Si sta discutendo in questi giorni la proposta del Ministro dell’Istruzione Fioramonti di istituire un’imposta indiretta su merendine, bibite gassate e voli aerei. Secondo il Ministro tali misure genererebbero degli introiti per circa 3 miliardi (cifra che pare detta un po’ a caso) che verrebbero poi utilizzati per finanziare istruzione e ricerca.
Non
è certo opinabile che il consumo di cibi e bevande che contengono molti
zuccheri, o grassi saturi, faccia male alla salute, così come è noto
che tale comportamento possa provocare nel tempo malattie che si
traducono in maggiori costi per il Servizio Sanitario Nazionale.
L’inserimento di un’imposta indiretta su questi beni dovrebbe,
nell’immaginario di chi la propone, ridurne il consumo in misura trasversale a tutti i cittadini,
creando un maggior beneficio a tutta la società. Inoltre, e questo è il
secondo aspetto della proposta, l’introito derivante dalla tassa
verrebbe utilizzato per effettuare quegli investimenti in ricerca e
istruzione di cui il Paese necessita. Raccontata la storia in questo
modo, sembrerebbero non esserci controindicazioni all’introduzione di
tale imposta. Tuttavia, vi sono perlomeno tre punti su cui vale la pena
riflettere per rendersi conto che l’idea del Ministro Fioramonti
nasconde rilevanti criticità. Procediamo con ordine.
Soffermiamoci,
innanzitutto, sulle conseguenze derivanti da una maggiorazione sul
prezzo di cibi e bevande consumati (anche se potenzialmente dannosi).
Affinché un aumento del prezzo porti ad una effettiva riduzione del
consumo, è necessario che la domanda del bene in questione abbia una
sufficiente elasticità rispetto al prezzo. Tradotto in termini più
comprensibili, significa che l’aumento del prezzo deve essere realmente
in grado di scoraggiare l’acquisto di determinati beni.
Ragionando
per estremi, se si volesse eliminare dalle abitudini alimentari
l’acquisto di cibi e bevande altamente zuccherini, l’imposta dovrebbe
essere così alta da generare, per paradosso, un’entrata nulla per le
finanze pubbliche. In questo modo, infatti, essendo divenuto
estremamente costoso, nessuno vorrebbe più consumare tale bene. Quanto
più lo Stato è in grado di orientare i comportamenti dei cittadini verso
abitudini più virtuose, scoraggiando l’acquisto di beni nocivi alla
salute con un rincaro sul prezzo, tanto minore sarà il gettito fiscale
derivante dall’applicazione di un’imposta indiretta. Teniamo bene a
mente questo principio, ci tornerà utile nel seguito della nostra
argomentazione.
In altri paesi è
già stata introdotta un’imposta su beni di consumo ad alto contenuto di
zuccheri e in pochi casi questa misura ha inciso sensibilmente sul
comportamento dei cittadini, nella grande maggioranza dei casi ciò ha
comportato solamente una fonte di entrata nelle casse dello Stato. Ciò ci permette di giungere al secondo punto su cui è articolato il nostro ragionamento.
Se,
realisticamente, l’imposta suggerita da Fioramonti si traducesse quasi
esclusivamente in un rincaro dei prezzi, tale misura avrebbe un impatto eterogeneo tra
le diverse tipologie di consumatore. In particolare, una tassa su
merendine e bibite gassate colpirà maggiormente le famiglie con bambini
e, in particolare le famiglie più povere. Non serve soffermarsi molto
sul perché i bambini siano i maggiori consumatori di merendine, quindi è
relativamente facile comprendere come un’imposta del genere colpirà
principalmente chi ha figli a carico.
Ma
perché questa tassa dovrebbe colpire maggiormente le fasce più deboli?
Innanzitutto, perché è probabile che i più abbienti consumino altri tipi
di alimenti e di bevande, come per esempio vini pregiati anziché
bevande gassate. In secondo luogo, e questo è l’aspetto meno intuitivo,
perché una tassa di questo tipo colpirebbe indistintamente tutti i
consumatori. La cosa sembrerebbe equa ma non lo è.
Per
spiegarci meglio, è utile fare un esempio numerico. Ipotizziamo che
un’imposta indiretta di questo tipo abbia un impatto di 1 euro al mese
per il singolo consumatore. Facendo due conti: 1 euro in meno per chi ne
guadagna 1.000 rappresenta un millesimo del suo reddito, ma è un
decimillesimo per chi guadagna 10.000 euro e ancor di meno per redditi
via via più alti. In altre parole, la stessa uscita di cassa è
proporzionalmente maggiore per chi guadagna meno. Dunque, sotto
l’apparente veste della proporzionalità dell’imposta si nasconde
addirittura una misura fiscale regressiva, come del resto in quasi tutti i casi di imposta indiretta.
Se
veramente uno Stato volesse perseguire un obiettivo largamente
condivisibile come quello della salute dei propri cittadini, la strada
da seguire non sarebbe certamente quella di una maggiorazione di prezzo
su alcune categorie di beni di consumo. Anziché scoraggiare il consumo
di cibi nocivi aumentandone il prezzo, attraverso l’applicazione di
un’imposta, potrebbe sussidiare l’acquisto di alimenti più sani che
diverrebbero così relativamente più economici rispetto ai primi.
Tuttavia, ciò rappresenterebbe un’uscita per le finanze pubbliche
anziché un’entrata.
La
via maestra dovrebbe invece passare per una diretta regolamentazione
dei consumi. Se il consumo di un certo bene è nocivo alla salute lo si
può vietare o, meglio ancora, si può imporre, quando possibile, una
modifica della sua produzione, al fine di rendere il prodotto
maggiormente salutare. Quindi, ad esempio, anziché un “vietiamo la
nutella”, si potrebbe obbligare l’azienda a produrre un cibo più sano
migliorandone la qualità degli ingredienti e il processo produttivo a
parità di prezzo praticato. Altrimenti, anche in questo caso, ne
risulterebbero penalizzati i consumatori con redditi più bassi.
Solo
attraverso una stretta regolamentazione, da un lato, sugli standard
qualitativi e di produzione e, dall’altro, sui prezzi, la misura
colpirebbe i margini di profitto della grande distribuzione e produzione
alimentare. Ovviamente, affinché un Paese possa realisticamente
applicare una normativa di questo genere, è necessario un rigido
controllo dei capitali altrimenti le imprese private sposterebbero la
produzione in altri paesi con conseguenze nefaste anche sul lato
occupazionale.
Avvicinandoci
alla conclusione, bisogna capire quale sia lo scopo reale
dell’introduzione di un’imposta indiretta, come quella proposta dal
ministro Fioramonti, su cibi e bevande. In realtà, come ammesso dal ministro in prima persona (minuto
0:40), tale misura non è stata immaginata al fine di modificare i
consumi della popolazione, ma rappresenta uno strumento per “fare cassa”
e ottenere in questo modo una copertura finanziaria per il reale
obiettivo del ministro: un aumento della spesa in istruzione e ricerca.
Ecco, dunque, che ci accingiamo a svelare l’identità del colpevole.
Sotto
le mentite spoglie di un’agenda politica brillante e in grado di
perseguire congiuntamente obiettivi nobili, quali una maggiore
attenzione per la salute e l’istruzione, si cela ancora una volta il
volto beffardo dell’Unione Europea. Sono, infatti, l’austerità imposta
dai vincoli europei e la norma della libera circolazione dei capitali la
causa di una finanza pubblica creativa (citando lo stesso Fioramonti,
“dobbiamo ottenere risorse in modo innovativo”) o per meglio dire,
disperata.
E’
l’adesione cieca e acritica a quelle regole europee che impongono il
pareggio di bilancio a indurre governo e ministri a raschiare il barile
per finanziare le politiche che si intendono perseguire, siano esse di
sviluppo o di protezione sociale. Se non vi fosse tale costrizione, nel
caso specifico, non sarebbe necessario introdurre un’imposta su cibi e
bevande perché si potrebbe aumentare (e sarebbe davvero il caso) la
spesa in istruzione e ricerca attraverso un disavanzo pubblico.
E’
la libera circolazione dei capitali, pilastro dell’Unione Europea, che
impedisce una tassazione realmente progressiva, che faccia pagare ai
privilegiati i costi di misure a tutela della salute e dell’ambiente. Di
fronte alla minaccia di capitali che possono agevolmente lasciare il
Paese, è sempre più semplice per un governo pavido far ricadere la scure
sui soliti noti, come accade nella proposta del ministro Fioramonti.
In
un siffatto contesto costrittivo rimane solo la via deprecabile della
politica fiscale ad impatto regressivo, quella che passa o per
l’esacerbazione delle imposte dirette sul lavoro a svantaggio dei ceti
medi e bassi oppure per l’iniqua imposizione indiretta che a volte si
può nascondere persino dietro un’insana merendina o una bibita gassata.
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