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martedì 17 luglio 2018
Derivati ed enti locali: le banche vincono ancora
L’esposizione degli enti pubblici italiani sui titoli derivati
è in calo da tempo. Ma le perdite potenziali superano di gran lunga i
possibili guadagni con un saldo negativo a nove zeri. È il quadro
dipinto dall’ultima indagine della Banca d’Italia diffusa nei mesi scorsi a partire dai dati rilevati a dicembre 2017.
Alla fine dello scorso anno, il valore nozionale dei derivati in
pancia a comuni, province e regioni ammontava a 7,4 miliardi di euro,
circa 600 milioni in meno rispetto al 2016. Gli enti locali, in altre
parole, si stanno progressivamente liberando degli strumenti finanziari
più complessi utilizzati in passato per abbellire (legalmente) i propri
bilanci e ridurre il peso dei debiti. Ma le decisioni del passato
presentano ancora il conto.
Le banche lucrano 9 volte su 10
Il titolo derivato è un contratto tra due parti – in questo caso gli
enti pubblici e le banche – che a scadenze prefissate si scambiano
flussi di cassa. A determinare questi ultimi è l’andamento di alcuni
indicatori prestabiliti, tipicamente tassi di interesse e o tassi di
cambio. Tradotto: una vera e propria scommessa
periodica in cui, come è normale che sia, qualcuno vince e qualcun altro
perde. E qui sta il problema: perché a giudicare dalle cifre, gli enti pubblici avrebbero perso quasi sempre.
A partire dal dicembre del 2008, la Banca d’Italia prende in considerazione il fair value,
ovvero il valore di mercato contingente del titolo stesso. Cosa
significa? In sintesi che ad essere calcolato non è il valore nominale
del derivato ma il suo prezzo di mercato alle condizioni attuali.
Ebbene, secondo la Banca d’Italia, i derivati in mano agli enti pubblici alla fine dello scorso anno evidenziavano un valore negativo di 1.168 milioni di euro.
Semplificando: se regioni, province e comuni chiudessero i loro contratti derivati dovrebbero pagare alle banche quasi 1,2 miliardi.
E i contratti con valore positivo? Una minoranza. Allo stato attuale,
segnala l’ultima rilevazione, ammontano a 110 milioni di euro, circa un
decimo del totale. Forzando un po’ la sintesi – ma nemmeno troppo – la
conclusione appare ovvia: sulle operazioni in derivati condotte con le
amministrazioni pubbliche le banche ci guadagnano 9 volte su 10.
All’epoca «gravi anomalie»
«Violazioni normative e notevoli squilibri contrattuali in danno agli
enti per la mancata valutazione della convenienza economica dei
contratti»; «errata contabilizzazione dei flussi derivanti dai contratti
di finanza derivata». E poi ancora il «costante valore negativo negli
anni del mark to market», ovvero perdite sistematiche per le amministrazioni. Così la Corte del Conti, intervenendo nel maggio 2015
sulla gestione dei derivati da parte degli enti locali. Uno sguardo
impietoso sulla finanza allegra, con le banche nel ruolo di ingegneri e
gli amministratori in quello degli acquirenti. I derivati offrono
immediata liquidità, le perdite finiscono nei bilanci degli anni
successivi di cui alla fine, magari, si occuperà qualcun altro.
«Incompetenza, innanzitutto» scriveva nel settembre 2009 il Corriere della Sera;
«Ma anche superficialità. E in molti casi una certa dose di
spericolata furbizia: per non dire altro. Le cause sono le più varie».
C’era il comune sardo che non arriva a quattromila abitanti e che
rischiava di perdere un milione di euro, l’ente siciliano sotto di più
del doppio; e poi Genova, Milano e lo swap sul maxi bond (le banche
coinvolte sono state assolte), e ancora i 57 milioni di rosso della Calabria.
Gli enti più esposti
Sono le amministrazioni piemontesi – otto in totale –
a svettare oggi nella classifica dell’esposizione per aree geografiche.
Il rapporto Bankitalia segnala un valore negativo sui derivati per 427
milioni di euro: 31 in meno rispetto al dato 2016 ma anche 72 in più nel
confronto con il bilancio 203. Seguono a debita distanza Veneto (119
milioni), Campania (118) e Lombardia (112). In totale gli enti pubblici
italiani con derivati in perdita a bilancio sono 116. Il saldo negativo
dei titoli equivale all’1,3% del debito. Le regioni segnalano perdite
complessive per 619 milioni, i comuni per 347. La parte restante se la
giocano province e altri enti.
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