martedì 23 febbraio 2021

La scommessa economica di Biden e le sfide della UE

 

La crisi del modo di produzione capitalistico è un fatto acclarato. Allo stesso tempo lo è la sempre più aspra competizione che genera tra i tre maggiori blocchi politico-economici: USA, UE e Cina.

Questa crisi è stata aggravata dalle conseguenze particolarmente rilevanti della Pandemia a causa dell’incapacità strutturale di affrontarla da parte di due sistemi sociali come quello statunitense e quello “europeo”.

Se la crisi è un tratto comune a tutti gli attori dell’attuale economia-mondo, differenti sono le risposte che si stanno attuando per superarla.

Va detto subito che la Cina sembra essere la potenza più attrezzata per superare le storture relative a quegli aspetti della propria economia, che aveva in parte mutuato dal modello di sviluppo del capitalismo occidentale.

USA e UE ricorrono invece a formule che sembrano destinate a generare maggiori mali di quelli che si vorrebbero curare, con ricette solo parzialmente di rottura.

Partiamo dalla semplice considerazione del fallimento empirico delle soluzioni proposte dopo la crisi innescata dai mutui “sub-prime”, poco meno di quindici anni fa o, come afferma l’autore dell’articolo che abbiamo qui tradotto:

“Nel decennio successivo a quella crisi, l’economia statunitense, insieme a quasi tutte le altre economie avanzate, non è riuscita a tornare sul percorso della produzione pre-crisi.”

La pandemia poi ha reso evidente che le oligarchie statunitensi ed europee non sono andate oltre alla logica del cane che si mangia la coda.

“Convivere con il virus” per non contrarre ulteriormente l’economia e stare al passo con gli altri competitor, oltre ad una strage di vite umane, non ha minimamente fermato la corsa verso l’abisso di sistemi economici già stressati ma ha senz’altro avviato un ciclo di ristrutturazione su amplissima scala, dai ritmi piuttosto scadenzati in un ampia gamma di settori.

Noi ci troviamo quindi dentro questo ciclo di ristrutturazione del capitale monopolistico per il rilancio dell’economia nella fase post-pandemica, in un passaggio di fase che comunque vada ri-configurerà la società nel suo complesso, compresa quella cosa chiamata politica.

Lo vediamo anche nel nostro ridotto nazionale, dove la crisi politica che ha portato alla fine del Conte-bis ha aperto la strada al commissariamento di fatto del nostro Paese da parte della UE con Draghi, che sarà prima capo dell’esecutivo e poi Presidente della Repubblica, ed tutto il ceto politico costretto ad un aut-aut secco: o mangi questa minestra, o salti dalla finestra.

La fine della transizione politica in USA ed il commissariamento del nostro Paese sono due fenomeni contemporanei ed in parte intrecciati.

Per focalizzarci sugli USA, che è l’oggetto dell’articolo qui tradotto, è necessario chiarire  subito che le formule adottate da Biden sono in netta continuità con le politiche fin qui perseguite attraverso indebitamento, immissione di liquidità ed un costo del denaro irrisorio.

Per essere realizzate, il dollaro dovrà essere in grado di conservare la sua rendita di posizione internazionale, scaricando i costi dello sperato rilancio economico USA – che ha importanti aspetti di sviluppo in settori strategici dell’economia – sul resto del mondo, mantenendo inalterata l’appetibilità dei propri mercati finanziari e dei propri differenti titoli pubblici.

Intanto ha proceduto ad una manovra di stimolo economico con dimensioni da New Deal che, se si sommano i provvedimenti presi dalla precedente amministrazione Trump e dell’entrante Biden, ammontano addirittura al 14% del PIL. La differenza sta appunto nell’ordine di grandezza.

Il dibattito economico è acceso, e l’unica paura dei pezzi da Novanta del pensiero economico sembra essere la possibile crescita dell’inflazione. Uno spauracchio per chi ha fin qui sostenuto la deflazione salariale senza se e senza ma e quindi il contenimento del potere d’acquisto delle classi subalterne, surrogato da un maggiore accesso al credito su cui si costruivano i castelli di carta dell’economia finanziaria.

L’Unione Europea sembra seguire a rimorchio, costretta a fare salti in avanti epocali per cercare di reggere la competizione, senza avere però né la rendita di posizione della valuta statunitense, né la sua potenza militare, né tanto meno i livelli di centralizzazione del potere politico. Dispone però comunque di alcuni punti di forza.

Deve adeguarsi ed in fretta ed impedire che le sue fragilità strutturali diventino il ventre molle in cui i competitor affondano i propri artigli.

Riprendiamo il discorso del Financial Times.

“Tra coloro che guardano con invidia oltre l’Atlantico ci sono gli europei, che temono che l’eurozona sarà ancora una volta inferiore agli Stati Uniti in termini di azione politica e risultati. Erik Nielsen, capo economista di UniCredit, afferma che con il sostegno fiscale dell’UE pari a circa la metà di quello degli Stati Uniti, l’Europa è ora ‘congelata dalla paura’, il che probabilmente porterà a ‘altri tre o cinque anni di sotto-performance della crescita europea rispetto agli Stati Uniti'”.

L’UE tutta dovrebbe quindi fare un salto di qualità – whatever it takes, potremmo dire – pena il fatto che le oligarchie europee vengano derubricate ad attori regionali in conflitto con altre potenze regionali (Turchia, Russia e petromonarchie del Golfo) nei suoi tradizionali territori di penetrazione, dal Medio-Oriente all’Africa trans-sahariana passando per i Balcani, ma rinunciando ad assumere un qualche ruolo di leadership globale ed una reale autonomia strategica.

Una potenza periferica a livello sub-regionale, insomma, che i concorrenti si mangiano pezzo dopo pezzo; una specie di Impero Ottomano del XXI Secolo.

“Se continua lungo le linee esistenti e non segue gli Stati Uniti, dice: ‘L’Europa avrà una ripetizione della lenta ripresa dopo la crisi finanziaria'”, afferma Robin Brooks.

Senza comprendere questo “grande gioco” a cui l’aspirante polo imperialista europeo è chiamato in un clima da nuova guerra fredda, è impossibile capire sia 1) le convulsioni di un vecchio ceto politico da rottamare, che 2) l’urgenza della sfida della rappresentanza politica per le classi sociali subalterne ed il ceto medio-impoverito.

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