Lo scorso giovedì si è concluso il quinto Plenum del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, che aveva il compito di dare gli indirizzi generali del quattordicesimo Piano Quinquennale.
Qualunque sia il risultato che uscirà dalle urne dopo il 3 novembre negli Stati Uniti, qualunque sia la strategia che verrà messa in campo dalla prossima amministrazione nord-americana – come ha dichiarato un funzionario del governo cinese al Financial Times – “è certo che la strategia di de-connessione industriale tra gli USA e gli Stati Uniti continuerà il prossimo anno“.
Come ha affermato al prestigioso quotidiano britannico Larry Hu, capo-economista di Macquarie rispetto alla Cina: “oggi la più grande sfida per Pechino è la potenziale de-connessione economica con gli USA”.
Una separazione che passa attraverso una maggiore autonomia tecnologica da realizzarsi con massicci investimenti statali in “Ricerca e Sviluppo”, che si assesteranno per i prossimi 5 anni attorno al 3%, rispetto al 2,2% attuali.
“Solo essendo tecnologicamente autosufficienti possiamo supportare uno sviluppo di alta qualità“, ha detto venerdì mattina Han Wenxiu, un alto funzionario finanziario del partito, in una conferenza stampa.
Quali saranno i settori in cui la Cina investirà maggiormente?
Qu Hongbin, capo economista cinese di HSBC, ha affermato al FT che “ci sarà più di una spinta politica per una maggiore spesa in ricerca e sviluppo nei prossimi anni, soprattutto in settori strategici come la biotecnologia, i semiconduttori e i nuovi veicoli energetici”.
Una delle priorità sarà quindi colmare il gap produttivo rispetto al settore dei semi-conduttori, di cui solo ¼ di quelli venduti in Cina è prodotto nella Repubblica Popolare.
La Cina è alla pari degli Stati Uniti come quota mondiale del settore, con poco più del 10% e 13 mila aziende, dietro rispettivamente la Corea del Sud – leader globale – che copre più di un quarto della produzione mondiale, Taiwan con circa il 20% (con cui la Repubblica Popolare trattiene però rapporti sempre più ostili), ed il Giappone, poco sopra il 15%, che ha più volte annunciato la propria volontà di sganciarsi dalle filiere produttive cinesi.
Un ruolo relativamente subordinato, quello della Cina, anche rispetto alle capacità che la Repubblica Popolare è in grado di mettere sul campo, nonostante i sussidi statali dati negli ultimi 20 anni ai produttori di chip, 100 volte in più di quelli dati dal governo di Taiwan nel settore. Un sostegno alle aziende che già che andava ben oltre la loro redditività economica immediata, ma considerato come strategico.
La “potenza di fuoco” di questi investimenti verrà potenziata – probabilmente 1.400 miliardi di dollari da qui al 2025 – anche se alcuni esperti affermano che questo non risolverà le difficoltà cinesi nel settore.
Secondo una recente inchiesta del FT: “Le priorità di Pechino ora includono il potenziamento della sua abilità tecnologica nell’automazione della progettazione elettronica (EDA) – il software utilizzato nella progettazione dei chip – e nella realizzazione delle macchine utilizzate negli impianti di fabbricazione dei chip.”
Ed è notizia recente che il colosso Huawei sta lavorando ai piani per un impianto ai chip, a Shanghai, che non utilizzerebbe la tecnologia americana, consentendole di garantire le forniture per la sua attività di infrastruttura di telecomunicazioni principale nonostante le sanzioni statunitensi.
Un passo significativo per una delle sfide più impegnative per Pechino.
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