa post referendum Brexit, è stata proprio inferta alla borsa di Milano e ai titoli bancari nazionali. Non solo uno spettacolare -12% al primo giorno, con i bancari che hanno perso anche il 20% in una sessione, ma una diminuzione dei titoli bancari anche nei giorni successivi, quelli dove il ribasso sarebbe dovuto essere almeno più contenuto. I motivi sono sia speculativi, anche indipendenti da un desiderio di acquistare titoli bancari a bassissimo prezzo, che di reale prospettiva. Perchè le banche italiane, sottocapitalizzate, con modelli di business superati, forti detentrici di un debito pubblico che rischia di deterioriare chi lo detiene, non stanno in piedi e non supportano una economia di per sè anemica. Se ci mettiamo che da gennaio, come abbiamo già fatto notare, l’intero valore di capitalizzazione delle banche italiano si era già dimezzato, si capisce come la Brexit abbia fatto, alle banche italiane, l’effetto di uno schiaffo forte ad una persona che si regge sulle stampelle. Ecco quindi che il governo Renzi si è trovato di fronte ad un problema serissimo, sterilizzato nella sua pericolosità politica da media piuttosto capaci di allontanarsi da dove il fuoco brucia davvero: l’incendio delle banche italiane.
Nei giorni successivi alla Brexit hanno rischiato tutti: imprese, famiglie, sistema economico, sotto i colpi di un deprezzamento azionario degli istituti bancari molto forte anche in presenza di un secco dimezzamento dei valori nei primi sei mesi. Questione per analisti, e scommettitori, visto che la politica italiana vive del trip infinito della legge elettorale e degli appelli all’Europa unita. Il governo Renzi ha provato a mettere in piedi un piano, di 40 miliardi di euro, per ricapitalizzare banche alla frutta. Sarebbe stato un bailout, soldi che vengono messi in conto ai cittadini nel debito pubblico, invece di un bailin, soldi che vengono sottratti ai correntisti modello banca Etruria. Insomma, una cosa tra la Scilla del sottrarre servizi ai cittadini, col bailout, e la Cariddi del sottrarre soldi a conti correnti che servono per pagare servizi, fatture, stipenti funzionamento di piccole piccolissime imprese spesso a conduzione familiare, mutui etc. Fa bene anche ricordare che 40 miliardi di euro, da “recuperare” con piani ferrei di tagli, non sono uno scherzo in un bilancio dello stato già sinistrato, servizi sociali all’osso, e con una reale stagnazione economica. In ogni caso la Germania ha posto il veto a questa operazione, tanto per far capire, oltretutto, quali spazi reali di sovranità goda questo paese. Nel giro di poche ore, dopo il veto tedesco sul bailout da 40 miliardi, è arrivato invece un altro genere di visto per l’esecutivo Renzi: il governo italiano ha ottenuto dalla Commissione europea di poter assicurare garanzie pubbliche alle banche quando queste raccolgono liquidità sul mercato. Cosa significa? Significa, in estrema sintesi, che il governo italiano ha il permesso della commissione Ue, anche qui quando si dice l’autodeterminazione, per emettere obbligazioni, raccogliere fondi –in sostanza fare debiti- per garantire e sostenere le banche del nostro paese se queste vanno in difficoltà nel reperire liquidità. Detto in altre parole, fino al 31 dicembre il governo può indebitarsi, mettendo i fondi a carico del debito pubblico, per garantire la liquidità di cassa delle banche italiane. Si capisce che, a parte le formule di rito burocratico e politico che qui risparmiamo, si tratta di una misura di emergenza per evitare che il sistema bancario nazionale imploda.
Tutto bene? Anche se i fondi messi a disposizione da Bruxelles, che altro non sono che un permesso al governo Renzi di far debiti da far pagare ai cittadini italiani, non sono pochi (il fondo complessivo raggiunge la cifra di 150 miliardi) si tratta solo di un inizio, peraltro incerto. Prima di tutto perché Bruxelles ha tutta una storia costellata di fondi che appaiono e scompaiono nemmeno fossero ombre cinesi. Poi perché ci sono già stime che calcolano che lo smaltimento dei crediti inesigibili delle banche italiane potrebbe avere un effetto benefico sull’economia del nostro paese solo dal 2018 se non dal 2020 (generando incertezze di ogni tipo). Poi, basta vedere la sessione di borsa successiva all’annuncio del fondo di 150 miliardi. Unicredit, top banca nazionale e di livello europeo, ha perso il 5 per cento in un colpo solo. E c’erano due buone notizie sul tavolo: il fondo ed il nuovo management. Perché è accaduto? Per farla semplice perché le banche italiane, compresa Unicredit, in questa seria crisi attendono fondi freschi per ricapitalizzare. E perchè si è fatta la complessa la partita che vede il governo italiano ne con la Commissione europea eventuali operazioni di ricapitalizzazione degli istituti di credito più in difficoltà (si veda il Sole 24 dei giorni scorsi che ha seguito seriamente la vicenda).
La trattativa è complicata, al di là dell’euforia mediale del fondo di 150 miliardi, perché iniezioni di denaro pubblico nel capitale delle banche sono previste dalle regole europee solo in circostanze eccezionali e a specifiche condizioni. E, non ci sarebbe da stupirsi, se queste specifiche condizioni fossero l’accesso a fondi, tipo l’ESM che è un mostro liberista e dittatoriale assieme, che blindano ferocemente il governo della spesa pubblica. Insomma, il governo Renzi sta provando ad indebitarsi, perché i fondi di Bruxelles altro non sono che una concessione ad indebitarsi, per comprare l’aspirina (l’intervento a sostegno della liquidità bancaria). Se se la fara’ad indebitarsi, perché le regole europee sono barocco normativo non certezza, allora è tutto da capire quanto sarà il prezzo della cura ovvero la capitalizzazione delle banche italiane. Se sarà bailout, se sarà un tipo particolare di bailin, con un intervento dello stato ad ammortizzarne gli effetti più duri, se sarà un fondo che commissaria l’Italia è tutta questione da vedere. Del resto tutto è possibile in un paese dove la crisi sistemica della banche più grossa dal dopoguerra viene, all’attenzione politica, dopo la legge elettorale.
Di sicuro il governo Renzi, dopo queste settimane, avrà molte più difficoltà nel programmare il taglio delle tasse e nel poterlo sbandierare in qualche tornata referendaria o elettorale. E di sicuro il carico di tagli e tasse sulle spalle della popolazione non è destinato a scendere. Quanto conterà la Brexit in Inghilterra è quindi ancora questione da discutere ed analizzare. L’Italia invece il conto, della Brexit, lo sta già pagando. Ma non perché Albione è perfida, come suggerisce la propaganda da Tg3, ma perché il sistema paese è debole in modo da prendere una bronchite ad ogni spiffero. Nel frattempo Crozza tremi: qualcuno gli sta rubando il posto. Il presidente del consiglio continua con i suoi bollettini di vittoria, con posti di lavoro che aumentano di mese in mese, tratti dai comunicati Istat. E’ la stessa Istat, sul suo sito a pubblicare, il calo dell’indice di fiducia dei consumatori. Che aumenti il lavoro e cali l’indice di fiducia dei consumatori appare bizzarro. Ma è il modo con il quale si fanno i dati in Italia che andrebbe ripensato: si guardi al fatto che nei mesi scorsi in cui il lavoro ufficialmente calava aumenta l’indice di fiducia dei consumatori.
Ma che il renzismo voglia andare alla guerra dei numeri è palese. Repubblica l’ha già cantata. Secondo il foglio militante del renzismo più sguaiato sono stati già contabilizzati gli effetti economici di una sconfitta del generale di Rignano al referendum di autunno. Si legga d’un fiato: < il "no" provocherebbe un calo del Pil dello 0,7% nel 2017, dell'1,2% nel 2018 e un +0,2% nel 2019, in totale un -1,7% mentre nello stesso periodo sarebbe salito del 2,3%, quindi un differenziale del 4%. Gli investimenti scenderebbero del 12,1% cumulato nei tre anni contro un +5,6%, quindi un differenziale del 16,8%. Gli occupati sono visti in diminuzione di 258mila unità, mentre altrimenti salirebbero di 319mila unita, quindi una differenza di quasi 600mila unità. Infine il debito pubblico sul il salirebbe dal 131,9% al 144% e il Pil pro capite calerebbe di 589 euro, con 430mila persone in più in condizioni di povertà>. Con il “no”quindi, secondo la propaganda renziana, mancherebbero quindi solo le cavallette, gli scorpioni che piovono dal cielo e le piaghe d’Egitto. Beati gli inglesi che la stagione dei numeri tirati ad effetto, quella prima di un referendum, nel male e nel bene l’hanno già passata.
Intanto si prepara un altra infornata di soldi pubblici per le banche. E pensare che qualcuno pensa che la nostra rovina siano i profughi e non parla d'altro.
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